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Raccolta di articoli di Alfredo Rienzi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

- Poesia

Poeti in dieci righe: Franco Canavesio

 

Poeti (di Torino) in 10 righe. 19. Franco Antonio Canavesio

 

Franco Antonio Canavesio, è nato a Torino nel 1949, dove vive. Ingegnere di professione, dopo una lunga frequentazione come autore e lettore, e diverse pubblicazioni antologiche, giunge alla pubblicazione del suo primo volume di poesie con Custode del giardino (Ed. Aurora Boreale, 2019), con prefazione di Mario Marchisio. Suoi versi sono ospitati con regolarità nel foglio di poesia Amado mio. Nel 2020 pubblica a quattro mani con Mario Parodi la raccolta 70 e sentirli a ritmo di swing (Ed. Impremix)

 

Poeta, a dispetto della limitata e tardiva produzione edita, Franco Canavesio, ha saputo attraverso una via mediana tra cantabilità e discorsività, scansioni rappresentative e volute immaginifiche, creare una poesia osmotica tra l’occasione estrinseca e una visionarietà onirica. “Poeta alla continua ricerca di visioni, di immagini, a caccia di pensieri […] cerca incessantemente il suo destino di poeta nelle cose che incontra […] deambula nello spazio e nel tempo: raccoglie, accarezza, trasfigura poeticamente ciò che incontra e lo sussume nella sua vasta e colorata poetica dell’immagine” (Stefano Vitale)

 

 

 

L'anima d'un matto in volo

  

Noi, rinchiusi, senza ali
ci attirava il volo
non il mistero di elitre e piume
la legge che governa il battito alternato
e annulla il peso.
Non ci importa delle speculazioni
Leonardo e i suoi eterei disegni
neppure le macchine
rombanti, silenti le protesi leggere
e il tuffo dalla rupe.
Muoverci a mezz'aria
senza strumenti
come a voi accade in sogno
nel tempo sospeso della caduta.

- Noi, che vogliamo, possiamo -
si leggeva scritto sui muri 
sollevarci, con le nostre forze
a mezza altezza

dove il divisorio azzurro
incontra lo spazio bianco.
Avremmo preferito accadesse di giorno
più netto il limite tra i due colori
e sarebbe parso chiaro a noi e agli altri
che non si trattava di sogno o pazzia
di trasfusione aliena
o innovativa sequenza di scosse
ma di energia nostra.

Non so degli altri
a me accadde che sentissi la forza
per dimenticanza tra due fiati lunghi

la sedazione diventata spirito.
Mi liberai della camicia
come luce tra due cappelli a punte
toccai l'azzurro e poi il bianco
un'apparizione
agli occhi delle due monache
inginocchiate,
l'esimio professore restò di stucco
per l'effetto, sorprendente
era il corpo così leggero e luminoso
o l'anima, di quel matto in volo?

 

in Custode del giardino, Ed. Aurora Boreale, 2019, pag. 30

 

 

* * *

Mi chiedo da dove vengano

- dalla città, dai campi -

i corvi da sera, le gazze eleganti

che svolazzano e beccano

in cattività tra i miei versi

e se si riconoscono nel ruolo:

il gracchio ricorrente, 

il furto di diamanti falsi.

Han mai provato l'abbondanza del campo

la vista del rosso di una torre

un nido ondeggiante sul cedro più alto?

Sanno nutrire le parole, conoscono

la fatica del vai e vieni incessante?

O sono uccelli da gabbia

anche la poiana e il nibbio

con becco e piume di pappagallo

a ripetere la nota di colore

il verso addomesticato

al taglio di luce

per il té del pomeriggio?

 

da Come in un paesaggio, in Custode del giardino, Ed. Aurora Boreale, 2019, pag. 111

 

 

Veloci in viaggio

(in un paesaggio nordico)

 

Checché ne dica Gadda

pur con i segnali d'avviso, 

- verrà una curva a destra, rallenta

prima del dosso - 

è sempre meraviglia

quando dritto s'apre

vasto

un mondo di betulle e sole

bianco.

E' una distesa d'oro il paesaggio

anche il manto della provinciale

che taglia la tundra nostra,

il primospazio aperto fuori porta.

Su questo bolide,

come freccia luccicante

scagliati rasoterra sul bersaglio, 

prima che il sole cali bucheremo

l'orizzonte.

 

(14 novembre 2019)

 

da 70 e sentirli a ritmo di swing, Ed. Impremix, 2020, pag. 85

 

 

 

 

 

 

*

- Poesia

Il coraggio di non lasciare il segno di Dario Talarico

Dario Talarico

Il coraggio di non lasciare il segno.

Postfazione di Mauro Ferrari. puntoacapo Ed., Collana AltreScritture, 2020

 

 

 

 

Dario Talarico, giovane autore romano, classe 1990, dagli esordi precoci (“dopo aver ritirato i primi due libri dalle stampe, rimane in commercio La farfalla di piombo, LietoColle, 2013) pubblica ora per puntoacapo, nella Collana AltreScritture, una notevole raccolta Il coraggio di lasciare il segno, che, contrariamente al titolo, credo che il segno lo stia lasciando.

 

Il volume si articola in due Parti, con relative sottosezioni: Sistole (Il vuoto che riempie il nulla, Autopsia) e Diastole (Un profilattico bucato, Non svegliarmi).

 

Già il titolo della raccolta racchiude importanti indirizzi per una linea di lettura. Antinomia, o almeno ribaltamento (e sfiduciamento) del senso comune del dire (e, quindi, della struttura stessa del pensiero e – fatalmente – dell’agire e dell’esistere), che non è un isolato oggetto da vetrina di una bottega vuota, una curiosa esca per il lettore, ma esemplifica un modus ricorrente (e, si vedrà, una chiara visione del vivere): «Il vuoto che riempie il nulla» (p.11), «È così stupido essere intelligenti» (p.16), «A lasciare/ che a raccontarci sia il silenzio che ci tace» (p.22), «la libertà che ci lega» (p.22), «smettere di scrivere è un esercizio quotidiano» (p.27). Queste frequenti inversioni (o rinunce) di senso costellano l’intera raccolta, compresa la coinvolgente Parte Seconda, Diastole: filtrando la realtà e compiendo il «viaggio di andata e ritorno nell’esistenza», alla ricerca del suo «posto nel mondo»  attraverso una dimensione personale, anche intima, in «anabasi d’amore» o monologando «al figlio che non ho» (p. 82), il metodo d’indagine ritorna: «l’unica base da cui partire/ è che non c’è un base» (p.78), «Quel momento di silenzio  - era il  mio concerto» (p.81) ecc.

 

Nella seconda sottosezione Autopsia (reiterata), dove si compie una vera (auto)dissezione sulle direttrici antinomiche parola/silenzio (su cui meriterebbe tornare), essere/non essere, la densità aforismatica raggiunge il culmine:

 

ix.

 

È facile non essere sé. Rincorriti.

Bisogna impegnarsi per essere

ciò che si è. Esaudisciti: sarai

felice solo quando saprai essere

tutto ciò che sai. (p. 35)

 

E se, come in questo testo, si sfiora una congestione concettuale nella contemporanea rarefazione semantica, Dario Talarico sa farne inciso ruvido in una collana di testi brevi – tutti significativi – composita, dove non mancano slanci di pura cantabilità e intuizione, come nel testo conclusivo (che – con inciso irrituale e di non ortodossa autoreferenzialità - non posso non amare e proporre, da autore della serie di Antinomie, in Simmetrie, che recavano in primo verso una doppia negazione):

 

            xxxi.

           

            Non astro, non baratro:

            essere piccoli per il mondo,

           - questa - è la salvezza.

 

I testi, fatta eccezione per la serie in Autopsia, dei quali si è appena detto, scorrono con linearità e libertà versale, ma anche in essi si addensano grappoli di sentenze e fulminee considerazioni («lapidari paradossi apoftegmatici» scrive Mauro Ferrari nella Postfazione) o riflessioni con passo narrativo che in Sistole a volte si spogliano da qualsiasi struttura retorica e che impongono al lettore l’arresto e talora la vertigine. Uno dei passi più esemplificativi in tal senso, non a caso, chiude il componimento che reca in ultimo verso il titolo dell’opera, a p. 29:

 

Eroi per debolezza – Sand mandala

[…]

Perché nulla rimane. In un’inutilità come stato

si tratta solo di pescare la propria inutilità

scegliendo la più confacente al nostro volerci attardare.

[…]

E se il fine di ogni cosa è nella fine,

il senso della vita è il morire.

Nulla di meglio. Nulla di male: siamo foglie.

Bisogna solo avere il coraggio – di non lasciare il segno.

 

Per contro in Diastole, il giovane poeta dimostra che il suo repertorio versale, lessicale e semantico sa spaziare in versi di moderno lirismo e di grande inventiva («facevi ruggire le rose», «cinguettano i tuoni», «sparecchiare le aurore», «costellazione di lacrime», «come cenere sono questi occhi di legno», «il sospiro stremato di una foglia», ecc) mantenendo una struttura tenacemente libera, a tratti monologante, ma con cospicui territori frastici fratti ed ellittici, come esemplificato bene dai testi Risveglio («[…] I primi megafoni pubblicitari. Le vetrine illuminate./ I clacson di chi torna. I clacson di chi parte./ - Ecco. È nel frastuono. Senti?»), T.S.O.- Il guerriero senza cielo (« […] C’è stata una colluttazione./ Ricordo. La barba rotta. Grida./ Legni in pezzi. Va e vieni di sirene./ Va e vieni di pigiami./ Cigolio di carrelli.» ed altri.

 

Ma il valore portante e importante de Il coraggio di non lasciare il segno è nella unitarietà e – mi spingerei ad affermare – nella modernità degli assunti concettuali che si fanno linguaggio. Non a caso la lunga vista di Mauro Ferrari convoca «tre numi tutelari di poesia e filosofia»: Leopardi, Nietzsche e Wittgenstein.

Talarico costella la sua opera di citazioni nichiliste (oso: apparentemente?) e di destituzione dell’azione (valga ad epitaffio il titolo stesso!) e ne accoglie le spietate conseguenze nel confronto con «lo stare al mondo» (e l’agire in esso) e, come vedremo, con l’essere poeta:

 

«Tutto ciò che è/ è per essere dimenticato» (p.28)

«moltiplicando inutilità/ non si avrà mai un risultato utile o migliore. […] Perché nulla rimane» (p. 29)

«Siine consapevole:/ vivere – è coincidere col niente» (p. 36);

 «Credevamo di fare - senza sapere/ che le azioni non esistono […] questa vita – che è solo uno splendido niente» (p.52).

 

Ma se è corollario - ovvio e coerente - l’insufficienza della ragione e del pensiero 

(«Rimane dietro chi si prova a pensare» p. 26;  «Forse ho avuto troppo tempo per pensare» p.60; «delle tante disgrazie che siano capitate/ all’uomo, la peggiore di tutte/ - è che non abbia mai perso -/ la massima libertà di pensiero» p. 61; «chi ci ha dato l’intelligenza/ di porci domande, ha dimenticato – di darci/ anche l’intelligenza di trovare risposte», p. 21),

e, conseguentemente dell’agire

   («Credevamo di fare – senza sapere/ che le azioni non esistono», p. 52),

non è per nulla scontato che il poeta reagisca e cerchi una via d’uscita compatibile con l’affermazione della vita («Ma non morire cos’ha a che fare con vivere?», p. 83) sfidandone la dispersione come i grani di sabbia colorati di un «sand mandala».

 

Dove cercare allora di ribaltare la polarità, giacché «la vita è la cosa più bella - la più vera» (p.67)?

Non pare nella fede religiosa: «Anch’io -/ mi metterò nella schiera di chi ama Dio/ d’amore non corrisposto» (p.28); «Dio mio, perché mai m’hai dato il bisogno/ di una fede e una testa nelle ossa per non credere?» (p.62). Semmai in una più dilatata spiritualità («unico modo/ per conciliare il benessere/ alla conoscenza» (p.70) che però, pur offrendo una direzione teorica, non apparecchia – nel verso successivo - soluzioni facili: «Ma è inutile fare sforzi».

 

È qui che, accolto il movimento a dissolvere, l’«assenza di senso [che] scandisce/ ogni singolo gesto mentre un respiro/ ostinato ci costringe a quest’esistenza» (p. 64) il poeta cede nella sua battaglia, sospende la fuga e s’accolla l’onere che ora si deve «vivere per fare». Il filosofo nichilista cede il passo al poeta, colui che di fronte al nulla oppone il fare, il creare, la poiesis che, a questo punto anabasico del percorso, può rivivere solo se specchiata e purificata dalla precedente e sempre imminente morte (o, almeno, agonia) simbolica.

 

Viene messa in scena, quindi, una ubiquitaria e densa battaglia tra la Parola e il Silenzio (maiuscole mie), elette a simboli di ogni possibile antinomia (fare/non fare, vivere/morire…) e che vedo come il più potente dettato di questa considerevole raccolta. Serve non lesinare esempi, che così estrapolati, accentuano l’intonazione sentenziosa di cui si diceva in precedenza:

 

            «Siamo condannati alla nostra bocca./ È difficile – dire qualcosa che sia meglio di niente» (p.22);

            «È vergognoso parlare di ciò che si ignora./ È inutile parlare di ciò che si sa.» (p.34);

            «Tanto più è esatta/ una parola, tanto più spazio lascia/ a ciò che non dice» (p.36);

«C’è un silenzio che non è pigrizia della parola» (p.50);

«[…] in un’epoca come questa/ non si può più essere poeta» (p.57);

 

 E serve anche considerare come il volume si concluda (p. 85):

 

            «          - Pensa a quanti affanni

            per ricreare il suono adatto

            e poi rendersi contro              che la perfezione

            è propria solo del silenzio.

            Del silenzio esatto. Intoccato.

                                                           Selvaggio.»

 

Così, con l’opinabilità insita in una qualsiasi lettura di poesia, mi sento di concludere che il messaggio attivo de Il coraggio di non lasciare il segno sia ben maggiore di quanto ci raccontino le migliaia di parole che lo compongono. E stia proprio nel silenzio, nominato e innominato, da dove un altro segno verrà, più libero e vero di quello che avremmo lasciato sotto l’egida dell’azione-che-si-deve e del fare oscuramente obbligato. Un segno del sentire più che del pensare, che oserei dire intuitivo. E che porta Dario a confessare di aver  «perso tempo per portare alla luce/ cose che dentro avevano il sole» (p.84) e, ricordando che i genitori gli «avevano detto soltanto una frase semplice,/ sincera: che la vita è la cosa più bella - la più vera» (p. 67), rivela a se stesso che «la vita vera è un'idea,/  un millisecondo» (p.70) e, nel magnifico componimento Al figlio che non hoMonologo di un pianista (p.78), porta ad augurare: «Voglio che tu viva la tua vita/ come vive un respiro.»

