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Raccolta di articoli di Grazia Procino
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Letteratura

Edipo a Colono, la tragedia sulla morte

La tragedia sofoclea sarà in scena al teatro greco di Siracusa nella stagione 2018.

 

Sofocle è assai vecchio quando scrive la  tragedia Edipo a Colono, che sarà rappresentata postuma dal nipote Sofocle il giovane. Il tema della morte in quel momento della sua esistenza è reale, non solo letterario e il sobborgo di Atene, la candida Colono, dove Sofocle nacque, diventa il luogo della morte misteriosa di Edipo, l’uomo per antonomasia, che il tragediografo vegliardo riprende dopo parecchi anni dalle vicende raccontate nell’ Edipo re.

Edipo, sfinito, vecchio e cieco, accompagnato dalla figlia Antigone, giunge al bosco sacro delle Eumenidi a Colono. E’ un oracolo che  ha predetto a Edipo il luogo e le modalità della sua fine terrena. Nonostante il parere avverso dei cittadini, il re Teseo concede ospitalità all’esule. L’arrivo dell’altra figlia Ismene porta novità drammatiche sui figli maschi, Eteocle e Polinice, che combattono per il potere su Tebe; secondo l’oracolo, avrà la meglio chi di loro due otterrà l’appoggio paterno. Giunge Creonte, il cognato di Edipo, per convincerlo a ritornare nella sua città; al rifiuto deciso del cieco, cattura le sue figlie, che sono liberate grazie all’intervento di Teseo. Polinice, il figlio maggiore di Edipo che è stato scacciato da suo fratello da Tebe, giunge per chiedere al padre il suo sostegno. Edipo lo maledice, accusandolo di non averlo aiutato e sorretto nel momento del bisogno. Polinice va via ed Edipo, intuendo il momento della sua fine, segnalato da folgori e tuoni, si avvia nel luogo in cui avviene la morte, a cui solo Teseo, dopo aver ricevuto i segreti di lunga vita per Atene, assiste.

L’Edipo di questa tragedia è il pallido riflesso dell’ uomo determinato, che è diventato re di Tebe, marito e padre grazie alle sue capacità. Ora è giunto al termine dei suoi giorni, ha bisogno dell’aiuto di sua figlia per vivere e dell’ospitalità di una città ancora sconosciuta. È però deciso a rompere tutti i suoi legami con la sua città e i suoi abitanti, perfino con i suoi figli, responsabili del mancato accudimento di un padre vecchio e malato. Vive un tempo estraneo  alla corsa affannosa verso il potere, che invece caratterizza Creonte e Polinice; la sua è una dimensione protesa verso l’interiorità, la profondità religiosa e la tensione verso la morte con il suo mistero impenetrabile.

<<O tu, Edipo, perché indugiamo ad andare?Già da tempo tu ritardi>>

Sofocle si prepara a morire attraverso Edipo, familiarizza con la necessità della morte ( compiendo i riti di purificazione e sciogliendosi le vesti), eleva un’elegia struggente e accorata alla morte, e assistiamo noi tutti non solo in differita alla conclusione della vita del protagonista, ma anche a quella del suo autore. C’è un’altra elegia nella tragedia, è contenuta nel primo stasimo, quando il Coro canta la meravigliosa lode alla terra di Colono, dove è nato e ha trascorso l’infanzia Sofocle.

A questa contrada dai bei cavalli, ospite,

giungesti, la migliore dimora della terra,

la candida Colono,

dove soave canta il suo lamento

dalle verdi forre

l’usignolo senza posa,

vivendo tra l’edera cupa

e l’inaccessibile selva

del dio dai frutti innumerevoli,

riparata dal sole e dal vento

di ogni tempesta, che in eterno

Dioniso nelle sue orge percorre

insieme con le sue divine nutrici.

