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Raccolta di articoli di Annalisa Scialpi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Letteratura

L’archetipo: sulla traccia dell’anima

 

     Parlare di anima, oggi, è urgente. Perché la fretta, i modelli del mercato, la ‘sana competizione’ osannata dagli stessi modelli, la povertà delle relazioni ridotte a meri ‘contratti di scambio’ o le relazioni cariche di sofferenza contribuiscono a creare una ‘perdita d’anima’. La perdita parziale d’anima si collega a numerosi squilibri in termini di blocchi energetici che la persona avverte come dolore, sofferenza, incapacità di dare un senso alla propria vita, stasi, depressione. Ma esiste una definizione di anima? L’anima possiamo intenderla, sia in una prospettiva non religiosa, che religiosa come ‘il centro’ della persona umana, che le permette di vivere in maniera significativa, gioiosa, piena, la sua esperienza vitale. E che, soprattutto, permette la sua esperienza vitale di manifestazione nel mondo, rendendo congruo, sensato, il suo cammino.

    Non c’è bisogno di sfogliare i giornali e di ripetere le solite, agghiaccianti percentuali di donne assassinate per rendersi conto che di anima, oggi, si sente un disperato bisogno. Una delle immagini più poetiche per rappresentare l’anima è data dal simbolo della farfalla. Essa rappresenta non solo lo schiudersi del bozzo, ma anche e soprattutto la trasformazione o la metamorfosi. La parola ‘metamorfosi’ richiama le potenzialità stessa dell’anima, la capacità di auto curarsi e guarirsi per ‘schiudere le ali’ in tutti i colori che la rappresentano perché, come una farfalla, possa trovare la leggerezza che la caratterizza. Il cammino dell’anima è,  dunque, un cammino di vita-morte- rinascita – vita, in una ciclicità continua che continuamente si crea e distrugge, ma solo per ricrearsi in altre forme.

   Che c’entra l’anima con l’archetipo? Molto, dal momento che, per Jung l’anima rappresenta un archetipo, cioè un’idea innata, appartenente all’inconscio collettivo, cioè alla memoria del genere umano. Sono un prototipo delle idee che sperimenta come sistema di interpretazione di ciò che è vissuto. Gli archetipi, però, non sono immutabili, ma condizionati dalla cultura. La riflessione sull’archetipo promuove quel processo o meglio, percorso di consapevolezza di sé, che rende autonomi nelle proprie scelte e che permette, inoltre, di slatentizzare gli archetipi ‘nascosti’. L’integrità della donna, ma anche della persona umana, sta infatti nella possibilità di interpretare i vari ‘ruoli’ o le varie dee che ci ‘dominano’ in quanto energie universali che interagiscono con la nostra psiche. Si dice infatti che stringere alleanza con gli dei significa favorire se stessi, ostacolarli si ritorce contro di noi.

Annalisa Scialpi

 

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- Pedagogia

Il sentimento d’amore nella coppia contemporanea

 

 

      La società italiana rileva, negli aspetti connessi all’incremento degli episodi di separazioni e di divorzi che, attestati dall’Istat nel 1995 in percentuale di 158 separazioni e 80 divorzi per ogni mille matrimoni sono giunti, nel 2011, a sfiorare la percentuale di 311 separazioni e 182 divorzi, una mancanza di consapevolezza riguardo al sentimento d’amore ed al modo in cui viverlo nella dinamica di coppia e familiare.

      Il professor Antonio Mercurio, psicoanalista, partendo da una disamina delle dinamiche coniugali e di coppia sulla scorta degli insegnamenti e delle suggestioni aperte da Eric Fromm nel celebre testo “L’arte di amare”, afferma che negli episodi di crisi coniugali che giungono fino alla separazione e al divorzio, gioca un ruolo determinante l’errata concezione del sentimento d’amore.