 

 

Alfredo Rienzi,

2 Novembre 2020 

 

*

- Poesia

Poeti in dieci righe: Augusto Blotto

Poeti (di Torino) in 10 righe - 18. Augusto BLOTTO

 

Augusto Blotto,  è nato a Torino nel 1933 è forse il più prolifico poeta italiano, autore una sterminata serie di volumi di poesia: “59 volumi di cui 22 editi e 4 attualmente disponibili in rete” [http://www.augustoblotto.it] precisa la quarta di I mattini partivi. Poesie per un angolo di pianura 1951-2012, Nino Aragno Editore, 2013. Le biografie riferiscono dell’esordio con Magnanimità (1951),  Schwarz 1958 e che tra il 1957 ed il 1968 pubblica con Rebellato 17 volumi di poesie. Dopo il citato I mattivi partivi, Blotto ha pubblicato ancora In Francia e Autunno, Ed. Coup d'Idée, 2015 e Veramente, quando,  ADV Advertising Company, 2016.

 

La questione linguistica è talmente soverchiante, in tutta la fluviale produzione di Blotto, che è stata inevitabilmente posta al centro di quasi ogni esame critico della sua poetica che, estendendosi per oltre sessant’anni, s’imbatte nei residui tardo ermetici e nelle stagioni del neorealismo e della neoavanguardia, restando fedele alla primazia di un lavoro “ lessicale più che sintattico” -   scrive motivatamente G. Tesio – teso,  attraverso una straordinaria inventiva verbale, alla “costruzione di un linguaggio e dar voce a uno stile”. Nelle “migliaia di pagine [nelle quali] il poeta si inventa un suo linguaggio di demenziale protervia inventiva” (U. Eco) vengono compresse, ma non tacciono, altre questioni fondamentali,  quali: la cifra visiva-visionaria dell’autore e la discussa oscurità del dettato.

 

* * *   

 

I mattini partivi quando ombra queta
dalle gronde arrossate immobilmente
ascoltava madrepora che andava
rosa-nerastra, fiati, fumi, ultime
nuvole della notte sulla città
senz’uomini, tagliata coi vialetti,
fontane sonore vanamente,
le conchiglie di polvere alle piazze
ove i passi gelati sono ricordo in navette
fumose, del terriccio quasi celeste.
Odore di benzina
e pino nel chiaro
d’alba come
ricordo. Pastoso
m’abbracciava litaniando l’arancio sul verde,
entrambi nel cielo, ancora come buio,
poi nascevano a svolti i frutti dei binari
rossi e sola l’ombra
d’una chiesa oltre il perdersi di fili
limacciosi, le pieghe del deposito
a cupola sulle tornanti locomotive,
come fanciulle stanche, e le azzurre
altre locomotive al focolare umide
– verde cigola un pendolo di vapore
e ingenuità, chiarezza d’una bambina imprevista –
screziate dalla pioggia,
l’ombra sola
di chiesa verdeggiante alla brumale
natività respirava coi passeri
supini alle campane ferme.
Voci
d’operai
rosso argento,
per vie
di città come alla solitudine
dei campi.
Poi veri campi di distesi passeri
folli alle stoppie, ondulazione tinnula
all’infinito di rugiade: pagliai
scoloranti nell’acque di pianura,
laghetti di sovrana calma ai marci
solchi di nero struggente sul rosso
azzurro fantasiare delle acque
quasi immobili: il sericeo
vento alle orecchie in cricchi duri, amato
risvegliarsi di falci in alto argento
oltre le siepi, ignote, come testamenti
gomiti delle donne agre ancora
del volume ceruleo d’appannato
sonno, e alle prime erbe non potevano
cantare nell’umido: fontane;
discorsi
legati col silenzio di finestre
verdi, in paesi presto dimenticati;
e le argille più scabre, la ricchezza
dei castagni alle curve pure, parapetti
luminosi nel mattino di querce chiare,
tabernacoli, vuoti, pasciuti;
già pascoli di meraviglia
e sole inavveduto;
prolungamento preparato di muscoli
verso una vetta boschiva e di brume
pesanti ancora là in bottiglione grigio sul verde…

 

maggio 1951, da Magnanimità, Schwarz, Milano 1958, in I mattini partivi, Nino Aragno Ed., 2013, pag. 6

 

 

* * *

 

 

Ma il filtro che il crogiolo del silenzio

aguglia in un “è vero!” esclamato in fibula

di candela, tanto le soddisfazioni oltre‑paèsano,

appone i testi – da mattone – del lago

cui la fattura liquida non sceglie: appièna

roselline di soggiorni in grembiali di cacao,

ortènsia le ghiaie che spengano un senziorino d’odore

quale la bretella d’una colazione sognante

o che nessuno intercida più, frutta sucida

del futuro, cui padigliona l’assenza

del rumore, in uno scavalchino (l’attesa)

(asola bianca)

 

E attorno generosi bastìdino il parlare,

nello scottar tepore gota di “Stare!”,

come sciami di afferenti:

muretti, bestiole, da dio

degli accenni udirli, di rumore, nel sole

pavanante (un condurre...) sopra le serpicine, scricchiolo

la gambina del fastello, morellato dal sole

ch’è un torace riquadro di sughero e illuminato

(velario come un telaio; il freddo)

 

 

Lugano Gandria, febbraio 1991

da Poesie Ticinesi, alla chiara fonte, 2012, pag. 15

 

 

 

 

* * *

 

La sciabola gonfia di un rio che oscilli spine

e fronde color ramarro, presso osterie

cigolanti di portelli e rinomate

codardamente per trippe e crinoline

di fiori che, tigli, nei bicchieri

uno se le ritrovi, non lontànano

(anche proprio con lo psico, col nostro sudore

intraveduto, l’imbuto d’arancio carne

che sovente vogliamo vederci – di sbieco -)

dagli sterri spaccati che una botola

di fogna, anzi un tubo di cemento

che sia stato parzialmente schiacciato

da un autocarro gommoso, olivìgnano,

del venticello grigione-sassifraga,

o mormorio, che la periferia

pòlvera di carpenteria, lume di strusciare

 

Muoversi nel colorato saporoso

d’una mattina colombato da nuvole

quasi da Senna che sia straripata

- un pochino – ad Argenteuil, còrpora

di particelle l’atmosfera primulea

di enunciar vivande al cammino, ribordo

di tovagl’angoli mattone e argento!

 

L’imminenza che ci sia tempo ancora,

tanto, non nega il sorbir beoto

tazza di chimera e spezie, quel fin-di-labbro

che indaga la notte e la cerchia di mastice

a onda di gromma, infuso di cometa

conoscente la coppa del buio, quel d’orlo

 

E la ricostruzione di maneggiare

rompicapo logistici, poveracci

in verità, allenta e tende fettuccia

delle membra destinate a portar vestito

che in colloquio con la mente non la smette

di camminare intanto un’idea di

                                                               mondo

se vuoi cominciare ad accontentarti (purché

tu non disdegni i pezzetti che ti càpitano,

servil imbattersi tra denti e piedi

cioè)

………..

………..

………..

 

aprile 2012, da Ragioni, a piene mani, per l’”enfin!”, in I mattini partivi, cit, pag. 106

 

 

 

 

 

 

 

 

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- Poesia

Raffaele Piazza, Linea di poesia delle tue fragole

Raffaele Piazza. Linea di poesia delle tue fragole. LaRecherche.it,  eBook n. 328, 2020

 

Ritroviamo in questo e-book pubblicato su LaRecherche un’ampia selezione di testi tratti da Alessia e Mirta, ultima raccolta di poesie in volume dell’Autore campano, edito da Ibiskos Ulivieri Edizioni nel 2019, che ho avuto piacere di leggere e commentare da non molto ed alla quale rimando preliminarmente: http://www.literary.it/dati/literary/rienzi_alfredo/alessia_e_mirta.html

L’opera di scelta e selezione è di per sé una forte dichiarazione di poetica, sia che avvenga a distanza di tempo, sia come nel nostro caso, dopo meno di un anno. Va, tuttavia, detto che con questa operazione di editoria digitale Piazza ci obbliga a confrontarci con le pieghe della sua poetica, ormai consolidata, riconoscibile e coesa: infatti la raccolta della quale vengono riproposti una discreta quantità di testi è particolarmente monolitica e la cernita dei testi confluiti in Linea di poesia delle tue fragole non avrebbe dato esiti troppo diversificati, data la struttura narrativa, architettonica e stilistica di Alessia e Mirta, che vien qui rappresentando in scala ridotta, ma mantenendone tutte le prerogative. E’ nota da tempo l’invenzione poetica di Raffaele Piazza, poggiata sul muoversi di figure femminili, che col tempo hanno assunto le fattezze, per molti versi iconiche e atemporali di Alessia, l’eterna ragazza Alessia e di Mirta, intensa e più realistica e drammatica figura suicida. Va da sé, quindi, che l’interesse in questa raccolta vada naturaliter alle parti inedite, poste quasi tutte in apertura. Coerentemente in alcuni di questi testi Piazza cerca continuità narrativa: « Tesse una musica il marino/ fluire senza tempo, l’onda verde/ che trasparente vola nella forma/ di donna» (Tesse una musica, p. 7). Si ritrovano quindi i climi e gli stilemi, originali e riconoscibili, del poeta, ma affiora a tratti un tono più morbido e suasivo («magia duale», «incanto di sorgente», in Fiore di padre, p. 8; «il tuo di gioia pianto», in Nuvole e Alessia, p. 25). Quest’ultimo componimento citato ci dice due cose: la prima è che pare un compendio stilemico del poeta napoletano e, non a caso, è collocato nel corpo dei testi selezionati dall’ultima raccolta edita; la seconda rimanda alla precisione architettonica, alla sempre viva tensione strutturale di un poeta che riesce a scendere nel quotidiano (trasfigurato e quasi arche tipizzato) con grazia non banale. La concatenazione dei frammenti numerati di Nuvole e Alessia avviene a mezzo di e congiuntive che sembrano voler aperta e inconclusa la sequenza. Tra i testi inediti spicca quello dedicato a Pasolini, che potrebbe suonare laterale, estraneo alla poetica dominante. Ma una parola sembra accomunare l’humus pasoliniano, pur nella complessa articolazione del testo, ed è “innocenza”. La stessa che in qualche modo viene simbolicamente evocata dal titolo, che contiene uno dei lemmi più amati dall’autore, “fragola”, frutto tipicamente di primavera, che profuma, come l’eterna, gioiosa e dolente ragazza Alessia, di una stagione di semi e di speranza.

 

Alfredo Rienzi

gennaio 2020

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- Poesia

Incerto confine di Stefano Vitale e Albertina Bollati

Incerto confine.

Albertina Bollati, Illustrazioni. Stefano Vitale, Poesie.

Edizioni disegnodiverso, 2019.

 

 

La poesia di Stefano Vitale si è sempre mossa su una linea di confine: quella dove l’occasione poetica che possiamo chiamare sensoriale o del mondo incontra la volontà poietica, ri-creativa dell’autore e dove, per opposto vettore, il pensiero, con la sua necessità di com-prendere, di collocarsi, porta il poeta a scandagliare gli orizzonti, i moti, i fatti che gli si offrono. Un cogito ergo video, dove non basta più, astrattamente essere.

Nell’ultima prova di scrittura poetica, dal titolo chirurgico: Incerto confine, Stefano Vitale aggiunge un significativo ampliamento del concetto di limes.

È da dire, innanzitutto, che il volume è una preziosa edizione pubblicata lo scorso novembre 2019 per le Edizioni disegnodiverso curata di Paola Gribaudo che unisce i versi di Vitale ai disegni di Albertina Bollati (in senso anche materico, dove alcuni versi si ripresentano, come aeree didascalie, nel corpo dell’illustrato). Simbiosi già collaudata, con fortunato esito, per un precedente volume di versi del poeta, Angeli, del 2014, ma che qui sembra ancora più stretta e paritetica, come se parole e versi fossero sorti contemporaneamente attorno all’idea che sottende il volume.

Il confine sul quale si muove l’opera è certamente simbolico e polisemico, come nelle corde di Vitale (tra verità e pensiero, tra ombra e luce, tra corpo e il suo riflesso, tra un tempo e un altro tempo ecc.), ma assume qui anche una forte connotazione realistica e concreta, che si rivela fin dalla copertina, magnetica e lieve, dove un’esile figura umana sta aggrappata a un mare capovolto sopra un cielo sbiancato e stellato.

E già dai primi testi Chiudere i porti (p. 8) e Il linguaggio dei muri (p. 12) si fa chiaro il tema che, coraggiosamente, viene affrontato. I rispettivi incipit:

 

Chiudere i porti e lasciar riposare

le nere coscienze marce di rabbia

merce di scambio di triste rancore

mentre grasse risate dilagano

nelle sudice piazze deragliate ragioni

 

Non muore

il linguaggio dei muri

messaggi a distanza

di grafiti dispersi

tra coltelli e martelli

 

Perché “coraggiosamente”? Non certo per la valenza civile dei testi, per il nitore del proprio sentire (ancor prima che del proprio pensare), per i riflessi politici (che, per una distorta e degradata accezione, odorano di ruvidi termini quali divisivi, conflittuali, bellicosi). Questo aspetto può richiedere altri aggettivi, ma il coraggio di dire per un poeta, per un artista è essenzialmente altro, già che il semplice darsi all’arte, a una qualsiasi arte, elogio dell’In-utile, è gesto civile e politico. Il coraggio di dire di argomenti chiari e forti è essenzialmente, a mio modo di vedere, quello di lanciare la parola, «àncora/ che ci viene dal bene», senza deragliare, di condurre il verso sulla fune in equilibrio tra forma e contenuto. Per fortuna questo è capitato frequentemente ed è in virtù di questa capacità di timoniere che Stefano può permettersi di convocare nel dicibile ogni cosa, o almeno anche questa cosa. Esplorare l’impoetico, rendendone chiara voce, è grande merito, è strumento necessario per il poeta. Affrontare l’iper-poetico senza sfiorare la retorica lo è ancor di più. E l’intera raccolta ci dice questo, che l’Autore ha inserito nella sua poetica, ormai riconoscibile e consolidata, anche il tema civile (non è la prima volta, ma qui si fa titolo, emblema, copertina), inserendolo armonicamente, traducendolo, per poterne dare testimonianza, in esperienza di parola:

La chiave è nella Parola

Suono che resta accanto

Colore della pazienza

Distesa sul paesaggio delle ore

Passione e destino senza nome

(p.63).

 

Nei testi riconosciamo la cifra stilistica di Stefano Vitale, bilanciata tra fluidità e soste, diretta, ma riflessiva, attenta al ritmo nella sua libertà metrica. Alcuni testi a struttura anaforica danno al componimento una qualche valenza canora.

