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Raccolta di articoli di Cinzia Perrone
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Cinema

Oltre il mito

Forse è vero che tre è il numero perfetto, quel numero magico in cui hanno creduto gli antichi e che assurge a grande simbologia evocativa della Trinità per i cristiani, da cui lo stesso Dante fu ispirato nella sua Commedia.

Sì tre! A lui solo tre film sono bastati per entrare nella leggenda, e le leggende ahimè si consumano in fretta anche se saranno immortali nella memoria del mondo.

Forse più che di semplici film, dovremmo parlare di autentici capolavori, infilati uno dietro l’altro, che lo portarono direttamente, nel giro di pochi mesi nell’olimpo di Hollywood. Un anno magico, il 1955, lo stesso anno magico in cui Marty e il dottor Brown  di Ritorno al futuro, indirizzarono la loro straordinaria DeLorean, forse anche per conoscere il mitico James Dean, prima che il 30 settembre di quello stesso anno, un tragico incidente d’auto se lo portasse via per sempre, dopo averci donato tre indimenticabili interpretazioni.

Voleva essere grande James Dean e lo è stato, anche se solo in tre film, tre cult-movie degli anni 50; quella sua passione per i motori e la velocità gli è costata cara. Qualcuno pensa che stesse recitando solo l’ultimo grande copione della sua vita, l’uscita di scena del protagonista in grande stile. Chissà. Quella porche a cui diede lui stesso il nome di Little Bastard è stata la sua bara in alluminio.

Interprete unico, si immedesimava nei suoi personaggi fino all’inverosimile, lasciando i colleghi sconvolti. Ma i registi lo adoravano, proprio come per primo fece Elia Kazan, che lo volle oltre ogni misura per il personaggio di Call nella Valle dell’Eden, pellicola indimenticabile del 1955 tratto dall'omonimo e altrettanto straordinario romanzo scritto nel 1952 da John Steinbeck. Per Kazan, non solo Jimmy era perfetto per quel ruolo, ma lui era proprio Call.

Lo stesso rapporto conflittuale col padre, cresciuto senza l’affetto della madre che era l’unica che sentiva affine a se stesso, morta quando aveva nove anni, e cresciuto con degli zii. Tutto questo fece di lui anche l’interprete perfetto per il successivo Gioventù bruciata, dove vestiva i panni del problematico e ribelle adolescente Jim Stark, accanto all’altrettanto bella e turbolenta Natalie Wood.

Poi fu la volta del film Il gigante dove recitò accanto a mostri sacri del calibro di Elisabeth Taylor e Rock Hudson; anche in questo film non potevano non dargli il ruolo di Jeff, il bracciante povero ma ambizioso, ribelle e incompreso quanto basta, innamorato da sempre, segretamente e irrimediabilmente, della bella sposina del capo, interpretata dalla brava Lizzy.

Il tragico incidente avvenne proprio terminate le riprese di quest’ultimo film, mentre Stevens si accingeva a montare la pellicola. La sua vita si consumò in fretta, come il suo più grande amore, quello per l’attrice di origini italiane Annamaria Pierangeli, la sua bella e impossibile, che forse tante lacrime verso alla sua morte anche se aveva sposato un altro, con immenso dolore di Dean.

Oltre aver visto innumerevoli volte i suoi film, specialmente La valle dell’Eden per amore letterario anche verso il romanzo, di cui mette in scena solo una parte, recentemente ho visto James Dean - La storia vera, un film per la televisione del 2001 diretto da Mark Rydell, basato sulla vita dell'attore James Dean. Il film ha vinto, nel 2002, un Golden Globe e due Emmy Awards, e devo dire che l’interpretazione di James Franco è molto emozionante e la ricostruzione dei fatti abbastanza attenta, ma Jimmy rimane Jimmy, anche dopo la sua morte; l’unico attore che ha avuto due nomination all’oscar postume, una per La valle dell’Eden e una per Il gigante.

La locandina del film Gioventù bruciata, forse la pellicola che lo rappresenta meglio sotto ogni aspetto, recava il motto: Live fast, die young. Ironia della sorte?

Jimmy aveva appena ventiquattro anni ed era una promessa del cinema. Peccato!