     A questo fraintendimento fa inoltre da cornice ‘sbiadita’ la debolezza dei riferimenti antropologico-religiosi, dovuti alla caduta delle ‘grandi narrazioni’ ideologiche nella seconda metà del secolo scorso e all’indebolimento del sentimento religioso dovuto ai progressi sempre più rapidi della tecno-scienza e del pensare ‘pragmatico-materialistico’ che ne deriva. La fine delle grandi narrazioni, rappresentate dalle ideologie politiche, coincide con la frantumazione dell’universo simbolico che, unito ai progressi del mondo tecnologico, intaccherà sempre più le radici della tradizione rappresentate dall’umanesimo cristiano, innalzando quello che Jean Guitton[1] definisce un preoccupante ‘silenzio sull’essenziale’[i].

      Ne consegue che il mondo simbolico, fisico e relazionale che costituisce il tessuto sociale, non educa all’amore. Le famiglie, luoghi per eccellenza per i processi di personificazione-identificazione e, cioè, di strutturazione di identità armoniche ed integrate, aperte al contesto e flessibili, rivelano difficoltà e incapacità di mantenere alte tensioni ideali che ne costituiscono il tessuto vocazionale.

     L’identità si acquisisce, infatti, attraverso dinamiche di riconoscimento che riguardano, in primo luogo le figure familiari nelle interazioni primarie, successivamente estese agli altri contesti di interazione sociale. E’ possibile marcare, pertanto, sulla base di una teoria del riconoscimento[2] il ruolo centrale di adeguate relazioni primarie che favoriscano i processi d’integrazione affettiva e di personificazioni-identificazioni con le figure genitoriali, al fine di elaborare il ‘modello’ dell’altro, riconosciuto e amato. L’amore che il bambino riceve o non riceve sarà, in sintesi, la misura di quello che saprà donare, della capacità o incapacità di costruire relazioni appaganti e durature.

    La difficoltà delle coppie e delle famiglie ad esprimere i compiti alti che le competono è chiara nell’analisi di uno più autorevoli studiosi della famiglia, il sociologo Pierpaolo Donati che, riferendosi alla famiglia attraverso un concetto elaborato dalla cibernetica, la definisce ’ autopoietica’. La famiglia autopoietica o, parafrasando, ‘che si crea da sé’, è un sistema chiuso al suo interno, con propri codici comunicativi e di valore, sganciati dal contesto socioculturale o che ne rappresentano, in maniera problematica, una netta contrapposizione. La famiglia autopoietica può venire a trovarsi, così, anche in posizioni devianti rispetto a valori ed orientamenti condivisi. Essa inoltre, paradossalmente e proprio in relazione alla sua tendenza oppositiva e talvolta deviante, può risultare massimamente esposta alle lusinghe e ai ‘valori’ proposti dalla nostra società individualistica e di consumo, con la conseguenza di un livellamento massimo su di essi.

      Inquadrare il fenomeno solo da una prospettiva relativa alle responsabilità personali di chi forma una relazione di coppia o familiare è, però, riduttivo considerato che, negli interessi attuali della politica, di famiglia si è parlato e si parla soltanto nei termini di ‘poteri d’acquisto’. Irrisorie, quasi inesistenti, le politiche familiari a sostegno della coppia, della formazione alla relazione e alla genitorialità. Silenzio anche su tutte quelle situazioni ‘a limite’, comprendenti disagi economici, disoccupazione, marginalità, alle quali sono state date risposte blande, provvisorie, nella maggior parte dei casi inesistenti.