Si notano, in quanto a lessemi e figure, ricorrenti richiami al tempo: unitamente ad un certo numero di richiami negativi o di resa (di limite dell’umano) alcune presenze di bambini pare forniscano il controcanto, l’antidoto, l'alito di vento che spazza, in parte, le nuvole del dubbio e dell’impotenza della ragione. Quasi una figura semanticamente sorella di quella degli ubriachi saggi della penultima raccolta del poeta?

 

Alfredo Rienzi

gennaio 2020

 

 

CHIUDERE I PORTI

 

Chiudere i porti e lasciar riposare

le nere coscienze marce di rabbia

merce di scambio di stolto rancore

mentre grasse risate dilagano

nelle sudice piazze, deragliate ragioni.

 

Chiudere i porti e non dover incontrare

l’orrore di occhi naufraghi in mare

di corpi salvati piagati dal sole

stremati da guerre monete sonanti

del nostro silenzio di barbari stolti.

 

Chiudere i porti alla fuga smarrita

sul mare-sepolcro di cenere e sangue

le ombre dei morti sono gelate

scure radici senza più storia

deserto di muri e orecchie mozzate.

 

Chiudere i porti del mare che un tempo

fu Nostro, libera onda di luce

ora muro che cresce abisso di sale

specchio scheggiato dal pianto di  pietre

posate sul fondo del cielo d’estate.

 

 

ALFABETO MUTO

 

Cerchiamo la parola esatta, àncora

che ci viene dal bene

che ci afferri come un destino.

 

Cerchiamo la parola esatta, luce

nella piega delle labbra

nel gesto lieve delle dita.

 

Cerchiamo la parola esatta, argine

che ci renda lo splendore del silenzio

senza vergogna né rassegnazione.

 

Ma quel che abbiamo è

un alfabeto muto

passo senza cognizione

pieno d’errori

distrazioni, omissioni.

 

 

(NON C’E' OROLOGIO)

 

Non c’è orologio

che batta il tempo in modo esatto

avanzano le lancette seguendo

un ritmo dissonante

lontano dalla giusta cognizione

d’una palpabile certezza

il tempo è altro tempo, fuori dal calcolo

della presunta precisione,

passo sbilenco sull’orlo di un cornicione

sentiamo che qualcosa sfugge

e s’apre una ferita da dove sgorga

il sangue d’una domanda:

“sono io il mio tempo?”

 

 

 

 

*

- Poesia

I masticatori di stagnola, di Guglielmo Aprile

Guglielmo Aprile

I masticatori di stagnola

LietoColle, 2018.

 

Molte, tra le centinaia di raccolte di poesia che annualmente vengono proposte si presentano ben confezionate e con l’abito in ordine. Due ingredienti sono però merce rara (e lo dico da lettore generalmente benevolo e grato a molti autori per i loro versi): da una parte la capacità di emozionare, da non confondere con uno stucchevole emozionalismo, di portare la filigrana o gli squarci di sofferenze o gioie necessarie; dall’altra: il coraggio. Il coraggio di sporcarsi il vestito, di uscire fuori da un dettato misurato, di rinunciare a priori allo svolgimento di un compitino plausibile.

 

Anche con quest’ultima raccolta, I masticatori di stagnola - scomoda già dal titolo, per la dispercezione che immediatamente genera – Guglielmo Aprile mostra invece il coraggio di una parola poco incline al modulato sussurro e percorsa dalla stessa feroce tensione che animava come un soffio rauco il Golem delle due precedenti raccolte L’assedio di Famagosta (LietoColle, 2014)[1] e Il talento dell’equilibrista (Giuliano Ladolfi Editore, 2018).

 

La serie dei testi, un’ottantina in totale, è suddivisa in tre sezioni, ma nella raccolta la scrittura e il grigioscuro sentimento che la permea, sono piuttosto unitari. Aprile ha ormai assunto uno stile ed una poetica riconoscibile ed è facile ritrovare almeno due delle caratteristiche strutturali, già presenti nelle precedenti raccolte.

 

La prima: il ritmo è fratto, rinuncia ad ogni musicalità, ma questo appare assolutamente funzionale a quanto espresso, perché sarebbe stridente e fuori luogo, tra “betoniere”, “catrame”, “fogne”, “ossa” ecc, una primazia lirico-musicale. Il poeta costruisce una antipoesia per narrare “l’antivita”(p. 74), per rendere il suono del ruminio di una balla di stagnola (p. 70). Attenzione, il masticatore non disconosce il dettato alto, ma lo usa deliberatamente per contrasto a quello che vuole essere il raggrumarsi della propria disperazione, nichilista e claustrofobica. Si leggano, ad esempio, alcuni eleganti versi di chiusura:

 

«e infine un luogo da cui non si torna» (p. 27):

«siamo nulla che fa ritorno al nulla» (p.36)

«e correvamo fianco a fianco al fuoco» (p. 33)

 

A una prima lettura alcuni passaggi appaiono talora enigmatici, come se il poeta seguisse riferimenti propri e per se stesso: un esempio, ne Il dio giusto (p. 94) si legge: «Gli ultimi modelli di pantaloni da donna/ sono la causa principale/ di attentati a sfondo terroristico/ e lungaggini nella richiesta di passaporti», senza che nel prosieguo del testo siano dati al lettore facili possibilità di collegamento, ma, invece, porti altri incisi slegati: «Non c’è poi da stupirsi/ per la professionalità discutibile/ dei conducenti di linee interurbane». Conoscendo la scrittura di Aprile, e approfondendola in questo ultimo volume, questo snodarsi si rivela invece uno dei meccanismi tipici delle sue composizioni. Infatti, la seconda peculiarità che si ritrova in molti testi (forse meno numerosi che ne Il talento dell’equilibrista), è la costruzione per segmenti subentranti, micrometafore inanellate, incalzanti sulla medesima incudine, con angolature diverse. Esemplare il seguente frammento (Botte bucata. II, p. 23), dove il punto e virgola si fa metronomo:

 

«Sistematicamente li perdiamo/gli accendini appena comprati;/ la pece stagna le doghe di rovere,/ ma una striscia umida segue in scia il carro,/ svuota le scorte; la filettatura/ è usurata e non tiene, ai piani bassi/ già alcuni locali allagati/ in conseguenza di una falla; l’acqua/ che versiamo una brocca dopo l’altra/ non riempie la vasca»

 

che poi vira, come ho prima accennato, per una conclusione netta e fulminante:

 

«solo da morti/ passerà questa sete».

 

La raccolta è permeata da un senso di disfatta ingloriosa, di percorso imo, ma non nell’epica della catabasi e neppure della visitazione delle gallerie ctonie del subconscio, come ne L’assedio di Famagosta. Qui siamo a un piano terra, invaso da quotidianità sperperate, da lordure e dissipazioni, senza dignità alla luce. Il ventaglio lessicale lo mostra bene, la «sabbia» («tonnellate di sabbia») si fa emblema del disfarsi, dell’inutile «annodare fiocchi rossi ai pomelli/ sciolti la sera prima». Se «sabbie», «polveri», «betoniere», «sassi», «asfalti», «ghisa», mantengono una qualche cupa valenza simbolica, da «paesaggio avvizzito», ad un livello semanticamente più diretto quanto scaduto, il «pavimento è cosparso di insetti morti», e si palesa «fra gli scorpioni» un repertorio che scende nel rifiuto, nella scoria: «discarica», «spazzatura», «fogna», «furgone dei rifiuti umidi», «chimo», «guano», «urina rappresa», «smegma» ecc.

 

Una disperante inutile ripetitività dei gesti osservati e compiuti («la cremagliera che replica/ infinite volte il suo gesto»; «un giro dopo l’altro, intorno/ a una panchina vuota»; «lo stesso film in replica ogni sera») fa da controcanto a un nichilismo sofferto e fatalista, che l’esile diaframma dell’autoinganno non può arginare.

 

«ci vuole coraggio a chiamarlo vivere» (p. 32)

«nessuno lo crede/ che appena ieri fummo vivi» (p. 49)

«premi un pulsante oppure un altro,/ tanto la destinazione è la stessa» (p.61)

 

È un nichilismo individuale e collettivo, che assume una rassegnata valenza di biasimo al modus vivendi alienato contemporaneo:

 

«ci accalchiamo, facciamo ressa/ per contenderci l’ombra» (p. 13)

«Ruotano i cieli, senza scopo, come/ fanno le auto la domenica/ intorno ai marciapiedi già occupati» (p. 17)

«Pagare il conto ritirare il resto/ la stessa frase/ un numero indefinito di volte di seguito» (p. 27)

 

Ma la vis della parola, per quanto cruda e indigesta, come un boccone di stagnola, è ancora ciò che salva dal più mortifero livello di negazione: il silenzio. In virtù di questa parola che resiste, che si piega, si sporca, si rumina, la non perduta coscienza di un altro possibile consente ancora, spente le luci di casa e dei seminterrati, tra «fabbricati in demolizione» e «vagoni fuori uso, carbonizzati», di aggirarsi con l’esile fiamma di una candela: «Credo di meritare qualcosa di meglio/ di questo piatto scaldato ogni sera» (p. 94), perché in fondo sopravvive la coscienza che «il sole vincerà sui morti» (p. 19) e che sulla luna «c’è un pianoforte […]/ che non sa nulla/ delle nostra dita unte» (p. 14).

 

Alfredo Rienzi

Settembre 2019

 



[1] Del quale ho avuto piacere di scrivere ne Il sibilo della serpe nera: una lettura de L’assedio di Famagosta di Guglielmo Aprile, in La clessidra, n. 1-2/2016, pagg. 94-98).

*

- Poesia

Poeti in dieci righe - Silvia Rosa

Poeti (di Torino) in 10 righe - 16. Silvia ROSA

 

 

Silvia (Giovanna) Rosa (Torino, 1976) ha pubblicato in versi: Di sole voci (LietoColle Ed., 2010, II ediz. 2012), SoloMinuscolaScrittura (La Vita Felice, 2012); Genealogia imperfetta (La Vita Felice 2014) e Tempo di riserva (Giuliano Ladolfi Ed., 2019). Ha pubblicato, inoltre, libri di racconti (Del suo essere un corpo, Montedit 2010), traduzioni (Italia Argentina ida y vuelta: incontri poetici, Versante Ripido – LaRecherche, e-book, 2017), e-book fotopoetici esaggi (Italiane d’Argentina. Storia e memorie di un secolo d’emigrazione al femminile (1860-1960), Ananke 2013).

 

Con il suo ultimo lavoro in versi Silvia Rosa conferma la predilezione per una poetica fondata sull’io narrante, tesa via via a superare registri intimistico-diaristici e radicarsi nell’osservazione della dinamica tra realtà e rielaborazione interiore. Una parola che accoglie la propria natura “al femminile”, visita gli snodi della propria vicenda esistenziale, ma resa asciutta e interrogativa dalla riflessione netta fino alla ruvidezza e da una versificazione fluente, precisa, sorvegliata, molto raramente (ma con buoni esiti) lirica.

 

 

Agosto, un giorno qualunque

 

Ti ho portato nella mia borsa

 in un sacchetto di plastica bianco

 orologio portafogli le chiavi di casa e dell’auto

 tutto quello che oggi resta di te.

Ho contato i passi di tua figlia (avanti e

 indietro freddo dopo freddo fino

 all’ultima stanza numerata senza finestre),

 ho raccolto tutte le sue lacrime

 ma qualcuna è rimasta in attesa

 dietro al vetro in cui stavi, sembravi

 come a Natale quando dopo mangiato

 ti addormentavi sulla poltrona un poco.

Agosto non è che un mese qualunque

 e qualunque era anche questo giorno

 ‒ non c’è un modo migliore di andarsene,

 dicono, né un tempo più giusto, forse ‒,

ma ho pensato al rumore delle presse,

alla catena di montaggio in un tonfo metallico,

 allo scoppio improvviso del tuo cuore

 un ingranaggio imperfetto in mezzo

 alla perfezione d’acciaio delle altre macchine,

 ho pensato che non si sono fermate

 in questo giorno di lavoro qualunque,

 mentre intorno a te una frattura profonda,

 una crepa di ghiaccio ha infranto l’estate

 e il sole è diventato la luce artificiale pallida

 che hai visto un secondo prima che tutto

 avesse una fine.

 

da Tempo di riserva, Ladolfi Ed., 2018, p. 47

 

 

 

Cammino a perdere 

 

E l’impostura viene meno

d’aver creduto al filo teso dei giorni

d’aver creduto io rinnego

lo sguardo concavo

ad accogliere le brevi epifanie di un sì

e ogni attesa, al bandolo del tempo

chiedo venia d’aver creduto il giro

a vuoto – l’inconsistenza del pensiero

destino autentico e pena

d’aver creduto il mondo di parole

d’aver ceduto leggerezza e schiena

all’assedio del futuro e alla resa,

d’aver creduto poco che da qui al sereno

bastasse stare quieta senza sperare

in niente, un passo dopo l’altro

d’aver creduto questo andare

meta e non cammino a perdere.

 

da Genealogia imperfetta, La Vita Felice, 2014

 

 

 

sms #2

 

che silenzi mi si incollano addosso, a volte. non di

quelli che ripassi con le dita e si scaldano dove il

sangue preme più forte. ai miei silenzi mancano

gesti, è un esercizio a denti stretti questo

precipitare nell’ansa nuda di parole – ma tanto

dico sempre le stesse cose –, senza mani e oggetti e

uno sguardo uno da raccogliere per esserci di colpo

corpo a corpo mi assottiglio per passare la fessura

delle labbra e invece resto [muta immobile]

mi confondo col bianco sporco delle pareti dei miei

occhi e al centro, al centro nero lupo braccato

che dilata il passo tra battiti d’eco fuggendo – sto(p) –

 

da SoloMinuscolaScrittura, La Vita Felice, 2012

 

*

- Poesia

Artigianato sentimentale di Gabriele Borgna

Gabriele Borgna, Artigianato sentimentale, puntoacapo Editrice, 2017

Prefazione di Giuseppe Conte

 

Scorrete questa prima serie di lemmi: amore, labbra, corpo, cuore, baci, sguardi complici, passione inusitata, abbraccio. Poi questa seconda: sabbia, salsedine, vela, mare, oceano, agave, rosmarino, palme, scogli.

Tornate al titolo, originale, e non faticherete, con la prima serie, a declinarne l’aggettivazione sentimentale.