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- Pittura

Una femminista ante-litteram

 

Esistono molti personaggi nella storia, appartenenti ai più svariati settori, dall’arte alla letteratura, dalla medicina alla tecnologia, e così via, che molto spesso vengono messi in secondo piano, o addirittura cadono in una sorta di oblio, quasi una damnatio memoriae potremo dire; forse o perché offuscati da loro contemporanei molto più famosi e celebrati, o a volte perché non sono stati compresi e apprezzati pienamente per il loro valore.

È il caso di Artemisia Gentileschi. La Gentileschi è stata una pittrice di grande talento sin dalla sua giovine età. Nacque a Roma l’8 luglio del 1593. Figlia d’arte, il padre era un certo Orazio Gentileschi, fu istruita alla pittura in casa dallo stesso genitore che subito ne intuì le potenzialità; a quei tempi, e ancora per molto tempo dopo, era interdetto a una donna studiare in accademia, così come fecero invece i fratelli di Artemisia.

Per quanto riguarda la sua pittura, la Gentileschi opera nel pieno barocco ed è riconducibile a quella corrente definita “dei caravaggeschi”.

Infatti, la pittrice sarà molto suggestionata dalla pittura del Caravaggio, benché forse non si siano mai incontrati, tanto da dipingere talvolta lo stesso soggetto. Un dipinto a questo proposito che merita di essere citato, è Giuditta e Oloferne, in cui è rappresentato l’episodio biblico della decapitazione del condottiero assiro Oloferne da parte della vedova ebrea Giuditta, che voleva salvare il proprio popolo dalla dominazione straniera.

Questo quadro, più famoso nella versione di Caravaggio, poi ripreso nella tematica dalla Gentileschi, è secondo alcuni, il risultato di forse un loro unico incontro, in cui assistettero entrambi a un’esplosione di violenza che riversarono successivamente nel dipinto.

Mi riferisco all'esecuzione di Beatrice Cenci condannata per parricidio, della matrigna e del fratello maggiore che avvenne la mattina dell'11 settembre 1599 nella piazza di Castel Sant'Angelo gremita di folla. Tra i presenti vi era proprio Caravaggio insieme con il pittore Orazio Gentileschi e la sua figlioletta Artemisia. Addirittura la giornata molto afosa e la calca, più il cruento spettacolo, provocarono la morte di alcuni spettatori; qualcun altro cadde ed annegò nel Tevere. Beatrice e la sua matrigna furono decapitate, mentre il fratello fu condannato allo squartamento. Quell’ episodio toccherà profondamente la giovane Artemisia, anche alla luce delle sue vicissitudini successive, tanto che alcuni studiosi reputano che nel quadro si possa vedere una sorta di desiderio femminile di rivalsa rispetto alla violenza sessuale che subirà da parte di Agostino Tassi. E proprio come lei, stuprata dallo stesso padre, Beatrice Cenci fu condannata per aver vendicato quella violenza mai creduta, uccidendo il genitore.

Anche Artemisia, come ho detto prima, subirà la triste esperienza dello stupro che all’epoca era un’onta da coprire, semmai da vendicare privatamente, come fece la Cenci aiutata dalla famiglia che finì così dal passare da vittima a carnefice, e a nulla valse neanche il tentativo dell’accusa di stupro verso il padre Francesco dell’avvocato difensore della famiglia Cenci durante il processo che la vide condannata insieme al fratello e alla matrigna per l’assassinio del genitore.

Artemisia fu abusata sessualmente da un certo Agostino Tassi, un virtuoso della prospettiva, presso il quale il padre Orazio aveva insistito affinché insegnasse alla promettente figlia l’uso della tecnica prospettica; invaghitosi di lei, il Tassi respinto la violentò, in casa Gentileschi stesso, approfittando dell’assenza del padre e della compiacenza di un servitore.

L’episodio segnò profondamente la vita, anche artisticamente della Gentileschi, che rimase sconvolta dall’abuso subito nella sua casa paterna. Il Tassi, dopo la violenza perpetrata sulla ragazza, arrivò persino a brandirla con la promessa di sposarla, per rimediare al disonore arrecatole.