         Crescere in una famiglia autopoietica per scelta o perché lasciata ai margini di scelte politiche orientate piuttosto alla religione del consumo, non può che produrre assoggettamento a concezioni di ‘amore’ e ‘sentimento’ presi in prestito da una certa letteratura di consumo o da modelli cinematografici che esaltano la dimensione spontanea e istintiva del sentimento d’amore, spesso confuso col legame simbiotico. Non è da escludere che, su queste concezioni, si innesti poi, nella pratica della relazione, quello che lo psicologo Daniel Goleman definisce ‘analfabetismo affettivo’ e cioè incapacità di riconoscere le emozioni e di vivere sentimenti profondi. Una unione di coppia instaurata sulla base di tali premesse non può che rivelarsi fragile, precaria o produrre, al suo interno, sofferenze di tutti i suoi membri, dovute a una cattiva qualità della comunicazione, limitata al lato pragmatico dell’interazione e che esclude, per conseguenza, tutte le dimensioni dell’essere personale .Nell’incapacità, dunque, del legame di coppia o familiare a porsi come legame totale sta il fallimento della stessa unione.

       In ultima analisi, è l’assenza dell’idea progettuale dell’ ’arte di amare’ la causa della fine di ogni rapporto. E’, come afferma il professor Mercurio, ‘l'incapacità di saper vivere l'amore come impegno che richiede fatica a sforzo, come una vera propria arte’. Per l’autore l’idea ricorrente nella coppia è che, avendo fatto una scelta del partner, questo debba automaticamente, per il fatto stesso di essere stato scelto, amarci. Di conseguenza, il l’lavoro’ di chi ha scelto diviene quello di rendersi attraente dal punto di vista estetico, culturale, economico, affinché l’altro ci ami. Di rado, invece, viene posta attenzione sul come rendersi amabili[3].  “E per rendermi amabile non devo mettere l’accento soltanto su l’una o l’altra qualità che potrei avere, ma (…) sugli ostacoli che presento al partner per essere amato; cioè sugli ostacoli che inconsapevolmente ho dentro di me e continuamente formano una barriera tra me e il partner, per cui impedisco all’amore del partner di raggiungermi”[4].

     A un’attenta analisi della dinamica di coppia, risulta evidente che, nella relazione ‘attrattiva’ è assente la dimensione progettuale o vocazionale dell’essere coppia. E’ la spinta comprensiva dell’agape, con l’eros componente essenziale della comunicazione della coppia, ad essere annullata e, con essa, la spinta generativa, progettuale, evolutiva, del legame d’amore.

     E’ lo psicologo Erikson ad individuare nella generatività dell’identità il salto evolutivo inteso come esito di un processo consolidato di acquisizione identitaria. Quindi, sulla scorta di queste riflessioni, è chiaro che un’unione di coppia stabile ed appagante esiga l’incontro di due individualità (e non, semplicemente, individui) che scelgono di proseguire il proprio cammino di evoluzione personale nel legame d’amore e attraverso di esso. Il legame di coppia esige, inoltre, un lavoro su se stessi intrapreso con senso di fiducia, umiltà, teso alla disponibilità di accogliere totalmente l'altro.

Nell’espressione di ‘accogliere totalmente l’altro’ è implicito, inoltre, la messa al bando di tutte quelle strategie manipolatorie che, basandosi sul modellamento (la pretesa che l’altro debba corrispondere a una idea di persona) o su modalità di strumentalizzazione (rifiuto, sconferma, violenza palese o occulta ), favoriscono l’esercizio del potere sul partner. E, su questo punto, in riferimento alle cronache quotidiane di violenze domestiche, in particolare sulle donne, ci sarebbero molte riflessioni da spendere.

      In sintesi, una relazione di coppia può dirsi veramente tale se la tensione evolutiva, che ‘tesse’ e solidifica il legame all’interno, proiettandolo all’esterno, è tale da rendere la coppia generativa. Nella coppia si è in gioco con l'interezza della propria personalità in un’avventura aperta di scoperta dell’altro e degli altri e di auto scoperta, che tiene sempre alta la tensione evolutiva, pena la decadenza dello stesso rapporto.



[1] J. GUITTON, Silenzio sull’essenziale, riflessioni di un pensatore cristiano, Paoline, Milano, 1991.

[2] A.HONNET, Lotta per il riconoscimento, il Saggiatore, Milano, 2002.