C’è un usignolo a sorvegliare il bosco sacro alle Eumenidi, lo ha sentito e visto Antigone nel prologo, chiamata dal padre a descrivere il luogo in cui sono giunti; anche il Coro ne evidenzia il dolce lamento. L’usignolo è legato al regno dell’Oltretomba dal mito di Filomela e Procne, le due sorelle trasformate in rondine e usignolo; nel coro due fiori, legati alla dea Persefone, sono presenti, il narciso e il croco. Il bosco sacro è allusione al regno dell’Ade, come acutamente individua Fabrizio Coscia nel suo ultimo libro “La bellezza che resta”.

L’unico a contenere in sé il mistero della sparizione di Edipo è il re Teseo, che non può rivelarlo, ha ricevuto il contraccambio dei favori offerti al vecchio straniero e se ne va, rispettando i giuramenti fatti.

Il terzo stasimo sembra scritto dal poeta del pessimismo, Giacomo Leopardi:

Non essere nati è condizione

che tutte supera; ma poi, una volta apparsi,

tornare al più presto colà donde si venne,

è certo il secondo bene.

Sofocle conclude la sua avventura terrena e artistica con la tragedia più alta dal punto di vista religioso di tutta la letteratura greca. Un vero e proprio  canto al mistero della morte.

 

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- Letteratura

Eracle, l’imprevedibile follia

 

Vecchi, misera cosa è la vita: il massimo bene che può donarti consiste nel passare dal giorno alla notte senza patire dolori.

La tragedia di Euripide, Eracle, databile tra il 423 e il 416 a. C., mostra l’eroe più grande della mitologia greca e del mondo dorico, in particolare, travolto dalla follia devastante. La fragilità dell’essere uomo è al centro dell’indagine psicologica di un Euripide, il più curioso tra i tragici greci dei meccanismi della mente e della psiche. Il tragediografo nel corso della sua carriera tende a rappresentare le versioni meno note del mito e a riscriverlo secondo nuovi intenti e significati, come succede per l’Elettra e le Fenicie.

Mentre Eracle è lontano da Tebe, impegnato a portare il cane Cerbero dall’Ade, il tiranno Lico si è impadronito del potere regale ( dopo aver ucciso il re Creonte, padre di Megara, la moglie di Eracle)  e intende eliminare i tre figli di Eracle, per evitare che, una volta divenuti adulti, vendichino il nonno materno. La famiglia dell’eroe, abbandonata da tutti, si è rifugiata presso l’altare di Zeus e si prepara alla necessità della morte, quando imprevedibilmente arriva Eracle, che tutti pensavano non sarebbe ritornato dall’Ade. Informato dei fatti, l’eroe uccide Lico.

In un attimo il dio ha ribaltato la sorte

di un uomo felice,

in un attimo i figli moriranno

sotto i colpi del padre.

 

L’eroe non è in grado di godere la serenità raggiunta a prezzo di fatica e sacrificio, perché Era, per pura vendetta, invia Lyssa, il demone della follia, a turbare la mente di Eracle, che ammazza, pensando siano i familiari dell’odiato Euristeo, la moglie e i figli. Solo l’intervento di Pallade impedisce l’uccisione di Anfitrione, colpendo Eracle con un macigno e un sonno profondo. Quando Eracle rinsavisce, si ritrova legato e davanti a sé la strage da lui compiuta: il sangue della moglie e dei figli che copiosamente dilaga. All’eroe crolla il suo mondo, per di più è stato lui il responsabile.

Il progetto di suicidarsi viene ostacolato dall’amico Teseo, giunto da Atene per soccorrere i parenti in difficoltà di Eracle. Alla vista dei corpi senza vita uccisi dall’amico, Teseo rimane prima sbigottito, poi prevale in lui la grande riconoscenza verso l’eroe per essere stato tratto in salvo dal regno dei morti. Teseo offre all’amico l’ospitalità presso la città di Atene e, dopo aver impartito ad Anfitrione l’ordine di seppellire i suoi cari, Eracle si incammina dietro Teseo “ come una  nave trascinata a rimorchio”.