Per collegare la seconda, nitida e inequivocabile serie di vocaboli del poeta ligure, al sostantivo Artigianato devo fare un giro appena un po’ più largo, ed evidenziare quel “lavoro di intaglio e cesello sulla parola” che pertinentemente usa Michele Paoletti per descrivere la scrittura di Gabriele Borgna (Laboratoripoesia.it del 17 ottobre 2017). Un lavoro materico, fatto di gesti precisi, di materie prime, un lavoro di bottega, di “stanza sulla pubblica strada”, di deposito e manifattura delle merci del luogo. E il luogo, nella poetica agli esordi del poeta di San Maurizio, oltre che essere chiaramente nominato, funge da corridoio spaziotemporale per la sua poesia, da cordone con la tradizione, da voce del nume. Dalla Prefazione di Giuseppe Conte alle già numerose note critiche che il giovane poeta si è guadagnato, sono plurinominali i padri della tradizione ligustica (dai concittadini Giovanni Boine, Cesare Vivaldi, lo stesso Conte, agli imprenscidibili Novaro, Sbarbaro, Montale), per cui ritengo non vi sia, per ora, molto da aggiungere su tale aspetto, una volta che gli si sia data la giusta importanza che merita e che spinge Elio Grasso a dirne come di “un autore che fa della sopravvivenza linguistica la misura del suo scrivere.” (Blanc de ta nuque, 17 ottobre 2018).

La raccolta si struttura in due sezioni Amori in rilievo e Solitudini da piombo, (anche i titoli delle sezioni sono alquanto indicativi), nelle quali sono equamente ripartiti i trenta testi complessivi della esile raccolta, i quali, per la gran parte, hanno vita e autonomia propria, pur partecipando armonicamente a un discorso ampio che riconosce due tempi o, almeno, due territori.

 

Il testo di apertura merita una citazione integrale, perché – come un seme – contiene già tutti gli ingredienti dello sviluppo poetico dell’Autore: il luogo, la nominazione dei suoi essenziali, la tensione musicale, l’afflato emotivo, una certa distanza dalla contemporaneità. Mi colpisce, tra l’altro, quel distico centrale (Attraverso nuvole/ cariche d’incognite la natura ci parla) che pare, in questo contesto, una versione locale, detto in senso valoriale, dell’universale e baudelairiano La Nature est un temple où de vivants piliers/ laissent parfois sortir de confuses paroles di (non a caso) Correspondances

 

A Ca’ de Jose

(au port)

 

Sdraiamoci nel ventre di questa cesta

d’aspra terra, dove i nostri amori

in bianco e nero dormono ancora

senza respiro, senza passare.

Lo senti l’odore del silenzio?

Esso ti ascolta. E tutto di te

scopre ed impara accovacciato,

baro nascosto

tra l’agave e il rosmarino.

Attraverso nuvole

cariche d’incognite la natura ci parla

dentro agli occhi, scrivendo il cielo

con rondini e ideogrammi.

Aiutami a impiccare ogni

singola afflizione ai fili

delle stese, educate all’inchino

duro dalla tramontana.

Riportami per mano

agli albori dei sogni di sabbia

quando respirando con lentezza il mare

ci promettemmo salsedine a vita…

 

Nella prima sezione gli amori vengono posti in rilievo con differente luce, con vario sentimento, che oscilla tra speranza di ciò che si vorrebbe che sia e quanto poi in realtà è.

Due polarità sembrano illuminarsi più d’altre: la speranza d’eternità (checché se ne dica importante ingrediente dei grandi amori) e le dilagate incomunicabilità e insincerità (checché se ne dica ingredienti base degli ex grandi amori).

Così a versi come:

 «Albero del pane [antico, miracoloso pane – p. 12], acqua pura […] vela per il viaggio/ che ha rotta nel tuo nome» (p. 10),

«Io per te sarò un oceano, un eterno/ flusso senza fine» (p. 13)

«foglio/ non ancora scritto dove tutto/ può ricominciare» (p. 22)

fanno da contraltare (conseguenza?), presagiti da un’ambigua illusione, toni ben differenti:

«Amore sconosciuto e bugiardo il nostro» (p. 18)

«Mentiremo/ per non sentirci bugiardi» (p. 19)

«E tu […]/ inganni con giaculatorie e litanie» (p. 21)

«E allora adesso/ mentimi amore, mentimi ad oltranza. Dimmi un’altra volta – t’amerò per sempre -/ dillo eternamente» (p. 23).

 

La sezione si chiude con due testi significativi, Al figlio che verrà, grandiosamente definito «il rovescio del nulla» (p. 25) e Piazza chiesa vecchia (au Port) dove, quasi riassumendo, le eco esteriori del luogo e quelle interiori si fondono.

 

Non mi è dato con certezza sapere se le due sezioni sono state composte in (o solo narrano di) stagioni diverse. Credo e spero di sì. Infatti, se nella prima sezione alcuni testi, o meglio: qualche verso in essi, risentono ancora di un lieve sbilanciamento tra intensità del vissuto e resa letteraria (sono certo che il giovane poeta artigiano, umile e appassionato, valuterebbe le imperfezioni del manufatto più interessanti delle parti riuscite) nei testi di Solitudini di piombo il verso si fa ancora più incisivo, le scelte lessicali e le figurae (usate a lampeggii, più che ad ampi panneggi) più dense e originali.

Ricordate le due serie di nomina? Quelli “liguri” e quelli “sentimentali”? Bene, ve ne offro una terza, magari più aggettivata: burrasca, tempesta, naufragi, dolore, baratro vertiginoso del rimorso, infernale abisso, campo di croci, pianti tra i denti, atroce solitudine, smisurato orrore. Questi tinte plumbee, prevalentemente repertate nella seconda sezione, mi pare aiutino a definire bene, in sintesi, il palinsesto della narrazione del poeta, tra amori - coinvolgenti, illusori, conflittuali – e la loro assenza, tradotta in una sofferta, a tratti incredula, solitudine che, negli ultimi testi Razza e Safari, raggiunge l’acme dell’amarezza, di un dolente pessimismo, dilagante fin verso i confini della stessa umana natura. Molti sono le situazioni e i testi interessanti di questo secondo gruppo. Ne scelgo uno, vivido, nel quale bene si rappresenta, inoltre, una delle metafore più affioranti ed efficaci della raccolta del giovane poeta ligure, il deserto (p. 40):

 

Non ci indurre

 

Com’è difficile mio Dio,

la prova a cui mi sottoponi

nel Sahara di questo isolamento.

Con quanti miraggi di repulsione

mi spingi a urlare, rendendomi pazzo,

e quanto sale mi metti sui nervi scoperti!

Una borraccia piena di sete mi dai,

ed è un bere crudele

alla mia gola già ulcerata.

Vuoi che liberi e mi fai catena

vuoi che lenisca e mi fai tenaglia

vuoi che punisca e mi lasci il cuore…

 

Ma tutto ciò – poi – per quale amore?

 

 

Alfredo Rienzi,

giugno 2019

 

*

- Poesia

Attraversamenti di Beppe Mariano

Attraversamenti di Beppe Mariano, Edizioni Interlinea,  2018)

 

 

Il tempo di annotare qualche osservazione sull’ultima raccolta di Beppe Mariano, Attraversamenti, ed è già diventata la penultima. Infatti è di pochi mesi fa la pubblicazione de Il Monviso e il suo rovescio che, editato da Mursia, ne eredita la novità. Questa può apparire una mera annotazione bibliografica, ma, considerato che Mariano è del 1938, ci occhieggia, inevitabilmente, un aspetto della poetica dell’autore piemontese, ovvero la facilità d’occasione, lo sguardo pacato ma vigile sul mondo, declinato nell’ampia scala delle dimensioni, tra la saggezza dilatata e gli accadimenti quotidiani, spesso utilizzati metonimicamente e con il peculiare dettato ironico e meditativo-interrogativo.

La raccolta contiene, come ci informa il sottotitolo in interno, testi scritti tra il 2011 e il 2017, quindi, a tutti gli effetti, come cospicua produzione successiva alla fondamentale antologia Il seme di un pensiero (Poesie 1964-2011), che non è stato, dunque, per citare l’Autore, esemplificandone subito l’autoironia, «come quell’altro/ il mio congedo cerimonioso» (p. 106). Mariano, che sa essere modernissimo nelle forme versali, non evita, infatti, una – serena e aspra al contempo – riflessione sul suo tempo (ad es.: «la tua vecchiezza corsara/ stride come un uccello di rupe/ a volar basso, irrasegnato:/ godrà del poco verde che rimane» (p.108). Ma, dichiarato solenne anatema a solipsismi e autoreferenzialità egoiche, la misura di questa poesia sta nella battaglia con le storture del proprio tempo o, in fondo, della natura umana sic et simpliciter. Alessandra Paganardi, in una delle più appassionate letture della raccolta che ho avuto sorte di leggere (almanacco.com del 25.4.2019) pennella: «una coscienza del proprio tempo elaborata con mezzi originali, espressa nell'assolo vigoroso, testardo e scabro di un poeta non allineato».

L’architettura della raccolta richiede una considerazione: Attraversamenti è il titolo della prima delle tre sezioni (seguono Pietrærba e Sconfinamenti) e, in questa, del primo componimento, ampio e poematico. Testo che, collocato all’inizio, avrebbe potuto risultare predominante sul resto della raccolta, sottraendo luce al prezioso seguito. Mi sono interrogato su questa scelta, certamente consapevole, dell’esperto poeta. La mia abitudine a leggere le prefazioni dopo la raccolta, mi avrebbe fornito valide risposte, già che, come sottolinea Giovanni Tesio, tutta la raccolta narra di attraversamenti(/sconfinamenti): quelli che, indossando gli abiti d’occasione di una sofferta migrazione contemporanea, e alludono a uno stato dell’essere – individuale e collettivo – con tono epico-tragico e ampiezza universale (non casuale le epigrafi, tra Sofocle e l’anonimo del XXI secolo) al tempo stesso mitico e demitizzato; quelli della propria vicenda letteraria (da cui le dediche a Conte, Barberi Squarotti, Tesio, Verdino e altri, più recenti, di cui rispettiamo il semianonimato, Giampiero C., Sergio G. ecc); quella dei propri giorni e delle passate stagioni.

Oltre al comune denominatore che, a questo punto, ben spiega (e rende convinti della bontà de) il titolo, la poetica di Mariano è, si è fatta, si dimostra profondamente omogenea, oltre le (e ben vengano!) forme variegate e larghe modalità espressive, che spaziano tra: l’andamento narrativo del testo eponimo, i contrappunti coreutici, nello stesso e in Epifania, il diffuso dettato lineare, prevalentemente organizzato in distici liberi, il misurato e funzionale ricorso al lemma colto/letterario o desueto (fessata, arrosa, spumeggia, appecorarsi, affoglia, ruinata, azzampato ecc). Si noti bene, mai oscurante o usato per mera esibizione, già che il verso «sempre mi deprime l’inespresso» (Versicolite, p.68) mi pare possa essere inteso anche come dichiarazione di poetica.

Poetica che, consolidata in decenni di mobile scrittura, ripropone almeno due dei topoi tipici di Mariano: il Monviso «che ci corre accanto», totem, cielo e anche un po’ gabbia, sfondo e centro, pietra, infanzia, passo. Uno dei testi, a mio modo di vedere, migliori, L’avanzo, riprende l’altro topos, che potrebbe apparire curioso nel contesto, l’automobile che questa volta si fa, nel suo pezzo avanzato e non ricollocabile - arcano da interrogare ogni giorno e metafora del libero arbitrio - simbolo del fallimento della aliena perfezione (?) di macchina, dell’ingegneria asfittica dell’ordine delle cose.

Con il suo consueto dettato chiaro, che sa scostarsi dal semplicismo un verso dopo che lo si sospetta tale, con la leggerezza, l’ironia, la pensosità lampeggiante entrano nella raccolta tematiche alte (filosofico-teologiche, di una teologia negativa, dice Tesio nella nota introduttiva, ma «a tanto nichilismo ci opponiamo», precisa il poeta a p. 53) e sguardi, attenti, ripetuti e interrogativi (“una seconda vista sull’orizzonte della storia”, scrive Stefano Vitale sul IlGiornalaccio.net del 30.5.2018) sull’ultimo tempo in attraversamento: quello storico di un Occidente erede delle oscurità del secolo passato, luogo di persecutori e perseguitati, di città da lasciare per rifarsi camminanti di monti, di vanità ed egoismi (come da alcuni millenni, direi), di sfiducia, di idee sconfitte, di parole balbuzienti. Ma anche quello di un’età personale, di una «vecchiezza corsara» dove fatalmente gli sconfinamenti nella memoria si fanno più frequenti, ma mai vengono resi con dimessa nostalgia o patetismi: basti leggere (incipit: «Scusate l’irriverenza») il ricordo del padre in In falegnamesco (p. 61) o Il congedo (p. 106).

Una freschezza compositiva che, pur conoscendo da tempo la scrittura poetica di Beppe Mariano, mi pare fin ravvivata in questo Attraversamenti. Mi spingo a dire: soprattutto dove gli attraversamenti, potenti e dominanti, si fanno sconfinamenti, leggeri e furtivi, ognuno dei quali in piccoli universi nei quali sostare un po’.

 

Alfredo Rienzi

Giugno 2019

*

- Poesia

Poeti in dieci righe - Luigi Di Cesare

 

Poeti (di Torino) in 10 righe - 15. Luigi DI CESARE

 

Luigi Di Cesare, artista poliedrico, è soprattutto musicista (diplomato a pieni voti al Conservatorio di Torino in Composizione, Pianoforte, Musica Corale e Direzione di Coro; ha suonato su Rai Due e Tv7), con significative esperienze come attore, regista e conduttore di spettacoli teatrali e televisivi. Direttore dell’Associazione Artistico Culturale Ippogrifo che organizza il Festival artistico-musicale Demiourgos, giunto alla XXVI Edizione. È attivo anche sul versante letterario come poeta, narratore e curatore di antologie di poesia e arti figurative. In versi, ha pubblicato nel 1989 Eroi in'fan'te allora (Point Couleur Edizioni, con prefazione di M. Centini).

 

La sua poetica, pur se sostenuta periodicamente da una riaffiorante produzione inedita, ha, al momento, testimonianza fondante nel volume Eroi in'fan'te allora. Nelle diverse sezioni della raccolta (1978-1984), l'autore utilizza - per un'esplorazione dalle forte valenza interiore - una parola ricca, tessuta in modo del tutto originale con eleganza classicheggiante, grande slancio estetizzante e risonanze musicali. Ricorrenti elementi esoterici e visionari contribuiscono, insieme a peculiari svincoli espressivi e formali, ad un'ulteriore caratterizzazione della poetica di Di Cesare.

 

 

§ § §

 

«Delle gravi, al cuore assenzio, assenze

lì per gambi sgregando 'mpolle

melens'inganni a sedar le quote

'n procace al folle.

Brennaccia addio,

niego impari, giambo,

f'urlato, stelo tra dei loro,

mefitici gambi, assenzio.