[3] A.MERCURIO, Amore e persona, Costellazione di Arianna, Roma, 1993, pag.12-13.

[4] Ibidem



 

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- Letteratura

Il serpente come metafora del male nel mito della Genesi di

 

   Nella narrazione del libro della Genesi il serpente viene indicato come l’ ’astuto tentatore’. E’ narrato infatti che, dopo la creazione del primo uomo e della prima donna (Adamo ed Eva), esso… “disse alla donna: “Perché Dio vi ha comandato di non mangiare del frutto di tutte le piante del Paradiso?”. E la donna gli rispose: “Del frutto delle piante che sono nel Paradiso ne mangiamo; ma del frutto dell’albero che è nel mezzo del Paradiso Dio ci ordinò di non mangiarne, e di non toccarlo, ché forse non s’abbia a morire”[1]. Ma il serpente disse alla donna: “No, voi non morrete. Anzi, Dio sa bene che, in qualunque giorno ne mangerete, si apriranno i vostri occhi e sarete come Dei, avendo la conoscenza del bene e del male.

     E’ evidente, nel ‘mito’ biblico, che il serpente è considerato come ‘natura maligna’ (addirittura  ‘il maligno’) anche se, paradossalmente, la sua funzione sembra quella di “aprire gli occhi” dei due ingenui, conferendo loro la possibilità di conoscere ‘il bene e il male’. Un’altra considerazione riguarda il ‘posizionamento’ dello stesso serpente e dell’albero della ‘scienza’. In poche parole, chi ha collocato il serpente nel paradiso? E come mai un dio creatore ha sentito la necessità di far spuntare nel ‘paradiso di delizie’ l’albero della ‘scienza del bene e del male’ dicendo, per giunta, all’uomo ‘NON… Mangerai…’. Doveva essere un dio abbastanza perfido, oltre che ingenuo, assolutamente ignorante in merito alla psicologia. E’ risaputo infatti che ogni divieto sortisce l’effetto contrario. E’ come dire ad un bambino: corri pure nel cortile, salta, divertiti ma ‘non’ arrampicarti sull’inferriata. Si può stare certi che il bambino farà ESATTAMENTE quello: si arrampicherà sull’inferriata! La perfidia e, se vogliamo, il sadismo del dio creatore della Genesi, è quello di collocare l’albero nel giardino per tentare le sue creature che, poco prima, aveva creato ‘dal fango della terra’ e, quindi, estremamente vulnerabili. Ciò che scaturisce da queste riflessioni è che:

-       Il serpente ha natura divina (chi lo ha messo nel Paradiso se dio è l’unico creatore?)

-       Il serpente è l’antagonista di dio (Dio vuole l’innocenza e la subordinazione delle creature, lui ‘la scienza’) ma, nello stesso tempo, sembra il suo alleato (dio ha fatto spuntare, assieme agli altri alberi, quello della ‘scienza del bene e del male’ e il serpente ha fatto il resto);

-       L’istinto della conoscenza è umano e, in particolare, appartiene al femminile (se i due piccioncini non avessero avuto questo istinto, la tentazione non avrebbe sortito alcun effetto);

-       La costola con cui dio, attingendo da Adamo, forgiò la donna, ha vari significati in ebraico, tra cui quello di ‘lato’ ma anche di ‘ombra’. Dio, conferendo all’uomo la donna, gli ha offerto anche la possibilità di un’autonomia di cui la coscienza adamica, sostanzialmente androgina, non aveva bisogno. La beatitudine del primo Adamo è situata, infatti, in una sorta di ‘non luogo’, atemporale, costituito da un eterno presente.

-       Conclusione: bene e male, luce e ombra non sono opposti, ma condizioni ‘essenziali’ per lo stesso processo evolutivo dell’uomo.  



[1] La Sacra Bibbia, Editrice Saie, Torino, 1969, pag.13.