 

Ho riscontrato nelle voci dei bambini che dialogano con la madre Megara, chiedendo notizie del proprio padre, un unicum nella tragedia classica, preludio alla letteratura ellenistica, assai vicina alla sensibilità infantile.

Fin dal prologo, affidato al padre di Eracle, serpeggia il tema della follia, scatenata dalla gelosia di Era per il tradimento di Zeus con Alcmena, la madre dell’eroe. La gloria e l’aura che avvolgono Eracle, l’eroe benefattore degli uomini, sono azzerate dall’incontenibile follia, che senza ragione spinge Eracle ad ammazzare i suoi cari. L’eroe grandioso, potentissimo è chiamato a vivere anche la parte più improponibile, fallibile, assurda e piccola di sé. E’ nel momento del dolore più devastante che Eracle si ritrova solo, fragile, abbandonato anche dagli dei, in balia di un destino, davanti a cui è costretto a soggiacere. Secondo la logica aristocratica, l’eroe deve morire per l’atto vergognoso che ha compiuto, e, in un primo momento, Eracle pensa vigorosamente al suicidio, come Aiace nella tragedia sofoclea. Poi, l’arrivo di Teseo sulla scena con la sua carica di solidarietà induce Eracle alla riflessione pacata:

Ho riflettuto: mi taccerebbero di viltà, se rinunziassi a vivere.

Chi non tiene testa alle sventure,

non saprebbe affrontare un nemico in armi.

Sopporterò di vivere.

La riduzione dell’eroe in una dimensione quotidiana si realizza nella volontà di Eracle a sopportare la vergogna commessa, ad accettare anche le zone oscure della propria psiche. Occorre maggiore viltà ad ammazzarsi che a continuare a vivere: una nuova logica eroica viene elaborata da Eracle che impara a convivere con il dolore, che strazia mente e corpo. La fuga da Tebe è di salvezza, Eracle abbandona il luogo che fino a quel momento lo ha accolto per andare incontro a un nuovo se stesso, che rinascerà in quell’Atene luminosa, in grado di purificare e di accogliere gli sbandati, gli infelici, i reietti.

Questa tragedia andrà in scena al teatro greco di Siracusa nel 2018; “Tiranno, eroe, governo: ascesa e declino”: eroe e antieroe, governatore e tiranno, spesso due facce della stessa persona, prestigio e potere che molte volte finiscono per ritorcersi tragicamente contro chi li detiene o rendono coloro che li possiedono dei fantocci ridicoli, seppur a loro insaputa. Sono questi i temi attorno ai quali il commissario della Fondazione Inda Pier Francesco Pinelli e il direttore artistico Roberto Andò, insieme a Luciano Canfora, hanno disegnato la stagione 2018 del Festival delle rappresentazioni classiche al teatro greco di Siracusa.

 

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- Libri

Il doppio volto delle Maldive

Francesca Borri è una giornalista di guerra, esperta del Medio Oriente, dove lavora come specialista dei diritti umani. Vive tra Siria e Iraq, occupandosi dei profughi. Alle Maldive, 1192 isole, ci va perché è il paese musulmano non arabo con il più alto numero pro capite di foreign fighters,vuole capire cosa determini questo incredibile dato. Le scoperte contenute nel reportage “Ma quale paradiso?” annullano i luoghi comuni su una terra che è forte attrazione turistica internazionale. Io mi addentro nel viaggio della Borri riportando eclatanti conoscenze e deduzioni. Alle Maldive il 5 per cento della popolazione possiede il 95 per cento della ricchezza. Dal turismo entrano circa 3,5 miliardi di dollari l’anno, ma è tutto di proprietà di quattro, cinque affaristi, vicini ai politici, e dei loro soci stranieri; è un sistema solido e alla popolazione maldiviana non arriva nulla.  I giovani vivono di espedienti in gang malavitose, tossicodipendenti di eroina e colla, in case fatiscenti e maleodoranti, senza alcuno svago  tipico della loro età, ecco perché andare a combattere in Siria contro Assad è considerata una grossa opportunità morale ed economica. Significa dare una direzione, un senso alla propria vita disastrata e storta, controllata dallo Stato. Nelle Maldive non è possibile manifestare dissenso nei confronti dei governanti o dichiarare di essere atei, perché l’Islam è la religione di Stato, solo i musulmani possono essere cittadini delle Maldive. Non si può avere un’altra religione né non averne.