Non più quote e

l'inganno procace e melens'in folle

capovolto e ancora;

niego dai loro impari atti.

Dal buco al cosmo, giambo

vergando al grido

f'urlato al p'anno.

Ei, stelo, azzerando

chiuse assenze»

 

 da ARATRON - Elementi sparsi di Nuova Poesia e Poesia Esoterica

in Eroi in'fan'te allora (Point Couleur Ed., p. 78)

 

 

 

§ § §

 

Oscillante meccanismo temporale,

conducendo alla chiesa del paese,

ove tornare

dopo le esplosioni

e le conseguenti ascese al monte.

Così purificato, azzerato,

meditando un'altra partenza,

porgerai le spoglie al cospetto dei venti...

«Isole seguendo al mare

in corsa al fondo

pedestre riva d'ogni mancato approdo,

quando a salvarti è l'ultimo richiamo.»

 

da METROPOLI in Eroi in'fan'te allora (Point Couleur Ed., p. 113)

 

 

§ § §

 

Incanalando menti nel circuito

corre il filo lungo la dorsale atomica

al centro in integrato.

Umanoide in forma

del secolo padrone

prende le redini del gioco,

come collettore «Princeps mundi»,

mentre genti intorno in orbita,

in cerca d'una radiazione,

seminano i gas dell'alterazione fisio-psichica,

abnegando Ego, logos cosciente,

Homo, perduto baricentro...

Metropoli sommersa in acedia,

faccia del mondo,

aggrappata ad un algoritmo,

quando ancora non si è spento

l'ultimo rimpianto.

 

 

da METROPOLI in Eroi in'fan'te allora (Point Couleur Ed., p. 125)

*

- Poesia

Poeti in dieci righe - Valeria Rossella

 

Poeti (di Torino) in 10 righe - 14. Valeria ROSSELLA

 

Valeria Rossella (Torino, 1953) è poetessa e traduttrice. Esordisce nel 1981 con Spartiti per il pifferaio di Hamelin, parabole, discanti e incanti (Genesi, Premio "Opera Prima" Biella). Pubblica, in versi, altri 4 volumi, gli ultimi dei quali sono Il luminaio (Crocetti, 2003) e La città di Kitež (Aragno, 2012). È, inoltre, musicofila, pianista e traduttrice di poeti polacchi: in particolare, ha tradotto il premio Nobel Czesław Miłosz, curando un'antologia delle sue liriche (La fodera del mondo, Piazzolla, 1996) e la versione di Trattato poetico (Adelphi, 2011).

 

Poetessa appartata, dalla produzione misurata. Alla scrittura di Valeria Rossella è riconosciuta una grande attenzione e calibratura formale, in specie alla ricercata pulizia lessicale (“scrittura che tende all’esattezza, alla trasparenza, all’essenzialità”, G. Tesio; “poesia colta, ma allo stesso tempo delicata”, L. Fontanella). La sua poesia, ispirata da intima visionarietà, si è mossa nei chiaroscuri dei territori di confine, tra natura e leggenda, osservazione e introspezione, la versificazione consapevole e mobile, disargina i recinti lirico-elegiaci e della piana narratività.

 

 

Kitež

 

Apriti, porta dell’insonnia. Città

che appari rovesciata sul fondo del lago

non darmi pace nel tempo della veglia,

la tua luce latente mi sia guida.

Candele si accendono sui tigli

fra tetti e strade maculati. Vedo

aironi ed anatre svolare

da campanili e finestre, e mani frastagliate

offrire pasticcini su una tavola

stile Rinascimento. Dammi appuntamento

con creature che guizzano

dentro il tuo specchio sfigurante.

 

[…]

 

da La città di Kitež, Nino Aragno Editore, 2012

 

 

 

 

(Aiutami, Amore. Ancora questa volta.)

 

Aiutami, Amore. Ancora questa volta.

Perché la mia fronte non è immacolata

e la tua carne è luminosa

come la carne dell'Angelo

che nella lotta notturna mi ha sciancato

aiutami.

Lasciami sedere accanto a te. Offrimi

di quell'uva in cui macchiai le dita.

 

da Il luminaio, Crocetti Editore 2003

 

 

Solstizio d’inverno

In afflusso o deflusso l’acqua si chiude (acqua che illude):

un piano ellittico. Ellissi, eclissi di pianto.

Il moto retrogrado dell’incanto. Ludens.

Elusiva, allusiva neve

che refluisce tra i rami gravida di quell’altra – e tra le lame

(rilucono le forbici aperte, impervie e miti).

Neve che esclude, che occlude.

(Tra cespugli di rose e cotone emostatico).

Où sont les neiges d’antan? Feconde, incompiute.

Uova di neve. Per ricongiungersi al punto (alle punte).

Dischiude, dischioda. All’unisono, per moto contrario.

Neve ludens, luna ludens. Tangente-tagliente.

Et le ciseaux. Où sont? Uova di novilunio

novilunio ovilunio. Allunìo d’uova. E un pigolìo

di alfabeti etatete rosigmi enigmi

e le tue sillabe, dunque? “Amore mio.”

Et les ciseaux.

 

da Spartiti per il pifferaio di Hamelin, parabole, discanti e incanti (Genesi, 1981)

 

*

- Poesia

Poeti in dieci righe: Max Ponte

Poeti (di Torino) in 10 righe - 13. Max PONTE

 

Max Ponte (1977) vive e lavora a Torino, dove si è laureato in Filosofia con una tesi in Estetica. Svolge attività di ricerca presso l’Università di Parigi-Nanterre. Ha pubblicato in versi: Eyeliner (Bastogi, 2010) e 56 poesie d’amore (granchiofarfalla, 2016). Nel 2015 pubblica in ebook il saggio Potere Futurista e suoi racconti e poesie sono presenti in antologie, riviste e raccolte collettive. Curatore di mostre, programmi radiofonici, incontri poetici, poetry slam, è ideatore de L’Angelico Certame (un nuovo format di gara poetica) e di Poeticilibri, rassegna di poesia contemporanea.

 

“La poesia può essere declinata in vari modi complementari. Io stesso sono autore di poesie classiche e poesie performative, visive, sonore.” È lo stesso Max Ponte (Versante ripido, 01/2016) che ci fornisce utili coordinate per la sua poetica, altra preziosa singolarità nell’areale torinese (e non solo). Dalle densità di “allitterazioni, assonanze, polisensi [che] riescono in sagre festose” (A. Lora Totino) Ponte mesce “facondo gorgoglio linguistico” – dagli echi futuristi e visivo/sonori -  “e una più posata e ragionata folgorazione del valore significante dei singoli testi” (A. Saveriano).

 

http://www.maxponte.blogspot.it/

 

 

 

Ho bevuto la tua clorofilla

 

Ho bevuto la tua clorofilla

di fata silvestre

ho sentito il tuo collo crescere

sulle mie labbra

la lingua nel solco

chissà dove eran finite

le tue scarpe di vernice

mentre la città taceva

chissà dove si trovava

l’autobus numero 61

chissà le redazioni

dei giornali chissà

mentre tu ti muovevi

su di me e i tuoi

capelli i tuoi

capelli facevano

mentre emettevo

resina i tuoi capelli

facevano la fotosintesi

 

in 56 Poesie d’amore, granchiofarfalla, 2016, pag. 14

 

 

Ho provato a star senza di te ma poi mi appassivo

 

Ho provato a star senza di te

ma poi mi appassivo

il cielo diventava

plumbeo plumcake plastico

i giorni non sterzavano più in curva

anche il mio rapporto con i gatti

diventava difficile

mi pareva che tutto

mancasse di sostegno

gli alberi si afflosciassero

e anche le auto

le auto se ne andassero in giro stancamente

Ho provato a star senza di te

ma poi mi appassivo

non capivo la funzione della ghiaia

e continuavo sì continuavo

a pensarci senza motivo

 

in 56 Poesie d’amore, granchiofarfalla, 2016, pag. 15

 

 

 

 

Una lunga e logorroica poesia che filtra

 

Una

una lun

una lunga e

allupata poesia

livida lonza luppola

torbida trepida tumida

serpica stupida tropicana

sempre e comunque logorroica

brodaglia   stolida   ora   tracimata

sempre  da  detto  prepuzio precipizio

ora   filtra   nelle   falde   vocali  fere fino

al    centro   della   terra   infeltrita   cimicia

  a     p     i      p      o      p      u      p      e

  a     o     i      o      o      o      u      o      e

  a     e     i      e       o      e      u      e      e

  a     s     i      s       o      s       u      s      e

  a     i      i      i       o      i       u      i      e

  a     a     i      a       o      a      u      a      e

  .      .      .      .       .        .       .      .       .

  .      .      .      .       .        .       .      .       .

  .      .      .      .       .        .       .      .       .

 

 

in Offerta speciale, Numero 60, Anno XXX

*

- Poesia

Poeti in dieci righe - Loris Maria Marchetti

 Poeti (di Torino) in 10 righe - 12. Loris Maria MARCHETTI

 

Loris Maria Marchetti (Villafranca Piemonte, 1945) è poeta, narratore, critico letterario e musicale. Già responsabile della redazione del Grande Dizionario della Lingua Italiana, curatore di diverse collane di poesia. Oltre che opere in prosa e di saggistica letteraria (ultima: Muse a Torino. Figure della cultura dell'Otto e Novecento, 2013) ha pubblicato numerosi volumi e plaquettes di versi, esordendo con Il prisma e la fenice (1977). Le ire inferme (1989) e il più recente Suite delle tenebre e del mare (2016) sono alcuni degli altri titoli.

 

Prevale nella vasta e modulata narrazione di Loris Maria Marchetti la presenza di un io poetante, che osserva, ricorda, commenta e considera, non raramente con ironia o arguzia, tra divertimento, malinconia e distacco. Marchetti predilige un linguaggio scorrevole e registri sobri, sorvegliati sia quando flettono al «verso libero di impostazione colloquiale» (M. Ferrari) sia quando attinge a elementi colti e forme più tradizionali. Una voce controllata per accogliere sguardi e riflessioni ramificate sulle più svariate regioni del dicibile.

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Loris_Maria_Marchetti

 

 

Strettamente riservate, personali

(a ***)

I.

«In fondo su Dio

i preti ne sanno all’incirca

quanto ne so io.

Concedo loro il vantaggio

di studi teologici più densi

e di fede (talvolta) un po’ più intensa.

Ma fede non è conoscenza

e uno stesso mistero ci circonda.

Avessero i dotti pastori

la dolce umiltà di riflettervi

risulterebbe forse più leggera

la dura ascensione al divino » .

 

da Suite delle tenebre e del mare, puntoacapo Ed., 2016, p. 7

 

 

 

Il Tempo.

Parerga a un tema alquanto inflazionato.

 

1.

«Il Tempo è di Dio»  

proclamò don Michele

in una memorabile omelia

ai Santi Angeli Custodi, un argomento

non privo di avvincenti implicazioni.

 

2.

Certo

è che il tempo perduto o sprecato

mai più si recupera o risarcisce, sebbene

qualcuno lo abbia creduto o lo creda

possibile.

 

3.

La lotta contro il tempo, proprio in senso

quotidiano banale burocratico,

ci ritrova sconfitti quasi sempre…

Ma il tempo, lui, non ha età

e sempre siamo noi che ce ne andiamo.

 

4.

E che il Tempo si annienti fluendo

glorioso nell’Eterno è fede rastremata

e scabrosa, sempre aperta rimane

l’insondabile crepa per colui

che si accosta con rilassato viso.

 

da Regesti del Cosmo, Edizioni dell'Orso, 2011, pp. 33-34

 

 

 

Capricci di Mnemòsine

 

Si dimentica

tutto.

Ad eccezione di quanto

si vorrebbe

dimenticare.

 

da Stazioni di posta, Edizioni dell'Orso, 2007, p. 36

 

 

 

Meditazioni di Don Giovanni al tramonto

 

Prima

 

Ottobre è tradizionalmente tempo

            di visite a castelli e a ville patrizie.

E ormai la lista

            si è fatta alquanto lunga.

Come la serie delle compagne di viaggio –

            sempre diverse.

E di ciò non si sa più se vantarsi

            o malinconicamente dolersi.

 

da Le ire inferme, Edizioni dell'Orso, 1989, p. 35

*

- Poesia

poeti in dieci righe - Franco Pappalardo La Rosa

Poeti (di Torino) in 10 righe - 11. Franco PAPPALARDO LA ROSA

 

Franco Pappalardo La Rosa (Giarre, 1941), laureatosi a Torino, dove vive dal 1963, oltre alla sua attività di critico letterario (uno dei più attenti al Novecento, come dimostrano i suoi studi su Pavese, Gatto, Caproni, Erba, Cattafi Ripellino, Piccolo eccetera),  narratore e romanziere, giornalista italiano (ha collaborato alle pagine culturali Il Giornale del Sud, L'Umanità e Gazzetta del Popolo), ha all’attivo tre volumi di poesia: (Il cuore, la metropoli, 1969; Ultime dalla Còlchide, 1978 ed il recente L'orma di Sisifo - Poesie (1962-2012), 2017, già alla II edizione.

 

Nei testi de L’orma di Sisifo si riannodano i principali nuclei della poetica di Pappalardo La Rosa: con una narrazione limpida, dove lo scorrere chiaro del verso testimonia della lunga frequentazione dell’autore con la poesia del XX secolo, si rappresenta un vasto panneggio di momenti e memorie personali, tra il visivo e il riflessivo, che s’intrecciano – illuminandosi e più spesso adombrandosi - con i fondali della contemporaneità, pronunciata e collocata tra l’originario Sud e la Torino, e che riverberano echi sociali, guardando con umanità i passaggi dell’esistenza.

 

 

 

NEL GIRO DI TERRAZZE

 

Ecco adesso le prime luci dei palazzi

scintillando scintillando

sul grido dei viali brulicanti.

È lo stesso panneggio: che ti aspetti?

Forse, laggiù, sui marciapiedi, chiusi

meglio ci orienta la nozione del tempo.

 

Qui, invece, nel giro di terrazze,

solo la disarmata ostinazione resta,

il groviglio più o meno logico

da cui dipanare il filo dell’esistenza.

 

Poi, magari è una giustificazione

all’architettura dei pensieri, all’ordine

apparente delle cose, alla prettamente

animale certezza di sentirci compresi

nel nostro minimo spazio vitale.

 

Intanto, gli artigli delle nostre mani

graffiano i segni della scienza vuota

per inserirci qualche ordine primo

nell’archivio della perfetta umanità.

 

Tu, dunque, se sei senza peccato,

scaglia la prima pietra; oppure,

se mai trovasi una traccia,

gridalo forte, perché gli altri ti sentano,

perché gli altri si fermino:

perché almeno cessi laggiù

quell’assurda danza.

