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Raccolta di articoli di AvvocatoD’Aiuto
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Società

Ma, una volta non c’era il sesso?!

Di Pasquale D’Aiuto, avvocato. È di questi giorni la notizia di calciatori di primissimo piano coinvolti in uno scandalo gravissimo per il mondo sportivo: sarebbero – a quanto pare – responsabili di aver scommesso su eventi calcistici utilizzando piattaforme illegali, grazie a prestanome e piattaforme on-line. Tanto, in violazione dell’art. 24 del Codice di Giustizia Sportiva, che recita: “Divieto di scommesse e obbligo di denuncia 1. Ai soggetti dell'ordinamento federale, ai dirigenti, ai soci e ai tesserati delle società appartenenti al settore professionistico è fatto divieto di effettuare o accettare scommesse, direttamente o indirettamente, anche presso i soggetti autorizzati a riceverle, che abbiano ad oggetto risultati relativi ad incontri ufficiali organizzati nell’ambito della FIGC, della FIFA e della UEFA. … 3. La violazione … comporta … la sanzione della inibizione o della squalifica non inferiore a tre anni e dell’ammenda non inferiore ad euro 25.000,00”. Norma che punisce anche chi sapeva e non ha denunciato, tra l’altro. Comunque: questi talentosi, fortissimi, ricchissimi (e forse un po’ annoiati) giovanotti, dopo aver terminato l’allenamento – e non si tratta che di poche ore al giorno – ed aver, eventualmente, onorato gli obblighi di carattere commerciale legati alla propria immagine ed agli sponsor personali, si organizzavano, a quanto sembra, tra di loro per “bettare” su partite di altre squadre e di altri campionati. E quindi: chat, messaggi, contatti e presentazioni di amici e di amici di amici ai poco rassicuranti tizi che gestiscono queste attività. Tanto tempo impiegato in una cosa che, alla fin fine, può fare chiunque, pure l’impiegato dell’azienda del gas: l’unica differenza la fanno i soldi da puntare. Una cosa un po’ raminga, monacale, solitaria, che rimanda a stanze buie, incontri clandestini, codici segreti, frasi dette a mezza voce. Ma non era meglio prima, che facevano tardi la sera e andavano con le veline? Non era meglio quando ci regalavano succulenti gossip matrimoniali?! Ma che sta succedendo, a questi ragazzi? Possibile che non gli piaccia più [devo censurarmi ma i Cilentani mi capiranno al volo]? Ridateci Bobo Vieri, Francesco Coco, Kevin Prince Boateng, Alessandro Matri! Ridateci le veline, ridateci quello slancio giovanilistico verso i sani istinti umanissimi e materiali, divini e profani, che coloravano la cronaca sportiva di qualche decennio fa… ridateci le foto patinate: ridateci il mitico Marco Borriello! Che se ne fanno dei macchinoni, se non ci portano dentro belle ragazze – ma pure bei ragazzi, figurarsi – e se non si danno fatalmente in pasto alla cronaca rosa delle scappatelle e delle riconciliazioni a mezzo stampa? Ma voi ricordate i bei tempi di David Beckham e la moglie Victoria, ex Spice-girl? Di John Terry (marito e padre) con la moglie del compagno di squadra Bridge? E del più grande di tutti: Ryan Giggs, che aveva una relazione con la moglie del fratello?! Ah, bei tempi. Ah, gioventù di una volta. Destino beffardo: avere i soldi, la giovinezza e la fama, e non sapere cosa farne!

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- Società

Quelle stupide incisioni sul Colosseo. Di duemila anni fa

Diciassetteluglioventiventitré, di Pasquale D'Aiuto. L’Amphitheatrum Flavium, detto Colosseo, è il più grande anfiteatro romano al mondo: in grado di contenere un numero di spettatori stimato tra 50.000 e 87.000. Edificato a partire dal 70 d.C., inaugurato nell’80. Uno stadio, il luogo del popolo per eccellenza: ricordate “Panem et circenses”? Ecco, quella roba lì. Si tratta di un edificio che, nel corso dei secoli, ha subito delle vicissitudini estreme: terremoti, spoliazioni, crolli… ma pure vicende deprecabili e fantasiose: fu adibito, nel VI secolo, ad area di sepoltura; poi, utilizzato come castello. Tra il VI e il VII secolo fu fondata, al suo interno, una cappella oggi nota come chiesa di Santa Maria della Pietà al Colosseo. A lungo utilizzato come fonte di materiale edilizio, nel XIII secolo fu occupato da un palazzo dei Frangipane, successivamente demolito; in ogni caso, continuò a essere occupato da altre abitazioni. I blocchi di travertino furono sistematicamente asportati nel XV e XVI secolo per nuove costruzioni; e quelli caduti furono ancora utilizzati nel 1634 per la costruzione di Palazzo Barberini e nel 1703, dopo l’ennesimo terremoto, per il porto di Ripetta. Solo nel 1744 papa Benedetto XIV ordinò la fine delle spoliazioni, con un editto – grazie, Wikipedia! Cambio di visuale: Pompei. Le mura della città, ricche di iscrizioni che gettano uno squarcio di luce su una società così tanto lontana – e pur così tanto vicina – alla nostra. Quante? Oltre diecimila (10.000)! Spot elettorali, frasi sconce, insulti, informazioni ed elenchi su debiti contratti e loro debitori e così via. Ne ricordo una: “Mi meraviglio di te, parete, che non sei ancora crollata, perché devi sostenere le cretinate scritte da tutti”. E ho detto tutto – sul web ne troverete delle belle. Anzi: bellissime! Eh, però i Romani scrivevano anche sulle mura del Colosseo. E mica soltanto loro! Iscrizioni falliche, un rombo dal significato esoterico, i nomi dei cavapietre, una fronda di palma in rosso simbolo di vittoria, le lettere “VIND” (vindicatio: vendetta?). E come poteva essere diversamente, nel tempio dei giochi e delle emozioni per eccellenza? Poi, nel 1892, tale J. Milber comunicò al mondo di esser partito dalla città di Strasburgo per visitare l’anfiteatro – grazie, Archeomedia; grazie, Archeostorie! Visto, quanto è bello il web?! Oggi: turisti processati ed esposti (letteralmente) al pubblico dileggio perché scrivono sulle antiche mura – anzi, quel che ne resta – frasi tipo “Me+te=love” oppure le proprie iniziali. Certo, il ministro Sangiuliano (quello che vota, allo Strega, i libri senza leggerli) è indignato: non si fa, è patrimonio mondiale! Un sito unico, prezioso: come dar torto a chi reclama multe e galera? Eppure, un paio di provocazioni sovvengono. La prima: ma avete visitato il Colosseo? Io sì, di recente; e, francamente, tutta questa cura da parte di chi dovrebbe custodirlo non l’ho proprio vista, a partire dall’esterno. Diciamo che il suo stato non ispira il turista a particolare rigore, mentre ci gironzola dentro… La seconda: ma non è che, tra un millennio o due, quelle scritte che oggi combattiamo (si fa per dire), potrebbero essere stesse divenire archeologia e, quindi, noi stiamo nascondendo preziose informazioni agli storici del futuro?!

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- Società

Buon primo maggio

Primo maggio ventiventidue. Di Pasquale D’Aiuto, avvocato. Conosco avvocati che non riescono a reperire clientela, che devono contentarsi di multe ed incarichi ambigui, che si fanno carico delle sempre più alte spese di causa e non chiedono acconti ai clienti perché quelli non cambino parrocchia; che gestiscono una separazione per trecento euro; che domandano a terzi il denaro per poter pagare la propria previdenza obbligatoria, vissuta come una gabella ingiusta, in funzione di un futuro che non esiste. Che non si sentono rappresentati dai propri delegati e, forse, non lo sono per davvero. Ma anche avvocati che hanno goduto delle prebende covid perché non dichiarano che pochi euro all’erario, fregandosene se, così facendo, siano sleali nei confronti dei propri colleghi. (Io stesso, sulla mia pelle, percepisco con dolore e preoccupazione un’avvocatura che esiste soltanto sul vocabolario. Sarò tra i fortunati che riusciranno a versare tasse e contributi? Resisterò? Esisterò?) Conosco medici che non possono godere che di un solo fine settimana libero ogni mese se va bene. Che trascorrono nove notti ogni trenta in ospedale. Che ricevono telefonate anche quando sono a casa – e certo non da pazienti privati. Che non staccano mai, non riposano mai. Che non sanno se potranno godere delle ferie estive. Che non possono organizzare gite coi figli e si sentono in colpa. Che non hanno tempo per la formazione professionale. Questi medici, che salvano vite umane, spesso lavorano in condizioni disagiate, con apparecchiature e strumenti obsoleti; hanno a che fare con un’utenza maleducata, disperata, sospettosa. Sono stanchi, sfiduciati. Sottopagati rispetto agli omologhi francesi, tedeschi, inglesi, americani. Conosco artigiani che lavorano tantissimo ed anche bene. Alcuni disonesti, inaffidabili; molti altri seri e degni di fede. I secondi non riescono a tener dietro ai clienti, lavorano anche il sabato, a cinquant’anni sono fisicamente compromessi e ne dimostrano quindici in più. Questi imprenditori di se stessi lamentano di non riuscire a trovare collaboratori e pupilli perché questi ultimi preferiscono chiedere la paghetta ai familiari e guardarsi le partite sul divano, sazi delle pensioni d’invalidità di qualche anziano e del reddito di cittadinanza – per cui s’ingegnano a dimostrare requisiti inesistenti od a crearli ad arte. Sospetto che più di qualcuno che conosco percepisca l’aiuto di Stato, salvo poi guadagnare migliaia di euro al mese di lavoretti in nero. Vedo caste, in Italia. Non solo nella politica. Inattaccabili, intangibili, fortissime: caste, appunto. Prodigiosamente, pervicacemente attaccate ai propri privilegi. Rappresentate con determinazione feroce nelle istituzioni. Vedo moltissimi giovani parcheggiati all’università sino a trent’anni ed oltre. Spesso, senza nessuna giustificazione. Spesso, iscritti ad atenei lontani da casa, pesando sul bilancio familiare con affitti e spese quotidiane ben più elevati di un qualsiasi mutuo. Spesso, senza risultati tangibili, senza voglia, senza ambizione. Il futuro dell’Italia. Vedo imprenditori alla canna del gas. Vedo fallimenti continui, nel silenzio generale. Di questi, molti sono autentiche truffe, congegnate soltanto per poter lasciare a bocca asciutta i creditori, riaprendo poi con un altro nome e le stesse persone. Vedo lavoratori mandati a casa. Vedo riders di cinquant’anni in bicicletta sotto la pioggia, senza tutele. Vedo i prezzi delle utenze primarie alle stelle e nessuna, NESSUNA politica, da trent’anni, atta a superare il tremendo problema della dipendenza da altri Paesi. Vedo aziende missilistiche e farmaceutiche prosperare. E miliardari divenire ancor più miliardari. Vedo ribollire tensione sociale, depressione, scetticismo, indifferenza. Ciascuno si sveglia al mattino con l’unico desiderio di reperire denaro per campare. In qualsiasi modo. Non ci credo più, alla buona fede ed all’incompetenza. Buon primo maggio.

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- Società

La guerra, le cameriere, le badanti ed un paio di brutte per

Di Pasquale D’Aiuto, ventiseifebbraioventiventidue. (anche su Sparappecoglie.it) Qualche giorno fa, durante uno speciale del Tg3 sulla terribile guerra (anche civile) in Ucraìna, mentre Enrico Letta dichiarava solidarietà alle centinaia di migliaia di cittadini ucraìni in Italia, a microfono fatalmente aperto la conduttrice Lucia Annunziata, giornalista “di punta” del glorioso servizio televisivo nazionale, chiosava: “Sì, centinaia di migliaia di cameriere e badanti…”. Aggiungeva prontamente tale Antonio Di Bella, addirittura nuovo direttore (!) del Day Time Rai: “… E amanti!”. Sono arrivate le scuse della (già simpaticissima) Annunziata: “Un inciampo che un conduttore dovrebbe sempre saper evitare. Me ne scuso, sinceramente […] il [mio] lavoro spero dimostri quanto l’impegno nei confronti dell’Ucraina e dei suoi cittadini sia senza alcuna ambiguità al loro fianco”. L’altro l’ha seguita a ruota. No, Annunziata: Lei non si deve scusare come conduttrice ma come essere umano. E non servirebbe comunque a nulla. Conta poco se afferma di essere al fianco degli ucraìni. Il passo successivo – se Lei non fosse, evidentemente, garantita da qualche mammasantissima in Rai – sarebbero le dimissioni. Anzi: la dovrebbero immediatamente silurare. Il fatto che abbia derubricato la sua vergognosa, oscena uscita ad un inciampo da conduttrice peggiora solo le cose: lei ha parlato come lo fa una cattiva persona, non un cattivo giornalista. Lei ha mostrato di provare disprezzo, non c’è altra spiegazione; per giunta, con un tempismo talmente clamoroso che, se la Sua battuta non fosse così spaventosamente disumana, vista l'attualità, sarebbe stato davvero comico! Mi sovvengono alcune domande per Lei: 1) in un momento terrificante come il presente, come è possibile concepire osservazioni canzonatorie come questa? 2) E se pure? Cosa c’è di male a fare le badanti ai nostri anziani oppure le collaboratrici domestiche nelle nostre case? Mestieri rispettabili ed utili, anzi: mille volte più degni del Suo, se lo esercita in questo modo; 3) gli ucraìni sono davvero integrati nel nostro Paese, forse i primi a farlo. Io credo che tutti noi li sentiamo vicini, a prescindere dalla guerra che sta devastando il loro mondo: Lei dove vive? E per concludere, visto che mi trovo, avrei una domanda anche per Di Bella: visto che è stato così sollecito ad intervenire, dobbiamo immaginare che Lei abbia esperienza diretta di amanti straniere?

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- Arte

La memoria, Segrè e Benigni

Di Pasquale D’Aiuto. Avvocato. Ventotto gennaio venti ventidue Non amo Roberto Benigni. Ciò detto, trovai "La vita è bella" una meraviglia. Un capolavoro originalissimo, con il limite naturale di essere destinato a sole due categorie di persone: 1. Coloro che sanno la disumanità dei lager e del nazismo (e del fascismo, ahinoi) e non hanno bisogno di ripetizioni di storia; 2. Coloro che non hanno vissuto sulla propria pelle la spietata persecuzione. Tutte le altre non possono capirlo appieno o, comunque, apprezzarlo. Di prima, perché non è con quella pellicola che si può rendere tangibile il terrore inconcepibile, letteralmente diabolico di quegli anni a chi non lo conosca; di poi - e qui penso a Liliana Segre ed alle sue dichiarazioni in merito al film - perché, del tutto comprensibilmente, le vittime non riconoscono quella perfezione del Male, che le ha segnate per sempre, in un'opera del genere. E allora, perché Benigni usa l'ironia per trattare un argomento che è, forse, il primo della categoria dell'indicibile? Perché il registro drammatico non avrebbe aggiunto nulla: abbiamo, per fortuna, svariate testimonianze, con buona ragione di chi tenta stoltamente di sminuire. Ma, a mio avviso, soprattutto perché l'ironia, se non addirittura ridere, è una capacità tutta umana, forse la più elevata, e come tale segna la più profonda cesura con l'orrendo disumano dei campi di sterminio, relegandolo a qualcosa di talmente assurdo da non appartenerci, come specie. Tutto questo, senza negare affatto che, pure, proprio degli esseri umani - tanti, tantissimi esseri umani - siano stati capaci di ciò. Non una sola volta nella storia... e non l'ultima, temo. E mi riferisco a qualsiasi popolo. Il giudizio definitivo su quella memoria infame, il più coraggioso ma anche il più efficace, l'ha emesso Roberto Benigni. E lo ha fatto invocando lacrime di gioia, dolore, tenerezza e... risate.

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- Letteratura

Quei post a infanti, conviventi e defunti

di Pasquale D’Aiuto, Avvocato, diciottodicembreventiventuno (per questo ed altro, sparappecoglie.it) Qualche giorno fa ho letto una notizia emblematica dei nostri tempi. Il comico Maurizio Battista, separatosi dalla giovane moglie, decide di scrivere un post su Facebook dedicato alla figlia della coppia, Anna: «Cara Anna, a volte nella vita capita che due persone non si capiscano più, che il loro sentimento svanisca lentamente e che, non riuscendo in alcun modo a ritrovarsi, decidano di allontanarsi l’uno dall’altra. La mia strada e quella della mamma si divideranno, ma io terrò sempre te al centro del mio mondo, preservandoti e sostenendoti. Ogni giorno continuerò a ricordarti di andare sempre dentro alle cose, di credere in te stessa anche quando il cuore ti sembrerà sia andato in pezzi, perché nonostante tutto l’unico faro rimane sempre l’amore». Tutto bello (?), se non fosse che Anna non sa leggere e non usa Facebook, perché ha cinque anni. Chi sa leggere molto bene ed usa Facebook è la mamma Alessandra, che replica aspramente (qualcosa riassumibile in un “Ma nun te vreògni?!”) e conclude: “Non comprendo l’esigenza [del post] giacché Anna non sa neppure leggere”. Come darle torto? Questa storia mi ha fatto pensare a due abitudini in era di social: scrivere ai morti e ai conviventi. Ma che significa?! Quanto ai morti, delle due, l’una: o il corpo è tutto e non c’è anima, e allora mi sembra chiaro che non usino i social; oppure continuano a restare in contatto con noi, e allora una preghiera, una messa in suffragio (per chi ci crede), un evento in memoria, una dichiarazione agli amici riuniti si rivelerebbero ben più confacenti al caso, anche perché dubito gli spiriti frequentino Facebook. Quanto ai conviventi, se vuoi sperticarti in dichiarazioni d’amore, usa dei fiori ed un bel biglietto, invitala a cena; se vuoi farle capire che è una stronza, diglielo oppure vai via. Dovrebbe esserci un limite, dettato dal buon senso, a questa sconfinata spettacolarizzazione dei sentimenti; a questo dire a nuora perché suocera intenda (e, qui, la nuora è una infante!); a questa costante, insopportabile autoassoluzione virtuale. A questa autoreferenziale analisi di gruppo da quattro soldi, dove gli altri assistono e – poveri noi – appongono un like alle più variegate elucubrazioni senza contraddittorio. E sì, perché chi non è d’accordo si guarda bene dal replicare ma reagisce con un dignitoso silenzio (e con un meritatissimo, intimo pernacchio davanti al monitor). Ci ragioni un po’ il comico Battista, vittima della sua puerile ricerca di rassicurazione e conforto social, che pensa bene di giocare al papà buono e zen esibendo in piazza il proprio amore per la figlioletta… incapace di leggere quel che scrive. Speriamo che, almeno, sappia far ridere quando serve.

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- Società

Le cose restano, noi ce ne andiamo.

Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato. Settenovembreventiventuno Qualche giorno fa, ho ceduto la mia gloriosa tastiera al mio compariello. Lui suona la chitarra, è portato per la musica. La reclamava con determinazione da una settimana ma non ero mai riuscito a montargliela e a spiegargli i rudimenti per suonarla. Io non la uso più, i miei figli ed io suoniamo il mio santissimo Petrof che ho, di recente, rimesso a nuovo. La mia (?) tastiera è gloriosa perché ha 25 anni, perché funziona ancora benissimo, perché credo di averla utilizzata in un centinaio di occasioni irripetibili e belle: piano-bar, concerti, ricorrenze, il matrimonio di mia sorella Isabella… Io la adoro, è un oggetto importante. Mio nipote seienne, giustamente, adesso la ritiene sua e io ne sono lieto, perché magari lo faccio convertire al pianoforte: quale migliore destino per una tastiera gloriosa, che quello di salvare dalla chitarra un bambino dotato?! “Tu trattala bene e divertitici: in questo modo, per me è tua”, gli ho detto. Spero abbia capito che ho apposto una condizione risolutiva (o un onere, fate voi) ma ne dubito. Me la presterà, se serve. Quel che è certo è che, nelle intenzioni, la mia tastiera continua ad essere usata in modo irripetibile e bello. Che si scassi pure. (Oh, naturalmente il fatto di essere causa di inquinamento acustico potenzialmente molesto in casa dei miei cognati è stato di grande incoraggiamento, beninteso.) Passiamo ad altro: sto bevendo l’acqua, con autentico piacere, da bicchieri di quelli pesanti, quelli buoni, di una cinquantina di anni fa, con le immagini biancastre stilizzate in rilievo. Giusto pochi giorni fa sono entrati in casa, provenendo dal patrimonio personale di una cara defunta che credo mai avrebbe immaginato sarebbero stati utilizzati da un tizio cilentano che avrebbe sposato la sua congiunta molti anni dopo la sua scomparsa. Tra l'altro, benedico questa persona a me sconosciuta ogni volta che bevo. Per non parlare della coperta fatta a mano da nonna Wanda-rock, capolavoro che ora giganteggia sul mio letto – la coperta, non la nonna ma è come se ci fosse pure lei – invece di essere conservata in qualche armadio. Ce ne sta un’altra, da qualche parte, di gran valore, che ora è riposta e rischia di essere dimenticata, se non mangiata dalle tarme. Per non parlare del quadro meraviglioso conservato non-dico-dove e che, invece, dovrebbe essere ammirato ogni giorno. E il denaro? Che sia speso per quando siamo vivi ed in salute. Quel che ho, lo utilizzo. Con giudizio, certo; ma non intendo aspettare che venga mangiato da qualche nuova imposta oppure, peggio, conservarlo per il caso di malanni: in quel caso, i soldi escono comunque. Conosco tante storie di persone che hanno vissuto come disagiati pur con conti correnti a molti zeri: credo siano afflitte da qualche patologia, non vi è altra spiegazione. Perdoniamole. Chiedo venia se torno ai bicchieri: chi beve lo spumante nei bicchieri di carta oppure in quelli da acqua? Io uso i calici oppure, se sono nostalgico, la coppa, quella che dovrebbe garantire la perfezione del seno femminile, per intenderci. Pure se sto da solo (il che non vuol dire che beva da solo ma ci siamo capiti). I gioielli? Mia moglie li indossa. Sennò, a che servono? I mobili di pregio: si restaurano e poi si utilizzano. Ci si poggiano gli oggetti sopra, i bambini possono usarli come basi per le loro costruzioni; se una sedia ci sbatte, pazienza. Noi siamo vivi ora. Non sappiamo che sarà il futuro. La vita è brevissima e matrigna. Gli oggetti camperanno molto oltre noi: non voglio dar loro la soddisfazione di non avermi adeguatamente servito, come devono fare le cose. Perché, fatalmente, le cose restano e noi ce ne andiamo.

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- Società

Sono maschilista. Ma con giudizio.

Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato, ventisei ottobre ventiventuno Dopo l’assurda crocifissione di questi giorni del mio adorato Prof. Barbero, reo di non aver omaggiato la consueta banalità imperante sulla questione del c.d. gender gap, ho deciso di vuotare il sacco: sì, sono un maschilista. Ma con giudizio. Allora: tutte le storielle sulle donne sono vere. Ad esempio, non sanno fare la svolta a sinistra, figuriamoci parcheggiare; anzi, la guida non è proprio affar loro. Certo, statisticamente provocano meno incidenti ma devo dedurre che riescano a fuggire, sennò non c’è soluzione. Ah, poi pensano soltanto alle scarpe ed alle borse (probabilmente anche alla guida, così si spiegano molte cose): servirebbe una casa intera dedicata agli accessori, e non basterebbe. E si ostinano a non comprendere il calcio: provate a far loro capire il fuorigioco! Io, per ripicca, detesto borse e scarpe e sono un perfetto sportivo da poltrona. Le donne non possono essere chef: quelli veri sono tutti uomini. Infatti io faccio solo il caffè, così la mia si perfeziona. E poi, quanto parlano! Ti pongono problemi che riguardano tempi lontanissimi, tipo la settimana prossima; ma io non so se arrivo vivo a domani… Per non dire del pianoforte, tema a me carissimo: solo noi maschi abbiamo la necessaria vigoria per suonare ad alti livelli (scusate, qui la provocazione la devo proprio sospendere: ascoltate Marta Argerich suonare Bach e poi ditemi. E sì, lo so che c’è Glenn Gould, lo so). Ecco, la scienza mi assolve: il tono della voce delle donne è un trapano per il mio cervello – è dimostrato, vedete qui, ad esempio, https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/15978839/ ma anche qui, per un commento interessante: https://www.huffingtonpost.it/.../voce-donne-stanca.... Le nostre madri, mogli, sorelle spendono i soldi della famiglia per gli abiti dei bambini: ma non gliene avevamo comprati una ventina, un lustro fa? Che ci devono fare, con tutte queste tute, queste maglie e questi calzini?! Oh, naturalmente, le donne hanno sempre mal di testa. Dicono che pensano in prospettiva, dicono. Menomale che noi maschi siamo ben saldi sull’oggi. E quanto litigano tra di loro: se accade, c’è da divertirsi! Del resto, il termine “isterica”, non a caso, è riferito soltanto alle donne, poiché hystéra, in greco, significa "ventre, utero" (ma come è bello scriverlo in greco, visto che ho fatto il Classico, vivaddio: ὑστέρα!). E se lo diceva Ippocrate, allora possiamo stare tranquilli. E poi, ci chiedono sempre le stesse cose, magari mentre siamo occupati a non fare quel che ci hanno domandato prima… e, intanto, Osimhen s’invola verso la porta avversaria ed io non ci sono, non-ci-sono, dimenticatevi di me! La verità è che ogni mattina io mi alzo, mi lavo la faccia, vado allo specchio – io, che mi reputo mediamente colto e mediamente sensibile – e mi ripeto: non lo fare. Non farti plagiare da questa società maschilista, che santifica la concorrenza sleale tra i sessi fingendo equità, mentre una donna deve sentirsi in colpa se desidera un figlio, se vuole stare più di tre mesi dopo il parto accanto alla prole, se intende allattare al seno. Un sistema che ciarla di famiglia ma non la favorisce in nessun modo, tanto ci pensano le madri (ed i padri che “aiutano in casa”: ma che vuol dire?! La casa è della famiglia, io aiuto me stesso!); che non tollera la depressione post partum, che non si sforza di comprendere le crisi chimiche che avvengono nei loro corpi; che, invece di affermare: “Sì, uomini e donne sono diversi, ma proprio fisicamente: teniamone conto per una vera parità!”, strombazza: “Viva la parità! Uomini e donne sono uguali!”, e poi chi s’è visto, s’è visto. Però, poi, questa società s’interroga per quale ragione, invece di fare figli, quelle ingrate “rubino” i posti di lavoro agli uomini – con un terzo dello stipendio in meno, però! Io sono un maschilista. Potrei dire pentito, ma sarebbe riduttivo: sono un maschilista che prova ad immedesimarsi. Ma mica ci riesco sempre: ad esempio, vorrei rinchiudere in una torre altissima tutto il gentil sesso a distanza di cento metri da me durante le partite del Napoli. Giusto per un paio d’ore, beninteso. E reclamo il mio sacrosanto diritto di fare battute sui tic e le nevrosi femminili! Ma, al contempo, devo ammettere che, nei miei geni, drogati da millenni di spaventosa disparità di genere, qualcosa mi suggerisce cose del tipo che sarebbe un mio diritto naturale trovare il polpettone e le pantofole pronte quando torno a casa, mia moglie perfettamente truccata e pettinata e i bambini a letto, come in un film degli anni cinquanta. E pazienza se non c’è la doppia entrata e se accanto avrò una persona insoddisfatta: vuoi mettere, il polpettone?! Però io, almeno, lo so che nasco maschilista, e non è mica colpa dei miei genitori. Riconosco che devo fare uno sforzo, provo ad essere uno di quei “consapevoli” che invocava Barbero; soprattutto, ho capito – ed è questo il punto dolente – che noi uomini dobbiamo tutti smetterla di fingere di essere naturalmente paritari ed ecumenici, ammettere che nasciamo maschilisti, fare qualcosa di concreto per ribellarci a questa impronta genetica e cambiare le cose, a partire dagli atti più semplici. Il primo dei quali è la consapevolezza. Senza rinunciare alle battute, però. Quelle, lasciatemele. Sennò rinuncio.