Quando si pensa alle Maldive si ha subito l’immagine di un Paese con magnifiche risorse naturali e paesaggistiche, resort stupendi immersi in luoghi paradisiaci, con il clima di trenta gradi, che è costante per tutto l’anno: questo è il volto propagandato in tutto il mondo. Nella realtà le risorse esistenti sono distribuite male, pochissimi ricchi e moltissimi poveri senza più alcuna identità: non hanno più le abitudini culturali indigene ed  hanno acquisito dell’Occidente solo le brutture e i vizi. Anche l’Islam di attuale osservanza non è quello delle Maldive di un tempo, ma quello imposto dall’Arabia Saudita, il Paese che finanzia scuole, ospedali, moschee, giornali. Le donne devono coprirsi totalmente di nero in pubblico, anche sulla spiaggia, asservite ai maschi della famiglia e all’Islam.

Dal 2013 il presidente delle Maldive è Yameen, in teoria nelle Maldive vige la democrazia, nella realtà il potere è nelle mani degli affaristi ricchissimi, ai quali fa comodo che la maggioranza della popolazione sia povera, ignorante e vada a combattere in Siria. Dunque, la povertà ha ragioni politiche precise. I giovani vanno in Siria in cerca di un lavoro e di una identità.  L’alcool, il divertimento, fare sesso fuori dal matrimonio sono proibiti, ma nei fine settimana chi può permetterselo va in Sri Lanka e dimentica di essere un vero musulmano; l’ipocrisia, la doppia facciata imperano. Chi si ribella al sistema, del quale sono compresi anche i giudici, è aggredito, malmenato, percosso ed eliminato, come è successo a Rilwan, un blogger laico, di cui non si sa più nulla dal 2014, volutamente, perché nessuno ha mai indagato.

Le Maldive dei maldiviani sono completamente diverse da quelle dei turisti stranieri, sono Male, la capitale, dove ci sono solo cemento e violenza. Nessuno si può permettere di occuparsi di politica o di Islam, tutti hanno paura, esclusi dalla società  desiderano avere una vita diversa, anche morire è preferibile a ciò che sono costretti a vivere: ingiustizie e violenza. Anche un bambino può comprendere le motivazioni che spingono i giovani senza un lavoro, con un presente precario e senza futuro a volersi arruolare in Siria. Che le Maldive e non solo i giovani maldiviani siano senza futuro lo si evince dalle previsioni Onu, secondo cui il mare alla fine di questo secolo salirà di 59 centimetri e sommergerà interamente le isole. Quindi, tutti alle Maldive perderanno tutto. Un popolo dal destino  segnato, una terra che non esisterà più, sono allo sbando completo.

 

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- Letteratura

Agamennone di Eschilo, un doppio delitto in famiglia

C’è un antico detto tra i mortali, che la felicità di un uomo, giunta a compimento e divenuta grande, genera figli e non muore senza prole, ma dalla buona sorte germoglia per la stirpe dolore insaziabile. Diversamente dagli altri, io ho un pensiero mio. È l’opera empia che ne genera un’altra più grande dopo di sé, simile alla sua stirpe. Dalle case rette nella giustizia proviene una sorte ricca di bella prole sempre.

È il coro dell’Agamennone a pronunciare queste parole che spezzano la consuetudine atavica secondo cui dalla felicità discende la disgrazia; invece, è la cattiveria a generare altra cattiveria, dagli esempi giusti deriva sempre  benessere.