 

da Il cuore e la metropoli (1962-1969), in L’orma di Sisifo, Achille e La Tartaruga, 2017, p. 38

 

 

SINTESI

 

Cosa vuoi che m’importi

della linguistica strutturale?

Accorgendomi del pasticcio

di cui mi rendo complice

(la vita, certo!), non mi resta

che il silenzio, o al più sfidarlo

con catene d’atti elementari.

Per questo, quando capita, in folle

dribbling mi lancio tra i ragazzini

che nel parco giocano a pallone;

o a profitto mi metto nella piscina

olimpica a contare gli scatti

d’ogni muscolo del corpo. Ed è

una gioia ebbra, da non credere,

un recupero animale che infrange

la logica comune: l’unico mezzo

(forse) per raccapezzarci un poco,

per resistere magari alla lenta

dissolvenza che piano piano

ci cancella.

 

da Ultime dalla Còlchide, in L’orma di Sisifo, Achille e La Tartaruga, 2017, p. 76

 

 

 

RIPOSTO

 

Il vento intrecciò una ghirlanda

di anemoni e la depose ai tuoi piedi.

Egli, Mongibello, il capo di neve

scosse, terribile, in assenso, e fu

stupore di stelle la notte; incantato

poi, fino all'alba fumò la sua pipa

eterna. Era l'estate calda, arieggiava

chiare nuvole il cielo. e tu nascevi.

Al respiro dell'onda più azzurra nascevi,

terra di velieri, di paranze e di speranze,

di indomiti nocchieri giramondo.

Fu l'amore del Mostro a volerti così: con la grazia stizzosa d'una fanciulla

che gioca con la spuma del mare.

 

da Piccola suite etnea (1980-1990) in L’orma di Sisifo, Achille e La Tartaruga, 2017, p. 113

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*

- Poesia

Poeti in dieci righe: Liana De Luca

Poeti (di Torino) in 10 righe: Liana De Luca

 

Liana de Luca, (Zara, 1931), pubblicista, scrittrice e poetessa è di origine illirico-partenopea, ma vive ed opera da lungo tempo a Torino. Ha dato alle stampe, oltre a volumi di racconti, romanzi (La magnifica desolazione, 1990), saggi (tra cui Donne di carta, 1999) e numerosi libri di poesia, da VIII casa, Mursia, 1965 a La margherita della protesi, pubblicata nel 2016 da Genesi, che ha editato gran parte delle opere del periodo torinese e che nel 2000 ha curato la raccolta antologica La grata.

 

Liana De Luca è un’esploratrice che ha percorso oltre mezzo secolo di scrittura con una non comune tensione, «mescola[ndo] il comico con il tragico, l’antico con il moderno, il lezioso con il brutale» (S. Gros Pietro), con amplissimo ventaglio (pluri)linguistico, citazionale e formale, difficile da esemplificare in pochi testi. Un impegno eterogeneo che ne ha connotato, in definitiva, un profilo originale. Una parte rilevante nella opera e nella poetica è dedicata all’esplorazione dell’universo femminile, tra riflessione moderna e ironia.

 

 

 

Ascolto Werther che implora

 

Ascolto Werther che implora

«e chi potrebbe non amarti amore»

nel piccolo quadro della TV.

tamquam haec sit nostri medicina furoris.

 

Stasera il vento e la pioggia

riempiono il tuo silenzio

con un concerto di voci pure

 

Ma il lamento rinnova sensazioni

trasmesse ad un contatto delle mani

sul velluto amaranto di un teatro.

Il pleur dans mon coeur.

 

Al ritmo delle gocce sulle pietre

cadono i petali un poco appassiti.

Il pleur dans mon coeur.

 

da VIII casa, Mursia, 1965, ripubbl. ne La grata, Genesi, 2000, Pref. S. Gros Pietro, p. 76

 

 

 

 

Vagare nella ricerca

 

Vagare nella ricerca

di una anche precaria verità.

Se morire non è peccato

è peccato non vivere

il tempo destinato

con l’entusiasmo della gratitudine.

Sono più cose in terra in cielo e in mare

che i filosofi inventino

per occupare le notti insonni

esorcizzare l’ironico ghigno

al teschio di Yorich.

 

Ma può accogliere con braccia fraterne

di zolle e di radice nella pace

il posto delle ciliege.

 

da Il posto delle ciliege, Genesi, 1995, Pref. G. Conte, p. 15

 

 

 

 

STYLE

 

Lo stile è tutto: savoir faire

bon ton style (fr.) style (ingl.) styl (ted.).

 

Lo stile del portamento

lo stile del procedimento.

La classe:

controllare gesti ed emozioni

non abbondare in aggettivazioni.

Battere le mani con discrezione

seguire i modi della congiunzione.

Eleganza dell’andatura

scorrevolezza della scrittura

moderatezza dell’abbronzatura.

Musicale il timbro della voce

intonato al ritmo della frase.

Il passo regolare non veloce

le trame di vivacità pervase.

L’abbigliamento classico ispirato

alla purezza della concisione

può cedere qualche trasgressione

con un originale risultato

E per tener lontano i paparazzi

non esagerare in paratassi.

 

Diceva Buffon che le style est l’homme.

Stile di vita. Stile letterario.

L’abito fa il monaco.

Il verso è tutto.

 

da Della buona ventura, Genesi Ed., 2008, Pref. S. Gros Pietro, p. 28

 

 

 

 

 

 

*

- Poesia

Poeti in dieci righe - Gian Piero Bona

Poeti (di Torino) in 10 righe - 9. Gian Piero BONA

 

 

Gian Piero Bona (Carignano, 1926), ha all’attivo, dagli anni ’60, opere di narrativa (da Il soldato nudo, 1960, II ed. Longanesi, 1972, all’autobiografico L’amico ebreo, Ponte alle Grazie, 2016), sceneggiature televisive (da La monaca di Monza, film, 1965), teatro (Le tigri, Garzanti, 1983), traduzioni (portando per primo in Italia Il Profeta, di K. Gibran, Guanda, 1968), studi esoterici (celebre il suo Magia sperimentale. Manuale pratico, Ed. Mediterranee, 1977). In poesia ha esordito nel 1955 con I giorni delusi, (Mondadori); l’ultima sua raccolta edita è - dopo circa quindici volumi, tra cui Gli ospiti nascosti, Einaudi, 1990 - Le lontananze, Aragno, 2015.

 

In una eccellente intervista di Antonio Gnoli (La Repubblica, 20.3.2016) G.P. Bona fornisce una definizione sintomatica della sua poesia: “È vivere verticalmente ciò che gli altri di solito subiscono orizzontalmente". Il viaggio biografico in geografie classiche (Egitto, Asia Minore, Grecia) si è specchiato nel viaggio tra diverse aree, registri e sentimenti dell’espressività. Anche in poesia, dove si è mosso dalle forme d’ispirazione neoclassica de I giorni delusi, allo schietto erotismo di Canzonette priapee (ES, 2005), tra tradizione e contemporaneità, esplorazione e «contraddizione».

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Gian_Piero_Bona

 

 

 

Il guardiano

 

Catalogare mostri e ombre perenni

 in biblioteca, e con curiosità

 e trucchi brutali specchiarsi indenni

 nell’argento della creatività;

  

sfidare il notturno dei capitani

 che stracciano le pagine contenti,

 sporcando i tuoi quadrati asciugamani

 di vergine; nel cobalto dei venti

   

attirare i più segreti accostamenti

 e formare il tuo spazio, è importante.

 Un cane c’è sempre negli spaventi

  

che protegge il colpevole e le gare

 da eroe. In casa il guardiano è importante

 per un’opera nuova da rifare.

 

da Sonetti maestosi e sentimentali, Scheiwiller - All’insegna del pesce d’oro, 1983

 

 

 

 

 

* * *

  

Per caso, se un mattino all’alba

 puoi figurarti il cielo a scala

 tutto abitato da sapienti mondi,

 e nel giardino udire piante

 che riflettono o pietre sul sentiero

 intelligenti o spiriti che insegnano

 nell’aula di una selva, allora

 lasciati pur prendere per pazzo e

 gètta giù i tuoi libri da una rupe

 

 da Gli ospiti nascosti, Einaudi, 1989

 

  

  

* * *

 

 Nelle mutande del mare è una porpora:

 il cazzo è una tortora,

 è un mollusco che ci pende

 con grande coraggio

 La vita carnale è un ermetico saggio.

 O rosa (rosa

 virile s'intende)

 fra le gambe ti portiamo

 da secoli. Ma per cosa,

 o fantastica rosa?

 

da Canzonette priapee, ES, 2005

 

*

- Poesia

Poeti in dieci righe: Giorgio Bārberi Squarotti

Poeti (di Torino) in 10 righe - 8. Giorgio BARBERI SQUAROTTI

 

vedi aggiornamento su

https://alfredorienzi.wordpress.com/2021/01/07/poeti-di-torino-in-dieci-righe-giorgio-barberi-squarotti/

 

 

 

Giorgio Bárberi Squarotti (Torino, 1929), laureatosi con G. Getto all’Università di Torino,  dove è stato Professore ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea, dal 1967 al 1999; noto per l'intensa e importante opera critica, ha dedicato attenzione anche alla letteratura contemporanea, tra rigore accademico e passione militante. Imponente anche la sua produzione poetica, con una ventina di raccolte, da La voce roca, Scheiwiller, 1960, fino al recente Le ancelle della regina Mab, Nuovi fermenti, 2016.

La definizione, ricorrente, di «anche poeta», se da un lato rimarca la preminente attività di critico, tra i maggiori italiani contemporanei, non deve sminuirne la vastissima opera poetica, che ritengo meriterà presto maggiori e più sistematici studi di quelli finora ricevuti. Fin dagli esordi, in tempi di sperimentalismo, la sua scrittura si è sempre connotata per la grande attenzione formale, i rimandi colti, l’illuminante creazione di folgoranti figure, quali le fanciulle nude, proustiane jeunes filles en fleur, vestali di Storia, Verità e Natura.

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Giorgio_B%C3%A0rberi_Squarotti

http://www.treccani.it/enciclopedia/giorgio-barberi-squarotti/

https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2007/11/01/poesie-giorgio-barberi-squarotti/

 

 

Gli oleandri

 

Le tre ragazze brune in corsa sulla spiaggia

verso la linea immobile del mare

alternamente verde e grigio sotto il rapido

passaggio degli stracci delle nuvole

buie di una tempesta che non è giunta fino a questo giorno

di luglio, l’acqua si richiude sopra

i corpi scuri, sull’aureola nera dei capelli,

un vento lento cancella poco a poco

le orme sulla sabbia, e forse che

una traccia vi sarebbe restata più profonda

se qui Venere fosse nata dalle spume

delle onde, o se ci fosse stato un candido palazzo

di re o il fuoco rosso sulle torri vinte

di Ilio, più alto fu forse il suono di quei popoli

antichi o i baci che si scambiavano i ragazzi

in un angolo quieto della scena

di un giorno di vacanza, al mare: risalirono

ridendo il pendio dolce della spiaggia,

un po’ scotendo l’acqua dai capelli,

un po’ tremando per il filo freddo

d’aria, nell’ora del crepuscolo,

gente passava cantando per le strade,

e auto e un amaro odore di oleandri,

e la storia che è già oltre, in un altro tempo

e in n altro luogo

 

Varigotti, 12 luglio 1985

 

da In un altro regno, Genesi, 1990, p. 43

 

 

 

L’origine del vento

 

Da dove viene il vento? Ma che importa

se da occidente, portando luci d’alba

e viaggi di nuvole istoriate

con le figure degli dei del mare

che benedicono i sudditi nudi

fra i picchi e le pianure e i rami d’aria,

o da oriente: la ragazza si fumo

sinuosa, lieve, danza oltre la cima

del campanile fiammeggiante, oltre

la voce cavernosa che ne esala

come un rantolo d’agonia o di coito;

l’angoscia è per dove andrà a morire

con l’ultimo sospiro tenebroso,

nel fresco sogno d’alberi o d’un fiume

mosso appena da brividi che scorrono

verso chi sa che oceano di pace,

o in un vuoto spiazzo: qualche palma

secca, una bugainvillea viola

appesa al nulla di se stessa, due ragazzi

si torturano, poi i capelli biondi

avvolgono lunghissimi i due corpi,

li nascondono all’ultimo sussulto

molle, un fiato così debole che ormai

non arriva a scoprire, per un attimo

almeno, l’aspra smorfia dei due volti,

se mai sia noia o il trionfo della conquistata

conoscenza del tutto.

 

Alghero-Roma, 23 luglio 1994

 

da Dal fondo del tempio, Genesi, 1999, p. 78

 

 

Quadro

 

La donna opima lievemente dorata

è distesa nell'erba luminosa

e lieve, appena scossa da un astratto

vento e celeste, tutta nuda, esposta

sinceramente, il viso mite, un poco

per pudore arrossato, gli occhi volti

in basso, come per guardarsi il corpo

per il dolce imbarazzo e anche per l'ansia

che non ci fossero esigui segni

sulla pelle perfetta: una o due gocce

di rugiada, il rapidissimo velo

di una minima foglia o il filo d'aria

turbata: intorno, per accompagnarla

con l'armonia illuminata, i colli

appena sollevati come il pube

pur rilevato e le mammelle colme,

il taglio sfumato al di là degli alberi

leggeri, verso l'annuncio immaginabile

di una morbida valle e serenata,

tre nuvole nel cielo, sul punto, rosse

come sono nella luce, di sciogliersi

o allontanarsi per lasciare libero

del tutto lo splendore maturato

della donna nella pienezza breve.

 

Venezia, 12 dicembre 2002

 

da Le Langhe e i sogni, Joker Ed. 2003, Pref. F. Pappalardo La Rosa, p. 64

*

- Poesia

Poeti in dieci righe: Andrea Laiolo

Poeti (di Torino) in 10 righe - 7. Andrea LAIOLO

 

Andrea Laiolo, poeta, saggista, drammaturgo (Asti, 1971) vive a Torino. In poesia ha pubblicato, con le Ed. dell’Orso: Punctus contra punctum, (2004), I sedici soffi del martello (2007) e L'avvento della perfetta pantera (2009); con Joker L'aranceto nel marmo. Misuratezza e ludicizia. (2011); con Achille & La Tartaruga: La neve blu ( 2012) e La città della festa-icona senese (2016). La sua prima opera teatrale, scritta con D. Lessio, Le intronate, parlate per giullara sola, risale al 2008 (Joker).

 

Andrea è solo un rappresentante dell’antica tradizione” scriveva in una proprio nota biobibliografica Laiolo alcuni anni fa. Nel perimetro della sua poetica, che ha utilizzato diversi registri espressivi (lirico, satirico e burlesco, elegiaco, erotico-amoroso) il riferimento alla tradizione, è un punto fermo. Da qui, rigorosa e vigorosa la sua parola poetica, contro ogni trasandatezza formale, opera per ri-costruire o mantenere, con l’attenzione umile del cronista, la dicibilità del mondo.

