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Raccolta di articoli di Emanuele Di Marco
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Letteratura

“Io so… come hanno ucciso Pasolini”

Pino Pelosi ha pubblicato con Vertigo il suo secondo libro (ed ha il coraggio di ricordarcelo nei ringraziamenti, dopo le menzogne vergognose di “Io, angelo nero”, sua ‘opera prima’, benedetta, a suo tempo, da una Dacia Maraini credula per troppo amore verso Pier Paolo).
Il titolo è ammiccante per pochi ormai: “Io so... come hanno ucciso Pasolini”; quante volte, infatti, la “Rana” ha promesso verità e mantenuto fumo?
120 pagine circa, meno di 90 tolte note e notarelle nonché un dimenticabile album fotografico di Pelosi stesso; un’ora e mezza di lettura al massimo.
Opera che sarebbe, a prescindere, irrilevante, se non altro per le passate e ripetute bugie dell’autore, ma che, a sorpresa e inaspettatamente, merita considerazione.
Non per le rivelazioni sulla morte di Pier Paolo, ci mancherebbe, ché il Pelosi ci consegna semplicemente l’atroce scena (la più credibile, ahimè) già tratteggiata da Gianni Borgna e Carlo Lucarelli su Micromega n°6 del 2005, nonché suffragata dalle testimonianze raccolte da Silvio Parrello più recentemente.
L’agguato all’Idroscalo dove Pasolini si sarebbe recato con Pelosi per riavere le ‘pizze’ di “Salò”, il suo ultimo film, rubate dagli archivi di Cinecittà; la presenza sulla scena del ben premeditato delitto di altre due auto ed una moto; il massacro, prolungato, orribile, del poeta; il sormontamento del suo corpo, che ne causa il decesso per lo scoppio del cuore, non da parte della sua Alfa Gt ma di un’altra, identica; tanta gente che sente e vede nelle baracche di Ostia, ma nessuno che testimonierà (né verrà chiesto ad alcuno di farlo, a dire il vero). ‘Naturalmente’, Pelosi è vittima ed esca quanto mai inconsapevole del delitto. ‘Naturalmente’ dei mandanti nemmeno l’ombra.
‘Nihil novum sub sole’, apparentemente (anche se il racconto di Pelosi, unico testimone oculare ufficialmente accreditato, non dimentichiamolo, imporrebbe ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, la riapertura del caso, la ricerca degli esecutori materiali e degli ispiratori del delitto).
Invece qualcosa c’è, ma non quello che promette Pelosi. Infatti, ripeto, inaspettatamente c’è qualcosa di commovente, di prezioso: la descrizione del rapporto precedente fra Pasolini e Pino che ammette finalmente di aver conosciuto il poeta circa quattro mesi prima della sua morte, all’inizio del luglio del 1975.
E’ qui che Pelosi appare autentico (e bravi sono anche i suoi due ‘ghost writers’). Ci viene presentato un Pasolini inedito o, quantomeno, molto poco conosciuto e con accenti di dolce quotidianità. E’ il Pier Paolo che passando presso la Stazione Tiburtina, accoglie in auto e consola il ragazzetto scappato da una casa dove i genitori litigano furiosamente; che gli offre la cena e dopo, sulle strade notturne di un Aventino deserto, gli permette addirittura di guidare il suo ‘macchinone’ sportivo; il Pasolini delle gite al mare, degli spaghetti alla ‘gricia’ offerti in un’osteria vicina agli studi di Cinecittà; quello ‘pedagogo’ di “Gennariello”, che cerca di spiegare ad un Pino quanto mai immaturo (e, probabilmente, davvero lo era, anche per il modo in cui si è fatto manipolare in occasione del delitto del poeta) la società italiana, gretta, volgare, omofoba. Un uomo che si sa ben difendere dalle offese di chi lo apostrofa come “frocio” e che non subisce il fascino dell’esser chiamato “professore” (sic!) e “ maestro” nei luoghi pubblici. Un Pasolini che non toglie mai gli occhiali da sole Persol “suo unico scudo”, ma che è ben disposto, a 53 anni, a farsi un tuffo in una ‘marana’ o a rubare, divertito, sacchetti di patatine fritte da un deposito mal custodito. Un Pasolini, infine, pronto, per gioco, a sfidare Pino a difendersi e che lo blocca con forza ed abilità finché questi non si dichiara sconfitto; la stessa forza e abilità di cui fa sfoggio in una partitella di calcio improvvisata nei giardini di villa Ada.
Sono pagine, queste, che stringono il cuore di chi ama e ha amato Pier Paolo Pasolini, perché lo riconosce verissimo e disperatamente vivo, perché è evidente che stava nascendo un’amicizia particolare fra lui ed il ragazzetto così simile al Riccetto, a Gennariello e a Ninetto, tutti e tre, diversamente, perduti, e che questa amicizia, che questa fiducia, probabilmente hanno reso tutto più facile ai suoi assassini, che hanno potuto contare su un’esca (consapevole o inconsapevole) di prim’ordine.
Qui è il valore del libricino, qui, a parere di chi scrive, la sua ‘importanza’.
Poi, Pelosi si lascia andare a considerazioni ‘dietrologiche’ fin troppo ardite per lui, cominciando dalla denuncia di connivenze di non meglio specificati “colletti bianchi”, continuando con maliziose insinuazioni su quelli che a Pasolini hanno legato la propria vita, fino a coinvolgere in un giudizio (abbozzato, ci mancherebbe) di correità quantomeno passiva, familiari di Pasolini, segnatamente Graziella Chiarcossi (i cui comportamenti, occorre dire, hanno più volte lasciato quantomeno confusi gli amanti di Pasolini), e carissimi amici come Ninetto Davoli.
Sempre indirettamente, ma stavolta neanche troppo, Pelosi fa capire che Sergio Citti avrebbe avuto un ruolo attivo nel furto delle pizze di “Salò” per pagare debiti legati al suo presunto consumo di droga e prostituzione e quindi, Pelosi non lo dice esplicitamente, anche nell’omicidio dell’amico se non altro per averne creato le premesse materiali.
Proprio quel Sergio Citti che, ancora una volta, prima di morire, ha voluto attirare l’attenzione di tutti sul fatto che quella delle pizze di “Salò” fosse la strada da seguire; proprio lui che, fino all’ultimo, si è battuto, suffragandola concretamente con prove filmate inoppugnabili, per la tesi dell’omicidio di gruppo…
Insomma, Pelosi mente e dice la verità, come ha fatto per tutta la vita, miscelando in misura diversa i due ingredienti: ma se “Io, angelo nero” era una sequela di palesi menzogne, qui, invece, si intravedono sprazzi di luce, almeno una parte di verità, anche su quello che successe quella sera. Ma, è necessario, però, domandarsi, per quanto ancora Pelosi continuerà a non dire tutto quello che sa (dopo la pubblicazione del libro, ha avuto l’ardire di ammettere che un 15% della verità lo tiene, tuttora, per sé)? E, ancora, è lecito che quest’uomo possa continuare a guadagnare sulla morte di Pasolini? E, in ultima analisi, è giusto comprare “Io so… come hanno ucciso Pasolini”?
Ognuno potrà dare per suo conto le proprie risposte.
A prescindere da tutto ciò, rimane il tratteggio di quel ritratto così straziante e autentico di Pier Paolo. Del Pier Paolo di tutti i giorni, uomo pensoso eppur lieto, austero e un po’ narciso, profondissimo e giocoso. Il ritratto di Pier Paolo vivo. Un ritratto dolorosamente dolce. Un ritratto insopportabilmente struggente.
E di qualcosa di così prezioso, a Pino Pelosi, questa volta, bisogna pur dare atto.