La trilogia eschilea dell’Orestea, composta da Agamennone, Coefore ed Eumenidi, fu rappresentata nel 458 a. C. riportando il primo premio agli agoni drammatici.

Il prologo è affidato alla guardia che da un anno di notte sul tetto argivo per volere di Clitemnestra, la moglie di Agamennone la donna maschio nei suoi voleri,è in osservazione del segnale luminoso che annunci la caduta di Ilio e la fine della guerra.

L’attesa della guardia finisce al brillare del segnale di fuoco, che subitamente è annunciato alla sua padrona, la quale ordina di celebrare sacrifici agli dei per tutta la città di Argo. Il coro, composto dai vecchi argivi, teme che qualcosa di funesto si avveri, non invidiando la sorte di un uomo famoso e vincente come Agamennone

Molto gravoso è l’aver fama oltre misura: ché il fulmine è scagliato dagli occhi di Zeus. Io preferisco una felicità che non susciti odio: possa io non essere distruttore di città né vedere io stesso la mia vita in balia di altri.

L’arrivo di un messaggero con il capo adorno di rami d’ulivo che annuncia l’arrivo del re Agamennone dopo dieci anni di lontananza fuga ogni dubbio circa l’attendibilità delle notizie propagatisi.

Clitemnestra riceve con finta benevolenza il messaggero che riferisca al marito di affrettarsi per poter riabbracciare la più fedele delle mogli. Il coro è il portavoce della materia etica e ideologica del tragediografo Eschilo e sostiene che gli dei sono padroni del destino di salvezza o di distruzione delle stirpi umane così come la stirpe di Priamo  è corresponsabile della colpa di Paride, perché diede il suo assenso all’unione adultera tra Elena e Paride.

All’arrivo di Agamennone che segna il ritorno favorevole di un eroe reduce dalla guerra contro Ilio, Clitemnestra illustra quale dolorosa esistenza abbia vissuto durante l’assenza del marito, tormentata da notizie allarmanti e contrastanti tanto che avrebbe tentato più volte di impiccarsi. La donna ha dovuto caricarsi del ruolo anche di padre per il proprio figlio Oreste e assumere decisioni gravose.

Per manifestare la propria gioia nell’accogliere il marito Clitemnestra prepara tappeti di porpora e ad Agamennone che le dice di onorarlo come un uomo, non come un dio, la donna obietta con abili argomentazioni che convincono definitivamente il re. Anche la schiava, assegnatagli come bottino di guerra, la troiana Cassandra è benevolmente accolta, ma la principessa ha ricevuto dal dio Apollo il dono di vaticinare e la punizione di non essere mai creduta per aver tradito la sua promessa di unirsi a lui.

La profetessa Cassandra in preda ad allucinazioni violente espone con un linguaggio enigmatico e metaforico quello che si sta compiendo all’interno della casa ad opera di Clitemnestra, una femmina assassina di un maschio

tiene lontano il toro dalla giovenca. Lo afferra per il mantello con i raggiri del nero corno e lo colpisce: egli cade nella vasca colma di acqua:io ti sto raccontando la sorte di un bagno che uccide con inganno

E predice non solo la propria morte, ma prospetta la vendetta di Oreste che è rappresentata nella seconda tragedia della trilogia, le Coefore.

Quando Clitemnestra ritorna sulla scena racconta i dettagli dell’assassinio, che ha ristabilito equilibrio e giustizia nella relazione tra i due coniugi

gli ho avvolto, rete inestricabile, come di pesci, la sciagurata pompa di una veste, e due volte lo colpisco, e mentre è a terra gli aggiungo un terzo colpo.

Clitemnestra ha macchinato il delitto per vendicare il sacrificio di sua figlia Ifigenia e il suo amante Egisto, figlio di Tieste, l’ha aiutata per punire  Agamennone di un antico delitto compiuto dal padre ai danni del suo proprio genitore.