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- Società

La Palombelli ha toppato, evviva la Palombelli

Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato. Diciotto settembre venti ventuno. "Qui parliamo della rabbia tra marito e moglie ... A volte, però, è lecito anche domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa, completamente obnubilati oppure c’è stato anche un comportamento esasperante e aggressivo anche dall’altra parte?". Premessa: Barbara Palombelli ha fatto una cazzata. Perché ha sbagliato le parole, certo (e aggiungo: #graziealca’). Ma anche perché il proscenio di Forum (!) era terribilmente inadatto e perché il tema non era propriamente il femminicidio. Soprattutto, ha sbagliato perché è inciampata in un errore imperdonabile per chiunque, soprattutto se personaggio pubblico (ed invidiato) e se mai coinvolto in scandali: ha osato non limitarsi a perpetuare la vulgata pro o contra un argomento assai sensibile. Ha osato ragionarci su. Ha osato parlare per comprendere il fenomeno, sebbene (ovviamente!) non per giustificarlo. Apriti cielo! Quanti ne abbiamo, di argomenti tabù? Così, a mente: la pedofilia (“Linciamoli! Salviamo i nostri bambini!”); l’Olocausto (“Sei milioni di ebrei… maledetti nazisti!”); il fascismo (“Ha fatto le bonifiche!” ma anche “ha perseguitato gli ebrei e ci ha condotto alla guerra”); il femminicidio, appunto. Cosa vi devo dire, da uomo? Devo, forse, dichiarare al mondo il mio totale, incondizionato appoggio alla causa, la mia sensibilità per questa piaga terribile che non accenna a placarsi, la comprensione del fatto che non possa parlarsi di semplice omicidio, perché intimamente legato al rapporto uomo-donna? Beh: fatto. Ciò precisato, chiedetevi: secondo voi, la Palombelli è una irriducibile maschilista aguzzina del proprio genere oppure sta, semplicemente – sebbene con una goffaggine pressoché imperdonabile – tentando di comprendere cosa diavolo conduca un uomo a porre fine alla vita della donna che afferma di amare?! E allora io sono pedofilo, antisemita, fascista ed assassino. E sapete perché? Perché oso, qui ed ora, dire – per esempio – che l’educazione sentimentale delle persone, sin da bimbi, deve essere tale da consentire a quei bimbi, quando adulti, di comprendere verso chi indirizzare le proprie, legittime aspirazioni sessuali – e forse contribuiremo ad evitare la pedofilia, al netto delle malattie mentali; che gli ebrei vennero, nel corso della Storia, tragicamente più volte perseguitati (ricordate il 1492 – sì, proprio l’anno della scoperta dell’America! – e i re cattolici Ferdinando e Isabella di Spagna, quando moltissimi ebrei scacciati si rifugiarono nell’Impero ottomano?), per cui l’avversione disumana nei loro confronti deve avere delle (orribili ma ben materiali, non solo religiose!) ragioni, che una mente critica deve provare a comprendere (non a giustificare, e #arigraziealca’!) per evitare che accada in futuro con quel popolo oppure con altri sventurati come loro. Che il fascismo è stato un fenomeno storico originato da una determinata situazione civile e politica e non da un singolo uomo malvagio, per cui bisogna prevenire si ripresenti disinnescandone i prodromi; che i fascismi sono tanti e ne abbiamo molti, piccoli o grandi, sotto i nostri occhi; che in guerra l’Italia non voleva andarci perché non aveva i mezzi (ricordate la “Lista del molibdeno” nel 1939?) ma si ritrovò compromessa dal proprio recente passato e dalla rapidità dei fatti. E sì, oso convenire con la Palombelli (leggetevi la sua lucida, perfetta precisazione dopo le polemiche delle #animebelle), che il rapporto tra un uomo ed una donna legati sentimentalmente deve essere basato su specifici, quotidiani, ponderati contegni reciproci che puntino ad evitare quelle agghiaccianti reazioni che, troppo spesso, accadono persino in contesti definibili “normali”. Che bisogna evitare la “esasperazione”, che è necessario imparare a fermarsi un attimo prima. Noi abbiamo bisogno di persone che pongano interrogativi scomodi, di kamikaze dell’informazione, di pensatori in buona fede che mettano in giuoco se stessi. E poi, certo, abbiamo bisogno di divulgatori del buon Verbo: un pedofilo è un mostro da bandire dal consesso civile, l’Olocausto è una immane tragedia che oscura qualsiasi attribuzione virtuosa dell’essere umano, il fascismo non fu una cosa buona e, appunto, il femminicidio non è mai, e dico mai, giustificabile. Ma da comprendere, sì! Sennò, non intendiamo mica venirne a capo. Almeno, non realmente. Oh, e poi certo: di anime belle e di vulgate acritiche ne abbiamo, francamente, abbastanza, grazie.

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- Società

La storia del pulcino rosso e del pulcino blu.

Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato. Tredici settembre ventiventuno. Premessa: questa è una storia vera .C’erano una volta due pulcini, uno rosso ed uno blu. Erano fratelli, nati dalla stessa covata, inseparabili. In fondo, essendo così tanti, può ben dirsi fossero amici, poiché si erano reciprocamente scelti tra una moltitudine. Però quello rosso era vispissimo e spericolato; quello blu… beh, seguiva il compagno di avventure. Ahilui! Infatti, succedeva che il rosso si andasse a cacciare in molti guai ma, alla fine, era sempre il blu a pagarla per tutti e due. Sarà stato il karma, la fortuna o che so io; quel che conta, è che finisse sempre così. Una volta, ad esempio, Rosso va a stuzzicare un cagnaccio. E chi si becca un morso? Blu! Altra corsa: Rosso va ad esplorare la campagna attorno alla grande, altissima casa colonica: chi va a finire in una pozza d’acqua fangosa, tornando tutto affranto ed intirizzito? Sempre Blu! A primavera, un po’ cresciutello e divenuto quasi galletto, Rosso decide di sfidare a duello un suo simile: ne vien fuori una bella rissa gallinacea e… chi ne esce con più di qualche piuma in meno e tanto spavento? Che domande: Blu! Va a finire che, un bel giorno, quando Rosso e Blu erano, ormai, non più pulcini ma tendenti alla rossa cresta, riescono a salire sulla sommità della fattoria. Rosso si lancia nel vuoto ma va a finire al vicino piano di sotto; Blu fa lo stesso e… beh, è il caso di dire che ci lascia le penne. Qualche anno dopo, liberatasi, per necessità, di Rosso (Blu lo abbiamo salutato) e di altri animali da cortile, la narratrice di questa storia va a trovare i propri animali. Rosso, ormai un bel gallo, tutto fiero e felice, riconosce la padrona, la raggiunge e la saluta con tutti gli onori, facendole la “ruota” con le ali. Lei ne è lieta – e sorpresa che i polli siano così intelligenti – ma un po’ è triste per il povero Blu .Qual è la morale della favola? Rosso non era mica cattivo: anzi, voleva bene a Blu ma era spericolato, voleva divertirsi, era curioso quanto, forse, fortunato... Insomma, fate voi: quel che conta, egli sapeva come cavarsela, gli veniva naturale. Anche Blu voleva bene a Rosso. Ma non era Rosso! E fece una brutta fine. Dobbiamo stare attenti a non diventare il pulcino Blu: scegliamoci bene le nostre amicizie. A qualunque età. Non serve un giudizio di valore: le brutte cose accadono, che tu sia buono o cattivo, intelligente o tontolone, re o suddito. E che il tuo amico Rosso ricambi il tuo affetto oppure non. Però c’è chi sa uscire dai guai meglio di altri, perché ha imparato a farlo, perché ormai è abituato a sfidare la sorte o solo per una dote naturale; invece, spesso è chi gli sta accanto a restarci secco! Ieri mi è tornata in mente questa storia, con una prepotenza che mi ha costretto a perdere qualche minuto per raccontarla a voi. Chissà perché proprio ieri. Già, chissà!

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- Sociologia

Il (sottovalutatissimo), sollievo delle piccole cose.

Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato. Primo settembre ventiventuno L’altra sera ho ripulito un po’ il garage. Ho gettato tanti scatoloni di cartone; ho selezionato le cose meritevoli di scomparire – alcune davvero sorprendenti; ho eliminato tanta roba inutile, che era stata lasciata lì per caso, pigrizia, fretta o che so. Ho sottratto una buona parte dei detriti che l’incuria e l’impellenza lasciano nei garage. E mica solo lì! Ho dato una vigorosa spazzata, mi sono fatto una bella doccia e, prima di andare a letto, sono rientrato nel locale per accedere al mio secondo frigo. E chi ho trovato, tutto tronfio, ad aspettarmi? Il sollievo! Era proprio lì, negli spazi sulle scaffalature ormai liberate, sul pavimento libero da pacchi, accanto alla paletta dove avevo raccolto la polvere. E mica mi ha soltanto salutato? No, mi ha accompagnato per tutto il giorno di ieri e, oggi, mentre ne scrivo, sta ancora nel mio box, pronto a sorridermi quando andrò a recuperare la prossima bottiglia d’acqua frizzante oppure i fagiolini surgelati. E chissà per quanto ancora! L’ordine nelle cose - anche in quelle piccole - rasserena, incoraggia, dona lucidità. In fondo, qualcosina l’hai sistemata – nella via tua, piena di disordine e milioni di input! – quindi, in un certo senso, forse puoi anche provare a lavorare sui problemi un pochino più complessi. Forse, non ci vuole poi tanto! Spesso, per poter accedere a questa forma elementare di sollievo basta davvero poco, molto meno di quanto si creda. Sia in termini di energia sia di tempo. Applicando questa tesi su larga scala, comprenderete perché mi arrabbi così tanto quando vedo che i nostri amministratori non si preoccupino del decoro pubblico. Vasi da fiori vuoti, rotonde stradali piene di sterpaglia, strade sporche, deiezioni canine sul marciapiede, cartacce, spazzatura buttata a casaccio e così via. Vero, molto dipende dalla nostra educazione civica, oltre che dall’inettitudine e dalla mala fede di molta politica locale; ma qui si tratta di comprendere che la cura adeguata del pubblico possa essere non soltanto virtuosa quanto… rallegrante, rassicurante, incoraggiante: se io ripulisco un po’ il mio garage e, la mattina, quando prendo l’auto, mi sento un po’ più contento, immaginate cosa succederebbe se le persone, uscendo di casa, s’imbattessero nell’ordine e nel pulito! Potrebbe davvero essere quella rivoluzione civica che tutti noi desidereremmo, la spinta semplice e poderosa a vivere con maggiori ottimismo, apertura, rispetto e dedizione la propria giornata. E tutto con poca spesa e risibile impegno. Basterebbero vasi da fiori colmi di gerani, rotonde stradali verdi, cestini della spazzatura puliti ed ordinati, strade spazzate e lavate. Sarebbe, almeno, un fondamentale inizio. Le città civili sono ordinate e pulite, si sa. Questo ingenera comportamenti virtuosi nei loro abitanti. Un po’ come quando si entra in un ufficio pubblico fatiscente oppure in uno decoroso: la differenza nel luogo suggerisce inevitabilmente una bella discrepanza nel contegno dell’utenza. L’ordine solleva, acquieta, rinfranca. Gli occhi possono dedicarsi a quel che conta, sazi di bello. Perché non possiamo considerare la strada pubblica come il nostro garage – anzi, come il nostro salotto, già che ci siamo? Sono sicuro che il rapporto di causa-effetto tra senso di civiltà ed ordine potrebbe essere rivisto al contrario: se esiste ordine, il cittadino è rispettoso, non (solo) l’opposto. Se la cura nelle cose comuni manca, molti si riterranno esonerati dal tenere un contegno diverso da quello proposto da chi gestisce quel luogo. Basta poco. Vivremo tutti meglio, saremo tutti indotti ad impegnarci per preservare quel beato sollievo che proveremo. E poi, dopo non molto, rispetto reciproco ed ordine nelle cose saranno reciprocamente imprescindibili. In definitiva: ripulisci il tuo garage. La tua giornata sarà in discesa.

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- Letteratura

La bellezza è una panza villosa.

Di Pasquale D'Aiuto, Avvocato, primo luglio ventiventuno (anche su sparappecoglie.it) A Matera, in questi giorni, si tiene il G20 dei Ministri degli Esteri. Matera, la straordinaria città lucana, aka la Città dei Sassi, è Patrimonio Mondiale UNESCO e Capitale Europea della Cultura 2019. Il G20 è “il foro internazionale che riunisce le principali economie del mondo … più dell’80% del PIL mondiale, il 75% del commercio globale e il 60% della popolazione del pianeta” (tratto dal sito web ufficiale). La proprietà privata è “il diritto di un soggetto a godere e disporre in modo pieno ed esclusivo di un bene” (art. 832 c.c.). La casa. La libertà è, invece, l’esistenza stessa: “Io sono quando scelgo e, se non sono, non scelgo” (Karl Jaspers, tedesco, 1883–1969). La bellezza è, invece, una panza villosa. Quella del professore materano che si è affacciato al proprio balcone in faccia al G20. Ora so anche questo. Sì, la bellezza è Magritte, è Mozart, è i miei figli che suonano il piano, è il gol del secolo di Diego – ma pure quello con la mano – è l’amore, è Gaudì ma oggi è una imponente, umanissima, lattea panza villosa. Perché questa è un’opera d’arte, è un’installazione, è qualcosa che mirabilmente riunisce libertà, casa, Matera e pure G20. Provateci voi, a farlo! In un’epoca di malinteso senso d’opportunità, di piccineria del pensiero, di timore patologico del politicamente scorretto, di sigle lunghissime per descrivere un solo, basilare concetto, di socialità pezzotta e drogata, si affaccia al proprio balcone, con imponenza fiera di chi può farlo, in nome di quel barlume di autodeterminazione che ci è rimasto, un uomo, a torso nudo, bianco, setoloso, panciuto. Bellissimo. E non lo fa mica di notte dopo una bevuta?! No: lo fa davanti agli incravattati più potenti del mondo. E diviene icona! Casa è il ritiro, il luogo dell’anima, è la stanza, il caminetto, lo stendibiancheria ma è anche la proiezione di me nella piazza sottostante, nel bar che frequento, nell’aria che respiro, nelle abitudini che coinvolgono lo sguardo di tutti e che tutti lasciano allo sguardo altrui. Casa è la naturalissima libertà di vedere cosa succede di sotto senza adeguarmi a nessun codice virtuale di condotta, è dire “Siete voi che siete venuti da me: io vi accolgo come mi pare e vi accolgo se voglio”. Anche se sono persuaso avrebbe offerto volentieri il caffè, a tutti quegli affannati delegati dal mondo intero. E potete giurarci che, dal primo all’ultimo, tutti quei potenti abbiano avvertito un divertito ma autentico rispetto per l’omone villoso e la sua aulica panza, riscoprendo quella scintilla di preziosa libertà di essere e di apparire come si vuole. Non è forse di questo che si sta dibattendo proprio in questi giorni? Non è proprio quel fondamentale nucleo di diritti che si esplica anche nella battaglia di genere? Io non so se l’abbia fatto apposta; non so se quell’eroe abbia davvero voluto esprimere la propria libertà oppure se sentisse soltanto caldo. Quel che so, è che questa è la foto dell’anno.

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- Letteratura

No, vincere non è la sola cosa che conti.

Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato. Diciotto giugno venti ventuno. [anche su sparappecoglie.it] Giampiero Boniperti, mito del mondo di una squadra italiana di calcio e non solo, è scomparso oggi. Viene unanimemente ricordato con stima e trasporto. Non potrei né saprei azzardare una valutazione sull’uomo, però ho scoperto sia stato l’autore del celebre slogan di quella società sportiva: “Vincere non è importante: è la sola cosa che conti!”. Ecco, su questa frase qualcosa da dire ce l’ho: io trovo essa rappresenti quanto di più antitetico al concetto di sport, se non a quello di convivenza civile. Un’affermazione imprudente e, se non pericolosa, di certo immemore dei progressi che l'umanità sta faticosamente tentando di compiere da qualche millennio a questa parte. Innanzitutto: chi la pronuncia è un vincente? Per forza: se non lo è, allora ammette di valere zero, di essere irrilevante. E, se lo è, lo è sempre stato e sempre lo sarà? In caso contrario, una parte della sua vita dovrebbe essere cancellata dagli annali. Ma poi, chi è vincente? Chi eccelle nel proprio lavoro? Ecco: chi primeggia nello sport, per esempio? E cosa significa essere primi: sconfiggere tutti gli altri oppure occupare una posizione tra i migliori? E per quanto tempo? E chi sono, i migliori? I primi dieci su mille, su un milione? Esempio: la squadra di serie A che naviga a metà classifica, è vincente oppure non può declamare lo slogan, siccome non conquista nemmeno uno scudetto? Quindi, i suoi tifosi sono dei sognatori o, nella peggiore delle ipotesi, degli stolti? E non si dica che il motto riguardi “soltanto” lo sport. Perché lo sport è metafora dell’esistenza, nato come palestra, connaturata all’uomo, di sana competizione, di confronto, di crescita, di abitudine alla vittoria ma anche alla sconfitta, di tensione a primeggiare ma anche di lealtà, di superamento dei limiti ma anche serena accettazione di essi! Sport è passione, è fratellanza. E dopo, molto dopo, vittoria. Ora, presto assisterò ad un saggio di pianoforte dei miei figli. Credo siano bravi ed io ne sono orgoglioso ma, se giro un po’ in rete, posso trovare bambini prodigiosi che eseguono, come se bevessero un bicchier d’acqua, pezzi molto più complessi: sono geniali. Quindi i miei figli non sono “vincenti”, il mio orgoglio è vano? Beh, se è così, tutta l’esperienza, tutto l’impegno, la crescita spirituale, l’impatto educativo della musica non servirebbero a nulla: sarebbero comunque irrilevanti. Vale per lo sport: chi gioca a tennis ma lo fa per puro diletto, è uno zero? Dovrebbe, forse, allontanarsi dal concetto stesso di attività sportiva? Il giovanissimo tennista Sinner ha vinto dei tornei ma ha rimediato anche dure sconfitte: è un vincente oppure lo è solo Federer… che, pure, ultimamente è prematuramente uscito dal torneo di Halle?! La marciatrice alla maratona di New York che riesce a concludere l’intera gara dopo essere dimagrita venti chili ed aver disciplinato corpo e spirito con duri sacrifici durati anni, arrivata ultima ma pur sempre al traguardo, è forse una perdente?! No, ovviamente: ha vinto. E alla grande. Chi decide se sei un vincente o un perdente? La risposta è: nessuno. Vittoria, nello sport come nella vita, è dare il massimo. È provare a superare le barriere che, a volte, ci auto-imponiamo; è impegnarsi a fondo, accettando la superiorità altrui ma rifuggendo la superbia per la propria. È mostrare empatia, è riconoscere e rispettare il diverso da sé, è fare gioco di squadra. Soprattutto, è essere leali, provando a vincere con metodi leciti e senza supporti non permessi. Fare sport non è vincere: è tendere alla vittoria. Rispettare le regole, giocare puntando sulla propria capacità di ricavare il massimo dagli elementi di cui tutti devono servirsi, senza sotterfugi, senza favoritismi, senza corruttele. Vivere è la stessa cosa. Ecco perché uno slogan come questo non può essere preso sul serio: perché non vuol dire proprio niente. Perché si scontra con i valori più alti dell’esistenza e conduce chi ci creda seriamente al più buio scoramento, se solo provi ad applicarlo, con un briciolo di raziocinio, su se stesso! Quindi, no: continuerò a preferire il vecchio motto: “L’importante è partecipare”. Certo, provando a vincere! Con tante grazie all’arcivescovo della Pennsylvania Ethelbert Talbot per averlo ideato e… anche allo storico francese Pierre de Coubertin per averne reso immortali le parole. P.S. Lo sapevate?

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- Letteratura

Ma il problema non è solo l’aula Perrilli

MA IL PROBLEMA NON È (solo) LA PARRILLI Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato. Cinque giugno venti ventuno. Venerdì 4 giugno i rappresentanti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Salerno, i Colleghi in procinto di rendere il prescritto giuramento per l’esercizio della professione ed i propri cari hanno dovuto tollerare le forche caudine dell’identificazione dalle Forze dell’Ordine per poter accedere alla simbolica aula Parrilli presso il Tribunale di Salerno, oggi sede del Giudice di Pace. Volevano impedirci l’ingresso in casa nostra, abbiamo dovuto (garbatamente) forzare la mano. Eppure, gli organizzatori avevano soddisfatto ogni onere. Eppure, il COA Salerno aveva già autorevolmente – ed in tempi non sospetti – posto il problema dell’utilizzo e della cura della Parrilli così come della biblioteca De Felice e dell’aula Gassani e di altri spazi dedicati alla Categoria. Ma quand’anche non fosse stato? Quand’anche non avessimo “avvisato” correttamente? Avrebbero mai potuto, legittimamente, fare quel che hanno fatto? No, la risposta è comunque, sempre no. Sdegno unanime, dunque: quell’aula contiene in sé la narrazione della classe forense salernitana e non solo; quel Tribunale è lo storico teatro di mille e mille battaglie, di drammatici scontri, emotivi e tecnici, di vicissitudini autenticamente umane. Chi si permette di non farci entrare? Ben hanno fatto i Colleghi, che non si sono lasciati intimorire: già la professione è diventata un dedalo di trappole ed incertezze, perché lasciare che cominciasse con una cocente delusione per i nuovi arrivati? Però, qui, non può bastare il semplice sdegno. Non può esser sufficiente l’acclamazione per il contegno mostrato: dobbiamo seriamente analizzare le ragioni di un declino che, ieri, si è palesato con enorme nitore. Declino di tutta la classe, mica solo quella salernitana! E dobbiamo agire. Il punto è che siamo già ben oltre la linea di guardia: doveva accadere. Era solo questione di tempo: noi già non avevamo più le chiavi di casa nostra. Non possiamo accedere – solo per il covid? – liberamente nella Cittadella; le file innanzi alle cancellerie sono una realtà evidente ed insopportabile da anni; le udienze sono divenute spettri, tra il trionfo d’un frainteso procedimento telematico ed i rinvii di lustri… Non fermiamoci al mero aspetto formale! La verità è che noi Avvocati non siamo più rispettabili, il nostro decoro è offuscato. I nostri simboli, i nostri simulacri di una nobiltà che fu, già scoloriti a causa di infinite criticità, oggi ci vengono fisicamente sottratti. Siamo arrivati al punto che dobbiamo lottare per reclamare spazi e segni che ci appartengono da sempre. Ci stanno privando della nostra stessa linfa e noi continuiamo a fingere che “andrà tutto bene”, per usare un’espressione che ha avuto davvero troppo successo. Chi (ma chi?) voleva impedire di far giurare i nostri neo-Colleghi nella prestigiosa, cara aula Parrilli si unisce soltanto al coro di chi sta facendo di tutto per eliminarci. E da molti anni: con una legislazione impazzita, con organici del comparto ridotti sempre più all’osso, con tempi per un qualsiasi provvedimento mastodontici e senza speranza; con rinvii d’udienza ad anni ed anni, con la riduzione delle tariffe forensi ad elemosine, con l’indiscriminato accesso alla Professione ridotta a refugium peccatorum; con sistemi di soluzione delle controversie alternativi alla vertenza percepiti come giochetti gratuiti (ma a che serve la c.d. negoziazione?!); con un patrocinio a spese dello Stato sempre più povero ed incerto, con il trattamento discriminatorio della Giustizia di Pace. Con magistrati troppe volte più adusi alla “politica” che al Diritto. Con le strutture sempre più obsolete e desolate, con le spese di causa non protette da forme di garanzia patrimoniale, con la sostanziale disparità tra accusa e difesa nei giudizi penali, con le sentenze schizofreniche, con i costi per accedere al contenzioso schizzati alle stelle, con il divieto di autenticare le sottoscrizioni se non per i mandati… e potrei continuare per ore! Ma pure a causa delle nostre colpe, perché chiniamo il capo, perché difettiamo nella nostra stessa rappresentanza. Eppure, siamo i primi a possederne i mezzi! Ecco perché plaudo alla fermezza mostrata ieri dal mio COA. Ma deve divenire un’abitudine, deve essere solo l’inizio: per tutti noi, Consiglieri e non. Che sia già tardi? Doveva accadere ed è accaduto, quindi: è avvenuto a Salerno ma sarà così ovunque ed in forme diverse, ugualmente intollerabili. Invero, succede ogni giorno, ovunque, dapprima nella comune percezione di noi e della nostra alta funzione, che pure costituisce il fondamento della convivenza civile e, quindi, della civiltà stessa! Non dobbiamo soltanto riappropriarci della Parrilli: dobbiamo riappropriarci di noi stessi.

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- Letteratura

A G. Che vive nei nostri cuori e nel suo altroquando

Questa volta, ti ho sognata così. Eravamo nell’appartamento di tante, festose riunioni memorabili, a Napoli, in quell'edificio collinare ad angolo, con tratti liberty ed una misteriosa casetta appartata, che si raggiunge con una sorta di costola della maestosa ed austera scala principale. Quell’abitazione elegante che ho tanto amato e vissuto e che adesso non esiste più, se non nella memoria di un’intera famiglia. Altri potranno goderla, con altre voci, altri mobili, altre storie. C'era il sole e la luce da sinistra, dalle finestre ampie della stanza da letto. Camminavano insieme su quel pavimento lucente, nel corridoio verso la cucina, che appariva lunghissimo. Già, la cucina!, dove zio sapeva far rivivere il pesce e le aragoste, appena comprati dalle mani di pescatori cui dava del tu. Mi hai rivolto uno sguardo dei tuoi. Avevi i capelli singolarmente raccolti - da cui spuntava qualche riccio ribelle, nero nero - ed eri bellissima. Indossavi abiti anni '90, attillati, sobri ed eleganti, color uva e verde autunnale. Portavi tacchi neri. Ho pensato fossi, forse, un po’ troppo rigorosa. Mi sembravi la versione migliore di te e te l'ho detto. Sicura, serena. Ma con lo sguardo di chi sapeva, di chi rammentava ogni cosa. Ed io, l'uomo di ora e non il ragazzo, te l'ho confessato schiettamente, non so se con la parola od il pensiero: ero certo di poterti trovare (anche) qui, in una delle migliori oasi della tua breve vita. Qualche altra l'avevo già sognata ma non mi era mai sembrata del tutto appagante; come in questo caso, del resto. Abbiamo finalmente raggiunto quella gloriosa cucina, dove una congiunta (che mostrava l'età dell'epoca) ci impediva di dialogare, intenta a curiosare tra le molte ed insolite cose di cui tutti voi vi circondavate. Mettevo piede sul terrazzo, quello che era stato colonia dei tanti canari incardellati, di cui però adesso non v’era traccia. Era tutto malinconicamente silenzioso, lindo ed in ordine, e proprio quegli stretti terrazzi, compreso il tuo, erano stati ritinteggiati ed allargati. Poi abbiamo messo piede nello stanzone che avevi reso il tuo regno. Era disordinato ed allegro come lo ricordavo. Sul letto, ancora non rifatto, oggetti spiritosi ed inusuali. Ti ho chiesto: “Perché ti fai raggiungere così tante volte da me?” “Perché sei stato un amico speciale”, hai risposto. Ed io: “Beh, amico... come tutti, direi piuttosto fossi affascinato da te. E poi non ho fatto nulla di speciale”. Quindi, l'unica cosa da dire: “Manchi. Manchi a tutti noi”. E tu, con quell’adorabile smorfia d’ironia sul viso e la tua voce pastosa, quasi come non ti costasse poi molto: “Non devi pensarci. Vai avanti. Fa’ tutto quel che devi”. “Lo so, ci sono riuscito, sta’ tranquilla”, ti ho risposto, prima di svegliarmi, quando il sole era già alto. Avrei voluto parlarti a lungo ma ti ho lasciata lì, nel tuo Altroquando. In attesa di conoscerne, prima o poi, uno nuovo.

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- Società

C’è una scuola che insegna a non dire grazie.

Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato. Dodici maggio ventiventuno (per questo ed altre storie, sparappecoglie.it) Esiste. Deve esistere. È la scuola in cui ti insegnano come non dire “grazie”. Un istituto efficacissimo come pochi, che saprà garantirti questa difficile arte per tutta la vita. E senza mostrare nessuna apparente vriògna! I docenti sono coloro che applicano alla perfezione la regola dello sminuire, del travisare, del mal comprendere, dello schernire, del minimizzare. I discenti… beh, aspirano a tanto e, spesso, diventano insegnanti. Come, pure, spesso apprendono male. L’accesso alla scuola è legato a criteri rigidissimi ma eterogenei, perché i suoi studenti appartengono alle più svariate estrazioni e condizioni, ad ogni genere, colore e provenienza. La caratteristica irrinunciabile che accomuna questi eroi del pensiero moderno, questi mostri dell’etica e dell’estetica dell’attuale, questi neo-sapienti, questi menefreghisti del karma è la straordinaria capacità di non attribuire al prossimo, MAI, alcun merito, nemmeno quando sia palese. Rechi un dono? È la ricompensa insufficiente per qualche loro benevolenza pregressa. Risolvi loro un problema? Sarà certamente stata qualche altra felice e casuale combinazione di eventi! Porti il consiglio dell’esperienza? In fondo, avevano già considerato quell’idea, quindi non hai fatto nulla di utile. Elargisci cure? Beh, tanto prima o poi bisogna pur lasciare questo mondo! Che so, fai un dolce? Amano il salato. Porti un rustico? Viva il babà! “Rimani in casa?” “Voglio essere libera!” “Esci pure con chi ti pare.” “Non ti interessi mai di quello che faccio!” (cit.). Questi geni del male sono assistiti anche dalla tecnologia, che evita persino quel minimo contatto personale che potrebbe (?) tradire un minimo di scuorno: penso a qualche goccia di sudore sulla fronte, allo sguardo basso, al tono di voce alterato… Il fatto è che questo mondo è fatto per loro: il telefono è l’amico vero, la tastiera lo strumento perfetto per la loro ipocrisia. Ché, poi, non sono mica scemi?! Anzi, spesso sono intelligenti, magari colti, preparati. Anche simpatici. Empatici… uhm, non direi. Una volta ho risolto un problema ad uno, sempre a costo zero. Oh: me lo aveva chiesto, aspettava. Non sapevo ancora di esserci riuscito: lo scopro grazie ad un suo messaggio su un social, dove – senza minimamente riferirsi a me – afferma: “Grazie al Cielo!”, con una bella immagine esemplificativa della MIA opera in suo favore. Un grazie? Un tag? Un messaggio? Macchè. È il Cielo, che ha operato in modi misteriosi. Ma peggiori, forse, sono coloro che affermano di voler as-so-lu-ta-men-te darti un segno della loro gratitudine e tu, dopo esserti schernito per giorni, perché l’hai fatto davvero per affetto, dichiari la verità: non hai bisogno di nulla, “basta che mi vuoi bene… fai così: tessi le mie lodi!”. Ma questi insistono! Quindi, vanno dal cinese (con tutto il rispetto) più vicino e ti comprano e spediscono (dico per dire) uno di quei gatti che fanno ciao-ciao. Cosa hanno ottenuto? Beh, di certo che non avranno più la tua attenzione. Perché credono, così facendo, di essere stati pure furbi, e questo è inaccettabile: non soltanto chiedono il tuo favore ma, dopo, non vogliono nemmeno sentirsi in obbligo! Straordinari. E noi avvocati ne conosciamo tanti ma tanti... (Eppure, la stessa tecnologia di cui sopra, che li esenta dall'incontro personale, potrebbe aiutarli, se realmente volessero darti un segno di riconoscenza: penso ad Amazon ma andrebbe bene pure Interflora!). Una volta risposi ad un amico caro e stimato (che resta sempre un amico stimato ma un po’ meno caro), cui avevo offerto una consulenza abbastanza complessa, che, se proprio proprio voleva ricambiare, poteva aiutarmi a pubblicizzare il mio blog, sparappecoglie.it. Risultato? Uno stitico post su Facebook in cui condivideva un mio singolo pezzo (non il blog!), chiosando qualcosa del tipo “Non lo leggo spesso, non dico di approvarne le tesi ma in fondo non causa la morte improvvisa o l’impotenza”. Fine ed amen. (Amico, se ti riconosci: si scherza. Però dubito mi leggerai, visto l’entusiasmo mostrato nel condividermi). Va beh, forse questi ultimi sono solo cattivi studenti. Saranno stati rimandati o bocciati perché, a ben vedere, non hanno appreso le astute sottigliezze del non-dir-grazie! Poi certo, ci sono quelli che ti riconciliano col mondo. Per esempio, l’autore del quadro che ho da qualche tempo nel mio studio, dipinto apposta per me. Perché, alla fine, le persone si confermano per quel che sono. E sono proprio quelli più vicini che apprezzano maggiormente la tua amicizia, il tuo favore. Un circolo virtuoso: del resto, la grazia non si insegna in nessun istituto.

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- Società

Esistono tragedie diverse

Di Pasquale D'Aiuto, Avvocato. Ventiquattro maggio ventiventuno Esistono tragedie diverse. La vita ne è piena: private, pubbliche, artistiche, sportive, belliche, persino umanitarie. A che servirebbe elencarle? Ma alcune sono particolari: se possibile, più gravi. Perchè minano persino quelle poche, semplici, piacevoli abitudini che, di tanto in tanto, noi comuni mortali, oppressi da mille e mille pensieri, ci concediamo per dimenticarci di noi stessi e di quanto sia difficile vivere. La fine di quelle persone, su una funivia che avrebbe dovuto condurli ad un'oasi di (relativa) pace in altura, è inaccettabile. Non può essere possibile si tranci un cavo e, per giunta, i dispositivi di sicurezza non si attivino! Non è pensabile che una passeggiata in mezzo ai boschi si concluda con la morte per una ragione del genere. Un fatto tale non implica la semplice colpa di qualcuno ma costituisce l'emblema più drammatico di quanto l'umanità possa essere cattiva. Scopriremo che, alla base della terribile fine di quei padri, di quelle madri di famiglia e dei loro piccoli, ancora una volta starà la disumanità di chi avrà tratto un misero vantaggio da un mancato controllo, una sostituzione rinviata, una riparazione arraffazzonata. Come per il ponte di Genova. Sì, qui ci sono i morti ma la storia è sempre la stessa: come nella sanità, come nella giustizia, come nella scuola, tanti operano male, senza ritegno, rendendo la società inefficiente ed ingiusta. Ma qui, trattandosi di cavi e freni salva-vita, il risultato non è - che so - la mancanza di sapone nei bagni di un ospedale, la scomparsa dell'ascensore sociale, la presenza di milioni di disperati od ignavi che manco lo cercano più un lavoro oppure la penuria di carta, personale e molle per fascicoli nei tribunali: è la morte di 14 innocenti che volevano farsi soltanto una passeggiata in famiglia. Ma il motivo, credete a me, è sempre lo stesso: la disonestà, la corruzione o - forse, peggio! - la disumana superficialità di troppi. Sempre lo stesso, disarmante motivo.

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- Letteratura

Non è l’amore, ma l’invidia il sentimento più umano.

Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato. Ventiquattro marzo venti ventuno. Oscar Wilde: “Chiunque può simpatizzare col dolore di un amico ma solo un animo nobile riesce a simpatizzare col successo di un amico”. Di recente, un brillante amico mi ha raccontato di aver guadagnato un incarico lavorativo eccezionale. Mi ha telefonato, ne abbiamo chiacchierato: è stato bello. Quando l’amico condivide la propria gioia con me, lui è felice ed io mi sento fortunato. Certo: sono lieto per lui – quasi come se si trattasse di me stesso – ed onorato che voglia parteciparmi la propria gioia; ma la prima attribuzione che avverto è la fortuna. Infatti sono compiaciuto di esser capace, autenticamente, con cuore e testa, di partecipare al suo successo. Beninteso, lo sono quando si tratta di condividere la vittoria di chi lo meriti, non dell’incapace o del neghittoso favorito dai natali o dalla ciorta (sorte). E, tra il serio ed il faceto, spesso suggerisco all’amico trionfante di scegliere attentamente gli… interlocutori della propria contentezza. Perché è l’invidia il sentimento più diffuso ed umano, mica l’amore. Amare è considerato piuttosto comune ma è difficile: donare se stessi, dimenticarsi di sé, sentirsi parte dell’altro ed esser pronti ad affrontare la delusione della mancata corresponsione (siamo sicuri ci sia così tanto amore, in giro?!). Ma l’invidia… quella è facilissima. Non ci vuole nulla. Si tratta della cattiva elaborazione delle fortune e delle qualità degli altri, che ci riesce benissimo; per cui, invece di condividerne il sorriso, rallegrarcene, provare a comprendere perché abbiano centrato l’obiettivo, farci un esame di coscienza e mirare a migliorare, trarre le lezioni giuste, ci chiediamo: perché lui e non io?! L’invidia è lì, dietro l‘angolo, che ammicca. Vale per tutti, è comprensibile. E conta poco che tu provi affetto o meno per l’altro; anzi, in effetti, proprio quando l’amico ha successo apprezzi se gli vuoi davvero bene e se, soprattutto, lo stimi. L’invidia rosicchia i fili dell’affettività, dell’empatia ma anche del raziocinio. È comoda, istintiva, consolatoria: in una parola, umanissima. Noi sorridiamole e trasformiamola in volontà di emulazione: può essere la molla per grandi cose. Chi ha reso questa consapevolezza una parte di sé è una persona fortunata.

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- Società

La sensazionale intuizione dell’arbitro Orsato –

Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato. Sei marzo ventiventuno Nella prima metà dell’Ottocento, il Dr. Ignác Fülöp Semmelweis, ginecologo a Vienna, ebbe una rivoluzionaria intuizione: l’altissima mortalità tra le partorienti della sua clinica era causata dai colleghi, i quali passavano dalle autopsie alle visite delle gestanti… senza lavarsi le mani. Nella diffidenza generale, impose lavaggio, disinfezione e, già che c’era, pure lenzuola pulite: la mortalità nel suo settore crollò quasi a zero e lui divenne il “Salvatore delle madri”. Fu premiato? Macchè: derisione, esclusione dalla comunità scientifica, licenziamento, depressione, internamento in manicomio. Un genio incompreso, nella poco rassicurante parabola dell’umanità. Nella prima metà di questo secolo, precisamente domenica scorsa, si è palesata un’altra straordinaria, geniale intuizione, dalla portata universale: LA VICINANZA È MALE! Ce lo ha spiegato l’arbitro Daniele Orsato in merito al fallo di Pjanic su Rafinha in quell’Inter-Juventus del 2018, che lui ritenne non da ammonizione perché… troppo vicino. Ora, siccome una frase del genere, nel calcio, è oggettivamente assurda – visto che il buon arbitro è, tradizionalmente, VICINO al giuoco, mica lontano! – non può che trattarsi di un’illuminante metafora dell’esistenza. Non c'è altra spiegazione. E noi, memori del destino ingrato riservato al medico ungherese, risparmiamo la pazzia al saggio Orsato e, anzi, proviamo a seguirne il Verbo, a partire dalle cose d’ogni giorno. Per esempio: se non riconosciamo qualcuno per strada, specie con la mascherina, chiediamogli di retrocedere. Così rispetteremo anche la distanza di sicurezza. La polenta scagliamola nei piatti, come facciamo col secchio quando laviamo l’auto. Suggerisco un’incerata sul tavolo, almeno fino a quando non diventeremo molto abili. Se accompagniamo all’asilo il nostro figlioletto duenne, diamogli indicazioni dall’altro marciapiede. Ce ne sarà grato quando avrà raggiunto la propria indipendenza, il che avverrà moolto presto, perché l’alternativa è essere stirato dalla prima macchina che passa. Per le condoglianze, “Ti sono lontano in questo difficile momento” andrà benissimo. Se non saremo compresi, almeno sottrarremo alla tristezza il destinatario, gettandolo nella rabbia e nello sgomento per qualche oretta. Allo stadio, sediamoci all’ultimo anello; in teatro, preferiamo la piccionaia! Risparmieremo denaro e, se la squadra gioca male o la soprano stecca, soffriremo meno. Non accarezziamo mai il cane. Probabilmente diverrà melanconico ed azzannerà gli ospiti ma, prima o poi, capirà. O fuggirà. Nel dubbio, meglio ripiegare sul meno empatico gatto. Mostriamo lucido distacco con l’amico che si duole con noi: perderà questa cattiva abitudine. E magari non ci chiamerà più. Non trascorriamo troppo tempo a casa: telefoniamo, messaggiamo... latitiamo. Alla fine, il coniuge comprenderà, addirittura c'incoraggerà a curarci dei fatti nostri e lasciarlo libero! Quanto ai rapporti intimi, posso solo formulare tanti auguri. E quindi grazie, arbitro Orsato! Se nutrivamo ancora dubbi sul suo contegno professionale, con questa spiegazione li ha spazzati via. Non farà la stessa fine di Semmelweiss, abbiamo compreso il profondo senso delle sue parole. Del resto è stato, di recente, nominato miglior arbitro del mondo! Vede? Il nostro sistema funziona! Già, il Sistema funziona proprio bene.

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Come stai? Stiamo tutti allo stesso modo.

Di Pasquale D'Aiuto, Avvocato. Ventisette febbraio ventiventuno Questa notte ho sognato di essere in viaggio a New York. Come in tutti i sogni, i paesaggi erano irreali, carichi di colori, evocativi più che tangibili. Ricordo che attraversavamo una campagna ricca di colture in salute e case insolite e, poi, giungevamo nella città vera e propria, grande, possente e luminosa come nella realtà. Rammento anche che trascorrevamo una notte al centro, in un appartamento; il mio letto era giusto sotto una finestra. I suoni della città cullavano il sonno; l’infisso era spalancato: l’aria era tiepida e prometteva avventure. Oh, naturalmente scrivo in prima plurale perché pure nel sogno non mi staccavo dalla mia famiglia, infatti mia moglie ed io mostravamo le cose ai nostri figli. Ho chiamato Freud, dice che i sogni sono il mio inconscio che emerge. Non ha mancato di aggiungere che sono un bacchettone pure nei sogni, se mi porto appresso moglie e prole e non mi immergo in baccanali. Ma lui è un po’ fissato con certe cose, sapete come è fatto. Quanti di noi sognano di viaggiare? Io lo faccio spesso. Non ho mai desiderato così tanto di evadere, vedere nuovi paesaggi, confrontarmi con stimoli diversi dal quotidiano. Sono sicuro valga lo stesso per voi. Per tutti voi, o quasi. Perché uno dei risultati più certi di questa pandemia è il comune sentire. Non solo nei sogni. “Come stai?”. Io ci ho sempre messo più del dovuto, a rispondere, perché per me è una domanda vera, non il semplice “How do you do?” degli inglesi. Tant’è che il mio interlocutore, qualche volta, stava lì per lì per dirmi: guarda, si tratta solo di un convenevole, non farmi perder tempo! Ma adesso non sono più il solo. Quando lo domando, per la prima volta, noto che la risposta è sempre più di rado automatica. Nessuno o quasi risponde “Bene, grazie!”: molti sorridono e basta, altri aggiungono “Combattiamo” o frasi del genere. C’è chi diviene pensieroso, chi sembra spronare se stesso con un “Bene, dai!”. Di certo non è come prima, che tutti, frettolosamente, badavano al sodo. Eh già, perché oggi, il sodo è proprio questo: come stiamo? Io rispondo, spesso, seppur con gli occhi che sorridono: “In apnea”. E, quando lo affermo, colgo un misto tra sollievo ed empatia nell’altro. Perché, in questa epoca breve ma ampia e dolorosa di restrizioni nelle nostre libertà più elementari, ci sentiamo come pesci rossi in una piccola bolla oppure sommozzatori in immersione (sì, i pesci rossi respirano ma ci siamo capiti). Il nostro stato psico-fisico non è più una costante ma una variabile, da prendere molto sul serio, da stimare concretamente giorno dopo giorno. Mai avevamo sperimentato questa solitudine, mai la disumanità del non potersi letteralmente guardare in faccia, mai – per esempio – il divieto o il rischio nell’andare a scuola o prendere un caffè al bar o assistere ad un concerto o tifare allo stadio. Quindi: come stai? “Così così” non va bene: non c’ho il covid, magari nessuno ce l’ha tra i miei cari, quindi “Bene!”. Però dai, bene bene no. Magari non vediamo i nostri genitori o i nostri fratelli da un po’, altro che bene. Magari temiamo il nostro futuro, quello del Paese. Magari siamo in ansia per un amico, magari soltanto perché sembra non vedersene la fine. E quindi: “Eh, come tutti!”. Già: come tutti. La pandemia e tutte le stravaganze moleste che ha portato, questo ha fatto: ci ha accomunati in questa nostalgia della nostra perduta umanità. In qualche modo, ci ha reso tutti più simili. Un’uguaglianza di cui avremmo volentieri fatto a meno ma che è tangibile quando qualcuno ci chiede: “Tu come stai?”.

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Quel che vorrei per il mio compleanno.

Ventitré febbraio venti ventuno Di Pasquale D’Aiuto. Avvocato. Oggi è il mio compleanno (“Auguri!” - “Grazie” - “Quanti sono?” “Abbastanza per prendere atto di non aver capito una ceppa”). Quindi, siccome mi è concesso, per quel contratto che tutti abbiamo implicitamente sottoscritto il giorno della nostra venuta al mondo, di essere egocentrico e vanesio per un giorno (sì, un giorno: risparmiatevi le battute), vi annuncio i primi doni che desidererei. Vorrei che ci fosse un vaccino. Ma non per il covid – ché, tanto, ormai mi sa che ci dobbiamo convivere, con l’idea dei virus e dei batteri fetenti che ci stravolgono la vita. No: quello per l’imbecillità. Ad esempio, per chi si va a prendere l’aperitivo sul lungomare con gli amici perché vale più del rischio di ammazzare suo nonno. Vorrei una cura per quei poveri cristi che ancora molestano i gay. Sono autenticamente, miseramente cretini e, con ogni probabilità, esorcizzano qualche grosso, grossissimo problema personale, poverini. Anzi: vorrei in regalo una società così evoluta da consentire a ciascuno di essere se stesso. Anche se mi rendo conto che, poi, i cretini non fanno altro che essere se stessi, quindi l’aporia resta. Questo è un bel problema. Vorrei un minimo di dignità da parte dei nostri rappresentanti politici, che spendono tre volte tanto, dei soldi nostri, per fare la metà di quel che serve. E farlo pure male. Vorrei uno sport dove non decidono di far fuori un marciatore fuoriclasse ed il suo allenatore perché sono indesiderabili per il sistema. E, già che ci sono, magistrati coraggiosi come quel GIP a Bolzano. Vorrei che i bambini potessero essere semplicemente bambini, in ogni parte del mondo. Vorrei che le foreste restassero foreste perché abbiamo bisogno di ossigeno e possiamo anche mangiare qualche chilo di carne in meno a testa. Vorrei che fosse chiaro che no, non basta usare il deodorante. Vorrei che ciascuno parlasse di ciò che sa e per cui ha fatto esperienza o studio. E che chiedesse lumi sul resto. In questo modo, i social sarebbero un posto di autentica crescita e confronto e, alla fine, noi tutti sapremmo un po’ tutto di tutto, per davvero. (A proposito: invidio i giovani di oggi. Loro possono, con un click, accedere alla conoscenza. A quindici anni, per ascoltare (e suonare) i Notturni di Chopin, mi dovetti recare apposta alla Feltrinelli a Salerno e spendere ventimila lire. Oggi scaricherei lo spartito e mi godrei almeno tre interpretazioni diverse, guardando anche la diteggiatura… Siete fortunati, non dimenticatelo! Ah: lo siete anche per Netflix e Disney Plus, ma di quelli godo anche io, deo gratias). Vorrei che il Napoli vincesse lo scudetto, magari in tempi ragionevoli. Vorrei che novantuno punti bastassero. Come, di norma, bastano. Vorrei che indossare una gonna non significasse, agli occhi di troppi, divenire terra di conquista. E non parlo di Braveheart. Vorrei andare a vedere di nuovo Tony Tammaro dal vivo. E sempre con la medesima catarsi. Vorrei la pace nel mondo. Nel senso della pace di ciascuno con il proprio cervello, che mi sembra il primo, irrinunciabile presupposto di quella Urbis et orbis. Vorrei una Giustizia umana e nessuno al di sopra delle Leggi. Va beh, ora sto davvero esagerando, è più facile la pace nel mondo. Vorrei morire prima dei miei figli e di mia moglie. Vorrei un rimedio alla caduta dei capelli. Anzi, siccome non capisco nulla di tricologia ma sono un complottista, vorrei che rendessero pubblica la cura che, sono sicuro, esiste già. Ma quelli, invidiosi, devono vendere lozioni e prodotti inutili per i poveri uomini con troppa virilità. Vorrei vedere meno “Sì” senza accento, “pò”, “qual’è”, “Tutto apposto”. Vorrei un uso più consapevole e meno disinvolto della lingua napoletana. Vorrei che la Nutella fosse magra. Che ci vuole? L’hanno fatto con la Coca Zero, io resto fiducioso! Vorrei che, finalmente, la storia dell’Unità d’Italia venisse raccontata nelle scuole senza ipocrisie, senza nascondimenti, senza fumosi patriottismi, restituendo al Meridione almeno la dignità della verità. Sono sicuro che solo così si consegnerebbe al nostro Paese quella percezione autentica, generalizzata e consapevole di Nazione che ci manca da sempre. Vorrei tante cose, così tante che il tempo e lo spazio non basterebbero. Come tutti, credo. Ma forse, in fondo, vorrei solo conoscere me stesso, per intuire il senso della vita.

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Buon lavoro Cartabia. Sia una giustizia umana.

Di Pasquale D'Aiuto, Avvocato. Tredici febbraio ventiventuno Voglio usare, per una volta, poche parole. Perché la voce è finita, a furia di predicare. Ora o mai più. Siamo passati da un avvocato incapace ad un magistrato. Competentissimo ma pur sempre magistrato. L'idea di base era giusta: affidare il Ministero a qualcuno che conoscesse (in teoria) i problemi del settore per averli patiti da una posizione ben precisa: quella di chi DOMANDA Giustizia. Poteva essere la svolta. Infelice, però, si è rivelata la scelta dell'avvocato: una imperdonabile culpa in eligendo. Ora abbiamo una straordinaria Giurista. Che è, però, l'espressione dell'opposta angolazione. Sarà dura per lei ma sono fiducioso. Spero con tutto il cuore ella ricordi, a differenza di qualche suo collega che non fa onore alla categoria, che la Giustizia vede tanti protagonisti: giudici, avvocati, parti, personale. Tutti uguali. Nessun questuante, nessun arbitro, nessun plebeo, nessun patrizio. Nessun artigiano. Oppure tutti artigiani, cesellatori del Diritto, che è l'immagine che preferisco! E TUTTI sulla stessa barca, che trasporta drammi umani, storie irripetibili, persone, famiglie ed imprese in attesa del futuro: esistenze, in una parola. Nelle NOSTRE mani. Nelle mani di un intero settore, non del solo Decidente o del solo Procuratore. Quindi: in bocca al lupo, Giudice. Bisogna rendere telematica, rapida, inclusiva ma soprattutto UMANA questa Giustizia. Sennò continuerà a non meritare la lettera maiuscola.

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Se ci vuole Un posto al sole per vedere un avvocato...

Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato. Sette febbraio ventiventuno Niko di “Un posto al sole” (Rai3, prima serata) è un giovane avvocato. Gli autori gli dedicano ampio spazio, ponendolo spesso al centro delle piccole, grandi beghe degli altri. La storia rappresenta il percorso ideale del professionista: si laurea in tempo, fa pratica ma non si fossilizza, studia sodo perché deve sostenere l’esame di abilitazione – che supera perché preparato; elegge le materie di suo gradimento e vi si specializza; si associa con altri giovani ed apre uno studio professionale. All’inizio non ha clienti ma poi, sfruttando un caso di un certo rilievo sociale, comincia ad ingranare. Si preoccupa del proprio reddito e della propria crescita; si concentra con devozione sulle questioni d’interesse; riceve con sobrietà e garbo in studio; non manca di evidenziare difficoltà ed incognite di ogni incarico e sollecita l’apporto del cliente nelle scelte operative. Mostra naturale riguardo per il segreto professionale ed il rapporto coi colleghi e, sovente, rammenta i propri doveri deontologici. Oh, naturalmente niente pratiche infinite presso studi più o meno iper-specializzati, niente fotocopie, niente reddito-zero-perché-devi-imparare, niente uffici giudiziari inadatti, niente file insensate e rinvii d’udienza a lustri, niente tempi morti e procedure obsolete ma tanto spirito d’iniziativa, tanto rispetto. Insomma: nulla di tutto quanto io stesso abbia (de)scritto più volte. All’inizio me ne dolevo: meglio sarebbe stato descrivere le criticità assurde della vita reale d’un avvocato – specie in questo fantascientifico momento storico. Adesso, invece, sono certo si tratti di un contegno molto coraggioso, perché rappresenta il modello di professione che merita di essere perseguito. Una normalità aurea che può far riflettere. Niko mi piace! E sì, perché Niko fa l’avvocato per davvero ma è giovane (anagraficamente, mica eternamente gggiovane come molti che non lo sono più da un decennio?); poi, esce di casa ben vestito ma non sembra un gangster; è serio ma non serioso; esprime concetti logici oltre che giuridici (certamente più credibili di quelli di un ex ministro a caso) e tende a comportarsi in modo consequenziale, lucido, cortese, mostrando gran senso di responsabilità. E viene universalmente rispettato ed ascoltato come avvocato, benchè alle prime armi. Capolavoro: ultimamente, la madre, operatrice nel sociale, gli affida il caso spinoso di uno straniero poco abbiente. Ti aspetteresti, allora, che, allorquando il cliente lo informa di non poterlo pagare con facilità, il Giovane Avvocato Niko replichi: “Non si preoccupi, la seguirò pro bono, me lo ha chiesto mammà”. E invece, no: “Intanto, occupiamoci degli incombenti urgenti; in seguito, parleremo del mio compenso”. Stupore! Gli avvocati non lavorano per la gloria?! Persino sulla RAI e, udite udite, pure se il cliente sia persona socialmente disagiata? Persino per il Giovane Avvocato Niko, così ardito da non occuparsi soltanto di udienze e bozze di atti per i colleghi accorsati? Il mio stupore diventa misticismo quanto il padre si reca dal figlio e, invece di suggerirgli di passarsi una mano sulla coscienza e prestare l’opera agratise, lo ammonisce: “O giovane Avvocato Niko, il tuo compito è duro, la responsabilità ampia: ti farai pagare il giusto?”. Uno degli autori ha il figlio avvocato, non c’è altra soluzione. Questa è politica forense! E sì, perché hai voglia a discettare di avvocato in Costituzione, di sentinelle della Giustizia, di guardiani del Diritto: in quest’epoca di delegittimazione e svilimento per la mia amata professione, una cosa del genere, in prima serata, educa più di mille dotti convegni. Il Giovane Niko desidera essere avvocato, non studia Legge perché prima o poi ti laurei o per il desiderio d’un genitore; fa pratica, si abilita, apre uno studio e la partita iva, cerca clienti, assume su di sé rischio d’impresa, patisce responsabilità ed il peso degli oneri altrui, sottoscrive una polizza assicurativa, ci mette la faccia ed appone firme sotto gli atti e, per questo, viene ADDIRITTURA pagato?! Beh, che bello, “Un posto al sole”. Mi trasferisco lì, non c’è manco la pandemia! Dovrò fare a meno della nostra eccellente, infallibile, identitaria politica forense degli ultimi decenni ma me ne farò una ragione.

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Occam ci chiamerebbe sudditi.

Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato. Tre febbraio venti ventuno. Secondo il metodo del Rasoio di Occam (Guglielmo di Occam, vissuto nel ‘300, religioso francescano inglese, teologo, filosofo), “Pluralitas non est ponenda sine necessitate”; vale a dire “Non si deve considerare la pluralità se non è necessario”. Tra molteplici, possibili spiegazioni o soluzioni, insomma, bisogna preferire la più semplice: sarà quella giusta. Occam, oggi, in Italia, ci informerebbe che non contiamo più niente. Che la Politica è morta, che la Democrazia e la Rappresentatività dobbiamo cercarle altrove. Perché tra le tante giustificazioni dell’incarico a Mario Draghi, di gran lunga la più semplice è questa: noi siamo sudditi. Di un’oligarchia, di una nomenklatura, di una signoria (non) illuminata? Quel che sia, sia ma sempre sudditi restiamo. Dite: i numeri di una maggioranza non ci sono; la crisi è conclamata, l'incompetenza pure; bisogna agire in fretta e le elezioni, adesso, sarebbero un male, poiché non potremmo progettare l’utilizzo della montagna di danaro in arrivo dal Recovery Fund – che sarà rimborsato dai nostri figli – e, soprattutto, non riusciremmo a dialogare autorevolmente con l’UE. Certo, lo ha facilmente dedotto, ieri, in quello che è apparso un lucido discorso alla nazione, anche il nostro Presidente. E come dargli torto? Che avremmo fatto, noi, al suo posto?! Tutto bello, tutto lineare ma solo se non proviamo a ragionare lateralmente. Perché il punto NON è la soluzione utilizzata da Mattarella (l’incarico ad un tecnico, seppur di chiara fama internazionale) MA il modo con cui si è giunti ad essa, ossia come sia stato possibile pervenire ad una decisione così tanto drammatica e dirompente quanto, contemporaneamente, naturale ed incontestabile! Come abbiamo ottenuto la tempesta perfetta? Che cosa ha fatto la nostra Politica per seppellire se stessa? E sì, perché il nostro Presidente, la soluzione, se l’è trovata servita su un piatto d’argento; tutto lasciava presupporre questo finale. Ma chiediamoci anche: chi glielo ha preparato e porto, questo bel piatto? E chi mai potrà contrapporsi alla decisione di non andare a votare? Anzi: chi mai VORRÀ addurre argomenti contrari? Forse, chi siede sui lucidi scranni di Camera o Senato? Forse coloro che, nati per fare opposizione, ora potranno tornare nella loro comfort zone, ritrovando i propri tic ed il pubblico votante? Forse chi, quel tecnico di garanzia, lo ha sempre desiderato? Forse gli europeisti con le tasche degli altri? Forse chi ha provocato e voluto questa crisi, e non per alti ideali? Forse chi, adesso, può togliersi la maschera del professionista prestato alla politica e dedicarsi alla fondazione del nuovo movimento di centro? Forse chi approfitterà della situazione per insistere con argomentazioni sovraniste o pseudo-socialiste? Forse chi ha un leader molto popolare, da cui smarcarsi per creare il proprio piccolo lago dove essere un big fish? Forse gli esponenti degli altri Paesi europei, che hanno ampiamente dimostrato di ritenere Draghi il loro garante? La verità è che tutti o quasi sono responsabili di questo disastro italiano, annunciato quanto deliberato; di questo anatema, realizzatosi sulle nostre teste a partire dalle liste di eletti decise nelle segreterie di partito, dagli arzigogoli nel voto oscuri solo a noi, dalla riforma del Parlamento senza una nuova legge elettorale, proseguendo coi proclami degli organi di stampa a gettone, con deliberazioni sovranazionali sempre più complesse e penetranti, con le alleanze paradossali in Parlamento, sino a giungere alla ridicola gestione di una pandemia, alla cancellazione della gerarchia delle fonti normative e, quindi, adesso, all’apice assoluto: la responsabilità di questi prestiti immensi, che potrebbero ribaltare la nostra realtà, nelle mani di soggetti giammai sottoposti al – già depotenziato – vaglio del voto, che è l’esatto contrario della Democrazia! Il destino dell’Italia non è più nelle mani di chi, bene o male, è stato scelto dal Popolo; e ci siamo arrivati con un percorso netto, inarrestabile, senza intoppi, inevitabile. E non venitemi a parlare di consultazioni, poteri e ruolo del Presidente, ché ho una laurea in Giurisprudenza con lode e pure una certa età, e di banalità ne ho lette e sentite troppe. Anche io faccio il tifo per l’Italia, pure io mi dolgo della palese mancanza di qualità dei nostri esponenti e spero che il risultato di questo percorso anti-democratico ci conduca, per lieta sorte, verso un futuro radioso ma la verità è che, vada come vada, oggi è medioevo, è la morte della Politica, dello spirito democratico e del più basilare diritto di rappresentanza della gente nelle istituzioni. Dopo settecento anni Occam ed il suo Rasoio ci relegano, con spietatezza, alla nostra condizione di sudditi.

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Augias e lo spam. Se la solitudine vanifica la cultura.

Di Pasquale D’Aiuto, avvocato. Trenta gennaio ventiventuno Corrado Augias, giornalista, scrittore, conduttore ed autore televisivo, drammaturgo e con un passato anche in politica, è uno dei massimi intellettuali viventi del nostro Paese. Ha ottantasei anni suonati, portati alla grande, ma questo non conta, se sei lucido come lui. Del resto, non era certo vecchio quando, poco tempo fa, ha compiuto un gesto straordinariamente simbolico e coraggiosissimo, riconsegnando alla Francia la Legion d’Onore per protesta, in memoria del nostro Giulio Regeni. Ebbene Augias, stamane, su Repubblica, ove scrive di consueto, rispondendo ad una lettrice, ha raccontato la propria ultima esperienza delle italiche inadempienze, narrando di una stranissima e-mail di Enel che gli prometteva un rimborso. Peccato che, evidentemente, stando alle sue stesse parole, si trattava di un tentativo di phishing, uno di quelli che ciascuno di noi cestina senza troppi tentennamenti. Ebbene, lui non soltanto non lo ha riconosciuto come tale ma – come ha sostenuto con dovizia di particolari! – ha raccontato, candidamente, di aver fatto tutto il possibile perché la mail cogliesse l’obiettivo, cliccando su qualsiasi link tossico, inserendo password e, in generale, seguendo alla lettera le istruzioni, evidentemente farlocche, ivi recate. E lui, uomo di non comuni spessore e storia personale, pur scorgendo e descrivendo lucidamente anomalie, refusi, non-sense della comunicazione ricevuta, non giungeva all’unica soluzione possibile e cioè che fosse un fake, con tanto di attacco frontale alla povera (si fa per dire) Enel, che nonostante non sia “l’amministrazione di un piccolo borgo sperduto… non ha una persona in grado di scrivere un messaggio in un italiano comprensibile”. (Beh, no, caro Augias, Enel sa benissimo cosa fa: emettere ogni due mesi bollette salatissime anche se non accendi neanche una lampadina. Questo fa, e credimi: ha persone capacissime nel compito! Ma, come si dice, questa è un’altra storia.) Tornando a noi, i commenti che leggevo sul web si fondano sull’età avanzata – che lo avrebbe reso vittima della truffa poiché egli non può comprenderla – e sulla cesura tra la realtà caotica e cangiante e la percezione di certi intellettuali. Io traggo, invece, un’altra verità: Augias mostra di essere un uomo estremamente solo, così come solissimo deve essere anche il curatore editoriale de La Repubblica. Perché non può esistere altra spiegazione. Immaginate la scena: Augias scrive il suo pezzo, raccontando con calma e dovizia di particolari il fatterello, corredato di fatwa contro Enel; ultimatolo, non lo dà in prima lettura a nessuno – che so, un amico, un parente, un aiutante; oppure, ancor peggio, lo fa ma quegli non lo avvisa della topica in cui sta per incappare (non vogliamo crederlo); dopo di che, manda lo scritto al primo giornale d’Italia. E lì (a La Repubblica) accade che i tizi pagati per controllare refusi, ripetizioni, battute, linea editoriale e così via, non si rendano conto che pubblicheranno un pezzo involontariamente comico, che porrà sotto una cattiva luce il loro quotidiano ed uno dei suoi più amati collaboratori. Sarà colpa dello smart working? Ripeto: la prima parola che mi viene in mente è SOLITUDINE. Ciascuno nella propria: pressapochista oppure superba, menefreghista od anche ignorante, fiduciosa, tronfia, ossequiosa. Ed il più solo di tutti è il povero Augias, che m’immagino, ancor prima di scrivere il pezzo, tutto intento, ramingo e derelitto, a capire che diamine volesse Enel con quella mail sgrammaticata ed oscura. Ad ottantasei anni! Malgrado la cultura, la storia personale, l’apprezzamento generale, l’intelligenza: un uomo solo, e tanto è bastato a vanificare tutto il resto.

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Se i fotografi non sanno fare le foto (ma si ostinano).

Di Pasquale D’Aiuto, avvocato. Ventisei gennaio venti ventuno. Non ne posso fare a meno. Ovunque mi trovi, se c’è un fotografo che espone i propri scatti in vetrina, io mi fermo un minuto e li osservo. Faccio come Diogene con la sua lanterna: cinico, lui cercava l’uomo; ottimista, io spero di trovarne uno che sappia scattare immagini con un qualche senso compiuto. Peccato non ci riesca quasi mai. Cioè, non soltanto eseguono lavori orribili e – ciò che più conta – privi di qualsiasi originalità ma, addirittura, ne stampano gigantografie e le espongono, così provando a titillare il desiderio del passante: “…Ehi, tu! Sì, proprio tu, che devi cresimare tuo figlio: entra e replicherò questi capolavori per la sua festa! Sì, puoi avermi!”. Peccato che le foto ti devastino: pose goffe di spose dal sorriso forzato nel vestito strettissimo (e dei coniugi col doppio mento adeguatamente valorizzato); tentativi falliti di profondità che manco mio nipote di anni tre col cellulare; bianchi- e-neri-vorrei-ma-non-posso, né nostalgici né potenti né evocativi; ritratti senza pietà di poveri bimbi, con espressioni naturali come una perla di plastica… insomma: il male. Ma mica sono i soli? Per carità. Pensiamo a quelli che vengono pagati per tradurre in italiano i titoli dei film stranieri (ultimamente, Lercio ha scritto qualcosa di ingegnoso al riguardo). Propongo sempre questo esempio: “Eternal sunshine of the spotless mind”, film meraviglioso e visionario del 2004, sceneggiato da Charlie Kaufman, il cui titolo è un verso del poeta inglese del 18° secolo Alexander Pope, diventa “Se mi lasci ti cancello”. Che manco Boldi-De Sica! Io, intanto, vorrei cancellare dalla faccia della Terra quel genio che ha immaginato che noi italiani (che abbiamo avuto Tasso e Leopardi, tanto per intenderci) non potessimo tollerare questo verso, col risultato di disertare i cinema… anzi, lui e gli altri super-dirigenti che, attorno ad un tavolo, avranno esclamato: “Se mi lasci ti cancello?! Wow, ottima idea! Così attireremo il pubblico di Boldi-De Sica, echissenefrega se dopo cinque minuti capiranno il trappolone; tanto, hanno già pagato il biglietto!” e giù grasse risate, mentre brindano a champagne e vanno in vacanza alle Bahamas, grazie al lauto e meritato stipendio da inventori di stupendi titoli di film. Meritevoli di adeguata menzione anche i tabellonisti. Chiameremo così quelli che costruiscono le insegne dei negozi, ove è possibile leggere autentiche nefandezze. Certo, con una preferenza per ristoranti e pizzerie ed una predilezione amorevole per la violenza sulla lingua napoletana – basti pensare ai (tapini) apostrofi, dimenticati o piazzati a cazzo di cane, come diceva il buon Renè Ferretti di Boris. Accostamenti cromatici improbabili, puntini sospensivi come se piovesse, cognomi buffi comicamente evidenziati (in rete ho trovato un’incomparabile “F.lli Loffa, impianti a gas, entrata dal retro”: sarò vera?), punteggiatura pioneristica ed una sola domanda: ma tu, che per lavoro stampi le insegne, una parolina, al cliente che ti paga, hai provato a dirla?! Ne dubito, e non per cattiveria: io temo, da sempre, l’ignoranza più che la malafede e le insegne costituiscono una significativa prova a sostegno della mia tesi. Parenti dei tabellonisti sono i tizi addetti per i Comuni alla segnaletica stradale. A partire dalle targhe recanti i toponimi: mai – e dico mai – il minimo riferimento all’attività principale ed all’epoca (ad esempio, W.A. Mozart, compositore, genio, 1756-1791); fantasia zero (Garibaldi, Vittorio Emanuele, Cavour, Dante e le città italiane: ma un Sabin, che ha sconfitto, gratis, la polio?! Un Mendelssohn Bartholdy, che è, poco poco, l’inventore del concetto di musica classica?); drammatiche abbreviazioni (“Via S. Francesco d’A.”, giuro, è qui vicino); maiuscole e minuscole invertite e… su, fatevi un giro: mi darete ragione! Ora, in quest’ultimo caso, trattandosi di dipendenti pubblici, sarebbe facile incoraggiare la vulgata sulla scarsa voglia di lavorare; però io non ci credo. Risparmiandovi altri esempi, secondo me, per tutti costoro, la ragione alla base di questo abbrutimento nell’espressione del pensiero, fiero vessillo dei nostri alfieri, è da ricercare in un autentico, eccellente menefreghismo, condito da manciate abbondanti di disprezzo per il lavoro e tutto ciò che rappresenta. O, forse, più a monte, deve trattarsi di abissi d’inconsapevole infelicità, che si traducono in questa assurda, comica, triste, parossistica superficialità dilagante. Ah: naturalmente, non per i fotografi incapaci. Poverini, quelli hanno solo sbagliato mestiere.

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- Società

Perché non usiamo i marciapiedi?

Di Pasquale D'Aiuto, Avvocato. Ventiquattro gennaio ventiventuno Perché la gente non usa i marciapiedi? Per quale ragione noi automobilisti dobbiamo costantemente fare i conti con una moltitudine di zombie in marcia sulla sede stradale? Ma noi – proprio noi, proprio io! – li adoperiamo, poi, i marciapiedi o rompiamo, pure noi, gli zebedei a quelli su quattro ruote?! Me lo chiedevo, per la milionesima volta, ieri mattina, mentre accompagnavo a scuola mio figlio (con le lenti appannate a causa della mascherina, ca va san dire, il che peggiora drasticamente tutta la scena). La risposta più ovvia e naturale è la seguente sommatoria di criticità: marciapiedi assurdamente stretti – probabilmente, pensati per le misure degli antichi romani, visti i tempi per progettare e costruire in Italia; sporchi – ma quanti cani ci sono, in giro? E quanti padroni moooolto peggio dei loro cani?! Ancora, occupati da vetture in sosta con due ruote in fuori-gioco – devono essere gli stessi che fanno mettere scuorno ai loro cani quando li portano in giro; oppure, banchine ingombre di spazzatura, foglie e pietrisco – di questi tempi, quante mascherine vediamo in terra? E, chi vuole, aggiunga pure. Ma poi, a dire il vero, in questo nostro meraviglioso e doloroso Sud, quanti altri banali comportamenti civili dimentichiamo, ogni giorno, a scapito del buon vivere comune? Tanti, tantissimi. E responsabili sono dapprima i controllori ignavi, che ignorano bellamente le violazioni più palesi – probabilmente, per non perdere voti preziosi . Ecco, pensando ancora ai marciapiedi: quanti di essi sono invasi illecitamente dai commercianti? Nei pressi di casa mia, ad esempio, ce ne sta uno che lo riempie di bancali di frutta e verdura in offerta. Stabilmente. Tu pedone, cambia strada, attraversa o… diventa alfiere, torre o cavallo! La cosa pubblica è trattata come uno straccio. E non come una cosa privata, poiché chi insozza il bene comune, molto spesso è un patito della pulizia, a casa propria. Ci deve essere un qualche retaggio storico, in questo comportamento contrario alle più elementari norme di buon senso. Probabilmente, la dominazione spagnola non ha aiutato: non a caso abbiamo avuto Masaniello e i così detti “lazzari” (dallo spagnolo “laceria” e, prima ancora, dal latino “lacerus”, termine associato alla miseria ma anche alla lebbra); non a caso, oggi, contiamo parecchi “lazzaroni”… Ecco, pensiamo alla raccolta differenziata: si tratta di una cosa sacrosanta, irrinunciabile. Eppure, non compiamo lo sforzo di organizzarci. Chi più, chi meno. Serve al Pianeta, quindi a noi, e tanto dovrebbe bastare. Poi, certo, ci sono anche casi davvero incredibili: questa estate, nella mia amata Calabria Jonica, in agosto, era un fiorire di discariche a cielo aperto, ove tutto stava con tutto, senza distinzioni; e nell’unico mese in cui i locali possono fare buoni incassi! Evenienza che mi ha lasciato pensare che, sovente, manchi non soltanto il rispetto per gli altri ma pure il più semplice buon senso: perché lasciare che i turisti scappino via?! E che dire delle spiagge piene di mozziconi di sigaretta, quando basterebbe portare con sé uno scatolino? Oppure dello spregio delle file, della mancata precedenza alle donne in attesa, delle urla in strada? Adesso, considerate tutti questi micro-episodi ovvi e pensate a come sarebbe bello se non accadessero: quanto migliorerebbe la nostra vita? Perché la vita è fatta di piccole cose, del quotidiano. La nostra stabilità si abbevera all’umile fonte delle piccole cose. E quindi: su, usate i marciapiedi.

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- Letteratura

Se lo Stato sapesse davvero comunicare.

Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato. Ventitré dicembre ventiventi L’altro giorno, un caro amico mi ha passato un video. Si vede una famiglia lieta, in una casa addobbata per Natale, scambiarsi i regali. Grandi abbracci, colori vividi, sottofondo musicale a tema. Tutti felici tranne il nonno, a dire il vero letteralmente affranto, svuotato, accasciato sul divano. All’improvviso, un lampo di genio e consapevolezza negli occhi del nipote: si avvicina all’anziano e gli porge un regalo! Non sembra qualcosa di voluminoso ma, quel che è certo, causa una reazione addirittura commossa dell’avo; quindi, ti aspetteresti una foto della nonna premorta o qualcosa di simile. Invece, no: la regia indugia sul tenero abbraccio tra i due e poi, proprio alla fine, illustra – finalmente! – il tanto gradito presente. Che è una card contenente l’abbonamento a PornHub. Penso anche alle campagne, sempre attuali e mai banali, divertentissime, di Taffo, lo schiattamuorto intelligente, ironico ma anche sensibile – a proposito: crematemi con loro, please. Tra cent'anni, s'intende. e quindi: porno, morte e funerali; complimenti, siete riusciti a sdoganarli! A dire il vero, ricordo anche un’altra pubblicità, per associazione di idee: Rocco Siffredi, in vestaglia da casa, che sgranocchia chips ammiccando alla telecamera, con lo sguardo di chi la sa lunga. Slogan: “La patatina tira”. Funziona. Eppure, il buon Rocco non dice proprio nulla. Eppure, sarà costata due lire. Obiettivo: prendere un “impresentabile” con il dono dello stile e reclamizzare, in modo originale, un prodotto… tutt’altro che originale. Raggiunto. Poi, purtroppo, inevitabilmente il pensiero corre alla campagna di sensibilizzazione di qualche anno fa in favore del “Fertility day” – e già il nome faceva rabbrividire: ricorderete come la Lorenzin permise che venisse diffusa la doppia immagine di tizi bianchi e sorridenti (simbolo delle buoni abitudini da promuovere, invero corrispondenti ad un certo modello che un certo dittatore di un certo secolo breve amava tanto) in contrapposizione a quella ritraente giovani di colore e con capigliatura rasta (le “cattive compagnie”). Tra l’altro, fotografie riciclate. Un’icona razzista, superficiale ma, soprattutto, terribilmente stupida ed inefficace. Quanto ad oggi, se penso alle iniziative comunicative del nostro governo, andiamo anche peggio: mi viene in mente il cash-back di Conte (a proposito: lasciate perdere, non ne vale la pena, hanno già troppi nostri dati sensibili) lanciato in diretta dal Premier – aka il peggior Mastrota – con la collaborazione essenziale di ben due neuroni. Od anche l’evidenza del fallimento dell’app “Immuni”, con una campagna non soltanto terribilmente tardiva ma pure sessista, in cui una donna cullava un bimbo mentre un uomo stava al computer. Come a dire: donna=madre, uomo=lavoratore. Anche lì, cancellata subito, come la genialata della Lorenzin. Oppure il nulla che, colpevolmente, (non) viene proposto alla gente per combattere la diffusissima evasione fiscale, in un paese alle prese con falsi poveri che percepiscono redditi di cittadinanza non dovuti ed indennizzi (non solo Covid) negati a chi, bontà sua, ha la grave colpa di contribuire regolarmente al funzionamento della Cosa pubblica. Basterebbe mostrare, con intelligenza, a cosa servano le tasse - magari, pensando prima a non sperperarle e a non convertirle in affari d’oro per i soliti noti. (Direte: ma il cash-back serve proprio a quello. No, secondo me, la strada è sbagliata ma, se volete, ne parleremo altrove). Insomma, mi domando: ma con le centinaia di presunti esperti che paghiamo, tutti noi, fior di quattrini (i quali sostituiscono gli stipendiati della P.A. che dovrebbero farlo per mestiere), che ci vuole a chiamare dei professionisti per le campagne nazionali di sensibilizzazione?! Eppure, è facile: basta bussare da Taffo. O da Pornhub.

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- Giurisprudenza

La ’giustizia sportiva’ e... l’illiceità della previdenza!

LA "GIUSTIZIA" SPORTIVA E... L'ILLICEITA' DELLA PREVIDENZA! Di Pasquale D'Aiuto, Avvocato. Quindici ottobre venti venti. Non ho potuto non leggere la stesura integrale della decisione del giudice sportivo sul caso Juve-Napoli. Ebbene, essa mi sembra risibile. Scritta male, argomentata peggio. Secondo questo paper (che definire "provvedimento" o, addirittura, "sentenza" è surreale, persino per un mediocre studente in Legge al primo anno), nel suo punto focale, "...Solo successivamente, ed in particolare con i chiarimenti da ultimo forniti dalla ASL NA2 il giorno 4 ottobre 2020 alle ore 14.13, il quadro diveniva all’evidenza difficilmente compatibile con la trasferta a Torino, e l’ “ordine dell’Autorità” assumeva valenza incidente e connotati prescrittivi chiari; quando però, ai fini della valutazione della forza maggiore ex art. 55 NOIF, la “prestazione” sportiva da parte della Soc. Napoli (che fin dalla sera precedente aveva proceduto a disdire il viaggio aereo programmato con apposito charter) era nel frattempo oggettivamente divenuta di suo impossibile, anche sotto il profilo logistico-organizzativo, avendovi da tempo la Società rinunciato". Dunque, parafrasando, il Napoli non poteva, effettivamente, rispettare il Protocollo Covid per il Calcio Professionistico perché non poteva giocare quella partita. Però è colpevole di averlo capito PRIMA. Cioè, la sua responsabilità è quella di aver interpretato, sin da subito, BENE (!) il volere dell'ASL, vale a dire sin dalle sue prime note formali - che, con un tecnicismo invidiabile, sono definite "i primi segnali dell'Autorità" - e di aver, conseguentemente, rinunciato alla trasferta ancor prima che l'Ente si esprimesse con la "chiarificatrice" (per il giudice) disposizione del 4.10 alle ore 14.13. Avete capito correttamente: il Napoli aveva ragione ma... lo ha scoperto troppo presto! E, per questo, deve essere punito. Il giudice applica male il seguente principio di diritto: "Il contraente ha l'onere di controllare la propria attitudine all'adempimento delle obbligazioni assunte: ne consegue che egli è senz'altro in colpa ove contragga, senza avere la consapevolezza, in base alla comune diligenza, di poter mantenere gli impegni assunti e può invocare l'esonero da responsabilità solo per quei fatti che non erano superabili o non erano affatto prevedibili (Cass. 04/04/1979, n. 1950; 07/01/1970, n. 44)". Lo applica male perché - sempre secondo la mia modesta opinione - al momento dell'obbligazione, contratta all'iscrizione al campionato e perpetuata con l'adesione al protocollo, il Napoli non poteva prevedere che l'ASL (che, fino a prova contraria, gestisce la nostra salute), lo avrebbe fermato in occasione della trasferta di Torino (che è seguente alla partita con il Genoa pluri-infetto, ricordiamolo!). Oppure, ragionando per assurdo, se anche l'avesse potuto prevedere all'iscrizione al torneo, comunque non avrebbe mai avuto facoltà di volare a Torino senza violare disposizioni normative a tutela - mai come adesso! - del fondamentale diritto alla Salute (art. 32 Cost.). Ecco perché la decisione è assurda, logicamente prima che giuridicamente. E vi dico anche dove ha reperito la giurisprudenza di cui ha stravolto il senso (cfr. primo commento): il caso è totalmente diverso. Buona lettura. E salute a noi.

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- Letteratura

Vi invidio, o semidei del parcheggio sui marciapiedi

Di Pasquale D’Aiuto, avvocato-utente-della-strada, undici ottobre venti venti La mattina, come molti, accompagno i miei figli a scuola. Con la macchina. Meno spesso di quanto vorrei ma lo faccio. Ed eccole: vetture innanzi all’ingresso, esattamente al termine delle strisce pedonali in uso a bambini piccoli e genitori affannati; vetture al posto dei diversamente abili, che non a caso sono il più vicino possibile agli accessi od alle uscite; vetture sui marciapiedi, che costringono alla loro circumnavigazione col rischio di finire sotto altre vetture, che sfrecciano nei pressi di una scuola. Poi, vado al lavoro, sempre con la macchina, tra uffici giudiziari, studio, clienti, riunioni. M’imbatto nel traffico? Sono automobili in sosta sulla destra, sulla sede stradale, ad occupare una corsia o, magari, in corrispondenza d’una curva, che rendono impossibile la manovra di qualche autobus. Oppure in seconda, terza fila. Lasciate così, chiuse, definitive, immote. Dei totem di lamiera. (Clacson, tetris, niente vigili, nevrosi.) Poi mi ritrovo al supermercato: veicoli al di fuori delle strisce, davanti ai carrelli, contromano nel parcheggio, in aperta disfida contro i malcapitati con le buste. Beh: io, quei conducenti, li invidio. Non li detesto mica: li invidio, quegli esseri celesti! Anzi, invidio la seconda categoria di tali non-pensanti (in senso buono), quella dei serafici. Perché la prima appartiene ai disperati, che non hanno paura di nulla e nulla da perdere, e quelli non li invidio. Ma i secondi, sì! Beati loro. Devono essere fiduciosi, ottimisti, fatalisti, leggeri come piume! Serve il latte? E che ci vuole, quattro frecce ed un minutino di sosta, entro ed esco: voilà! Un amico cammina sul marciapiedi? Sarebbe scortese non fermarsi per una decina di secondi a salutarlo, a chiedergli come sta la famiglia! E pazienza se dietro c’è la fila. Stanno procedendo in autostrada nella corsia centrale e arriva un messaggino sul cellulare? Beh: deve essere subito letto! Quindi, rallentano – ci vuole prudenza! – e restano su quella corsia – mai cambiarla, senza il perfetto controllo dell’auto… e che fa se c’è il tizio nervosetto dietro che vorrebbe passare! Queste persone devono aver scoperto un segreto che io ignoro, perché per loro la strada è libertà, autonomia, emancipazione! Mi domando se vivano anche il resto della loro esistenza – quella a piedi, per intenderci – con tale, aulica levità: spero di no, sennò devo invidiarli ancor più e potrei scoppiare. Difatti, la loro strafottenza non è umana: devono essere discendenti di qualche razza aliena oppure semidei, non c’è altra spiegazione. Perché io, che sono banale e benpensante, mi preoccuperei del karma, delle multe e pure dei chitemmuo’! E quindi vi invidio, o esseri super-umani geniali, che non rallentate in presenza di passeggini, che sostate davanti ai cancelli, che impedite l’apertura della altrui vetture, che ostruite l’accesso ribassato per i disabili! Provo invidia ma, al contempo, gratitudine: voi m'insegnate che la vita va vissuta con spensieratezza, che la strada è solo un mezzo e non un fine, che guidare è fantasia! Se tutti noi sapessimo imitare la vostra lungimiranza, il mondo sarebbe un posto migliore. Mi prostro, io, piccoloborghese del volante! Mi prostro e mastico un chitemmuo’.

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- Società

Essere ignoranti non è una opzione.