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- Cinema

’Nerolio’ - Appunti su un film sbagliato

Non è mia intenzione proporre una recensione vera e propria di questo film di Aurelio Grimaldi del 1996, approdato brevemente ma con un certo scalpore nelle sale solo nel 1998, e poi guardato con una diffidenza intrisa di curiosità da molti degli affezionati di Pasolini: la stessa, grande e scontrosa, Laura Betti che professò che non sarebbe mai andata a vederlo, poi ne parlò, a mio avviso, troppo circostanziatamente, e forse aveva ceduto alla curiosità.
Avrei, invece, l'intenzione di offrire un contributo differente; diciamo che vorrei andare più sul personale e raccontare quale tipo di “trauma” abbia rappresentato per un amante dell’opera e dell’esperienza vitale di Pier Paolo Pasolini, la visione di questo film.

Solo qualche coordinata, dunque. “Nerolio” si compone abbastanza evidentemente di tre parti: la prima, e più ispirata, è ambientata a Siracusa, dove un intellettuale omosessuale mai nominato, ma in cui sarebbe semplicemente sciocco non riconoscere Pasolini, anche per la vaga ma significativa somiglianza di questi con l’attore Cavicchioli, ha dei rapporti sessuali con un gruppo di ragazzi sottoproletari che ad uno ad uno entrano nella sua auto, secondo lo schema fin troppo esplicito de “Il pratone della Casilina” di “Petrolio”, il romanzo postumo dell’intellettuale friulano; la seconda a Roma, in cui un Pasolini assurdamente eccessivo, arrogante e megalomane se la prende un pò con chiunque gli capiti a tiro, quasi facendo del prossimo il capro espiatorio di un fallimento artistico personale che sa ma non ammette: l’episodio è coronato dalla sodomia imposta ad un giovane e cinico scrittore in cambio dell’aiuto ad essere pubblicato; nel terzo episodio Grimaldi offre la sua versione dei fatti dell’Idroscalo di Ostia, luogo in cui un Pasolini particolarmente sgradevole e diremmo quasi cattivo, provoca Pelosi fino a farsi uccidere dal ragazzo. Prima dei titoli di coda, breve intervento di una voce fuori campo che propone impietose recensioni al film postumo “Salò” quasi a confermare che l’artista massacrato in mezzo alle baracche in riva al mare fosse, comunque, finito.