È Clitemnestra, personaggio semplicemente maestoso, dotato di un carisma magnetico, la vera protagonista della tragedia, che campeggia sulla scena determinando gli eventi, assumendo funzioni proprie del genere maschile, riportando al termine della tragedia l’ordine in ogni cosa,sempre in grado di controllare le situazioni. Come tutti i personaggi di Eschilo è dominata da un unico sentimento, la vendetta, e non c’è posto per il tormento o per il dubbio, tutto in lei è chiaro, deciso e ordinato. Gli altri personaggi maschili fungono da deboli e sussidiarie figure al suo scopo, che indirizza i suoi atteggiamenti e comportamenti.

 

Nell’edizione del centenario a Siracusa è stata la straordinaria Elisabetta Pozzi, attrice che a cuore il mito greco a interpretare il personaggio di Clitemnestra nelle prime due tragedie dell’Orestea. Nella stagione teatrale dl 2016/2017 la produzione mastodontica messa su dal regista napoletano Luca De Fusco è stata ospitata dai più importanti teatri italiani, riscuotendo un vivo successo.

Gli elementi visionari, tipici del teatro eschileo, sono evidenti nel personaggio di Cassandra, che rende reali i propri fantasmi e ossessioni irrazionali per evitare la pazzia. Le pieghe oscure e indecifrabili della psiche umana sono traslate su un piano oggettivo per offrire agli spettatori del V secolo a. C. uno spettacolo visivamente potente. Giacché il teatro, dal verbo theaomai, è soprattutto osservare, il primo tragediografo greco crea situazioni e scene capaci di avvincere gli sguardi degli spettatori come il cromatismo dei tappeti di porpora che rimandano al sangue di Agamennone.

Il linguaggio fortemente metaforico gioca con gli enigmi delle profezie inascoltate di Cassandra, con gli elementi animali che alludono agli attori principali della tragedia, impregnata ancora delle immagini omeriche inerenti alla sfera naturale e a una visione ancestrale dell’esistenza.

Diversamente dall’Odissea in cui è Egisto ad ammazzare Agamennone, pur essendo stato avvertito da Ermes, Eschilo riscrive il mito, la materia a cui attingono i tragici, sviscerando nell’arco ampio di tre tragedie la saga che parte dalla vendetta e si conclude con l’espiazione nelle Eumenidi, in un percorso che include il superamento della faida del clan in direzione dell’applicazione del diritto. L’Orestea è la rappresentazione drammaturgica del delicato percorso culturale e civile che conduce alla nascita del diritto tramite l’instaurazione dell’Areopago, il tribunale ateniese che giudicava i delitti tra consanguinei.

Eschilo attraverso il coro sostiene che si impara attraverso la sofferenza, non c’è superamento ed espiazione che non implichi l’attraversamento del dolore e della prova, questo è il concetto che la saggezza arcaica veicola in una delle tragedie più magneticamente visionarie della letteratura greca.

 

 

 

 

 

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- Letteratura

Torniamo alla tragedia greca più antica, l’eco di Eschilo

 

 

 

 

Sono ritornata alla più antica tragedia conservata della tradizione occidentale: I Persiani di Eschilo. Ne ho interrogato il senso e ho scoperto che i versi solenni e altisonanti vibrano di risposte mai definitive e concludenti, ma stimolanti a offrire nuovi dubbi e interrogativi, come ogni vero “classico” fa. È la capacità di noi contemporanei di porre le domande giuste che fa la differenza rispetto ai testi che rimangono “muti” alle nostre inquiete interrogazioni. Il testo con cui ho nuovamente voluto intessere un dialogo, far vivere dentro di me per lasciar riecheggiare un’eco ampia e lunga per risonanza, riprende il tema storico delle Fenicie di Frinico, quello della battaglia navale di Salamina. Eschilo scrive un dramma che costituisce un’eccezione alle convenzioni di un teatro, in cui solo il mito era soggetto di tragedia.