Di Pasquale D’Aiuto, avvocato, tredici settembre ventiventi <> <<Guarda, quel che so è che, se dovessi votare per la conferma, aggiungerei un accento a quel “SI”, a costo di farmi annullare la scheda!>> <> <> <> <<No, veramente no: è in ballo solo il numero – certo, con quel che ne consegue – ma quel post sgrammaticato che gira su qualche social è una delle innumerevoli cazzate che potresti facilmente smascherare se, invece di scattarti selfie allo specchio del bagno con l’orribile spazzolone per il wc ben in vista (tra l’altro, in plastica bianca e scadente) o attribuire ad Alda Merini qualsiasi nefandezza, facessi un giro su Wikipedia>>. <<Quindi, non sei DACCORDO?>> <<No, non sono… d’accordo. Ora scusami, devo proprio dar da mangiare al mio canguro>>. Ho adottato l’argomento (sensato) più in voga del momento per esprimere un concetto semplice, semplice: non si può più essere ignoranti. La facilità nell’ottenimento di informazioni attendibili e condivise è estrema: basta avere uno smartphone, internet ed un cervello. Ora, i primi due ce li hanno tutti; il terzo, no. Quindi, chi non possiede il cervello, è perdonato perché ad impossibilia nemo tenetur. Gli altri, proprio non posso giustificarli. Soprattutto quelli che sfoggiano lauree, specializzazioni, master, patenti linguistiche assortite, incarichi apicali (veri o falsi) e magari si ostinano a pronunciare management con l’accento sulla seconda “a” invece che sulla prima: no, quelli sono il male assoluto. Ah, certo: poi ci sono coloro che restano prigionieri di petizioni di principio, come i famigerati negazionisti… però lì è una questione pressoché religiosa, quindi non ci metto becco. Ma tutti gli altri? Eppure, l’accesso alla conoscenza è divenuto così semplice! Vi farò un esempio. Quando ero molto giovane e frequentavo il Conservatorio di Salerno, ove avrei, poi, conseguito il diploma finale in pianoforte, il Maestro Davide Costagliola mi assegnava dei brani da studiare. Ebbene: io partivo da ZERO. Zero. Non c’era youtube, dove ascoltare da cento musicisti diversi altrettante interpretazioni, autorevoli e meno; non i tanti siti web da cui scaricare partiture; non le chat whattsapp oppure i gruppi social grazie ai quali confrontarsi. Comprai la raccolta dei Notturni di Chopin, stampati e pure in cd per poterli ascoltare, recandomi apposta alla Feltrinelli a Salerno; e pagandoli salatamente! Poi, al mio matrimonio, 15 anni dopo, decisi di suonare una composizione dell’artista polacco: con autentica gioia, potei tranquillamente scaricarmi lo spartito, a casa, gratis, da non so nemmeno più dove. Voilà! Era la modernità, la cultura per tutti, la democrazia del sapere! Evviva il progresso! E vi risparmio le ricerche di scuola elaborate grazie all’enciclopedia cartacea, che molti ricorderanno con terrore e tenerezza, perché quello era proprio il mesozoico. Eppure, ho 41 anni, mica 81! E gli esempi sarebbero infiniti. Ora, posto che dobbiamo sempre rimanere umili e tenere a mente quel meraviglioso “So di non sapere” di un certo Socrate, in definitiva, oggi, domando: che scusa abbiamo per non conoscere quanti siano i parlamentari, chi fosse Mandela, chi rappresenti così beeene le nostre categorie professionali, perché Maradona sia stato indubbiamente il più grande calciatore della storia e come si scriva correttamente l’affermativo “SÌ”? (Ecco, appunto.)

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- Giurisprudenza

Quando l’avvocato diventa un questuante.

Di Pasquale D'Aiuto, Avvocato. Questa mattina mi sono imbattuto in una lettera scritta il 28 u.s. dal Presidente del COA Roma, Avv. Antonio Galletti, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Nunzia Catalfo. In estrema sintesi, si domanda quando sarà disponibile l’ultima tranche del reddito di ultima istanza – e cioè l’assistenza economica agli avvocati in difficoltà a causa del Covid – e se la platea potrà essere allargata. Questo il merito; quanto ai modi, da “Illustre Ministro” a “Tanti cordiali saluti e grazie per la collaborazione”, la nota è molto deferente. Ora, so bene che la lettera aveva un obiettivo preciso: quando verrà sbloccato l’obolo? E so pure che per molti l'attesa è sofferta e che il quesito è doveroso. Proprio per questo, non posso tacere le mie perplessità in relazione all'estrinsecazione dell'intendimento – pur virtuoso e condivisibile – del Presidente del COA della Capitale. Partiamo dall’interlocutore: perché non anche il nostro ministro Bonafede? Forse, decisioni come quelle giustamente auspicate dal Presidente Galletti non involgono valutazioni da compiersi in sede interministeriale? E, se pure non fosse, non sarebbe stato opportuno rivolgere anche al nostro ministro Bonafede, ultimamente scomparso dai radar, ogni richiesta, specie sulla scorta della considerazione – il punto più efficace della nota – che 139.000 avvocati italiani su 243.000 iscritti hanno chiesto ed ottenuto tale reddito per i mesi precedenti? Poi, il tono, per cui sarei lieto di esaminare diversi punti di vista ma con argomenti solidi: come si fa a scrivere una lettera così drammatica come quella in cui si domanda, in sostanza, che l’offerta a un centinaio di migliaia di professionisti in difficoltà cronica venga presto graziosamente elargita, senza lasciar trasparire un minimo di pathos? Tanti cordiali saluti, grazie per la collaborazione: ma quale collaborazione? Quando mai abbiamo potuto notare “collaborazione” dalle istituzioni? Vogliamo, forse, fingere che già abbondantemente pre-Covid la nostra situazione non fosse scientificamente stata ridotta alla stregua di un proletariato dell’intelletto? Che non ce la facciamo a reggere sulle nostre spalle le incredibili contraddizioni di una nave-Giustizia che imbarca migliaia di avvocati ogni anno senza curarsi delle loro concrete possibilità di guadagno? Come si fa ad associare la “lunga e forzata inattività” degli avvocati al virus e non rimandare immediatamente, foss’anche per inciso, alla normale crisi terrificante della professione, che è inchiodata alla realtà dai dati, facilmente accessibili da chiunque? Ed ora, il merito – anche se, forse, l’ho anticipato in parte. Leggere atti ufficiali del genere, per lo più a firma di un esponente apicale dell'avvocatura, mi addolora terribilmente. Perché, con tutto il rispetto, ho l’impressione che si ingeneri un preoccupante parallelismo tra professione ed assistenzialismo, tra mera sopravvivenza e preteso decoro. Questo, siamo? Questuanti? Facciano la carità agli avvocati, Vossignori! Ci concedano 600 euretti per andare a comprare il gelato la sera sul lungomare, Eccellenze! Questo sembriamo domandare. Ma il gelato solo per noi, non per i nostri figli, ché non ne possiamo avere, non possiamo permetterceli, così come un’auto, una casa, un mutuo, svaghi. Orsù, accordino l’ultima istanza anche ad altri centomila, così accontentiamo tutti gli avvocati d’Italia! E invece, no. Doveva essere, DEVE essere diverso da così. La premessa da compiere, in un documento che doveva avere una diversa e più complessa funzione, era rammentare all’ “Illustre Ministro” che già prima della pandemia le condizioni lavorative ed economiche degli avvocati fossero divenute insostenibili, e da molti anni; di poi, il fulcro della comunicazione doveva riguardare l’assoluta necessità sociale di promuovere significative innovazioni e notevoli semplificazioni nel comparto per salvaguardare i professionisti e le loro legittime aspirazioni ma, soprattutto, il senso della Giustizia dei cittadini, che sfuma sempre più in una sfiducia incolore, man mano che le sorti di questo carrozzone sgangherato peggiorano. Innovazioni che qualsiasi avvocato di media capacità conosce benissimo e che non starò qui a ripetere, visto che ne ho scritto altrove e tantissimi lo hanno già fatto, e molto meglio di me. La ratio primigenia di una nota del genere doveva consistere nell’inaccettabilità che più della metà degli avvocati italiani avessero fatto ricorso all’assistenza dello Stato, sull’intollerabilità di una politica della Giustizia che manifestava la sua pelosa vicinanza agli avvocati ed ai professionisti in genere soltanto nell’estrema emergenza e che non ipotizzava soluzioni di ampio respiro, dal breve sino al lungo periodo. Soltanto dopo aver denunciato, con garbata determinazione, lo stato di prostrazione e di discredito di uno dei pilastri della democrazia e l’irrilevanza dei sacrifici di centinaia di migliaia di laureati; solo dopo aver precisato che l’invocazione degli aiuti di Stato ad una maggior platea di avvocati rappresenti qualcosa di innaturale e gravissimo; solo una volta ammonito, con il dovuto riguardo, che questo momento storico è una straordinaria occasione per rilanciare il Paese, in primis il settore Giustizia, anche per incoraggiare gli investimenti esteri in Italia, ebbene SOLO A QUEL PUNTO poteva essere rivolta la semplicissima domanda: “Quando arrivano i soldi? Ce ne saranno di più?”. Ma non così, certo non così. Pur con tutto il rispetto e la comprensione per il difficilissimo compito del Presidente del COA Roma e la vicinanza per la gestione di un momento così arduo, non con quelle parole, non in quel modo. Non senza permeare il tono della nota d’una dignità reale, non solo di facciata, cui dobbiamo aspirare, pur tra mille difficoltà. Non senza rimarcare che bisogna scongiurare il tracollo della categoria, che già era in corso prima di quest’anno. Il nostro compito storico è ora, ed è uno solo: rendere davvero decorosa la Giustizia. E questo non fa rima con assistenzialismo.

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- Letteratura

Non ci credo più alla favoletta dell’inefficienza.

Ventinove giugno venti venti. Di Pasquale D’Aiuto. Avvocato. Io non ci credo più, alla buona fede dell'inefficienza. Pur conscio che l'imbecillità, che è diffusissima, arrechi più danni della cattiveria, ormai non sottovaluto più la capacità di far passare per bonomia, educazione, disattenzione, imperizia ciò che invece è semplice, egoistico calcolo. Sì: quel che sembra disorganizzato è, al contrario, sommamente organizzato per non funzionare - o farlo in un certo modo, che è la stessa cosa. Se non si riesce - per restare nel mio settore, che è quello della tutela dei diritti di ciascuno di noi - a rendere (od a mantenere) l'avvocato un professionista serio ed effettivamente decoroso, che possa assicurare al proprio cliente un tentativo qualificato e realistico di far valere un (presunto) diritto (dalla diffida alla mediazione, all'iscrizione della causa, all'istruttoria, alla conclusione del giudizio, alla concreta capacità di recupero del credito), è solo perchè non lo si vuole. Il motivo originario è semplice: la lentezza ammazza, il burocratismo stordisce, l'efficienza è lasciata a pochi e mirati casi, l'insuccesso del singolo trova facili alibi e, nel frattempo, decine di migliaia di avvocati (spesso, gente davvero perbene), che non riescono letteralmente a lavorare, pagano contributi e tasse che non si possono permettere ad enti malgovernati - che assicurano, però, efficientissime rendite di posizione ai soliti noti. La nostra "giustizia" è fatta, in gran parte, da professionisti tali solo per il titolo ma che, col tempo, stanno impoverendosi sempre di più e si intristiscono, invecchiano invano; continuando però, con stolida fiducia - invero, incoraggiata da sanzioni e cartelle esattoriali - a versare oboli che non corrispondono ad alcuna prospettiva reale. E che non importi a nessuno - di quelli che, da questo sistema, traggono personale, puntuale giovamento - della fine che farà la categoria vi è una prova imbattibile: sempre più spesso, per poter accedere alle c.d. short lists bandite da enti di ogni genere, è chiesta la dichiarazione di regolarità previdenziale od anche l'iscrizione da un certo tempo al'Albo. Che significa? Che un legale sfortunato o, solo, agli inizi, che spera, almeno, nella rotazione degli incarichi negli enti per poter lavorare, se non è in grado di versare i contributi alla Cassa oppure se è troppo giovane (!), non può nemmeno aspirare a tale opportunità - già poco degna di fede, invero. Cosa dovrebbe fare, quindi? Anzi: cosa fa, dunque? S'indebita, chiede alla famiglia - quella d'origine, perchè una sua non se la potrà permettere - e poi, in fine, può solo disperarsi, innanzi al silenzio dei potenziali mandanti! E inoltre: qualcuno mi spiega perchè l'Avv. Tizio, se non versa un paio di contributi alla Cassa e/o se è un neo-iscritto, non potrebbe degnamente difendere il Comune di Vattelapesca, magari in una causa dal valore contenuto?! Con i proventi della propria attività, potrebbe pagare proprio tasse e contributi e permanere nell'Albo! Altra domanda: chi è quel professionista, in regola con i contributi, che vanta una bella esperienza professionale? Chi è già forte. Ebbene: che divenga ancora più forte! Quello lì deve ottenere (anche) l'incarico dal Comune di Vattelapesca, mica il trentenne. E, magari, prova a brigare per ovviare a quel molesto divieto del terzo mandato consecutivo... o se ne fa beffe, alla faccia delle belle parole! Al contrario, bisognerebbe regolare sin dall'università l'accesso alla professione, rafforzare i poteri conciliativi e certificativi dei legali, associare fermamente qualsiasi contributo al reddito effettivo, incoraggiare il meridione e le donne, consentire il recupero effettivo e diretto di spese, competenze e sorti, snellire i procedimenti, valorizzare il telematico, per dirne alcune. Tutte cose semplici o, almeno, assai migliorabili. Sennò è chiaro che, aprendo giusto un pochino gli occhi, si vede che è solo il mero interesse di pochissimi che impedisce siano compiute. Sopra ogni cosa, lo Stato dovrebbe essere regista di un patto tra le generazioni - i vecchi esperti e competenti ed i giovani volenterosi ed energici, tanto per intenderci - nel segno del rispetto reciproco, e non dello sfruttamento in nome del "mestiere da rubare", cui fa da contraltare un progressivo, improduttivo disprezzo misto a rassegnazione. Perchè sì, è vero che il più grande dono del maestro è aprire la propria bottega e lasciare che il pupillo riconosca ed imiti l'arte ma questo può andar bene per gli inizi, certo non per rapporti decennali che... diverranno fatalmente privi di qualsiasi regolamentazione e garanzia! Altrimenti, ciascuno perderà qualcosa: il maestro, l'interesse e l'utilità dell'allievo; il pupillo - non più tale - l'indipendenza, ed intendo quella di pensiero. Alla fine, è la società tutta che s'inaridisce. Anche perchè, nel frattempo, noi avvocati non siamo più giovani nè volenterosi nè energici. Ed accade che lo scoramento pervada la categoria, si respiri nelle aule, nelle cancellerie, negli atri dei tribunali! Uno scoramento che è il perfetto humus per lo sviluppo delle asimmetrie di potere che vediamo ogni giorno all'interno dell'avvocatura e della giustizia in genere. E, così, il cerchio è perfetto. Quindi: no, io non credo più alla semplice negligenza, alla banale superficialità. Al contrario: chi permette questo stato di cose misero e disumano nella giustizia, ai danni non solo degli avvocati ma di tutta la comunità, vanta una mente raffinatissima e brillante. Sarebbe da lodare, se non fosse malvagio. Del resto, diceva un tal Baudelaire: "La più grande astuzia del diavolo è farci credere che non esista".

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- Letteratura

Fa l’avvocato per passione o desisti. 14 giugno 2020

Di Pasquale D’Aiuto, avvocato. Premessa: amo il mio lavoro, è la professione liberale per eccellenza. Giurisprudenza è aperta a tutti, venghino. Università e corsi ovunque, esigenti o (molto) meno. Una cosa è certa: niente numero chiuso, tanta comprensione e capienza infinita. Abbiamo bisogno di giuristi, nella culla del Diritto! Poi fai pratica forense, che spesso significa ricalcare ciclostilati ed eseguire fotocopie – molti non riescono nemmeno in quello –, imparare a depositare telematicamente gli atti per il tuo capo, andare in udienza, seguire sempre la stessa tipologia di causa, fare adempimenti (cioè l’avvilente, inutile, piccola burocrazia che serve a rendere l’azione degli avvocati molto più lenta ed inefficace, a vantaggio dei debitori e di altre situazioni più o meno oscure). Solo i più intelligenti e volenterosi si cimentano, appena possibile, nella redazione di atti propri e provano ad iniziare un’attività davvero libero-professionale: molti, al contrario, decidono di non prendere iniziative, anche se potrebbero personalmente patrocinare già prima del titolo. Moltissimi, alla fine, non si arrischieranno nemmeno a firmare una diffida contro Trenitalia, per tutta la vita. Ma abbiamo bisogno di giuristi, nella culla del Diritto! Giungi all’esame di abilitazione, dove ti chiedono di redigere, nel massimo caos possibile, due pareri ed un atto. La correzione, perlomeno a me, appare ancora un mistero. Segue l’orale – se non ripeti dieci volte lo scritto, che si tiene una volta all’anno – che, se non superi, mediti il suicidio. Ma abbiamo bisogno di giuristi, nella culla del Diritto! Nel frattempo, continui a fare il praticante e, superato l’esame, divenuto finalmente avvocato, paghi per iscriverti e mantenerti all’Ordine e la Cassa Forense comincia a importi versamenti indipendenti da un reddito che non hai. Quindi, dovresti ingegnarti a lavorare per guadagnare autonomamente ma molto, molto spesso, non ci riesci e resti legato col cordone ombelicale, per un tempo indefinito, al tuo capo. Che, almeno nel sud, quasi sempre ti paga poco, se ti paga e (a meno che tu non sia fortunato come me, con il mio maestro) fa sempre le stesse cause, non ti fa accedere ai suoi file, non ti concede di aprire i suoi fascicoli, non ti insegna nulla. Diventi trentenne, trentacinquenne, quarantenne e non puoi permetterti una famiglia, una macchina, una casa. Ma abbiamo bisogno di giuristi, nella culla del Diritto! Intanto, ti rendono tutto sempre più difficile, con il silenzio colpevole dei colleghi che dovrebbero rappresentarti: tagliano gli emolumenti professionali, rendono vieppiù costoso l’accesso alla giustizia, ti impediscono di ottenere i soldi tuoi e quelli del tuo cliente, mutano leggi e codici ogni cinque minuti e sempre peggio (penso al codice delle assicurazioni o alla prescrizione), consentono una disorganizzazione tale da comportare rinvii delle udienze a mesi ed anni senza ragione, proteggono categorie di stipendiati dello Stato – a spese nostre – , non hanno cura degli uffici giudiziari, utilizzano soltanto il 15% delle potenzialità di internet, impongono modelli di risoluzione alternativa delle controversie concretamente inutili o quasi. Ti impediscono persino di autenticare firme se non per andare in giudizio (perché altre categorie, non stipendiate, devono essere protette e sempre a nostre spese) e, soprattutto, perpetuano per secoli le posizioni di potere, nonostante i warning di Corte Costituzionale, Cassazione e persino giurisprudenza di merito, impedendo il ricambio effettivo all’interno dei COA e delle rappresentanze nazionali. E queste sono solo le prime criticità che mi vengono in mente: intoccabili, statene certi. E per ragioni ben precise, legate alla preservazione dello status quo ed anche ad una buona dose di imbecillità. Però, alla fine, concedono a chiunque di fare l’avvocato, senza alcuna prospettiva concreta, senza programmazione, senza apparenti motivi. Perché? Le ragioni ci sono: perché, quasi sempre, noi ci accontentiamo di definirci avvocati, senza mai esserlo per davvero. Perché foraggiamo il sistema: tasse, Cassa, contributi, i soldi da qualche parte escono comunque. Avvocati irrilevanti, buoni solo a cacciar soldi e votare i soliti noti, spesso autentici schiavi di chi sa come gestire il potere acquisito (sovente, tramandato) e non vuole condividerne nemmeno un grammo. E amiamo questa professione così tanto che, in Italia, siamo circa 243.000 – in Francia, dove in Cassazione non domandano nemmeno la procura sottoscritta, perché è ritenuta ovvia, sono circa 60.000. E protestano pure; non come noi, che abbiamo il tanto decantato decoro soltanto nelle scarpe che consumiamo aggirandoci per gli uffici. Naturalmente, sono anni che si finge di voler cambiare le cose – numero chiuso, corsi specializzanti presso i COA, inclusione nella Costituzione, nuovo e serio esame d’abilitazione e così via – ma, chissà perché, non succede nulla. Già, chissà perché. I dati (Censis, rapporto 2018, http://www.cassaforense.it/me…/7194/rapporto-censis-2018.pdf ma anche il più “narrativo” 2019, http://www.cassaforense.it/media/…/rapporto_censis_-2019.pdf; benissimo il Giornale, anche se di qualche anno fa, https://www.ilgiornale.it/…/lazio-e-campania-pi-avvocati-ch…) dicono che, nel 1985, i legali italiani non erano nemmeno 50.000; poi, c’è stato il boom: nel solo 1995 gli Ordini contarono nuovi iscritti per l'11,6% di quelli già in attività. Oggi, nonostante la decrescita degli ultimi anni, l'Italia è la nazione con più avvocati d’Europa. Siamo 4 ogni mille abitanti, più o meno, con enormi differenze tra regione e regione. Naturalmente, la Campania è tra le più gettonate ma altrove siamo percentualmente meno e guadagniamo molto, molto di più. La contrazione generale dei redditi degli ultimi dieci anni è stata superiore al 20% e il reddito medio di un legale lombardo è 4 volte quello di un omologo calabrese. Sì: quattro volte. L’andamento del reddito medio annuo degli iscritti alla Cassa Forense, nel 2015, è stato praticamente uguale a quello che si era registrato venti anni prima e corrisponde una perdita di potere d’acquisto (calcolato sulle stime del valore del reddito rivalutato) pari al 29%. E povere colleghe meridionali: il top sono i professionisti maschi, residenti al Nord, ultracinquantenni, che dispongono di livelli di reddito medio-alti; il down sono le professioniste donne, giovani e residenti nel Centro-Sud, con livelli di reddito significativamente e decisamente inferiori alla media nazionale. Siamo una categoria maschilista e nordista. In Campania, naturalmente, siamo messi malissimo: rispetto ai 38.000 euro l’anno medi – che già non sono granchè, considerando quanto sia difficile, responsabilizzante e competitiva la professione – la media regionale è intorno ai 25.000, il 35% in meno della media nazionale. In Lombardia, per intenderci, guadagnano il 75% in più della media nazionale – cioè non rispetto a noi ma alla ben più elevata media del Paese! E si parla di reddito, che spesso non considera moltissime uscite, palesi come oscure. I dati sono questi e tanti altri, vi invito a leggerli. Però mi sembra significativo un ultimo elemento: i compensi per l’attività di mediazione sono quasi irrilevanti (6%, sebbene in lieve aumento). Significa che l’alternativa al giudizio, in Italia, praticamente non esiste. Censis 2019 recita, emblematicamente: “Ciò riflette, da un lato, un fenomeno di saturazione della dinamica quantitativa dell’accesso alla professione e, dall’altro, l’indebolimento delle opportunità di crescita economica che condiziona in maniera specifica alcune componenti della professione, ma che in generale riguardano la professione nel suo insieme”. Insomma: perché tutti vogliono fare gli avvocati? Per autentico slancio? Per senso civico? Perché hanno letto Cicerone in latino al Liceo? O perché dopo il diploma non sapevano cosa fare e Legge sembrava una soluzione multitasking e morbida? Un’idea ce l’ho ed ho anche un suggerimento: fate l’avvocato per passione oppure lasciate perdere.

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- Educazione

Non offendete la M. Undici giugno duemilaventi.

Di Pasquale D’Aiuto. Avvocato Premessa: da tempo volevo scriverne ma la fatidica molla è scattata quando ho visto le immagini del poliziotto americano in ginocchio su quello sventurato. Mèrda s. f. [lat. mĕrda]. – 1. volg. Sterco, escremento umano o animale. 2. In senso fig., in espressioni proprie di un certo tipo di linguaggio volg., pop. o fam.: a. Persona o cosa spregevole, di nessun conto o valore: lo considero proprio una m.; faccia di m., pezzo di m. e spesso assol. merda!, espressione ingiuriosa riferita a persona; frequente anche nella locuz. agg. di merda: che lavoro di merda! b. Complesso di circostanze critiche, senza via d’uscita, o comunque tali da generare notevoli fastidî e disagi: essere, finire, trovarsi nella m.; anche, situazione o condizione moralmente spregevole, di pessima reputazione: non puoi fare il moralista, tu che sguazzi nella m. del compromesso. c. Come espressione di indignazione, collera e sim., o anche di netto rifiuto: merda! (per influsso del fr. merde!). Bene, ci siamo tolti il pensiero: non la nominerò più. Basta il magistrale lemma di Treccani. Ed ha ragione: tutti noi, quotidianamente, ci riferiamo ad essa se dobbiamo esprimere qualcosa di oggettivamente o soggettivamente odioso, sporco, orribile. E se non lo diciamo, lo pensiamo. Non solo da noi (penso agli USA, a Francia, Spagna) questo quasi-intercalare è associato all’indesiderabile. Sembra del tutto naturale riferirsi alla M quando qualcosa non va. Perciò, qual è il punto? È che più passano gli anni, più comprendo quanto sia profondo il pozzo della malvagità umana, meno concepisco l’opportunità di offendere la M, poverina. Ne faccio una questione semantica: perché siamo così banali?! Forse, riferirsi ad essa per descrivere fatti e persone spregevoli è una pessima abitudine legata al tempo dell’infanzia? Temo di sì; e allora la dobbiamo superare, perché se non smetteremo di adottare quel termine in modo puerile, non saremo mai pronti a dare un nome vero alle cose, soprattutto al male. Però è difficile: la testa mi suggerisce di usare altre espressioni – anche volgari: la volgarità è pur sempre un codice – ma la pancia rimanda sempre lì. Così mi correggo ad alta voce: “Ma perché devo offendere la M?!”. E sì, perché in quest’universo esistono realtà infinitamente più tristi e fetenti: il razzismo, le mafie, l’usura, la pedofilia, il femminicidio, il nazismo, l’idiozia, la fame, l’assassinio, la miseria, la guerra, le mine anti-uomo, il cancro, la solitudine, l’abbandono, la pazzia, lo stupro, il lavoro minorile, lo schiavismo, per esempio. E allora, perché non compariamo il male ad esse?! Il problema è, forse, che si tratta di concetti astratti? Non direi: sono molto più concreti della nostra protagonista puzzolente e quelli, sì, rovinano il mondo! Quindi, per superare il blocco, ci vuole un po’ di training logico, ci vogliono fatti. Eccone qualcuno: la M è biodegradabile, naturalissima, concima, da essa “nascono i fiori” (De Andrè); “ci puoi fare la rivoluzione” (Benigni); le è dedicato un museo, a Castelbosco nel piacentino, poichè simboleggia concetti fondamentali quali trasformazione, riuso, metamorfosi; ho appena scoperto che, con quella di vacca, l’artista ed imprenditore Gian Antonio Locatelli “produce stoviglie, ricava il biometano per alimentare un paese di 3mila abitanti oltre a concime secco organico (registrato come Merdame, in vendita anche su eBay) ma anche mattoni e intonaco” (grazie, Livia Montagnoli su gamberorosso.it); in India ci si costruiscono case da sempre; ispira adagi acutissimi (“Si Totonno cacava, nun mureva”, cioè: “Quel che dici è ovvio”); può salvare la vita se viene “trapiantata” (giuro) nel corpo altrui (vedi qui, ilpost.it); ci informa sul nostro stato di salute (focus.it); è ispirazione per l’arte (penso a Piero Manzoni, 1961, con la sua “Merda d’artista” in 90 esemplari: la n. 12 sta al MADRE di Napoli). E chissà quante ne dimentico. Basta, dunque, invocarla ad ogni pie’ sospinto! Questo mondo è fatto di eccessi: meraviglia, orrore; luce, buio; bontà, perfidia; genio, follia. È un posto complesso, multiforme, faticoso; e lo è sempre più. Adottiamo altre comparazioni per esprimere quel che detestiamo: la M non se lo merita proprio. Perché, se crediamo di descrivere il male paragonandolo a quanto di più naturale nella vita, allora mostriamo di non voler chiamare le cose abiette con il loro vero nome. Ed è la migliore strada per non affrontarle mai. Pertanto: “Ho trascorso proprio una giornata di guerra”; “Che cancro di persona!”; “Sei un usuraio!”; “Quell’idiozia di ministro...”; “Razzista!” e così via. Ma vi prego: non offendete la M.

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- Giurisprudenza

Bene- E ben oltre il flash Mob.