A quell’ epoca infatti, il reato di violenza carnale si estingueva con il matrimonio riparatore. Artemisia cedette alle lusinghe dell’uomo e visse con lui more uxorio nella speranza di un matrimonio che mai sarebbe arrivato. Il Tassi infatti era già coniugato, e una volta scoperto, Orazio Gentileschi non poté fare altro, dato l’indignazione provata, che denunciarlo tramite una querela all’allora pontefice Paolo V, di aver deflorato sua figlia contro la sua volontà.

Fu così che ebbe inizio un lungo processo, mentre la Gentileschi era ancora profondamente traumatizzata dall'abuso sessuale, che non solo la limitava sotto il profilo professionale, ma la mortificava come persona e, per di più, oltraggiava il buon nome della famiglia. Ella, tuttavia, affrontò il processo con una notevole dose di coraggio e forza di spirito: ciò non fu cosa da poco, considerando che l'iter probatorio fu tortuoso, complicato e particolarmente aggressivo. Dall'impiego di falsi testimoni che, incuranti dell'eventualità di un'accusa per calunnia, arrivarono a mentire spudoratamente sulle circostanze conosciute pur di danneggiare la reputazione della famiglia Gentileschi, alle numerose visite ginecologiche lunghe e umilianti, che secondo la prassi la donna dovette subire, durante le quali il suo fisico fu esposto alla morbosa curiosità della plebe di Roma e agli attenti occhi di un notaio incaricato di redigerne il verbale.

Le visite, in ogni caso, accertarono un'effettiva lacerazione dell'imene avvenuta quasi un anno addietro, ma per verificare la veridicità delle dichiarazioni rese le autorità giudiziarie disposero persino che la Gentileschi venisse sottoposta ad un interrogatorio sotto tortura, così da sveltire - secondo la mentalità giurisdizionale imperante all'epoca - l'accertamento della verità. Il supplizio scelto per l'occasione era quello cosiddetto «dei sibilli», e consisteva nel legare i pollici con delle cordicelle che, con l'azione di un randello, si stringevano sempre di più sino a stritolare le falangi. Con questa drammatica tortura Artemisia avrebbe rischiato di perdere le dita per sempre, danno incalcolabile per una pittrice della sua levatura. Lei, tuttavia, voleva vedere riconosciuti i propri diritti e, nonostante i dolori che fu costretta a patire, non ritrattò la sua deposizione. Fu così che il 27 novembre 1612 le autorità giudiziarie condannarono Agostino Tassi per «sverginamento» e, oltre a comminargli una sanzione pecuniaria, lo condannarono a cinque anni di reclusione o, in alternativa, all'esilio perpetuo da Roma, a sua completa discrezione. L’uomo ovviamente scelse l’esilio, anche se non scontò mai la pena: egli, infatti, non si spostò mai da Roma, siccome i suoi potenti committenti romani esigevano la sua presenza fisica in città. Ne conseguì che la Gentileschi vinse il processo solo de iure e, anzi, la sua onorabilità a Roma era completamente minata: erano molti i romani a credere ai testimoni falsi pagati del Tassi e a ritenere la Gentileschi una «puttana bugiarda che va a letto con tutti».] Impressionante fu anche la quantità di sonetti licenziosi che videro la pittrice protagonista.

Dopo il processo il padre riuscì a combinare un matrimonio per la figlia con Pierantonio Stiattesi, pittore fiorentino, che determinò il trasferimento a Firenze e una nuova stagione, definitivamente da “solista” per Artemisia. A Firenze nacque la sua prima (e unica?) figlia e venne accolta, contrariamente al marito, presso l’Accademia delle arti del disegno: fu la prima donna a ottenere questo prestigioso riconoscimento. Ottenne importanti commissioni dalle famiglie fiorentine (Medici compresi) e strinse amicizia con Galileo Galilei che nutrì per lei grande stima, e con Michelangelo Buonarroti il giovane, il quale le commissionò una tela per celebrare il suo illustre antenato e con il quale intrattenne anche una corrispondenza, avendo da poco imparato a scrivere.