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Andrea_Laiolo

 

 

 

Intermezzo di Jacopo della Quercia

II.

 

La linea

dell’Acca Larenzia

la trovai

in una ragazza del popolo,

nella sua morbida muscolatura

tornita dai molti carichi d’acqua

che certo ebbe a portare.

 

Eppure, non la sentivo ragazza:

con le spalle di sole,

i polpacci luminosi di calore

e i piedi nudi

sul terreno di polvere riarsa,

il suo corpo già aveva

solidità di madre –

 

e questa linea

già fecondata

io misi nella pietra –

la gioventù materna

io sperai la potesse riudire

in se stessa

l’inerte materia

che m’indugiavo a scolpire.

 

da Punctus contra punctum, Ed. dell’Orso, 2004, p. 49.

 

 

 

L’avvento della perfetta pantera

 

“[…] pantheram quam sequimur adinvenimus”

De vulgari eloquentia, I, XVI

 

I.

Se di te sola il mio canto donneava

di tre città si univa la distanza

in una rosa per la cui fragranza

intorno a te ogni senso si adunava.

Eri di vaghi antenati a Pistoia

misterioso sentore;

eri a Siena la timida gioia

delle madonne, eri il loro colore;

eri, celeste luoia,

nella tua Senigallia luna e albore.

 

Sei nell’eterno respiro del mondo:

sono eterno io nel tuo respiro.

Nel duomo gotico trova ritiro

l’anima vittoriosa nel profondo

del corpo e della cattedrale al cielo

come preghiera sale:

così tu sei tenuta dentro il velo

dell’atmosfera elevata e astrale

che specchia in te lo zelo

con cui si mostra ad ogni essere immortale.

 […]

 

da L'avvento della perfetta pantera, Ed. dell’Orso, 2009, p. 54.

 

 

UNA SOSTA D'ACQUA

Prima serie

II.

 

Discendo in te come nel marmo bianco:

e tutto è alto, lucente, terso incanto;

cingo l’ampia liscézza del tuo fianco

e mi vesto del tuo abbagliante manto.

 

Dal ventre delle montagne discende

la tua bianchezza: montagne che sórte

sono dal mare: il marmo le fende

unendole a sé nella bianca córte.

 

L’abbagliante chiarezza delle cime

risplende sull’argentea massa d’onde:

un frutto portentoso già s’imprime

dove l’acqua alla roccia si confonde.

 

Compenetrandoci fino al silenzio

l’onda risana la veglia turbata.

Dalla statura intatta ora licenzio

quanta follia tra noi si era posata.

 

da L’aranceto nel marmo. Misuratezza e ludicizia., Joker, 2011, p. 18.

 

*

- Poesia

Poeti in dieci righe: Riccardo Olivieri

Poeti (di Torino) in 10 righe - 6. Riccardo OLIVIERI

  

Riccardo Olivieri (San Remo, 1969) è laureato in Economia, ha lavorato in Piemonte, Lussemburgo e America Latina; vive dal 2000 a Torino, dove lavora come ricercatore di marketing. Ha pubblicato, in poesia, raccolta Diario di Knokke (Nuova Compagnia Ed., 2001, pref. di D. Rondoni), Il risultato d’azienda, (Passigli, 2006, pref. di S. Verdino), Il disgelo (Raffaelli, 2008), Difesa dei sensibili (Passigli, 2012, pref. di D. Rondoni, con nota finale di M. Morasso). Di prossima pubblicazione con Passigli: A quale ritmo, per quale regnante.

  

La poesia di Olivieri ha mantenuto, nelle varie tappe della sua opera, sempre una felice misura tra colloquialità e sospensione. “Intimo e civile come Vittorio Sereni” (che ne è stato il primo e ne è il più forte riferimento), diceva Stefano Verdino nella prefazione a Il risultato d’azienda. E questa sua dimensione si è confermata nelle raccolte successive, dove una parola accorata e limpida, ma non passiva, si cala in una quotidianità dai larghi confini, resa con sensibilità ed assoluta sincerità.

 

  

 

(Il lupo è un animale fedele)

  

Il lupo è un animale fedele,

capace di guaìre notti intatte e inascoltate

                                                ma convinto,

soffrire certo – anche per amore -

dilaniare carni in causa e piangere durante,

respirare l'aria fatta sangue

            e non prendere più sonno.

Il lupo sente tutto il polmone nella corsa,

il terreno prendere l'appoggio sulle belle zampe,

il ventre atterrarsi aggioiato sul cumulo di neve

                        e tra il fiato attendere compagni.

Il lupo è un animale sociale – lo si sa – ma

niente peggio di quei documentari sopra i lupi

fatti di leggi distinzioni regole del branco; un lupo è

                                                                       altro:

 silenzio, amore, zampe.

  

da Diario di Knokke, Ed. La Nuova Agape, 2001 -

  

 

 

 

che è così, ti ho vista verticale)

 

è che è così, ti ho vista verticale tra le case,

nella stanza, dal basso,

            irradiare

seduta col tuo cioccolatino nudo,

piena di caffè tra i liquidi

che ti fanno viva

zitta per l'ambra degli occhi

che rende falso ogni parlare,

 

a me accucciato tra i volumi

hai detto

            Era impossibile

            quadrare il sogno,

e adesso guarda

  

io sono stato

davanti al vetro dell'amore,

tutto avuto per quei raggi dal basso,

                                               un minuto.

è che è così essere vivi.

 

da Il risultato d’azienda, Passigli, 2006

 

  

 

(Per fortuna che vi amo...)

 per Alberto, appena arrivato

e Roberta, appena andata

  

Per fortuna che vi amo, delicata

mia estensione a l’universo,

vi amo - in questa maestosa stanza al freddo;

vi amo al telefono con le sterpaglie umane,

vi amo mentre stringo i pugni,

nella (mai) sacra prosecuzione

                                               della prosa,

vi amo nella costruzione della casa,

mentre non metto i fiori ai morti,

nella volontà sicura che Roberta

lo vede;

vi amo se ho un biglietto di treno in tasca,

a quarant’anni riscrivendo il curriculum vi amo

- voi - netta consapevolezza del mio sguardo.

 

da Difesa dei sensibili, Passigli, 2012.

 

*

- Poesia

Poeti in dieci righe: Stefano Vitale

Poeti (di Torino) in 10 righe - 5. Stefano VITALE

 

Stefano Vitale (1958), vive e lavora a Torino. Giornalista pubblicista e cultore di musica, conduce laboratori e corsi di scrittura creativa e ricerca poetica. Esordisce  in poesia con Double Face (Ed. Palais d’Hiver, 2003). Tra i volumi più recenti: Le stagioni dell’istante (Joker, 2005), La traversata della notte (Joker, 2007), Il retro delle cose (Puntoacapo, 2012, pref. di G. Sica), Angeli (illustrato da A. Bollati, a cura di P. Gribaudo, Disegnodiverso, 2013), rappresentato in uno spettacolo di teatro-danza a Torino (2014). In imminente uscita, per La Vita Felice: La saggezza degli ubriachi.

 

La «scrittura sorvegliata, mai strepitante, l'attenzione alla forma, il dialogo con la tradizione» (U. Fiori) hanno sempre consentito a Stefano Vitale una resa ottimale della sua intima, ma feroce, intensa ed inesausta indagine sul mondo, sulle cose, sulla vicenda umana. Lo sguardo e i sensi, mai disgiunti dalla lucida riflessione e da una pensosa rielaborazione, hanno saputo abbracciare, nella sua ormai ampia opera, scenari mobili, al centro dei quali, è fondamento il serio impegno per una parola profonda e dalla significazione solida.

 

 

 

(Cade la sera)

 

Cade la sera

e noi cadiamo ai piedi della sera

pregando di non cadere

di restare lontana

affresco oscuro del ricordo

avvolta in un lenzuolo di luce

che ci accechi e ci riscaldi

stupidamente illusi

dal chiarore del nostro Nulla

in equilibrio sull’attesa di questo filo teso

così desiderato e così dimenticato

sfuggire al destino, incrociare le braccia

dinnanzi a quel che deve venire

perché la sera è dura e l’oscurità

apre il nostro occhio oltre la miniera di noi stessi

ora più trasparenti e lucidi in uno specchio

scuro e puro, senza più ombre

oltre il limite della lama grigia del giorno

questa è la sera

spietata coi suoi passi sicuri

una botola senza fondo

che spinge e ci costringe a girare in tondo

a reinventare il giorno

fino a quando il muto tiene.

 

da Il retro delle cose, Puntoacapo, 2012, p. 68

 

 

 

(L’Angelo è un mago)

 

L’Angelo è un mago

enigmatico apparire e scomaprire

sia pure con ali inutili

nell’illusione otticomentale

del sogno resistente salidiscensionale

tra cielo e terra:

ora è qui, ora è altrove

in un gioco

guerriero e salvatore

giudice e difensore

guida e punitore

diavolo all’occasione

eterno travestimento

maschera della transizione da uno stato all’altro

chimica del bisogno secondo il protocollo

tra incenso e zolfo

colomba dalle ali di corvo

serpente dalle scaglie d’oro

che ora svanisce

oltre il sipario della storia

tra gli applausi del pubblico

incantato.

 

da Angeli, a cura di Paola Gribaudo, Disegnodiverso, 2013, p. 21

 

 

 

(Tirar fuori dalla selva del tempo)

 

Tirar fuori dalla selva del tempo

una parola certa e precisa

che ci rassomigli una volta per tutte

per dare un senso

al silenzioso scrutarsi delle cose:

è questa l’incrollabile speranza

che ci porta al fine di ogni arte.

Ma una pioggia fitta

di chiodi e lame cade

vivere è un glaciale vagare

attorno a mucchi di catrame.

Così il respiro oscilla e nel nostro smarrimento

appare la chiara imperfezione dell’ombra

nella sera che stringe la gola del giorno.

Lui sì che sta per morire

senza rimpianto, senza alcuno sciocco incanto.

 

da La saggezza degli ubriachi, La Vita Felice, 2017 (in corso di stampa)

 

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- Poesia

Poeti in dieci righe: Carlo Molinaro

Poeti (di Torino) in 10 righe - 4. Carlo MOLINARO

 

Carlo Molinaro (Vercelli, 1953), vive e lavora a Torino. Premio Montale con Poesie, in Sei poeti del Premio Montale (Scheiwiller, 1986). In versi, tra l’esordio con La parola vacante (1982) e l’ultimo L’effimera commedia (Miraggi, 2016), ha pubblicato più di 15 raccolte, tra cui Tenui chiose al tempo (1992), Quaranta frammenti per Monica (1997),  Entro incerti limiti (2002), Sospeso sogno (2003), l’antologico La parola rinvenuta (2006), Una città (2010), Rinfusi (2011),  Le cose stesse (2013), Nel settimo anno (2016).

Racchiudere in poche righe la sua poetica è impossibile:  tanto vale, allora, forzare la sintesi e dire semplicemente che racconta la vita. Molinaro osserva  l’amore, la società, se stesso, la quotidianità e lo fa pensando poesia, prima di scriverla. Una sincerità totale in cui l’io narrante, sempre in prima persona, e la parola sono tutt’uno. L’ultima raccolta L’effimera commedia, edito da Miraggi nella collana non a caso chiamata Voci, testimonia la vigile sensibilità della sua poetica, che ora adotta forme più discorsive, senza perdere l’innata fluidità del verso.

 https://carlomolinaro.net/

https://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Molinaro

 

 

 

LA PAROLA PERDUTA

 

Ho perso una parola, scivolata

dalla memoria dentro il buio avido

che in densi gorghi ghermisce le cose

non messe sul bloc-notes nel momento

quando si può. Non tornerà mai più,

è inutile che provi a ripercorrere

la giornata o la vita. Tante cose

passano accanto e non le afferro. Pure

è maggiore la pena se un dettaglio

(minore, minimo, già trascurabile)

mosso nel paesaggio mi fa intendere

che per un soffio ho mancato l’aggancio

e quasi (quasi!) so che cosa ho perso:

una parola. Forse era la chiave

di tutto o forse, più probabilmente,

un aggettivo inutile. Il fastidio

è, nei due casi, uguale.

 

da Allo sbocco del vortice, Joker, 1996,

ristampata in La parola rinvenuta, Genesi, 2006, pag. 287

 

 

 

LA NEVE DI ADESSO

 

ne viene giù di neve

in questo mezzo marzo

è neve un po’ molle

neve sporca di città

che presto si scioglie

 

ma non ho voglia di ricordare

le nevicate dell’infanzia

forse erano più bianche

forse è l tempo passato

che lava più bianco

 

c’è un fattore decisivo

per preferire

questa neve di adesso

 

nella neve dell’infanzia

e della adolescenza

e della giovinezza

m’aggiravo da solo

turbinando nei fiocchi

i miei sogni impazziti

 

volevo nevicasse per sempre

seppellisse me e il mondo

ma la neve smetteva

com’è naturale

e restavo deluso

 

in questa neve invece

fra poco

prenderò un bus

per venire da te

 

salirò le scale

e nel quieto della camera

fra i mobili di legno

guardandoci

ascoltando il respiro

neanche m’accorgerò

di quando smetterà.

 

da L’effimera commedia, Miraggi Ed., 2016, p. 34

 

 

 

 

IL SECOLO

 

 

Non riesco – scusatemi, o

non scusatemi – a interessarmi al secolo,

alle sue esigenze, ai suoi gusti,

alle sue sensibilità. Il mio lettore

è fra mille anni o mille anni fa

 – incidentalmente può essere oggi,

incidentalmente – sono molto presuntuoso,

lo so – scusatemi, o

non scusatemi – ma è il minimo,

mi sembra, per fare poesia:

farei altro, se no.

 

Poi – dico prevenendo un’obiezione –

scrivo moltissimo

di cose del mio secolo, ma

è per strappargliele via:

è perché, nel mio modo, le amo

disperatissimamente

e come un buono cavaliere antico

le devo – da sé stesse – salvare.

 

(da https://carlomolinaro.net/, 2016)

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- Poesia

Appunti su Fragilitā del silenzio di Daniela Monreale

Alcuni appunti su Dire silenzio in Fragilità del silenzio di Daniela Monreale, Joker Ed., 2016

 

Il silenzio, sublime/ sintesi delle tre vie, è potere/ esclusivo degli déi.

A.R., da Antinomie, in Simmetrie, 2000.

 

 

 

 

 

«Resti tu, silenzio puro/ contro le inutili farse/ le sterili divagazioni/

di chi confonde l’oro/ con la patina triste/ del risorio».