BENE – E BEN OLTRE – IL FLASH-MOB. Primo giugno venti venti. Di Pasquale D’Aiuto. Avvocato. Venerdì 29 maggio 2020 gli avvocati italiani hanno inscenato flash-mob innanzi ai palazzi di giustizia. Hanno cantato l’inno di Mameli e consegnato simbolicamente i codici. La protesta è stata focalizzata sulla mancata, inconcepibile riapertura del settore. Le ragioni della manifestazione sono state legate anche allo stato di salute del comparto, che ha subito il colpo di grazia dalla pandemia. L’eco è stata ampia. Orbene, per chiarezza, di norma non sono favorevole alle contestazioni in piazza, ai megafoni, alle interviste estemporanee – con i loro inevitabili e deleteri tagli di redazione. Temo che questo approccio possa risultare, pur con le migliori intenzioni, divisivo e limitato. Di norma, lascio le azioni dimostrative e simboliche, specie di gruppo, ad altri, perché credo che noi avvocati, siccome facciamo della cultura, della parola e della scrittura le nostre armi, dovremmo adottare modelli di reazione maggiormente sobri e dialogici. Di norma. Però quel che sta accadendo oggi sotto i nostri occhi è, semplicemente, un sisma. Che colpisce fondamenta già marce, mura bucherellate, solai traballanti. L’attuale e chiaro tentativo di cancellazione della giustizia è la fine dello stato civile, della democrazia, dell’umanità in senso moderno. E allora io plaudo al flash-mob e pure allo strepito, tanto che penserei addirittura all’occupazione pacifica degli uffici giudiziari; però, a latere, non farei mancare iniziative nel segno di una comunicazione puntuale, come delle conferenze-stampa. Così, potrei spiegare al mondo, per esempio, che siamo stati allontanati senza ragione da casa nostra; che non ci possiamo rimettere piede se non tramite appuntamento e con una giustificazione valida (ma per chi?); che moltissime udienze hanno subito lunghi rinvii, spesso evitabilissimi grazie al telematico; che non è tollerabile che, in un Paese che si riapre alla fiducia, solo il diritto e la scuola siano maltrattati; che l’incertezza fa a pugni con lo scorrere intollerante dei termini processuali e con le comprensibili esigenze del cittadino coinvolto. Ma avrei cura di precisare, con il massimo vigore, che la crisi e lo svilimento del compito istituzionale degli avvocati non hanno affatto avuto inizio con la pandemia ma molto, molto prima ed in mille modi, tutti più o meno subdoli. Che l’avvocatura non è colpevole del degrado della giustizia in Italia ma che è vero anche il contrario, perché c’è chi, specie nei più alti ambiti di rappresentanza, ha ceduto potere e voce della categoria in cambio del proprio tornaconto. Certo: a prezzo della dignità. Ma quelli, almeno, sanno ciò che fanno, godono dei frutti del loro patto, pur contestabilissimo. E noi? In che modo ci siamo opposti? Come abbiamo combattuto il rischio della nostra irrilevanza? Cosa abbiamo fatto per sanare la drammatica cesura tra i pochi fortissimi e la stragrande maggioranza di deboli? Non abbiamo fatto nulla o quasi. Dunque, ecco perché il flash-mob è aria fresca, ossigeno. Eppure sovviene, come un pugno nello stomaco, il nodo fondamentale: cosa è arrivato alla gente delle ragioni della protesta? Probabilmente, solo il seguente messaggio: “Riaprite i tribunali!”. Cosa doveva arrivare, invece? “Rivoluzioniamo la giustizia, tutta: ora o mai più!”. Ed è questo il punto debole dei megafoni e delle, pur sacrosante, proteste in piazza: la parzialità del messaggio, nonostante gli ammirevoli sforzi degli organizzatori. Certo, qualunque reazione è meglio del silenzio “decoroso” che abbiamo, con immotivata fiducia, serbato per troppo tempo, fraintendendo il significato di quel lemma – “decoro” – a tal punto da assimilarlo ad un’aurea ignavia – e sempre e solo ai nostri danni. Però, accanto alle grida ed alle invocazioni coram populo, a noi avvocati conviene reagire mettendo in pratica ciò per cui abbiamo così tanto studiato: affermare pubblicamente, tecnicamente, chiaramente, lucidamente, leggi alla mano, con espressioni taglienti come lame, cosa non va. Con il clamore della logica, puntare alla didattica delle nostre ragioni verso gli addetti ai lavori, i profani e finanche quelli in malafede. Noi non possiamo fermarci alla pur legittima manifestazione di categoria: dobbiamo pazientemente spiegarci e lo dobbiamo fare in ogni modo consentito e sempre, ogni giorno, in ogni istante, con chiunque, specie i nostri detrattori. Scrivere, dialogare, dichiarare, postare, commentare, reclamare, annotare, controbattere, verbalizzare, comunicare: pensare! Ogni qual volta possibile, abbiamo il dovere, prima di tutto verso noi stessi, di denunciare, punto per punto, che la crisi del comparto non è stata determinata dalla pandemia e nemmeno dal caso ma essa è frutto di abissali abbagli come anche di precisi intenti, assunti in stanze e circostanze che oggi vediamo con maggior nitore: errori e volizioni che hanno condotto la professione liberale per eccellenza a divenire il rifugio di decine e decine di migliaia di specializzati senza futuro e senza presente, avviliti e privi di prospettiva. E non possiamo permetterci di farlo (soltanto) gridando, cantando l’inno o consegnando i codici (ad un’entità astratta e non benigna, mi verrebbe da dire) ma dobbiamo (anche) dialetticamente rendere accessibile a tutti l’enorme mole di problemi irrisolti, esemplificare quanto sia arduo, ormai, agire per i propri diritti e quanto questo colpisca l’intero sistema-Paese. Abbiamo il preciso compito, a salvaguardia della collettività prima e della professione poi, di articolare la nostra voce in un mantra unitario e lineare, coerente ed instancabile, indomito, fatto di critiche sistemiche, precipue, taglienti e di proposte concrete, semplici, nette che devono fondarsi sul seguente messaggio: “Questa giustizia non va soltanto riaperta: va rifondata!”. Perché la sfida non è tornare alla normalità ma crearne una nuova.

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- Giurisprudenza

Il lavoro, se non è retribuito, non è lavoro. Tranne che per

Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato. Ventisette maggio ventiventi Se non mi paghi, non è lavoro. Lo afferma a chiare lettere l’art. 36 della Costituzione – oltre al vocabolario. Davvero? Seguitemi. Ho redatto un parere ad una persona a me molto cara. Ci ho messo poco perché trattavasi di materia congeniale. Ha insistito per pagare; ho dovuto convincerlo che mai avrei accettato (tanto, prima o poi lo sfrutto con qualche dritta sul suo settore!). Mi ha risposto, tra l’altro: “Letto tutto e tante grazie. Ora mi devi fare la fattura, non quella delle streghe da strapazzo, ma quella dei dindi. Il mio codice fiscale [omissis: Paese estero serio, NDR] è [omissis]. Grazie caro, sapevo di poter contare sulla tua professionalità”. E sì, non vive in Italia. Quindi, già è perbene ma campa e lavora pure in una Nazione dove le cose sono logiche: lavoro = dindi, per dirla alla lui. Possiede quel senso civico che, da noi, non soltanto è latitante ma viene grottescamente scoraggiato dalle Leggi. Perché nel nostro fottuto Paese (e perdonatemi se ho usato la maiuscola, per indicare l’Italia, dopo la parolaccia), pagare è una mera eventualità. Specie per gli avvocati. Esempio: vinco una causa. Migliaia e migliaia di euro tra spese, competenze legali e sorte per il cliente, mica noccioline. Evviva! Ora, vorrei soddisfarmi da chi ha perso, perché il giudice l’ha condannato e perché vorrei pagare la rata dell’auto o il salumiere. Ma, sorpresa (e mica tanto): la mia controparte, che pure ha ben pensato di incardinare un giudizio onerosissimo poi giudicato infondato, non ha dovuto prestare nessuna cauzione o depositare somme per il malaugurato caso di sua sconfitta: la Legge non lo prevede. E non ha uno stipendio, non possiede automobili di qualche valore, non è proprietario di case (o, se sì, sono caverne in comproprietà) o di azioni o conti-correnti et similia e vive in un’abitazione altrui che – potete starne certi – sarà rinvenuta da chi di dovere chiusa o priva di beni utilmente aggredibili, se oserò tentare di porre all’incanto i suoi mobili. Ah: ovviamente, quando raggiunto sempre da chi di dovere, il debitore non avrà indosso danaro, orologi, gioielli o comunque beni di qualche valore. La mia controparte ha scherzato, non rischia nulla. E magari fa anche appello. Direte voi: chiedi il tuo compenso al tuo cliente. Certo, si può. Ma vi sembra giusto? A me, no. A me sembrerebbe molto più logico responsabilizzare chi instaura un giudizio, onerandolo ad una garanzia: magari, disponendo che debba versare, prima della causa, almeno una parte del presumibile dovuto in caso di sua soccombenza, cosicchè quell’importo possa andare automaticamente e rapidamente al vincitore della vertenza, se il giudice condanna alle spese. Sennò, che paghi lo Stato, ma presto ed a tutti i professionisti in giudizio! O la nostra Giustizia si preoccupa solo di incamerare i contributi dovuti e, dopo, chi si è visto, si è visto? Domanda retorica. Perché chi fa causa tanto per fare, da noi, resta impunito. O chi semina debiti: penso a quelle s.r.l. inattive e prive di beni, i cui soci, nella pratica – spesso – sono esenti da fastidi con una semplice scrollata di spalle, pur dopo aver accumulato passivo. Senza pensieri. E con questo andazzo, perché mai uno dovrebbe avvertire la necessità di pagare il proprio avvocato o quello altrui in caso di sconfitta? Dirò di più: c’è gente (e non poca) che organizza la propria esistenza per essere intangibile verso l’agenzia delle entrate come verso qualsiasi creditore. Gente fredda, furba. Che non è titolare di nulla. E poi, se qualcosa da recuperare c’è (e sempre anche per il cliente, intendiamoci), tu avvocato – truce, insensibile, gelido, che ritieni di dover guadagnare per il tuo lavoro! – hai innanzi a te una strada impervia. Se si tratta di enti pubblici, devi attendere un irragionevole termine di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo (tanto per intenderci, la sentenza) per procedere. Soltanto dopo puoi cominciare l’attività pre-esecutiva ed esecutiva. Ma in generale, se promuovi un’esecuzione immobiliare, le spese necessarie da anticipare sono molto ingenti, e si uniscono all’attesa di anni ed anni ed alla fortissima alea di non cavare un ragno dal buco, perché sovente – per una ragione o l’altra – il bene non si vende. Quanto a quella mobiliare, beh… stendiamo un velo pietoso, meglio. Sopra, credo di aver reso l’idea. E allora, cosa si fa? Pignoramento presso terzi, cioè debitori del tuo debitore (pensioni, canoni, stipendi, depositi, conti/correnti e così via, sebbene con limiti vari). Se c’è qualcosa da recuperare, ovvio (e se non si tratta dei nullatenenti di comodo di cui sopra). Ma dopo aver pagato l’obolo al Tribunale per sapere se puoi azzardarti ad avere informazioni sul tuo debitore presso le Entrate, in caso positivo dovrai versare altro obolo all’Agenzia e, quando pure quella ti risponderà, allora potrai finalmente notificare gli atti. Però, siccome sei solo un famelico lupo cattivo se osi richiedere quanto spetta a te ed al tuo assistito, devi prima avvisare, con un precetto, il debitore – che facilmente, sebbene illecitamente, potrà chiudere i propri conti, nel frattempo – e poi non potrai nemmeno operare le necessarie notifiche degli atti in autonomia ma dovrai recarti fisicamente presso l’Ufficiale Giudiziario (e pure nella zona del debitore! Quindi, in qualunque parte d’Italia) con ulteriori spese e tanto tempo perso. Perché, giacché sei uno sporco e brutto avvocato, non puoi attestare che il titolo in base al quale agisci ed il precetto, che hai dovuto già notificare, siano conformi all’originale e, quindi, al vero. Te lo devono certificare. E non continuo, ché già mi sono dilungato e ci sarebbe un’enciclopedia da scrivere, sul tema. Quindi: il lavoro è quella cosa retribuita? Non per gli avvocati. Con buona pace della Costituzione. E pure del vocabolario.

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- Società

Come smontare l’interlocutore inutile.

COME SMONTARE L’INTERLOCUTORE INUTILE (O GIUDICANTE IMPLICITO) – ventun maggio ventiventi. Di Pasquale D’Aiuto. Avvocato L’insigne chirurgo Dr. Omissis, che operava presso un rinomato nosocomio napoletano – si era nel 1976 – aveva appena terminato un intervento sulla madre di un amico di famiglia. Uscendo dalla sala operatoria, stava recandosi dai parenti in amorosa attesa quando venne fermato da una persona che esordì così: “Dottore, volevo farle i complimenti per il lavoro svolto”. Non ebbe modo di aggiungere altro. Quel professore, dimenticando, solo per un attimo, i consueti modi cortesi ed il tono di voce flautato e rassicurante, sbottò qualcosa del genere: “Come si permette di complimentarsi? Quale titolo di studio a carattere sanitario possiede per essere in grado di valutare il mio lavoro?”. Ciò detto, si licenziò dall’interlocutore e, giunto dai parenti di cui sopra (testimoni ancor nitidamente memori), rientrato immediatamente nel proprio habitus, spiegò brevemente: “L’intervento è andato bene. La paziente potrebbe subire degli abbassamenti di voce”. Indi, andò via. Perché raccontare questo episodio – grazie, Franca! – a Voi? Perché è rappresentativo, seppure dal punto di vista esattamente contrario ed in modo piuttosto parossistico, di quel che è diventato il mondo, in cui tutti si credono in grado di commentare o giudicare qualunque persona o cosa. In cui, per dirla come piace a noi del Sud, ‘a gente nun se ammisura ‘a palla. Ma perché? Dove stava il giudizio nell’approccio di quel tizio? In questo: il malcapitato quivis de populo, il quale voleva essere soltanto gentile e non meritava certo una risposta del genere, presumibilmente intendeva dire “Grazie!” ma, ahilui, commise un imperdonabile errore ostativo: rivolgere i “complimenti” ad un medico di chiara fama che aveva svolto il proprio prezioso lavoro. Ora, il fatto è che, per farla breve, il complimento è pur sempre un giudizio. Positivo, certo; ma quello è: un giudizio. Il che implica capacità, competenza, superiorità di chi lo emette. Se ne ha il diritto? Se ne posseggono i titoli? Spesso, no. Il tizio tapino, certamente, no. Questo intendeva il chirurgo: di’ grazie e pooooooi, magari, complimentati pure! La storiella del medico un po’ collerico mi ha indotto a ricordare un episodio cui ho assistito. Una decina di anni fa, un professionista di spessore era tra i relatori di un evento pubblico. Al termine del suo intervento prese la parola una collega, che pensò bene di meritarsi la ribalta con un’osservazione piuttosto ovvia e pure ripetitiva. Ebbene, il Nostro ascoltò pazientemente; poi, sorrise e replicò con una sola parola: “Brava!”. Sulle prime, non compresi che c’era del metodo in tale reazione ma poi (e qui, devo ringraziare Bianca), lo intesi: non aveva fatto altro che impiegare la versione sobria, acutissima e beffarda della reazione fondamentalistica del nostro Dr. Omissis. Credo che il concetto alla base sia, più o meno, questo: “Perché mai io, dopo decenni di studio e di onorato lavoro, dovrei patire, e pure in pubblico!, la replica pleonastica (o, peggio, la critica) di un profano oppure la chiosa scolastica e sterile del collega, e dunque un giudizio? Come posso smontarlo ed evitare sterili chiacchiere? Lo giudico anche io! E come lo giudico? Con un “Bravo!”. In effetti, l’esclamazione tranchant ottiene l’effetto di disorientare l’altro, che definiremo L’Interlocutore Inutile (o Imbecille) od anche Il Giudicante Implicito. “Sfotte? È serio? È tutto qui?”, penserà. Nel frattempo, però, la ribalta ha coperto le luci, il proscenio è divenuto buio e ciao. Certo, il caso del Prof. Omissis rappresenta l’iperbole. Ma serve a comprendere a cosa dovremmo mirare: al rispetto delle competenze altrui, alla cognizione dei nostri limiti e, quindi, alla volontà di apprendere per accrescerci e comunicare credibilmente. Sopra ogni cosa, all’adozione di un codice verbale che si ispiri a tali principi. Perché le parole sono importanti. Nessuno di noi è esente, però, dal vizio dell’osservazione imbecille e dal giudizio implicito, questo è il problema. Possiamo provare a contenerci ma quest’epoca di social media non aiuta. Un certo Umberto Eco, nel giugno 2015 a Torino, all’atto di ricevere la laurea honoris causa in «Comunicazione e Cultura dei media», fu geniale: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. Sipario.

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- Giurisprudenza

Si piecoro te fai ’o lupo te magna.

Pasquale D’Aiuto, avvocato. Ricevo comunicazione di cancelleria dal Giudice di Pace di ICSICSICS: rinvio a dicembre. Ma come? E la trattazione per iscritto?! E le opportunità della telematica? Faccio qualcosa di nuovo: lo domando al Cancelliere in reply. Ecco la risposta – che mai avrei creduto di ottenere: “… I rinvii sono soggetti alla discrezionalità del magistrato … potrebbe essere congruo far pervenire una istanza congiunta di anticipazione di udienza se il fascicolo risulta essere maturo ad una pronta risoluzione [see, see NDR], in rispetto di quanto disposto e previsto dal decreto [omissis] Presidente del Tribunale di [omissis]”. Che, detto tra noi, secondo me nulla dice al riguardo. Uno dei 200 diversi protocolli in Italia, ciascuno da parte di un signore del relativo staterello medioevale, che fanno impazzire gli Avvocati. Insomma: prenditela col Giudice. Ma i GdP non avevano interesse a portare a compimento i giudizi per essere retribuiti? Io così sapevo. Mah. Ok, Avv. D’Aiuto, direte voi: hai compiuto questo insignificante atto. Ora, che c’azzecca il titolo?! C’azzecca, c’azzecca, come diceva Di Pietro. Perché se tutti noi prendessimo a rispondere garbatamente alle Cancellerie quando comunicano i differimenti, così come se domandassimo ai Giudici perché quel rinvio così lontano o quell’attesa di due ore per l’udienza od anche perché non si sia pensato ad una distinzione temporale tra prime comparizioni, prove testi, incarichi tecnici e così via, vedremo che, di fronte alla cortese insistenza, il malcapitato sarebbe costretto a risolvere od a protestare con chi vi fosse tenuto per ufficio. E così, a salire, sino ai vertici. Perché, prima o poi, in udienza, ci torneremo, e comunque sia anche il processo telematico patirà storture, evitabili solo se ci diamo una mossa. Per estensione, se contestassimo – magari, dapprima al diretto interessato poi, nel caso di reiterazione, pubblicamente – i comportamenti inopportuni all’interno dei nostri organi di rappresentanza e richiamassimo all’ordine chi dovrebbe garantire un VERO decoro per la nostra professione, di certo miglioreremmo sensibilmente il nostro stato. Ma anche scrivere, sensibilizzare, dialogare e discutere si rivela importante: perché la nostra irrilevanza sostanziale – perché questo siamo, noi Avvocati: IRRILEVANTI, ed il perché l’ho scritto nei miei precedenti editoriali ma, in fondo, lo sappiamo tutti, lo vediamo ogni santissimo giorno – dipende dal nostro silenzio. Ma cosa siamo: tutti possidenti, ricchissimi benestanti? Siamo tutti soddisfatti e tronfi per quel che abbiamo e non avvertiamo la necessità di essere davvero portatori di istanze di Giustizia? Non intendiamo esercitare quel ruolo che rappresenta lo scopo della nostra vita professionale? Beh, chi così si sente, esca dall’Avvocatura, ché siamo duecentocinquantamila. E chi resta, faccia qualcosa ogni giorno, anche a partire dai piccoli comportamenti: apponga il proprio tassellino per una Giustizia vera e seria! Conosco coraggiosissimi Colleghi che combattono col coltello tra i denti per tutti noi, che si beccano querele, minacce, oscuri anatemi da altri colleghi che non vogliono perdere la propria posizione di potere – a partire da quelli che dovrebbero garantirci in Parlamento, poiché siamo la maggioranza tra le professioni ivi presenti. Colleghi che (a volte, con toni che non utilizzerei… per ora) usano ogni mezzo per evidenziare quanto siamo caduti in basso, quanto sia davvero indecorosa questa nostra condizione di pedine in uno scacchiere sopra le nostre teste. Perchè c'è a chi va bene così, ed è potente: infatti, in Italia ci sono “da un lato le grandi law firms che occupano circa 5-6mila avvocati (poco meno del 3% del totale), ma - stima l’ASLA [Associazione Studi Legali Associati, NDR] - producono più dell’80% del Pil dell’avvocatura italiana; dall’altra gli oltre 240mila professionisti attivi censiti da Cassa forense, per la maggior parte inseriti in studi medio piccoli, con un particolare indice di affollamento al Sud: solo in Campania sono 34.330 gli iscritti 2018, quasi mille in più della piazza milanese, ben più ricca e attrattiva … «Nel 2018 la forbice di reddito tra grandi e piccoli studi si è allargata» nota Nunzio Luciano, presidente di Cassa forense, che ritiene necessario investire nelle aggregazioni [ed ecco a cosa si punta, sulla nostra pelle! NDR]: «Ancora oggi 2 studi su tre sono individuali e rischiano di scomparire»” [fonte: https://www.ilsole24ore.com/art/studi-legali-dell-anno-2019-ricerca-sole-24-ore-statista-AB442yuB]. E, secondo voi, a queste immense strutture che desiderano – lecitamente, ci mancherebbe – che gli Avvocati lavorino per loro e non in proprio e che muovono interessi e danari con la pala, fa comodo che gli altri, specie i c.d. piccoli professionisti abbiano voce? Io penso proprio di no. È la legge della giungla, baby. Però, se i figli di un Dio minore cominciano a farsi sentire, garbatamente ma determinatamente – e sempre MENO garbatamente, se non vengono ascoltati – non credete che l’intera Avvocatura, e non solo chi decide di aprire un proprio studio, otterrebbe visibilità e autentico decoro? A partire dai poveri praticanti, che intendono entrare in un settore che, purtroppo e pur con la massima comprensione, non ha più bisogno di Avvocati! Insomma: se noi ci facciamo piecori, il lupo ci mangia. Se noi chiniamo la testa, la perdiamo. Ancora una volta, Cilento docet: non facciamoci piecori, prendiamo coscienza del nostro rilievo e del nostro ruolo liberale e storico, decidiamo cosa essere, diventiamo adulti. Sennò i lupi faranno un sol boccone di noi. Se non l’hanno, irrimediabilmente, fatto già. 

 

Quindici maggio ventiventi

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- Società

Silvia Romano e la Sindrome di Stoccolma.

SILVIA ROMANO E LA “SINDROME DI STOCCOLMA”, undici maggio ventiventi Di Pasquale D’Aiuto. Avvocato. Silvia Romano è una ragazza di 25 anni, milanese, laureata in una scuola per mediatori linguistici per la sicurezza e la difesa sociale con una tesi sulla tratta di esseri umani nei Paesi di origine. Volontaria in Kenia per una ONLUS che realizza progetti di sostegno all’infanzia, in particolare orfani di ambo i genitori, il 20.11.2018 viene rapita dai jihadisti somali di Al Shabaab, all’uopo organizzati in una milizia di otto uomini armati di fucili e machete. Si tratta di terroristi che il Corriere della Sera (G. Olimpio) descrive come “vicini ad Al Qaeda… radicati sul territorio, capaci di resistere ai loro avversari, in grado di agire anche oltre confine… alcuni di loro si sono poi tramutati in attentatori suicidi … [dediti a] traffici, contrabbando, taglieggiamenti … e quando possono vanno a caccia di ostaggi”. Silvia viene liberata il 9 maggio; ieri è tornata in Italia. Sembra scontato sia stato pagato un riscatto milionario. Le istituzioni italiane sono liete del buon lavoro di intelligence operato e l’accolgono in festa. Silvia si presenta con una veste tradizionale di colore verde, il capo coperto, guanti e mascherina d’ordinanza. Afferma di essere stata reclusa in quattro covi, raggiunti di volta in volta grazie a chilometri di cammino a piedi; di essere stata trattata bene nel corso della prigionia ed aver ottenuto dai rapitori precisa promessa di non essere uccisa; di non aver mai subito minacce di morte; di non essere mai stata legata; di essere stata sempre con gli stessi carcerieri, armati ed a volto coperto; che era libera di muoversi all’interno dei covi. Che veniva rinchiusa, sola, in stanze di abitazioni. Silvia dichiara (sempre stando alle notizie di stampa), poi, di essersi “lentamente e spontaneamente” convertita all’Islam: “È successo a metà prigionia, quando ho chiesto di poter leggere il Corano e sono stata accontentata … Non c’è stato alcun matrimonio né relazione, solo rispetto” da parte dei suoi rapitori che le spiegavano “le loro ragioni e la loro cultura”, così ella ha imparato anche un pochino di arabo specie, a quanto pare, grazie ad una copia del Corano scritto in arabo ed italiano a fronte. Questi, in sunto, i fatti e le dichiarazioni. Ora, le premesse sono che questa ragazza è una brava persona che assiste i più sfortunati del pianeta. Che non è una sprovveduta, perché ha studiato proprio per compiere questa attività. Inoltre, ritengo sia altamente simbolico riportare a casa italiani rapiti, ancor più quando il senso di giustizia è vieppiù avvertito in virtù della qualità morale del connazionale salvato. Quindi, evitate di farmi storie con quel che si sarebbe potuto fare con quattro milioni o quel che è, perché confondereste mele con pere: il fallimento della politica è altrove, non qui. Utilizzate altri esempi, ché ve ne sono molteplici e gravissimi - non mi fate parlare della Giustizia. Certo, abbiamo verosimilmente foraggiato terroristi della peggior specie; gente che cerca di far saltare in aria aerei, per intenderci. Ma non è questo il punto. Ascoltando Silvia, apprendiamo che sarebbe stata trattata quasi con riguardo e possiamo dedurre che, a ben vedere, tutta questa preoccupazione per lei (non solo quella dei suoi familiari ma di un intero Paese, anche la mia!) era eccessiva. Un anno e mezzo a chiederci (SE e) dove fosse, mentre lei era a intenta ad intendere le ragioni dei rapitori ed a studiare il Corano? No, non è stato così, ovviamente: quelli l'hanno tenuta in vita non perché – in fondo, in fondo – umani ma solo in quanto interessati a cosa avrebbero potuto ottenere dalla sua incolumità. Fisica, però. Solo fisica. Perché no, non posso crederci. Non posso reagire con leggerezza alla sua stessa tesi per cui, tutto sommato, non sarebbe stata poi così male nel lunghissimo periodo di clausura e, soprattutto, non posso accettare supinamente che una conversione – fenomeno così personale, così intimo e rilevante nella vita di un essere umano; poi, in favore della religione dei suoi aguzzini! – possa essere stata “spontanea”. No: quei criminali le hanno portato via persino il suo credo. Questo è successo, nient’altro. Non può essere vero che, in una situazione così traumatica, così distruttiva, nella solitudine più cupa ed irragionevole, una conversione sia sbocciata così, naturalmente, come un fiore di montagna. Non ci crederò mai: piuttosto sarò convinto, sempre, che la povera Silvia sia stata plagiata, terrorizzata, oppressa, angariata dai suoi torturatori a tal punto che le hanno portato via persino l’anima. Una beffa atroce: un’indifesa ed altruista ragazza, sottratta a fatica dai suoi carcerieri senza scrupoli, terroristi disumani, scende dall’aereo che l’ha riportata a casa, dopo un anno e mezzo di silenzio (ed infinita, comprensibile angoscia dei suoi familiari ed amici) e le prime parole che pronuncia… sono quasi di comprensione verso i suoi vessatori?! Ma come è possibile? Per me, questa è solo l’esemplificazione degli effetti di una cattiveria parossistica, indescrivibile, concretizzatasi nello sconvolgimento della libertà interiore, del nucleo più profondo dell’essere di una persona. Quindi, quando ho letto le sue dichiarazioni, quando non ho potuto percepire risentimento nei confronti di quelle belve feroci ma solo una sinistra serenità, mi è venuta in mente la c.d. Sindrome di Stoccolma, quella che, in psicologia, descrive legami c.d. traumatici, spesso solidissimi, che nascono tra due persone, accomunate da una vicinanza fondata sulla posizione di assoluto potere di una nei confronti dell’altra che, quindi, sottoposta ad una violenza estrema ed arbitraria, finisce con l'aderire emotivamente alla volontà ed alle azioni del proprio carnefice. Come in questo caso. Non mi convincerete mai. Mi ha turbato, e molto, la dichiarata conversione all’Islam di Silvia, frutto della violenza, della rassegnazione, dell’istintiva metabolizzazione del credo dei suoi carcerieri che, non a caso, le hanno concesso di poter leggere e studiare il loro Testo Sacro. Ella ha subito la massima forma di costrizione, nel profondo dell’anima, così grave da non condurla soltanto a rinnegare il proprio Dio bensì addirittura ad indurla ad abbracciare quello venerato dai suoi persecutori. E questa non è una conversione religiosa ma un terribile dramma personale, che deve farci riflettere su quanto possa essere infinita la barbarie dell'uomo. La Sindrome di Stoccolma parla per Silvia, privata di un pezzo della sua anima.