Il coro è costituito da vecchi persiani che sono rimasti a Susa, non potendo, per ragioni di età, seguire il re Serse nella campagna militare contro i Greci. La Persia è rimasta priva di giovani uomini, costretti ad appoggiare le ambizioni sfrenate del sovrano, mal consigliato e solleticato nella sua intima vanità di conquistare la Grecia e abbattere Atene.

La regina Atossa, madre di Serse e moglie del compianto re Dario, è oppressa da angoscia inspiegabile e da sogni perturbatori. Il coro le consiglia di evocare dall’Ade l’ombra del defunto marito, non prima di averle spiegato il sistema di governo greco:

<<Di nessun uomo sono schiavi né sudditi>>.

La contrapposizione tra la libertà dei Greci e l’oppressione tirannica dei Persiani è sottolineata dal tragediografo nell’ottica di uno scontro che vede da una parte  i Greci combattere per la difesa della propria libertà e dignità, dall’altra i Persiani seguire il proprio re, posseduto dal demone accecante dell’ambizione.

L’arrivo del messaggero, che è stato presente ai fatti, come prova sicura della loro veridicità, sconvolge l’atmosfera già attraversata da oscuri presagi: è avvenuta a Salamina una battaglia nella quale i Persiani, deboli in mare, sono stati sconfitti duramente. Moltissimi i cadaveri sulle rive e Serse, che ha assistito alla sciagura, si mostra sofferente e disperato:

<< Serse gemette vedendo la profondità delle sciagure: stava infatti in un luogo che dominava tutta l’armata, un alto colle vicino alla distesa marina; stracciatosi le vesti e gettato un alto grido, dà frettolosamente ordini alla fanteria e la slancia in fuga disordinata>>.

Serse ritorna a Susa, ma è stremato per l’umiliazione della sconfitta.

Eschilo guarda alla guerra attraverso lo sguardo degli sconfitti, a una distanza equa tra la sua appartenenza greca e la sua visione di poeta, attratto dalla fragilità umana e dall’instabilità della fortuna. Serse paga i suoi errori e conduce un popolo al disastro e se pensiamo alla Storia non è stato l’unico a farlo; Eschilo non lo deride, non lo offende, individua, invece, i suoi punti di debolezza: l’ambizione non contenuta, la tracotanza che non gli fa accettare i limiti imposti dalla sua natura d’uomo. Serse si comporta da dio, ma è un uomo; giusta, quindi, la sua punizione, perché “ chi è mortale non deve superbamente pensare”, ingiusto il dramma che coinvolge un intero popolo, innocente e in balia di sconsiderati progetti. Il padre Dario è un re che non dimentica mai di essere un mortale, custode di un sagace equilibrio e di un attenta osservanza delle leggi umane e divine.

I Persiani sono una tragedia collettiva, il cui apice narrativo ed emotivo è il racconto del messaggero: in 80 versi tesi e fortemente evocativi Eschilo mette in scena l’andamento vivace della battaglia, le decisioni strategicamente sbagliate di Serse, le conseguenze disastrose, le perdite di uomini e la distruzione delle ricchezze persiane. Nella nuova messa in scena all’Arena di Parma ( 5-6 luglio in prima nazionale) il regista Andrea Chiodi ricorda che Eschilo volle ammonire gli Ateniesi dopo otto anni dalla battaglia di Salamina sulle ombre della guerra del Peloponneso, che si addensavano sull’età di Pericle. A interpretare la regina Atossa la sempre straordinaria Elisabetta Pozzi, tenace ricercatrice delle parole eterne deposte nel teatro greco. Con la nuova rappresentazione della tragedia eschilea si ripropone la rivincita di un genere, che non smette mai di essere il contenitore prismatico di storie e miti, fecondatore di innumerevoli altre suggestioni.