 

A fronte di questi emblematici versi di Daniela Monreale (nella prima sezione, Dire silenzio, del volume, a pag. 19), il lettore potrà interrogarsi sulle motivazioni che spingono l’Autrice a rischiare la voce, la caduta dalla fune in equilibrio tra parola e «silenzio», key word dell’opera, sostegno sia del titolo della silloge che di quello della raccolta, nonché oggetto dei preziosissimi commenti di Armando Saveriano nella Postfazione (talmente esaustiva e precisa che è arduo aggiungere altro),  il quale proprio nell’evidenza della componente di fragilità ne identifica «la provvisorietà, la labilità, l’effimero». 

Cosa sostiene, quindi, la poetessa nel suo violare questo spazio rarefatto del non detto,  con la lieve tenacia del dialogo con un “tu” tanto presente quanto indefinito, «sia con il sé più profondo quanto con l’altro» (S. Montalto, nel risvolto di copertina)? Cosa opporre, nel recinto delle possibilità umane, a questa condizione pura? Daniela Monreale lo esprime con la chiarezza del suo dettato, dove lo scarto tra il movente e l’esito è minimo e consente al lettore un’adesione diretta e intima con la fonte del pensiero e del sentimento, senza dispersioni interpretative e decodificative che vadano oltre la suggestione di misurate immagini.

Una scelta pura e fragile, preziosa e “sognata” come quella del silenzio, può essere temporaneamente valicata solo da qualcosa di altrettanto elevato: «ogni pagina quotidiana/ si tingerà di sacro/ nel cono di luce/ appena necessaria» (p. 31), nel «libro che scrivo e ancora scrivo/ [«come tessuto dorato», p. 29]  quando la notte non c’è nessuno/ a soffiarmi cenere e fango» (p. 17). Sin dal testo d’apertura ammette, lucidamente: «Questo so fare e volere, scrivere come fosse/ l’ultima sillaba della mia avventura» (p.7).

Forte e inequivocabile, a fronte della «sete di verità», dell’anelito ad una «vita non posticcia,/ colma di fresca luce» (p. 9), è l’avversione - resa con voce chiara, diretta, intimamente convinta e convincente – per «la finta vita [che] procede […]/ tra retorica, gabbie e indifferenza»,  per la «finzione oscura/ che le cose/ non descrive, ma le trascina»,  per «la lunga indifferenza che seppellisce le domande», per  «l’autentico [che] digrada nell’effimero». Lo scarto tra la condizione autentica, sia essa frutto dell’indomabile parola sia del fragile silenzio, e quella effimera, eliottianamente svuotata, si dissemina di ferite («i malumori», «l’indifferenza e l’assenza», «la disperata attesa»,  «il dolore», «le paure», «la noia» e l’«insonnia») accolte a stillare amaramente, ma pronte alla speranza di una dimensione cardiaca ed altra, quella del «terzo occhio,/ quello intuisce stelle, quello che sa/ nuovamente cantare» (p. 22).

 

 

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- Poesia

Poeti in dieci righe - Daniele Gigli

Poeti (di Torino) in 10 righe - 3. Daniele GIGLI

 

Daniele Gigli è nato a Torino nel 1978, lavora come archivista documentalista e consulente di comunicazione. Studioso e amante di T.S. Eliot, ne ha curato alcune traduzioni, tra cui quelle di The Hollow Men (2010) e Ash-Wednesday. Ha pubblicato le plaquette Fisiognomica (2003) e Presenze (2008) ed il volume di versi Fuoco unanime (Raffaelli, 2015 – Joker, 2016), con postfazione di Francesco Napoli. Scrive di poesia e filosofia su «Il sussidiario», «Biblioteca di via Senato» e «Studi cattolici».

In Fuoco unanime, di fatto la sua opera prima, Gigli mostra una poetica già, come suol dirsi, matura e definita: una visione elevata, sacrale e religiosa della vita e della poesia viene sostenuta da una “lingua dura e tagliente [che] si muove secondo una meditazione concentrica e sempre più alta” (A. Rivali) e dalla forte tensione morale della parola, vero strumento per «ricostruire dopo la sfacelo». Lo stile e l’architettura dei versi, delle sillogi e della raccolta, sono attentamente sorvegliati, eleganti e vivi.

 

 

Tre testi da Fuoco unanime, I ed. Raffaelli, 2015, II ed. Joker, 2016

 

CIVILTÀ DEL FUOCO

 

Un monumento, dice Wystan,

 al primo che dimentico del pranzo illuminò la pietra.

 E chi dopo di lui rubò l’idea, chi con il fuoco non illuminò ma arse,

 a quelli che consumano la vita a fuoco basso,

 a loro quali grida, quali danze di vendetta?

  

 

 

FUOCO UNANIME

 1.

 

 L’urlo delle cornacchie squarcia l’aria.

 Sul piano d’orizzonte, tra i palazzi,

 all’ora in cui s’attardano i pensieri e sfumano parole nei racconti di giornata

 – diafane e imprensili, non catturanti –

 piega la poca luce verso sera.

  

Convergono

 dal prima all’ora, ciascuno dal suo carcere,

 nell’ora d’aria che riscatta il tempo,

 nel tempo che consuma, tesi ad afferrarlo, a farne brama.

 Tracce di fango umido sotto le suole, si fermano alla soglia

 immemori, ciascuno fisso al proprio punto,

 attesi al corpo della polvere, votati alla schermaglia, al fremito

             dei gomiti sul tavolo.

 

 

 

 ALYSCAMPS

 4.

 

«Chi passa il delta muore».

 Uomini che s’alzano nell’alba, verde

 l’alba, verde la speranza. I nomi

 tornano alle facce, alle attese di giornata,

 dove riaffiora l’opera interrotta.

 I nomi

 tornano e le forme, i fili dell’intreccio

 sparsi si ricuciono, s’intessono nel ritmo ignoto

 del disegno, nell’ordine di pieno e vuoto, fioriscono

 le immagini, la trama esborda dall’ordito.

  

Tempo confuso e in pena,

 tempo fermo, tempo senza fine.

  

«Avremo un corpo luminoso un giorno?»

 Si innalzano preghiere dalle case,

 dai borghi che inchiodarono le assi.

 «Un giorno, un giorno»

 chiedono pietà e memoria

 – loro estinti, loro vinti –

 pietà e memoria mentre passa,

 mentre si dissolve questa gloria,

 questo mondo.

  

 

 

 

*

- Poesia

Poeti in dieci righe: Franco Trinchero

Poeti (di Torino) in 10 righe - 2. Franco TRINCHERO

 

 

Franco Trinchero è nato ad Acqui Terme nel 1957, vive a Moncalieri, dopo aver risieduto dal 1962 al 2019 a Torino. Esempio di studioso raffinato,  schivo ed appartato, ha pubblicato in versi Vetrofanie inquiete (Menna, 1985), Palinsesto d’amore (1999) e, dopo un lungo silenzio, nel 2014, Verbali d’infrazione (Matisklo Ed., poi, con lievi varianti, Campanotto, 2021). Nel 1999 gli è stato assegnato il Premio Montale per la silloge Nel cerchio stretto di Elpís in Sette poeti del Premio Montale (Crocetti, 2000).Verso la metà degli anni ’90 fonda e dirige per alcuni anni la casa editrice Anaphora.

La sua narrazione accoglie ventagli lessicali ampli e compositi, talora arcaicizzanti e desueti, con consapevoli scarti di registro. Poesia “inquietante” (M.L. Spaziani), ricca di stratificazioni artistiche e letterarie, di innesti filosofici, che esplora la fenomenologia del kaos, proprio e del mondo (ctonio e cosmico), avanza su tracce di un’autobiografia transustanziata, solca geografie reali e interiori, labirinti psicoerotici, spesso abitati da «figure femminili […] ora favolose, ora fin troppo carnali» (G. Barberi Squarotti).

 

 

STIMMUNG

 

«coscienzioso, la barba un poco luci-

ferina, lo psichiatra fiorentino

redige, rimembrando i suoi trent’anni

tra carceri goyesche, «Beziehungswahn»

scrive (da Kretschmer, citato da Ey),

gli scrivo che, per contro, una Wahnstimmung

increpò i miei giorni, ma parecchi

anni addietro, l’ottantaquattro

d’interminati ascolti del Concerto

opera cinquantaquattro, e del Manfred

nelle notti; l’ottantadue

della fuga a Bolzano naufragata

in panico e visioni di tregenda,

l’ottantacinque dei muri parlanti,

piazza Castello raggiunta correndo

la notte che il bar Blu era rifugio

urente di neon, un atollo

emerso dai vapori a confortare

col primo caffè la giornata di croce,

questo scrivo all’incirca

sperando che mi legga nella casa

décadente dove fui, in Firenze,

con lontana una taverna d’oltrarno,

il pane sciapo, l’affresco sopra il desco

con Beatrice vestuta di verde

e Dante nel suo gesto oltre la croce,

non so se suoi o miei gli occhi abbagliati»

(Torino, 2009)

 

da Verbali d’infrazione, Matisklo Ed., 2014, p. 18

 

  

 

ESCATOLOGIA DEL CANE

 

Il cane che correndo fulminava

coi latrati chiunque l’incrociasse,

quante vite vantava al suo attivo?

Era forse la timida crisalide

di un àtropo nell’infanzia del sole,

o magari il pavone meditante

l’inutile sua specie, ma divina

perché in eterno specula e conclama

la gloria d’ogni sorte; o ancòra

il nummulite che concorse poi

alla gran mole pietrosa, e quindi

traversò i climi e le arie più varie

e diventò fiera e cicogna e gatto,

ed aspidistra e rosa, e topazio;

ed i suoi morsi, ora, non richiamano

la rabbia di un’assenza di radici

che non siano la stella un po’ sinistra

del dolore?

O forse non fu proprio nulla

nel suo tragitto precipite, né

sarà altro che nulla, e codesto

nulla sarà dio, che infinita-

mente si avvicina al suo fine

 

da Nel cerchio stretto di Elpís in Sette poeti del Premio Montale, Crocetti, 2000

 

 

LE STOVIGLIE DEL FUOCO

 

un po’ di labor intus, ma Sanguineti

nella cólta esplosione

è (era?) a modo suo troppo orfico e

c’è da economizzare nella cartografia,

le scelte s’impappìnano ai confini:

tra l’oceano di Dio e il niente

leopardiano qualche tertium strilla

la sua modesta indagine, la sua

inavvertita detumescenza:

magro lucìgnolo, un po’ storto e sibilante,

intenerisce,

povera cosa che siamo, che Lui è:

come fosse un cuscino, si stende sulla frase

(spiegazzando la gonna) e l’accarezza, e geme,

anche, “pietà della strana appendice”

-          il fuoco fruga, un tranquillo banchetto

senza forbiti accessorî, col sangue

rigirato da una bianca volontà

fatta a legni secchi discontinui, che non ha peso e fini

tra le righe sulla torrida, sulla mai lirica

infinitezza guarnita di strappi

che chiamano esistenza

 

da Opere d’inchiostro 1991-1995, Ed. Scriptorium, a cura dell’Osservatorio giovanile di poesia della Città di Torino, 1995.

 

 

 

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- Poesia

Poeti in dieci righe: Mario Marchisio

Poeti (di Torino) in 10 righe - 1. Mario MARCHISIO

 

Mario Marchisio (Torino, 1953), laureato in Giurisprudenza ed in Scienze Religiose, ha all’attivo anche opere di narrativa, saggistica (letteraria, pittorico, filosofica, teologica). A sua cura: Vittorio Alfieri, Antologia poetica, (Fabbri Ed., 1998). La sua opera poetica, dall’esordio con Phantasmata (1991), è raccolta nei volumi: Versi giocosi e satirici (Joker, 1999); Il viandante. Poesie d’amore (ivi,  2003), La falena sulla palpebra. Poesie gotiche, Mimesis, 2008; Tre giornate. Poesie edite e inedite (Aurora Boreale, 2013).

La poesia di Marchisio si caratterizza per “la primazia e la sovranità alla causa formale”, realizzata con un verso elegante e classicheggiante, colto e limpido. Le tematiche peculiari nel corso degli anni si sono condensate – anche a livello bibliografico - in tre filoni: lirico-amoroso, gotico-visionario e ironico-satirico.  Marchisio raggiunge esiti di rara originalità sia in ognuno di questi tre ambiti, sia, soprattutto, nell’opera complessiva, tra la visionarietà – verticale o abissale – e il contrappeso satirico, sempre arguto ed irridente Eros e Thanatos.

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Mario Marchisio

http://mariomarchisio.blogspot.it/

 

 

 

RIME BACIATE PER UNA DONNA INNAMORATA

MA OSTILE A QUALSIVOGLIA ABLUZIONE

 

I.

Quel miasma oltre la porta si effondesse…

Vedremmo impallidire orchi ed orchesse!

 

II.

L’ho detto ieri, lo ripeto ancora:

Tu tanfi, mia adorabile Signora.

 

III.

Tienlo a mente: “Bacco tabacco e Venere

(Se san di lercio) volgon l’uomo in cenere!”

 

da Pattumiere & Cornamuse, in Versi giocosi e satirici, Joker Ed., 1999, pag. 62

 

 

 

 

(FORSE TI CHIEDERAI PERCHE' IO ESITI A BACIARE)

 

Forse ti chiederai perché io esiti a baciare

La neve intatta delle tue mani o i tuoi occhi verdi,

Acqua marina che il cielo estivo si sforza invano

Di eguagliare, o il tuo sorriso come uno scrigno

Traboccante dei suoi rubini, geloso delle sue perle.

Guardami: sono il viandante che da lontano ravvisa

Le bianche mura della patria perduta

E ritrovata, benedice la polvere e la fatica

Del lungo cammino e con un sussulto che quasi sembra

Fermargli il cuore, va ripetendo i nomi di coloro che ama,

E mentre il mattino a poco a poco illumina

Il volo dei passeri tra i rami tiepidi dei tigli,

Confessa alla sua anima che se fu bello vagabondare

Nessuna cosa è più angelica e dolce di questo ritorno.

 

da Alla bella silenziosa,  in Il viandante, Joker Ed., 2003, pag. 69

 

 

 

COMMIATO

 

Lasciatemi nel fango, la mia patria

È questo frutto amaro di polvere ed acqua.

Ma il vortice d’acqua aggiunge sete alla sete:

Ma polvere, confusa, che al mutare delle stagioni

S’inerpica nel vento, mi parla sottovoce

Di nuove culle e di nuove bare

Che ogni volta sembrano più simili.

Ma i vermi del mondo la mia carne han divorato.

Ma gli avvoltoi del mondo mi privarono dell’anima.

Ma esiste l’amore, lasciatemi al fango.

 

da Liturgie, in La falena sulla palpebra. Poesie Gotiche, Mimesis, 2008, p. 13