Nel 1621 si trasferì a Genova per un breve periodo, poi tornò a Roma come donna indipendente, allontanandosi definitivamente dal marito, e portando con sé la figlia Palmira.

 Dopo Roma, partì alla volta di Venezia, e probabilmente vi soggiornò tra il 1627 e il 1630, alla ricerca di nuove commissioni. Successivamente approdò a Napoli, e lì rimase definitivamente, se si esclude una breve parentesi inglese a Londra, dove raggiunse il padre per assisterlo fino alla sua morte. Fu quella l’occasione per collaborare artisticamente con lui, dopo tanti anni di distanza.

 Nel 1642, con lo scoppiare della guerra civile, Artemisia lasciò l’Inghilterra e, dopo altri spostamenti di cui si ha scarsa conoscenza, tornò a Napoli dove morì nel 1653.

 La fama di Artemisia più recente è forse proprio legata agli aspetti drammatici e romanzeschi della sua vita, e al suo coraggio nell’affrontarli, che ne hanno fatto quasi naturalmente una eroina femminista ante litteram.

Questa lettura però rischia di offuscare la forza con cui Artemisia si impose come pittrice, e su generi decisamente lontani da quelli delle altre pittrici dell’epoca (non molte ma neppure pochissime), le quali si erano avventurate sino a quel momento limitatamente a nature morte, paesaggi, ritratti. Artemisia affrontò la pittura “alta”: soggetti sacri e storici, impianti monumentali; con una totale padronanza della pittura, e abbracciando completamente la lezione caravaggesca, radicale nella concezione della scena, nel contrasto che descrive le forme e i colori, nella predilezione di un taglio ravvicinato che drammatizza il rapporto con lo spettatore, nell’abbandono di moduli iconografici convenzionali.

Da sicura professionista dell’arte sapeva di poter esplorare anche toni più lirici, atmosfere più intime. La vasta gamma delle sue corde era insomma in piena sintonia con la vastità del sentire barocco.

 Quindi si fa forse torto alla sua opera se la si considera solo come riscatto o sublimazione dalle violenze subite, poiché nella sua completezza, essa esprime una potenza e varietà poetica che vanno oltre la sua vicenda biografica.

Una donna quindi che ha reso grande la sua arte, forse anche per le conseguenze della sua vita turbolenta, ma pur sempre una grande pittrice del suo tempo. Che poi, per la sua personalità battagliera e indipendente, sia diventata anche un’icona femminista di oggi, non fa che accrescere l’alone di fascino che da secoli investe la sua figura.

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- Società

Storia della disumanità

Qualche riflessione all’indomani dell’attentato al Bataclan di Parigi

 

In questo momento storico siamo tutti addolorati e pieni d’angoscia per i tragici episodi accaduti negli ultimi giorni; questo maledetto terrorismo che attanaglia tutto il mondo.

Il Santo Padre ha parlato di assoluta disumanità di costoro: allora cosa ci rimane da fare oltre che piangere e sperare? Ho sentito molte persone in qualche modo implicati in questi terribili atti terroristici dire” non avranno il nostro odio”, “non ci faranno rinunciare a vivere” ….

Ieri il sacerdote durante la messa ha chiesto a noi fedeli di pregare ognuno per un terrorista, di farci carico di lui, perché le armi dell’amore e del perdono che ci ha lasciato Gesù sono le uniche capaci di fermare tutto questo male; anche se di diversa religione, questo è pressappoco lo stesso messaggio che ci ha lasciato il grande Gandhi, con le sue proteste passive fatte di digiuni e resistenza e non di violenza, all’insegna della forza straripante dell’amore.

Dopo tutte queste belle parole, una sola continua a rimbombarmi nella testa: DISUMANITA’, la parola che ha pronunciato anche il Papa durante il suo angelus.

Dunque, addoloriamoci e disperiamoci pure, per questa brutta piega che hanno preso queste persone, ma non stupiamoci più. Perché? Perché, siamo proprio sicuri che tutto stia succedendo solo adesso, o comunque da qualche decennio? A parte tutti i risvolti e retroscena storici che vanno ricercati molto indietro nel tempo per quanto riguarda strettamente la questione terrorismo, abbiamo dato uno sguardo serio ancora molto più indietro? Io l’ho fatto, e ciò che ho visto non mi è piaciuto affatto: a volte invece di parlare della storia dell’umanità, mi verrebbe di chiamarla storia della disumanità.