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Comprendere il bene comune non è da tutti.

Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato. Nel Cilento si dice: “Chiro nun sape fa’ la <> co’ ‘o bicchiere”. Vale a dire: colui è talmente incapace che non saprebbe disegnare un cerchio nemmeno mettendo un bicchiere tondo su un foglio e tracciando la linea ai suoi margini. Meraviglioso adagio tipico di una cultura millenaria, sedimentata su lasciti innumerevoli e preziosi: quella del nostro Sud. Frase che adotta (spesso) mio padre, da cui l’ho appresa. Che adopero (molto spesso) anche io. Per esempio, oggi è primo maggio. Sono sicuro che sarà all’insegna della preoccupazione: molti non riprenderanno come prima, in qualunque settore. Le conseguenze di questa pandemia sono inimmaginabili: potenziali occasioni di rinascita ma anche possibili baratri. E allora, succede che i politici si sbizzarriscano, gli scienziati formulino ipotesi e tesi, il Governo emetta decreti su decreti – vaghi e mancanti di una programmazione seria, ad esempio, in merito ai tamponi ed alla medicina di prossimità – e la gente… resti nel mezzo, in attesa di certezze. Quindi, in questo stato di cose vorticoso ed inatteso, per tutelare (prima) e far ripartire come si deve (poi) società e lavoro, bisognerà fare affidamento sul buon senso, sull’etica sociale anche minima delle persone. Il Bene Comune dipende da questo. E qui casca l’asino. Qualche tempo fa, si doveva dividere un gruppo di persone in ordine alfabetico. “Da Abaco a Fiandaca, ore x; da Giannino a Zuzzurellone, ore y”. Semplice, no? No. C’è stato chi – e non uno ma due o tre su una ventina: gente adulta, con figli – ha chiesto se il proprio cognome rientrasse, specificamente, in un gruppo o nell’altro. Cioè non era in grado di valutare autonomamente a quale raggruppamento fosse destinato. Id est: aveva dubbi sull’alfabeto della lingua che usa ogni giorno. Così nella mia testa è risuonata, puntuale, come un rintocco di campana, quella frase: “Chisti nun sano fa’ la <> co’ ‘o bicchiere”. Perché la verità è che, in questa società, molti non possono nemmeno aspirare alla comprensione dei massimi sistemi – come il Bene Comune o l’attualissima tutela del Lavoro di cui all’art. 1 della Costituzione, per intenderci – in quanto non sanno eseguire nemmeno comunissime attività quotidiane che s’immaginerebbero pacificamente acquisite, in tempi di astronauti e internet. Quel che manca non è, spesso, l’intelligenza ma la semplice cura. E questo, oggi, con i chiari di Luna che ci affliggono, è un vero guaio. Chi si lamenta di non essere preso in considerazione dal capo, dovrebbe chiedersi se sa realmente fare le fotocopie; chi vuole avere un cane in appartamento, dovrebbe domandarsi se rispetta gli altri quando lo porta a spasso; chi utilizza una strada, dovrebbe avere la lucidità di camminare sul marciapiede, che non sta lì a caso ma serve ad impedire che i veicoli possano investire i pedoni (per non parlare dell’attraversamento con il rosso o fuori dalle strisce); a chi si lamenta di essere incompreso in amore, si potrebbe chiedere se si lavi i denti regolarmente o se sappia ascoltare (no, questa è già di altro livello); da chi si mette in fila, sembra ovvio pretendere che sappia come si formi e si mantenga, una fila! Chi usa un bagno, dovrebbe essere (sin dall’età di 3 anni, più o meno) in grado di comprendere l’uso della tavoletta e della carta igienica e poi, salvo sfortunate patologie, avrebbe il minimo dovere di … beh, l’avete capito; chi intrattiene una conversazione, potrebbe facilmente rispettare lo spazio vitale dell’interlocutore – pandemia a parte – evitando di mettersi ad un centimetro o, peggio, trattenendo fisicamente il malcapitato, il quale magari sarebbe anche sinceramente, affettuosamente interessato ma diviene preda dello sconforto! Si può pretendere, con buona ragione, che tutti sappiano che ci si debba lavare – indigenza a parte, ovviamente; che il deodorante, se il corpo non è pulito, serva a ben poco; che una camicia andrebbe usata al massimo per una giornata e poi pulita, che le scarpe da ginnastica sono tanto care ma mostrano quel difetto olfattivo sopraggiunto che le rende, spesso, insopportabili; che dare del “tu” a chiunque non è carino, che non è consigliabile insultare chi abbia un’opinione diversa dalla tua o tifi per un’altra squadra; che se sbagli il numero poi non è il caso di offendere il malcapitato che già ti ha risposto per tre volte; che a Natale non puoi chiedermi di parlare della tua multa da quarantasei euro. Che – ecco, per esempio: ecco – il lavoro, per stare nel tema, è quella cosa con quel nome, “lavoro”, perché s’intende retribuito – sennò si chiamerebbe hobby – e merita rispetto. Rispetto. E invece, no. Non si può pretendere. Perché molti non sanno usare un marciapiede, un bagno, persino la parola se non il pensiero (poi, la grammatica, la grammatica… quanti, quanti in ruoli apicali, non in grado di scrivere in italiano). E votano! La verità è che bisognerebbe ripartire da questo: insegnare l’ovvio. Tenere lezioni, convegni, incontri, seminari sull’ABC del vivere sociale, per tutte le età, con il fine di concretizzare l’ovvio della civiltà. Oggi più che mai. 1° maggio 2020

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Sì, la PEC può funzionare anche per il GDP!

Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato Se superassimo questo periodo drammatico e quasi onirico senza più d’una lezione appresa, saremmo davvero imperdonabili. Devono averlo, meritoriamente, pensato anche nell’amministrazione della Giustizia perché, a quanto pare, è stato finalmente scoperto che la Posta Elettronica Certificata si possa adattare al mondo della Giustizia di Pace. E ci voleva una pandemia (ed il buon senso, finalmente, di chi ha agito), per sancirlo. Bisogna partire dall’art. 83.7 del D.L. 18/2020, con in quale “per assicurare le finalità di cui al comma 6 [organizzazione della Giustizia in tempo di Covid, NDR], i capi degli uffici giudiziari possono adottare … misure”; poi, si deve guardare a protocolli e linee-guida tra Consiglio Nazionale Forense e Consiglio Superiore della Magistratura; infine (per essere brevi e giungere al punto), ecco a voi… l’operatività. Parlo, in particolare, del (la proposta di) “PROTOCOLLO PER LA TRATTAZIONE DELLE UDIENZE CIVILI DINANZI AL GIUDICE DI PACE” emessa dal Tribunale di Salerno, a firma del Presidente Giuseppe Ciampa, in data 23.4.2020 ma anche della precedente nota, in data 21.4.2020, da parte del Presidente del Tribunale di Nocera Inferiore, Antonio Sergio Robustella. Materiali letti e, subito, piaciuti. Già, ci voleva una pandemia per rendersi conto che è incredibile che, ad esempio, attività ovvie come un’iscrizione sul ruolo oppure il deposito di memorie non possano, tuttora, avvenire da remoto oppure che, per ottenere copia della produzione di controparte, si debba intasare personalmente la cancelleria! Eppure, spesso, gli Uffici del GdP, che hanno numeri impressionanti ed attribuzioni in forte ascesa, proprio in virtù della loro missione (si parla, non a caso, di Giustizia di prossimità), si trovano in zone non esattamente… di passaggio. Grazie al lavoro di Giudici e personale, verrebbe da scrivere che l’unica Giustizia esercitata in tempi decenti sia questa (riferimenti: art. 106.2 Cost., R.D. n. 12/1941, L. n. 374/1991), pur con molte, evidenti ombre accanto alle chiare luci; peccato che proprio questa Giustizia, così sfruttata in Italia, spesso patisca una disorganizzazione pressochè patologica, dettata dall’insufficienza di mezzi e risorse umane. Tornando a quei documenti citati, con la premessa doverosa che si tratta di procedura estemporanea, ebbene essi sono di straordinario rilievo, non soltanto per il contenuto ma anche per il codice verbale adottato. Vale la pena di salutarli come innovativi e fare il possibile perché siano implementati e condotti oltre l’emergenza. Dobbiamo solo perfezionare e… volerlo. Infatti, la proposta del Presidente Ciampa, promuovendo “l’utilizzazione dei modelli di cui ai protocolli nazionali di CSM e CNF”, concretizza la “MODALITÀ DI TRATTAZIONE SCRITTA”, in cui il Giudice emette Decreto con date e scadenze, le parti hanno termine per note e repliche, i tempi per i provvedimenti giudiziali sembrano pacifici ma, soprattutto, ogni cosa o quasi avviene con invio di PEC alla “CASELLA PEC ISTITUZIONALE DELL’UFFICIO DEL GIUDICE DI PACE”. Miracolo: la PEC, addirittura “istituzionale”! Inoltre, viene resa possibile, su accordo delle parti, la trattazione da remoto quando la presenza delle parti è necessaria. E questo accordo va incoraggiato. Certo: di fronte al comprensibile fallimento assoluto della c.d. testimonianza scritta (art. 257 bis c.p.c.), vale la pena evidenziare – ritengo – che la prova orale debba essere raccolta sempre in modo tradizionale, pel tramite di processo verbale a cura di soggetto terzo, sempre e solo innanzi al Giudice. E poi, altra conquista di civiltà: l’iscrizione della causa sul ruolo tramite PEC, per ora con la sola allegazione di nota d’iscrizione, diritti e foliario, senza la produzione di parte e solo a titolo di “prenotazione”. Ma – e dobbiamo arrivarci! – con l’obiettivo che, una volta capito il concetto e formato il personale, potremo allegare l’intera produzione e dare inizio ad un Processo Civile Telematico per la Magistratura Onoraria. Ci rendiamo conto di quanto questo modello sia più sicuro ed efficiente? Segue la “disciplina degli accessi in cancelleria”, restrittiva e molto: ma implementando il telematico, non si otterrebbe un chiaro e definitivo decongestionamento degli uffici, con tutto quel che ne deriva in termini di efficienza, sostenibilità anche ambientale, certezza, immediatezza e, non da ultimo, qualità del lavoro di tutti? Specie leggendo le ultimissime dal Ministero, che predicano ancora “limitazioni alla presenza dei dipendenti pubblici in ufficio” (cfr. Circolare del 24.4.2020)! Venendo all’altra nota, a firma Robustella, del medesimo tenore, mi hanno colpito la perentorietà dei toni (non consueta, in ambito pubblico; certamente, motivata dalle straordinarie premesse spiegate nel documento), l’invito alla pubblicazione dei provvedimenti da parte dei Giudici, il risalto dato all’iscrizione telematica, la richiesta di efficienza nello smaltimento dell’arretrato. Ora: perché non cogliere l’occasione per reclamare, a grandissima voce, che anche il GdP possa avvalersi del PCT? Perché lasciare che queste attribuzioni e soluzioni dal carattere emergenziale possano scomparire dopo il periodo c.d. cuscinetto? Perché fingere che la PEC e la telematica non possano risolvere molti mali della Magistratura onoraria di pace? Ne conosciamo tutti le anomalie – alcune delle quali davvero inspiegabili – e, sono persuaso, tutti noi vorremmo ordine, buon senso, efficienza, semplificazione nella sua gestione; per primi, i dipendenti della Giustizia. Ebbene, nel nostro quotidiano – che, c’è da giurarci, non sarà mai più lo stesso – se vogliamo migliorare le nostre condizioni di lavoro, se vogliamo adeguare e modernizzare la NOSTRA Giustizia, di cui siamo attori principali, dobbiamo pretendere che indicazioni di questo tipo vengano incoraggiate, implementate, integrate. Solo così potremo avere una Giustizia umana, equa, rapida e seria, più corrispondente a quell’idea di Diritto che, in gran parte del mondo occidentale, è frutto dell’intelligenza e della sensibilità dei nostri antenati Romani. 26 aprile 2020

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No, io non voglio ritornarci alla normalità.

Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato. Arrivi a Capodanno e ti chiedi un’altra volta come sia andata: bene, male, potevo far meglio, poteva andar peggio. Il tempo di contare da dieci a zero e stai già pensando con cosa e chi pranzerai il giorno dopo, a quando tornerai in studio, a quel caso da esaminare meglio, a chi invitare per la partita. Finisce agosto e giuri: “Settembre è il vero Capodanno, altro che gennaio!” ma poi, alla fine, mentre credi di dover organizzare le idee per affrontare la ripresa, già sei immerso, ancora mezzo abbronzato, nella quotidianità luminosa di fine estate con un dolce vigore, afferrando senza troppi intoppi le redini delle cose. E poi ti ritrovi, in un qualsiasi nove marzo di un anno bisestile, a cominciare una fase della tua vita, che non sarà ampia ma resterà memorabile, in cui devi davvero misurarti con le tua aspirazioni, le tue paure più profonde, i tuoi desideri ed una nuova, inaspettata sensibilità verso tutto l’universo, la vita, la morte. Devi fare i conti con te stesso perché perdi la libertà – così come, almeno, l’abbiamo sempre intesa – e non puoi recarti al lavoro, stringere mani, affrontare piccoli e grandi dilemmi, rifugiarti nelle tue abitudini e nelle tue certezze. Alla fine, perdi proprio quelle: le certezze. Forse, ne acquisisci delle altre. Nel frattempo, però, il tempo diviene infinito e breve, diverso ed uguale. Le giornate si animano grazie ad impulsi nuovi che, spesso, provengono dal tuo profondo, segnali che covavano nel tuo cuore in attesa di essere ascoltati. Riprendi a riflettere, a dormire più a lungo, a sognare, ad interrogarti sulla tua umanità. Ecco, l’umanità: concetto che viene sempre più dimenticato. Eppure, dovrebbe costituire la base del nostro essere! Guardare in alto ed osservare il cielo e le stelle non è cosa concessa a tutti i viventi, così come non è affatto banale poter contare su una complessità di pensiero vasta – seppur con tutti i suoi limiti – quale è quella dell’uomo. Mentre l’inverno lascia il posto ad un’incerta primavera, forse tardiva per tema di incoraggiare la gente ad affollare le strade, tu hai desiderio di uscire, andare al mare per abbeverarti d’infinito, rivedere chi ami, gettarti nell’attività che prediligi; ma, intanto, hai suonato il pianoforte con i tuoi figli, hai dialogato seriamente con qualcuno, hai affrontato crisi, hai scoperto qualità in persone insospettabili, hai maturato idee che potrebbero rivoluzionare il tuo quotidiano, hai ascoltato il canto degli uccelli, fatto ginnastica davanti ad un cellulare, letto poesie, scritto riflessioni… hai vissuto, sei stato umano, hai dato un peso al tempo. Non sai se proprio quello giusto ma, certamente, di più e meglio. Non sei guarito, certo, dall’istinto di affrettarti e vagheggiare che cosa sarà domani, non hai tagliato tutti i nodi di Gordio che ti legheranno sino alla fine dei tuoi giorni ma hai potuto apprezzare il momento, condannato a fare i conti con te stesso; invitato, da un minuscolo essere che nemmeno può dirsi vivente, a volerti un po’ più bene. La nostra libertà è, principalmente, disordine, entropia. Proprio la libertà, che è preziosa come respirare, ci rende incapaci di comprenderla fino in fondo. Il tempo, che è terribilmente limitato e che, a volte, è drammaticamente scarso, meriterebbe più riguardo. E invece ne abusiamo ogni giorno, quando potremmo fare una passeggiata in un bosco di cicale piuttosto che condannarci ad una fila di ore per ritirare una copia con un timbro sopra. E, quel che è peggio, non facciamo nulla o quasi per evitare di buttarlo via come una cartaccia, non costruiamo attorno a noi una realtà efficiente, nel senso più umano del termine. Questa, questa deve essere la nuova, fondamentale sfida quotidiana: impedire che le cose proseguano come prima, in un modo irrazionale e cieco che ci sottragga tempo, con l’abbaglio di una libertà illusoria e di un’eternità impossibile. Perché noi maltrattiamo il tempo senza ragione, spesso per illuderci di essere efficienti ed utili – al mondo ed a noi stessi – ottenendo il risultato opposto! Eppure, noi non siamo costituiti di appuntamenti di lavoro, tasse, scadenze, problemi risolti, viaggi in auto, sfide quotidiane ed ore di mera quiete: al contrario, il meglio di noi è un tuffo in luglio, l’ascolto d’una poesia, la lezione ad un bimbo, il bacio di chi ami, un panino in un prato, un film sul divano, viaggiare. È tutto quanto resterà nella nostra solitudine, il motivo per cui avrà avuto un senso vivere. E allora, se normalità significa riprendere a non dare il giusto valore al tempo – ché di prezzo, il tempo, non ne ha, non può averne – che la normalità sia ripudiata, che non vi facciamo più ritorno, che si rivoluzioni il senso di quel termine. Bisogna fare il possibile per non sprecare il momento, per non farselo scippare senza ragione, dapprima nel lavoro, poi nel resto: perché possiamo ricordarci, un giorno qualunque, che siamo esistiti. Occorre dialogare con la nostra natura, finita ed imperfetta, e spiegarle, con pazienza, che il vero tempo, la vera normalità è quando siamo stati esseri umani. 21 aprile 2020

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No, la toga nel cuore non basterà

Era il 1594 quando il Caravaggio dipinse “I bari”. Lo straordinario dipinto mostra tre uomini ad un tavolo da gioco, di cui due intenti a raggirare il terzo, un giovane dal viso candido, a carte. All’apparenza, i protagonisti sono tutti ben vestiti, segno di elevata estrazione sociale ma, ad uno sguardo giusto un po’ più attento, i guanti di uno dei bari sono sporchi e bucati. Ora, all’epoca, le persone abbienti amavano sfoggiare il bianco poiché esso – luminoso, latteo, immacolato – costituiva l’emblema della pulizia e, per estensione, della capacità economica di potersi permettere abiti non soltanto ricercati nelle fogge ma lavati di fresco. Ora, sulla mirabile tela, il baro che scruta nelle carte dell’ingenuo, giovane nobile (il cui colletto e i cui sbuffi delle maniche non a caso sono bianchissimi) indossa guanti proprio di quel colore. Perché? Perché intende fingere una ricchezza che non possiede, in tal modo apparendo, agli occhi della sua colpevole vittima, degno di fede e… meritevole di condividerne il tavolo da giuoco. Fatalmente, per la vittima. Quest’opera mirabolante si è subito affacciata alla mia mente quando ho potuto osservare, su un social, la lunga successione di immagini ritraenti Colleghi ed amici, fieri e sorridenti, con indosso uno dei simboli della nostra professione intellettuale: la toga. Le fotografie recavano, tutte, per chiara convenzione, il seguente motto: “Con la toga sulle spalle e nel cuore”, evidentemente a significare il giusto orgoglio di svolgere l’attività di avvocato come pura esteriorizzazione d’un sentimento – dell’esserlo, non solo del farlo – immanente, immutabile, intangibile. La mia prima reazione è stata un sorriso di partecipazione. Ma poi, nel continuare ad imbattermi in quei ritratti, non ho potuto fare a meno di ricordare le consuete conversazioni, anche con i Colleghi ivi effigiati, sulle tremende difficoltà della nostra amata professione; e subito sono tornati al pensiero criticità estreme, file per una copia, attese innanzi all’aula, spese misconosciute, buchi organizzativi, innumerevoli incongruenze, disordine parossistico, affollamento (oggi, si direbbe assembramento…) nei corridoi, mancanza di carta, faldoni buttati in ogni angolo, procedura calpestata: in poche parole, lo stato della Giustizia nel nostro meridione – per non dire in Italia. Ed il sorriso è divenuto un ghigno di consapevolezza. Perché ho dovuto realizzare, con dolore, che noi avvocati non siamo così diversi da quel baro dai bianchi guanti, lerci e consumati. Il nostro guanto è proprio la toga; il buco è l’inconcludenza strutturale ed invincibile dei nostri sforzi, seppur apprezzabili. La toga rappresenta, come il guanto bianco, la nostra aspirazione ad essere distinti, efficaci, decorosi; ma il foro nel guanto è una voragine ed essa, tragicamente più evidente che nel dipinto di Caravaggio, è plasticamente rappresentata dalla realtà nella quale ogni giorno ci arrischiamo a compiere la nostra sempre più messianica professione intellettuale. Quando indossiamo, fieri, la toga, rappresentiamo un decoro, un’autorevolezza che tuttavia, in concreto, non possiamo più vantare e che soltanto pochissimi di noi, spesso per benevola eredità, possiedono ancora; quindi, rischiamo di rifugiarci in tale paravento per evitare di dover considerare, con amara lucidità, che siamo una categoria ridotta all’irrilevanza. Ed il fatto che siamo in buona fede, che davvero amiamo quel che facciamo (e che siamo!) non ci salva dall’essere colpevoli. Anzi, lo siamo doppiamente: perché, così facendo, riusciamo mirabilmente nel compito di recitare non solo la parte dell’impostore ma pure quella della vittima, che è ingenua in modo imperdonabile. Diveniamo, quindi, bari e, al contempo, incaute vittime, anche di noi stessi. Ma questo atteggiamento vagamente puerile, seppure ispirato, sul piano morale, dai nostri luminosi propositi, si rivela esiziale per il nostro lavoro e, in definitiva, per la nostra vita. Infatti, il decoro che ostentiamo, simboleggiato dalla toga, non è reale. Noi avvocati non siamo più decorosi. Anzi: siamo una delle categorie più maltrattate e marginali d’Italia. Noi siamo quelli che si beccano rinvii di anni senza ragione, provvedimenti inspiegabili (soprattutto ai nostri clienti!), prassi assurde; che non vengono retribuiti, pur mettendoci anima e studio; che non hanno garanzie sul futuro, che versano le imposte e sostengono la propria previdenza in modo non proporzionato al reddito, persino nel caso di guadagni nulli; che ricavano sempre meno e, pertanto, possono aspirare ad una famiglia soltanto in tarda età oppure mai; che lavorano in uffici giudiziari sgangherati, polverosi, disordinati, con personale ridotto all’osso e comprensibilmente demotivato: noi siamo divenuti un popolo di centinaia di migliaia di disillusi che se lo sognano, il decoro. Quindi, che la toga sia sulle nostre spalle e nei nostri cuori è vero, aulico e bello ma quell’indumento simbolico non deve divenire un drappo che celi la mediocrità generale cui siamo ridotti. E non è sfoggiando simulacri che verremo fuori dalla crisi cui siamo stati condotti a causa di decenni di politica di settore demenziale, non è mostrandoci sorridenti come se il nostro lavoro ci facesse campare sereni e soddisfatti che riusciremo ad evitare il baratro ed a nasconderlo, a noi stessi ed al mondo! Non possiamo più eclissarci dietro a un dito: dobbiamo prendere coscienza che oggi, in questo Paese, quella toga che noi vestiamo con orgoglio ha smarrito il suo valore storico ed ideale. Il vero decoro consiste in ben altro: esso è il lavoro dignitoso, equamente retribuito, onorevole, serio e non serioso, sorridente ma non ridanciano, meritocratico, corrispondente a quel Diritto di cui l’Italia, soprattutto il Sud, costituisce la culla riconosciuta in tutto il mondo. Il decoro della professione non è (solo) la toga ma l’opposizione concreta a tutto quanto essa sia costretta a nascondere, ossia quella povertà di motivazioni, visioni, strumenti, certezze e mezzi che abbiamo timorosamente, gradualmente accettato. Rifugiandoci nel nero e negli ori della toga rischiamo, pur con le migliori intenzioni, di celare, senza successo, un nero ben più buio e tetro, che è quello delle nostre vite lavorative sempre più compromesse. Invece, accanto alla pur sacrosanta valorizzazione dei nostri simboli, dobbiamo riprendere a pensare, a costruire, a protestare, a cambiare quel che non va e potrebbe essere migliorato, a non aver timore della Giustizia ma profondo rispetto di essa, che è prima di tutto rispetto per noi stessi che ne siamo attori imprescindibili, con tutti i nostri difetti e la nostra umanità perfettibile. Basta, basta rimarcare i segni di un’Avvocatura decorosa soltanto in tesi, una categoria così periferica che non siamo stati nemmeno considerati in una Costituzione pur così tanto emendata, che non abbiamo neanche il coraggio di virare con decisione verso le efficienti opportunità del processo telematico, che accettiamo supinamente di essere trattati quasi alla stregua di questuanti, ogni giorno, come se chiedessimo l’autorizzazione di poter lavorare, in una cancelleria, in un’aula d’udienza, in un ufficio pubblico, in mezzo alla gente. È questo, proprio questo il momento di comprendere che la dignità della nostra professione è tutta da riconquistare e non lo faremo grazie all’ottimistico sfoggio dei nostri paramenti ma soltanto in seguito ad una rifondazione sostanziale, coraggiosa, di buon senso, a partire dalle piccole azioni, a cominciare da ognuno di noi. È arrivato il momento di rimeditare il nostro frainteso concetto di decoro ed il primo passo sarà quello di smetterla di adagiarci sui simulacri, per andare alla sostanza delle cose. Perché, in mancanza, presto sarà davvero la fine dell’Avvocatura e quella toga potremo riporla, con inutile orgoglio, assieme ai libri dell’università. – Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato.

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- Letteratura

La bellezza salverà la giustizia?

Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato. Il Principe Miškin, ne “L'idiota” di Dostoevskij, afferma: “La bellezza salverà il mondo”. Chissà perché, è una vita intera che questo messaggio mi avvince. E, chissà perché, mi martella quando metto piede in un ufficio giudiziario. Rammento che, la prima volta che vi entrai, rimasi stupefatto dal caos che lo pervadeva. Anzi: che lo governava. Mi domandai come fosse possibile amministrare la Giustizia in quel modo, senza la parvenza di un benchè minimo protocollo per gestire l’utenza, con carte letteralmente in volo sopra le teste dei presenti, giudici indistinguibili dal resto della ressa, vociare altissimo, distanza sociale annullata. Certo: ero giovane e privo di esperienza. Ma lo strano è che tutti mi sembravano assurdamente a proprio agio! Com’era possibile? Ora, ammettiamo che l’emozione del momento peserà nel ricordo ma, avendo poi nuovamente frequentato quel luogo, direi che si tratta di un’immagine piuttosto affidabile. Comunque, l’ufficio si trovava in un edificio bruttino, senza stemmi né pompa, senza bandiere né afflato d’autorità, un immobile che tutto poteva sembrare men che meno un luogo in cui si decidesse un pezzetto dell’esistenza delle persone. Fui sorpreso e rammaricato: davvero quella era la materializzazione del Diritto solenne e chiarissimo che avevo studiato per anni?! In seguito la rassegnazione prevalse, sebbene mitigata dall’impegno a cavare qualcosa di buono dalla mia personale attività, perché tutte o quasi le altre prime volte furono simili: quegli uffici erano brutti, senza ispirazione, dimessi, incolori, vecchi. Crepati, lesionati, scoloriti. Scomodi. Col tempo, scoprii che le eccezioni erano davvero poche. Orbene, dentro quelle strutture piuttosto tetre (perché, alla fine, così erano e così sono rimaste) si aggirano avvocati, testimoni, parti in causa, cancellieri, consulenti, commessi e giudici, un pochino tetri pure loro. Fatalmente dimessi, come gli uffici in cui sono costretti a condurre innanzi, ciascuno secondo il proprio ruolo, quel teatro ancestrale che è la Giustizia. Persino i sorrisi ottimistici sfoggiati – sempre meno spesso – dagli Avvocati suonano coraggiosi, per non dir eroici. Poi, ci si deve vestire: la maggior parte va sul sicuro con cravatte, tailleur, panciotti, decolté, stampe geometriche, zaini e borse sobrie. Altri decidono di scegliere tenute più sportive, rinunciando alla cravatta e scegliendo un paio di jeans con le sneakers. Qualcuno, evidentemente, non vuole stonare con l’ambiente e punta su nippoli, pelucchi e impavidi accostamenti tra quadroni e righetti. E come dar loro torto? È una questione di coerenza: le porte ridotte ad assi di legno, i fili scoperti, i neon ad intermittenza, le sedie rotte o squarciate, le pile di fascicoli ovunque, le pallocchie di polvere, il grigio imperante nei toni decisi da qualche architetto triste, gli avvisi scaduti da un anno ma assurdamente ancor lì a troneggiare, esigono un comportamento co-e-ren-te. Responsabile. Perché non c’è dubbio, deve trattarsi di direttive impartite dal Ministero: bruttezza, sciatteria, disarmonia. E il Ministero va rispettato. Altrimenti, non potrebbe spiegarsi per quale ragione gli uffici giudiziari siano così ridotti. Quando, poi, dando retta ad uno sguardo certamente frivolo, basterebbe davvero una mano di vernice, un po’ di stucco, un orologio al muro, una bella pulizia per cambiar faccia all’ambiente – ed ai suoi spaesati e/o eroici visitatori. Magari, staccare dalla parete quel rinvio del dicembre 2017, mettere una mascherina a quell’interruttore, coprire quel filo, tener chiusi quei raccoglitori che esplodono. Archiviare montagne di carte. Organizzare le stanze, le aule e la loro funzione, questa volta senza una benda sugli occhi. No, tutto questo non può che essere frutto di una precisa volizione del Governo, legata forse – ma qui siamo maliziosetti – al cattivo stato dell’organizzazione generale. Non esiste altra spiegazione. Perché evidentemente, grazie a tali accorgimenti del brutto, sarà più naturale, per i visitatori, non vedere l’ora di ritornare alle proprie case od ai propri studi, accogliere con rassegnazione un rinvio a due anni, scoprire che manca il fascicolo o una produzione di parte, constatare l’assenza ingiustificata di quel consulente o quel testimone, apprendere che quel giorno non si tiene più udienza, imbattersi in un improvviso scaglionamento delle cause del mattino. Certo, significativa controindicazione di questa volontà del deforme è che dipendenti ed addetti ai lavori scontino minor agio e voglia, se (tanto per dire) le pareti si sgretolano oppure la copiatrice è fuori-uso da settimane. Ma sarà solo un piccolo prezzo da pagare sull’altare dell’Equilibrio del sistema! Perché questo equilibrio deve essere un metodo geniale, l’idea straordinaria di qualche misconosciuto luminare. Infatti, il brutto non è solo nella struttura, nella disposizione insensata degli spazi, negli arredi fatiscenti e sporchi… no, esso diviene pura esaltazione metafisica della dis-grazia. Ad esempio, nel foglio dei turni degli avvocati appiccicato miracolosamente, con un residuo di scotch, in una intercapedine del muro o su un chiodino residuo di chissà cosa; nella mancanza di carta ed elastici delle cancellerie; nelle vetrate coperte con fogli legati l’un l’altro a formare una barriera contro il sole cocente; nelle porte che grattano sul pavimento; nei pezzi di cartone messi lì ad arte per impedire al getto d’aria del vecchio condizionatore di infilarsi nella schiena, fino alla cintura dei pantaloni, del malcapitato di turno; nell’angustia delle metrature; nella necessità di scrivere sui davanzali delle finestre impolverate – questo serve a non far distrarre gli avvocati: dovessero perdersi nel panorama?! – oppure sui mobili provenienti da qualche ufficio nazista… e chi più ne ha, più ne metta. Personalmente, credo che l’esempio più eclatante di tale, ingegnosa architettura neo-funzionale sia stato l’A4 ben attaccato alla (grigia, ça va sans dire) parete scrostata (ça va sans dire) in corrispondenza di una presa di corrente, che recitava qualcosa del tipo: “NON TOCCARE, PERICOLO DI MORTE”. Ovviamente, un avviso senza paternità. In un’aula piena di gente. Posso dedurre, tentando di connettermi all’ispirazione del genio misconosciuto di cui sopra, che il simbolismo consistesse nell’indurre il lettore al timore parossistico della Causa ed all’accettazione mistica della Sentenza e del Mistero della Procedura. Eppure io, che evidentemente sono un tipo terra terra, continuo a pensare si possa fare come sembrerebbe normale, praticando il banale buon senso e la sovrastimata logica. Ma è tutta colpa del Principe Miškin (che, del resto, era un ingenuo), di quel plagio letterario che mi conduce, evidentemente, a sbagliarmi di grosso, visto che la realtà della Giustizia è un continuo, inesorabile inno al brutto! Sì: esiste qualche merito necessario nel deforme, che io ignoro perché sono un superficiale. Quindi, certamente sono in errore se penso che la bellezza – intesa in senso lato, come spero di aver ben illustrato – possa fare un gran bene al mio comparto, che è non esattamente uno dei più insignificanti in un Paese che voglia dirsi civile. Ad esempio – e dimentico volutamente le opportunità del mondo telematico – che mantenere il decoro degli ambienti induca istintivamente tutti, habitué e non, ad un comportamento migliore; assicurare una costante temperatura gradevole consenta al personale di lavorare con maggiore agio ed efficienza; pagare qualcuno perché trascriva le deposizioni orali ne potenzi la genuinità; dotare i bagni di sapone e carta li renda realmente fruibili, magari per chi deve usarli più spesso per l’età o qualche malanno; fissare le udienze ad orario dedicato o, almeno, per tipologia (es. comparizione, conferimento d’incarico, prova testimoniale) ottimizzi il tempo. Senza dubbio prendo una sonora cantonata, affermando che issare le bandiere d’Italia e d’Europa alle spalle del Giudice incuta un minimo di riflessione sul proprio ruolo; incoraggiare un abbigliamento consono alla funzione illumini la coscienza del compito; disporre qualche sedia e qualche tavolo in più comporti una maggiore naturalezza nel redigere il processo verbale; sottoscrivere gli avvisi ne determini l’attendibilità e suggerisca all’utenza che esiste un certo rispetto nei suoi confronti; installare bacheche favorisca l’affissione di locandine o inviti a carattere culturale; consentire l’acquisto di marche da bollo in loco permetta il perfezionamento immediato delle istanze ed eviti passeggiate indesiderate, alla pioggia o sotto la canicola; chiudere i raccoglitori o le scaffalature contenenti i faldoni doni un aspetto più ordinato all’ambiente e prevenga lo smarrimento o la sottrazione di documenti; rispettare l’orario di udienza contribuisca al rispetto reciproco tra giudici, avvocati e parti... ed altre amenità che, per l’appunto, sono solo quello: amenità, fantasie. Sbaglio, dunque, se penso che la Bellezza salverà (salverebbe) la Giustizia. Sbaglio?

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- Letteratura

Non è un disvalore.

Tempo di Covid. Nel cortile della mia abitazione urbana, l’aria è tersa. Respirabile, luminosa. E non è perché è primavera – tra l’altro, freddissima. Resto in casa, non si esce senza ragione. La corte interna, con le sue piante che sentono la nuova stagione, è appagante. Il motivo è semplice: lo smog si è drasticamente ridotto. Ho trascorso, ultimamente, molto più tempo con i miei figli. Pappa e ciccia: sei e quattro anni, si divertono, si picchiano, non si annoiano mai, sono amici. Insegno loro pianoforte. Io stesso ho ripreso a suonare. Ho raccolto le idee e scritto un articolo su quanto avevo dentro da anni. Ho (video) telefonato a cari che non sentivo da tanto. Ho chiacchierato con gli amici, ho scoperto lati caratteriali sconosciuti di persone che non consideravo poi così interessanti. Sto riprendendo a lavorare, sfruttando le potenzialità di cui dispongo. Studio, approfondisco. Ho dormito – anche troppo (e qui, per un’associazione di idee, mi rendo conto che avrei bisogno di un barbiere più che di capelli, il che è tutto dire). Ho cominciato a fare ginnastica in casa grazie ad una app. gratuita, che m’invita a pubblicare i miei risultati su Facebook (ma io non lo farò nemmeno sotto tortura). I miei figli saltellano con me e mi perculano che è un piacere. Ho visto film che mi aspettavano da tempo. Ho mangiato tanto, con calma, con i miei, specie a pranzo quando non accadeva mai o quasi mai, prima. Il mio aspirapolvere ora ha un nome, gliel’ho dovuto assegnare perché se passi tanto tempo con qualcosa ti ci affezioni (con la lavastoviglie già ero in confidenza, ci capiamo naturalmente, lei ed io). Scherzo. Mi mancano il mio studio legale nei pressi del Liceo Tasso, il caffè con i Colleghi, Salerno, l’impegno quotidiano, il sentirmi utile, mangiare la pizza, sfottere mia suocera, camminare, il profumo del mare. Vorrei riabbracciare i miei cari e soprattutto mia nipote. Vorrei andare ad Acquavella con la mia famiglia. Mi manca sentirmi libero perché non sono libero, non siamo liberi. La mascherina mi costringe a mettere le lenti a contatto perché gli occhiali si appannano e questo alimenta la mia naturale goffezza. Non sono mai stato così tanto tempo in casa, se non quando preparavo il diploma di pianoforte. Allora mi abbrutivo, oggi un po’ meno perché, dopo i quaranta, bisogna darsi un limite – capelli a parte, naturalmente. La novità è che ho del tempo. Per me, slegato da un obiettivo utilitaristico. Quindi, non sono produttivo, nel senso che questa civiltà sempre di corsa ha attribuito a tale termine. Non sono utile, nel modo che la società che abbiamo costruito sembra pretendere da ciascuno di noi, a pena della nostra irrilevanza. Non sono più dinamico. Quindi, penso e scrivo. Quanto tempo abbiamo, come intendiamo utilizzarlo? Quanto, di ciò che facciamo ogni giorno senza pensarci troppo, ha davvero senso? Quanta parte delle nostre azioni può essere sostituita con altro di più appagante, di più umano? Cosa perdiamo, se cambiamo abitudini? Ad esempio: la mattina prendiamo l’auto e ci rechiamo da qualche parte. In studio, in ufficio. Spesso – e ora non venitemi a dire che ci sono attività che non possono farsi in remoto, lo so – per compiere azioni che potremmo, grazie alla tecnologia, soddisfare persino da casa. Penso alle udienze, che potrebbero, il più delle volte, essere tenute in modo virtuale – gli adempimenti di cancelleria, in buona parte, già lo sono. Penso addirittura agli appuntamenti, mutuabili con la corrispondenza scritta e/o delle conferenze telefoniche. Andiamo oltre la quarantena, pensiamo al domani che replicherà (?) il recentissimo passato: svegliarsi presto, vestirsi di tutto punto, viaggiare, presentarsi al pubblico, sfidare la giornata lontano dal tepore delle proprie mura, incontrare la gente, sorridere: invitante, lo adoro. Perdere ore di sonno, non fare colazione con i propri figli, rischiare un incidente, beccarsi il traffico, perdere tempo in fila, attendere il proprio turno in un’aula affollata, pranzare fuori o in studio in modo frugale, non poter andare a prendere i bimbi a scuola, scrivere nel pomeriggio atti e diffide gravate dalla stanchezza delle ore mattutine: evitabile. Eppure, sono facce della stessa medaglia. Il rapporto quotidiano e diretto con le persone, in qualsiasi ambito extra familiare, così come lo intendiamo comunemente è (anzi, sarebbe) produttivo ed efficiente; rappresenterebbe, inoltre, la misura della nostra socialità. Ma il suo prezzo è la rinuncia alla quiete (specie familiare) ed alla riflessione. In realtà, io credo che tale prezzo consista, soprattutto, nell’immotivata abdicazione ad un diverso modo di essere efficienti ed attivi. Diverso ma non peggiore, anzi. Il costo del nostro dinamismo quotidiano è l’irragionevole rifiuto di quello che i Romani chiamavano otium, ovverosia leggere, meditare, apprezzare l’arte, fare esercizio fisico, incontrare gli amici per un convivio – non a caso, la negazione di esso è il negotium, che è la necessità dell’occupazione lavorativa per sopravvivere. Oggi, paradossalmente ed in barba alla storia ed alla semantica, sembra quasi che l’otium sia la detestabile negazione del negotium! Se mettiamo sul piatto della bilancia l’aspirazione sociale e l’intimità familiare così come il dinamismo e l’otium, è una bella lotta. Il problema è che il nostro sistema sembra chiaramente incoraggiare qualsiasi lavoratore – nel mio caso, professionista – ad uscire di casa. Ed a correre; spesso, a sproposito. E noi non riflettiamo più, non ci domandiamo perché agiamo in un certo modo: noi ci stiamo, accettiamo di buon grado di affannarci perché lo riteniamo (lo riteniamo noi?) strettamente collegato ad un risultato. Anzi, accettiamo per una ragione fondamentale: perché tutto o quasi ci conduce a considerare tale comportamento un valore. Per noi – semplificando – correre è un valore. Perché chi sta nel mezzo, chi si mostra in giro, chi trascina la propria borsa od il proprio zaino con dentro chissà cosa è interessante, attivo, presente. Ha tempo da impiegare, è importante, ha qualcosa da fare. Questo è il tremendo retaggio degli ultimi secoli della storia umana: il movimento in sé è un valore. Ma forse quel che ci sta succedendo in questo periodo può avere il pregio di indurci a tornare ad una dimensione più intima della vita, che significa, prioritariamente, ragionare su come spendere meglio le nostre giornate – restando efficienti, naturalmente. Io credo che chi usi bene il proprio tempo, che è limitato; chi adotti strategie per ottimizzare il lavoro; chi accetti di poter sfruttare la telematica, ove possibile; chi deleghi compiti con intelligenza, con ciò valorizzando e retribuendo il lavoro degli altri – che si troveranno nelle condizioni di svolgere lo stesso compito con minor fatica ed in modo più sostenibile, anche per il pianeta; chi ritagli ore per il proprio otium, specie la cura dei propri cari, non cada in un disvalore. Anzi: pratichi il valore. Non è un disvalore camminare, lasciare l’auto nel box, dormire un’ora in più, pranzare a casa, dedicarsi alle faccende domestiche, fare due chiacchiere senza fretta, telefonare senza una ragione. Non è un disvalore –per restare al focus – lavorare da remoto, grazie a quello smartworking che, se ben organizzato, può tranquillamente sostituire le medesime attività, compiute altrove e con un impatto ecologico evitabile. Perché questo virus ci sta spiegando, con terribile fermezza che, se stiamo più in quiete, i mari, i laghi, i fiumi si ripuliscono; l’aria diviene respirabile; il risparmio, dovuto alle minori uscite, aumenta (e noi italiani siamo grandi risparmiatori); le famiglie si riuniscono – dopo la crisi, lo potremo fare molto meglio; i rischi connessi agli spostamenti diminuiscono; i delitti crollano – anche se bisogna fare moltissimo per i femminicidi e le violenze familiari; la cultura complessiva si accresce grazie a letture e confronti, foss’anche virtuali; il tempo corre più lento e consapevole; e poi, stiamo lasciando le scarpe fuori casa e lavandoci le mani come si deve, finalmente! E l’efficienza nel lavoro non diminuirà, anzi: alla lunga sono convinto aumenti. Stando di più in famiglia. Noi dovremo, verosimilmente, modificare le nostre abitudini sociali, alcune delle quali basiche, per il futuro che verrà e non per poco: quindi, ci conviene fare di necessità, virtù. E qui, vien fuori un presupposto indefettibile: puntualità, precisione. Un’ora è un’ora, un minuto è un minuto. Il vero disvalore è l’approssimazione, che sembra andare di pari passo con la frenesia contagiosa cui siamo abituati. Il disvalore, per me, è farmi sessanta minuti – se va molto bene – di auto per giungere in aula ed attenderne altri sessanta per un’udienza da 5 minuti. Avrei potuto utilizzare meglio quei 115 minuti? Domanda retorica. Quindi: lavoro da casa, ufficio o, comunque, da remoto; potenziamento della telematica; barbiere e parrucchiere (faccio il primo esempio che mi viene in mente…) su appuntamento; udienze ad orario programmato; spesa a domicilio; conferenze ed appuntamenti via video; firma elettronica; incoraggiamento della turnazione notturna nelle fabbriche, come negli ospedali o nelle farmacie. E poi, distanze sociali consone al vivere civile, abitudine – ahimè – alla mascherina (specie se con sintomi), meno bacetti e strette di mano – ma a che servono? Dai Romani giunge a noi il saluto c.d. gladiatorio, dai Giapponesi potremmo apprendere l’inchino. Ci sarà molto da cambiare ma temo che non abbiamo scelta: dovremo conviverci, con questo virus o con minacce simili. Tornare ad essere attivi ma in modo consapevole e sostenibile. Evitare di gettare via il tempo, perché non sappiamo quanto ne abbiamo e non lo possiamo comprare. Il compromesso ci consentirà di non morire di Covid ma nemmeno di povertà, poiché saremo anche più produttivi. Con il non trascurabile corollario che vivremo molto meglio. E allora, proviamo a cogliere il valore dell’otium, comprendiamo che non esiste disvalore in una quiete efficiente, che la frenesia cui siamo abituati non rende la nostra vita più desiderabile o proficua. Che una stasi disciplinata può essere sommamente produttiva. Che socialità è (anche) abbracciare una volta in più i figli, chiacchierare con calma, prendersi cura, senza fretta, di sé e degli altri, coltivare l’umanità. Ecco: io chiamo tutto questo lentezza, che non è inconsistenza, non è torpore ma profonda coscienza di quanto ci circonda e ricerca della capacità di trarne, in tutti i sensi, il meglio. Almeno, fino a quando le Moire vorranno… Insomma: l’otium, la lentezza, la quiete non sono un disvalore.

 

 

 

Pasquale D'Aiuto. Avvocato.

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- Giurisprudenza

Il pesce d’aprile degli avvocati.

IL PESCE D’APRILE AGLI AVVOCATI – Ditemi che è soltanto un pesce d’aprile. Vi prego, ditemelo e convincetemi. Perché quest’oggi assisto, attonito, alla corsa caotica, a colpi di click, da parte di migliaia e migliaia di persone che hanno conseguito un diploma, una laurea in Giurisprudenza, hanno svolto pratica forense ed ottenuto un’ardua abilitazione, all’accaparramento dell’obolo di € 600,00 (pure, inizialmente non previsto!) graziosamente concesso con il c.d. Decreto Cura Italia (D.L. n. 18 del 17.3.2020, così come integrato con Decreto del 28.3.2020 dei Ministeri del Lavoro e delle Politiche Sociali e dell’Economia e delle Finanze). Parlo degli Avvocati, categoria professionale liberale e nobile, esistente da quando è in piedi una società che si possa dire civile, attori principali del sistema Giustizia come i Magistrati, baluardo per la tutela e l’implementazione dei diritti. Parlo di esseri umani che hanno puntato le proprie fiches su un corso di studi polivalente, per trovare il proprio posto nel circuito produttivo e rendersi utili al mondo. Però, evidentemente, nella nazione sbagliata. Gente che, in paesi seri, dovrebbe nutrire serene prospettive di medio-lungo periodo e che, al contrario, in questo surreale posto che è l’Italia – ma per prudenza, in base alla mia personale esperienza, preferisco limitarmi al meridione d’Italia, che è anche Roma, per intenderci – spera di buscarsi qualcosa dallo Stato, quando e se arriverà, perché avrà fornito dimostrazione alla propria previdenza privata di aver passato anni difficili, di non aver affatto ingranato con la professione o, addirittura, di non aver più una partita iva. Ma questo è meno del breve periodo: questo è campare alla giornata. Sì, perché vi sfido: più a monte, provate a raccontarmi che, in fondo, questo Paese non abbia poi convinto noi Avvocati che la nostra quintessenza fosse proprio quella del campare alla giornata. Raccontatemelo ma poi, un attimo dopo, motivatelo con ragioni solide, perché io farò fatica a starvi dietro. Perché io credo sia proprio così: noi siamo una categoria da distruggere, i paria della società. Noi siamo residuali. E lo saremmo anche se parlassimo, oggi, non di seicento ma di seimila o sessantamila euro per ciascun Avvocato, perché l’unico “bonus” che potrà salvare il fondamentale comparto della Giustizia dovrà consistere in un’autentica rivoluzione concettuale, a partire dal nostro ruolo. La verità è che ormai siamo abituati a concepire la nostra professione come una gara ad ostacoli o, per restare in tema, come un’emergenza continua, un po’ come il virus di questi tempi. Noi siamo continuamente in quarantena, questa è la verità. Noi siamo reclusi – sì, da sempre e non solo in questi giorni – a causa di barriere politiche, sistemiche, ideologiche ma concretissime. E lo siamo a partire da corsi di studio affollati, aperti a chiunque – anche a coloro che non sanno cosa fare della propria vita dopo il diploma – e, spesso, senza uno sbocco preciso; poi, da pratiche forensi disorganiche, molto spesso povere di contenuti, cronicamente legate alle solite materie divenute una sorta di ammortizzatore sociale (penso alla r.c.a.), con compensi da fame o senza alcuna forma di corrispettivo. Pratiche che, assai spesso, non si concludono mai veramente e sfociano in collaborazioni atipiche non regolamentate, generando migliaia di professionisti poveri, timorosi di spiccare il salto e prendere ad essere realmente autonomi – realmente professionisti! – e bisognosi, quasi fisiologicamente, di conforto, controllo, rilettura, assenso da parte di un dominus. Una demolizione psicologica, prima che economica. E poi, penso all’esame d’abilitazione che (e mi perdonino i commissari seri e preparati che ho incontrato nella mia vita), continua a sembrare un terno al lotto. Con i testi nascosti negli zaini, gli smartphone, la speranza di un aiuto esterno, quando basterebbe pretendere l’impegno degli aspiranti Avvocati, consentire loro l’utilizzo dei codici commentati con la Giurisprudenza ed impedire realmente l’adozione di trucchetti da ragazzini – che costituiscono illeciti penali, a ben vedere. Forse, prima ancora, la facoltà di Giurisprudenza dovrebbe tornare a fare selezione (a partire dal numero chiuso) o, almeno, a indirizzare verso una prospettiva, come la libera professione o i concorsi. Poi penso alle udienze, che quasi sempre sono affollatissime perdite di tempo e che sovente vantano l’unico beneficio di incoraggiare la socialità e di sostenere l’economia dei bar nei pressi degli Uffici Giudiziari, a suon di caffè e chiacchiere ai tavolini. Quali udienze? Ma noi Avvocati le conosciamo bene: innanzitutto, quelle di mero rinvio (perché il Giudice non è riuscito ad emettere un provvedimento, perché mancano i testimoni, perché una notifica è andata storta e chi più ne ha, più ne metta); poi, l’udienza che segue quella di comparizione delle parti nel caso (leggasi: sempre) di richiesta della concessione dei termini c.d. istruttori; quella di conferimento dell’incarico al Consulente Tecnico d’Ufficio, che presta giuramento; quella di precisazione delle conclusioni, spesso reiterata per ragioni, sovente, oscure (o, forse, ben chiare)… si accettano suggerimenti. Parlo da civilista, naturalmente: tutto tempo che potrebbe essere dedicato allo studio, al tempo libero. Alla famiglia. Poi, penso agli importi ingenti che dobbiamo destinare, sin dall’iscrizione all’albo, anche senza un reddito effettivo ed in modo affatto proporzionato e scalare, alla nostra previdenza sociale, pur gravata da tutte le sue ben note incongruenze. Ma non è solo questo: è molto, molto di più. Questa elemosina di 600 euro assume le vesti di una beffa, contentino inaccettabile ed odioso per una vita (professionale ma non solo) di assurdità conclamate. Penso, ad esempio, al fatto che un soggetto, se non ha un reddito “regolare”, può intentare una causa civile senza rischiare concretamente nulla – lasciando a bocca asciutta la controparte e l’Avvocato avversario, oltre che, molto probabilmente, anche il proprio (dura, spiegarlo ai non addetti ai lavori; vero?). Penso alle società che scompaiono (anzi: che divengono inattive), lasciando capitale e patrimonio azzerati ma tanti debiti, nei confronti dei fornitori quanto degli Avvocati e dei professionisti in genere. Penso alle procedure concorsuali inutili; alle esecuzioni mobiliari in cui le case private sono sempre chiuse, in cui addosso, il debitore, non ha nemmeno un orologio oppure in cassa non c’è mai un euro da pignorare; a quelle immobiliari che durano un’eternità e costringono chi le ponga in essere ad esborsi enormi che, spesso, non vedranno rimborso; ai pignoramenti presso terzi (quando possibile) ove sovente non v’è nulla o quasi da ricavare perché il terzo non c’è più o perché il suo debito è poco o nulla; ai ricorsi per decreto ingiuntivo che potrebbero essere sostituiti da ingiunzioni qualificate degli Avvocati; a tutti quei contratti che sarebbero facilmente, e con competenza, stipulabili senza l’assistenza di altri professionisti – le compravendite immobiliari, per esempio ma sovvengono alla mente anche i c.d. passaggi di proprietà dei veicoli – e, più in generale, allo scandalo della negazione, pressocché assoluta e davvero incomprensibile, della facoltà di autenticare le sottoscrizioni! Penso alla patologica mancanza di meritocrazia. Agli incarichi milionari concessi in base a graziose discendenze e giuste amicizie. Ai mandati professionali da parte degli enti pubblici che vanno sempre agli stessi. Penso all’incredibile assenza di qualsiasi riferimento alla figura dell’Avvocato nella nostra Costituzione! E poi, ritorno con la mente al dileggio generale nei confronti della categoria: gli Avvocati rubano, perdono tempo, provocano la prescrizione, sono incompetenti, godono nel ritardare le decisioni, sono degli azzeccagarbugli, raccontano fandonie, si arricchiscono sfruttando i clienti, si vendono all’avversario… chiunque può, a chiunque è concesso gettarci fango addosso, impunemente. La vulgata è che noi siamo cattivi. Sui social, in strada, persino nelle dichiarazioni (anche molto recenti) di qualche… illuminato ed autorevole giurista. Non aiuta, bisogna dirlo, la politica adottata da più d’un ministro della Giustizia oppure l’insipienza di qualche soggetto capitato, per puro caso, all’apice del nostro settore. Gli Avvocati sono carne da macello, spara addosso al leguleio, dagli all’untore. So bene che, in qualche caso, il dileggio è meritato. Penso ai colleghi (minuscola voluta) che offrono pubblicamente la propria attività (minuscola voluta) gratis o quasi – con ciò, violando il principio di lecita concorrenza – o che, per esempio, incoraggiano azioni nei confronti dei medici che agiscono nell’estrema difficoltà di questi tempi grigi. Ma siamo 250.000 e passa (troppi, troppi)! Per la stragrande maggioranza perbene, coraggiosi, preparati, in buona fede. Penso al sorriso, alla bravura ed alla disponibilità dei Colleghi che vedo quasi ogni giorno (Antonietta, Gianluca, Roberto, Alessio, Elio per fare qualche nome, perché non siamo numeri!) e, più in generale, alla correttezza, alla serietà, al fair play di quelli che incontro sulla mia strada, innanzi alle eccezioni ed alle strenue argomentazioni, alla loro capacità di scorgere la cesura tra la difesa del Cliente ed i rapporti personali. Quanto è difficile, tutto questo! Quanto è difficile e miracoloso comprendere che l’inderogabilità del mandato difensivo ed il rispetto reciproco possano coesistere – anzi, considerare la prima una parte fondamentale del secondo. In definitiva e senza dilungarmi oltre, ecco perché vorrei tanto che questa storia dei 600 euro fosse un pesce d’aprile: perché, qui, bisogna rifondare la Giustizia, non elargire oboli. Perché non esiste alcuna programmazione rispettabile e seria delle vite di centinaia di migliaia di Legali; perché chi deve non adotta riguardo per le loro anime, le loro aspirazioni, le loro famiglie ed ora, di fronte all’ultimo atto di un’emergenza continua, frutto di scelte scellerate e di prassi assurde che solo in minima parte qui sono state citate, non si può più tacere. Perché non c’è merito, cultura, cura. Perché si deve, prima di tutto, riabilitare la professione dell’Avvocato. Perché noi siamo senza futuro e lo eravamo ben prima di questa emergenza mondiale. Il teatro è finito e quest’ultima farsa ha disvelato il trucco. Oggi, primo di aprile, abbiamo patito lo scherzo più atroce. Speriamo sia l’ultimo. di Pasquale D’Aiuto, avvocato