Non a caso il sottotitolo di “Nerolio” è “Sputerò su mio padre” (titolo di una pièce teatrale di Grimaldi stesso, adattata per l’occasione): e l’impressione è davvero quella che il regista abbia voluto “sputare” su Pasolini, un “padre”, un maestro, che Grimaldi non è mai riuscito ad avvicinare né per ispirazione né per risultati artistici e che, dunque, aveva bisogno di infangare e dissacrare per superare la propria impasse di figlio “inetto”.
A onor del vero, va detto che proprio alla luce di questa visione a chiave, Pasolini “padre” è, in fondo, anche amato da Grimaldi “figlio” che, in alcuni passaggi della pellicola, lo tratteggia con accenti di misurata e tragica poesia.
Ciò avviene soprattutto (o, forse, solo) nel primo episodio del film, mentre nei successivi due ha molto più spazio la vendetta artistica, la consumazione del “parricidio”.

Per me la visione del film ha rappresentato un’immersione dolorosa in una realtà parallela in cui ho visto un Pasolini odioso, cinico, rancoroso, inutilmente triviale nel modo di parlare, che non è mai esistito, se non nell’immaginazione di Grimaldi. Ma, accidenti!, il Pasolini dello schermo assomiglia fisicamente a quello vero e, a volte, sembra agire e parlare come lui ha agito e parlato: è indubbio che si innesti un corto circuito fra vero e verosimile e che Grimaldi sia abile, magari inconsciamente, nel fuorviare, anche tramite un uso intelligente di finti inserti pseudo-documentaristici (interviste, recensioni di giornali ecc…)
Insomma, l’immagine di Pier Paolo proposta è tentatrice e fa, comunque, riflettere; è capace di fermare per un attimo lo spettatore a chiedersi, con un pò di sgomento: “può essere stato, magari in parte, davvero così?”
Ma la nota stonata la si sente da subito e poi sempre più forte e netta, fino a che a stonare e risultare falsa è tutta la musica: e la risalita da questo “inferno” fasullo è rinfrancante, fortificante. No, quello sullo schermo non è Pier Paolo, non si discute, solo uno che gli assomiglia. L’effetto di questa scoperta è simile a quando ti sembra di vedere da lontano il tuo amore, per la strada, mano nella mano con un altro, fra le sue braccia, e pensi “non è possibile” e ti avvicini di corsa fremente di rabbia e sospetto, col cuore in gola; affretti il passo verso di loro, per poi scoprire con sollievo (“scemo che sono!”) che no, non è lei (o lui), sì i suoi capelli sono dello stesso colore, l’ovale del viso somiglia vagamente, veste alla stessa maniera, ma no, è un'altra persona, come hai potuto dubitare. E magari lo chiami immediatamente il tuo amore, per dirgli che gli vuoi più bene che mai…

Ecco, noi “conosciamo” Pier Paolo (a differenza di Grimaldi): un uomo, sì, a volte ombroso e schivo, soprattutto nei suoi ultimi anni, pronto alla reazione civile anche appassionata e forte di fronte alle follie di una società (quella italiana e non solo) che gli si sfaldava letteralmente dinanzi agli occhi; ma profondamente mite e incapace di violenza fisica e morale, inadatto per natura e, anzi, orripilato da ogni sorta di ricatto e menzogna.
Qui fallisce in maniera plateale “Nerolio”, nel suo obbiettivo principale: il film è incapace di restituire non solo l’immagine vera di Pasolini, ma anche solamente quella di un protagonista credibile. Eccessivo è, prima di tutto, il personaggio principale di Grimaldi: è un esteta da macchietta, un megalomane privo di talento, un odioso, spocchioso intellettualoide borghese che sfrutta fino all’osso il suo prestigio per ricattare chi gli sta di fronte. Fino al ricatto finale, quello al simil-Pelosi che reagisce alla violenza con la violenza e lo uccide.
Francamente, pur con tutto quello che di consonante c’è fra il sentire di Grimaldi e la sensibilità pasoliniana (la scelta delle musiche, la fotografia “frontale” con la sua attenzione ai primi piani, il buon bianco e nero credibile, alcune finte citazioni che aderiscono al pensiero di Pier Paolo, la discreta resa del suo eros sottoproletario e disperato, il, tutto sommato, riuscito primo episodio) la libertà che si è concessa il regista è eccessiva e, per questo, irriguardosa e offensiva del giusto e vero ricordo di Pasolini. E che Grimaldi dica ”questo è il mio Pasolini” non basta assolutamente.

Ma, se potete, se riuscite a trovarlo, magari in videoteca, guardate “Nerolio”. Se c’è una cosa (e certo non è una sola) che Pier Paolo ci ha insegnato è di non scandalizzarsi mai, di non aver timore di fronte a nulla, di guardare tutta la realtà dritta negli occhi, anche quella che non ci piace, che ci ripugna, che ci adira. E dopo, ma solo dopo, a reagire, anche con sdegno, magari con sacro furore, con ardore.

Il Mereghetti, il più noto e autorevole dizionario del film dice di “Nerolio”: << […] un film che solleva più domande di quelle cui può rispondere>>. Il problema è che sono tutte domande sbagliate.