Tutto è cominciato l’altra sera, mentre guardavo un documentario: il documentario era appunto storico e esattamente parlava della morte di San Pietro e della nascita della Basilica, che appunto si crede costruita sulla tomba del santo. Parlando di questi argomenti, naturalmente erano presenti anche riferimenti alle terribili persecuzioni cristiane all’inizio dell’età imperiale, ai tempi di Nerone e dei suoi immediati successori per capirci. Tutti sappiamo più o meno quello che succedeva a chi professava il cristianesimo a quei tempi, ma vedere quelle ricostruzioni storiche è stato un pugno nello stomaco. I cristiani oltre ad essere crocifissi, arsi vivi, torturati e fustigati rigorosamente in pubblico, venivano dati in pasto ai leoni ed altre belve feroci, tutto sotto gli occhi di un pubblico acclamante ed eccitato; questa non è forse disumanità, che con i mezzi di allora fa un baffo all’ISIS? Io discenderei da questo popolo di barbari, che si permettevano di chiamare barbari tutti gli altri non romani? No grazie, da meridionale mi piace più gongolare delle mie radici greche fatte di democrazia e filosofia. Tralasciamo questa mia considerazione personalissima e facciamo qualche passo avanti e qualcuno indietro in questo viaggio di DISUMANITA’.

Un passo indietro: avete idea di quello che hanno subito gli ebrei a loro volta quando furono ridotti in schiavitù dagli egiziani? Un passo avanti: e i cristiani? Quegli stessi cristiani perseguitati fino alla morte dai romani, sapete cosa fecero? Le crociate, una sorta di guerra santa per convertire gli infedeli dell’islam, popolo a quel tempo di una tolleranza religiosa lodevole con i propri conquistati, il tutto con tanto del beneplacito papale; guerra-santa…il solo connubio tra queste due parole mi fa andare fuori di testa! E ritornando agli ebrei, subito ci viene da pensare a quella triste parentesi storica che è stata l’olocausto, ma non dovremmo neanche dimenticare di come anni più tardi lo stato israeliano ha affrontato la questione palestinese.

Insomma la nostra storia è piena di macchie infamanti indelebili: colonialismo e schiavitù hanno distrutto il continente africano, spremendolo come un limone, e ora che non è rimasto nulla da spremere lo lasciamo al suo destino, e per di più non vogliamo neanche accogliere i suoi disgraziati figli.  Per non parlare del cinismo assoluto con cui alcuni politici parlano degli immigrati, la maggior parte povera gente che prova anche una fuga suicida pur di scappare da guerre devastanti. Vogliamo parlare dell’America? Se vi racconto di come i visi pallidi hanno trucidato interi villaggi di pellerossa senza fare distinzione tra vecchi, donne e bambini, usando i modi più agghiaccianti, vi provocherei conati di vomito.

E tanti altri sono gli squallidi esempi, dal Vietnam alla grande guerra, dalle grandi dittature sparse per il mondo alla guerra del golfo in nome dell’oro nero, e senza andare lontano qui in Italia hanno unito la penisola facendo ammazzare gli italiani tra di loro, in nome di un re che d’italiano non aveva niente e alla prima occasione di pericolo un suo successore, durante la seconda guerra mondiale ci ha abbandonati da vigliacco quale era.

Cosa ci rimane da fare? Proprio non lo so…Se è vera la storia del libero arbitrio che ci è stato donato, a volte vorrei che non l’avessimo mai ricevuto, perché ci siamo mostrati profondamente indegni di gestire un così grande dono. Ma forse lo sguardo deve andare oltre, riuscire a scorgere quel che di buono ci è rimasto, quel manipolo di uomini che sono pronti ancora a sacrificare loro stessi per il bene degli altri. Da qui deve partire la nostra speranza, senza illusioni, perché bene e male coesisteranno sempre, e non potrebbe essere altrimenti perché ognuno dei due è sorgente dell’altro, la sua reazione opposta e contraria.