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Raccolta di articoli di Fabrizio Oddi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

- Letteratura

Batti cinque Dottor Pesce

Batti cinque Dottor Pesce  

 

Me so’ proprio superato ma il libro dentro è scritto grande  

 

Paolo “Pesce” Nanna, anno 1965, romano del quartiere di Centocelle, amante del calcetto e del Brasile, componente del mitico gruppo C.C.C.P. (Cento Celle Comedy Party), dopo il licenziamento dall’azienda ove lavorava, si scopre, o meglio si “riscopre”, ma stavolta di professione, comico.

 

Esordisce nello scrivere le sue storie, tratte e trasfuse dai suoi innumerevoli spettacoli, spesso accompagnato dal suo amico comico Stefano Vigilante e sempre dalla sua compagna di vita, Marena, con il libro (del 2007 “autoprodotto”) Me so’ proprio superato 40 storie brevi (6 per la questura …). I nipoti infatti ogni volta, immancabilmente, ripetono “Ti sei proprio superato” agli inevitabili scherzi dello zio, come apprendiamo dallo stesso Paolo “Pesce” (Introduzione – e ringraziamenti, pag. 12).

 

Ma perché “Pesce”? vi chiederete: “è un mistero che non si riesce proprio a scoprire, non si hanno notizie certe (Sudorazione, pag.13).

 

Comunque con questa prima prova “Pesce” già si è “superato”: con le sue storie brevi “frammenti, esperienze e spaccati di vita reale” (Introduzione – e ringraziamenti, pag. 11): dialoghi di cantastorie, con tanto di “coro” (dello stesso autore, come evidenzia nella Prefazione, Marina Spadaro, pag. 6).

 

Solo nell’ultima storia, brevissima, l’autore dismette, per un attimo, la sua comicità, pur disincantata, i suoi racconti briosi e accattivanti, Genova 2001: una storia che rimarrà sempre, ricolma di tristezza nel cuore di ognuno di noi.

 

Ma il nostro “raccontatore di storie, comico, scrittore, autore”, con la sua umanità scanzonata ma sottile, dopo il primo successo, va ancora “in rete” con il successivo libro (del maggio 2019, per la Cut-Up Publishing), Tranquilli il libro dentro è scritto grande, ove le sue irresistibile storie si snodano stavolta attraverso lo scorrere dei mesi, sempre annunciati con quattro “versi” la cui fonte e spiegazione viene poi svelata al lettore a conclusione di ogni “capitolo”.

 

Da gennaio a dicembre, scorre veloce la lettura, tra una risata (e pure una riflessione) e un’altra, ma anche con “Il mese in più” dell’ultimo capitolo, perché “Di questi mesi umanizzati non ci si può più fidare” (Il mese in più, pag. 63).

 

La tappa finale di questo avvincente percorso è dedicata all’indimenticabile Edmondo Bernacca (5.9.1914 - 15.9.1993), noto come il “colonnello Bernacca” (rivestendo prima il grado di tenente colonnello, ma poi promosso colonnello e in seguito generale dell’Aeronautica militare) per il programma di meteorologo da lui condotto dalla metà degli anni sessanta. Quell’ “uomo elegante” che un po’ di tempo fa (come ricordano “i più giovani”) sui nostri schermi “con la sua bacchetta di legno riusciva a rapirti il cuore, con il suo linguaggio chiaro e comprensibile riusciva a spiegarti anche le cose più difficili, tipo i millibar o le isobare” (pag. 167).

Emblematico, irrefrenabile, tra gli altri, nel mese di giugno, l’ormai memorabile (e ripetuto spesso negli spettacoli del “Pesce”) il racconto de Il popolo del secolo scorso, ambientato in quel di Via Castelforte 4 (una traversa di Via Olevano Romano, di fronte a Villa Gordiani), ove il comico in modo rocambolesco parla delle sue incredibili impressioni al “Piccolo Teatro della Parola”, fonte di iniziative culturali e del Laboratorio di lettura e scrittura poetica diretto dal poeta Giuseppe Spinillo:

 

“Da una scritta sulla parete intuisco che la sala grande è anche chiamata Il Piccolo Teatro della Parola e un uomo, che vuole rimanere anonimo, Fabrizio Oddi, mi dice che qua dentro si suona musica dal vivo, che quelle ciotole si chiamano campane tibetane, che qui sotto si narrano storie e c’è addirittura un laboratorio di lettura poetica, e tutto questo viene fatto senza essere ripresi da nessuna telecamera, non viene trasmesso in tv, non c’è una giuria, non ci sono big, non c’è una gara, nessuno vince niente, nessuno viene eliminato, nessuno vota da casa, non ci sono interruzioni pubblicitarie e nessuno diventa famoso, ma allora mi domando, ma perché lo fanno? Lo devo scoprire.

 

Nel frattempo vengo affiancato da una persona un po’ scapigliata e con lo sguardo sognante, mi offre un bicchiere di vino, lo prendo, lo ringrazio, mi andava proprio, ho la gola secca e sto per buttarlo giù tutto di un fiato, quando mi dice:

“Ma fermati, non lo fare, e piano, che poi ci rimane male ... […] il vino, e non gli stare con il fiato sul collo […] Aldo dice 26 x 1.

 

“26.” rispondo. “Aldo dice 26 x 1.” “26.” “Aldo dice 26 x 1… […] Mentre sto contando con le dita, lo scapigliato con lo sguardo sognante continua con il suo mantra”

 

(pagg. 84-85: il verso Aldo dice 26x1 è nella poesia Appunto 3 - Tutti o nessuno di Giuseppe Spinillo, che troveremo per intero riportata, a pagg. 228-229, nell’ultimo libro del “Pesce”, di cui ora parleremo: v.la raccolta poetica “Aldo dice 26x1” Appunti di un viaggio 2011-2017. La grande fuga” del 2017).

 

Batti cinque Dottor Pesce

 

È difficile definire il 3° libro di Paolo “Pesce” Nanna: un libro comico? un romanzo? un racconto autobiografico o (che dir si voglia) diario? un resoconto delle trasmissioni andate in onda su facebook (anche grazie a piattaforme arditamente sperimentate dall’autore) dal 6 marzo 2020? una raccolta di poesie? una raccolta di testi musicali? un viaggio nel mondo dell’arte, della musica, dei sentimenti?

 

Ogni definizione sarebbe infatti riduttiva, perché è tutto questo e altro ancora, 391 pagine di un caleidoscopio, multiforme, poliedrico, vario, coinvolgente ed esilarante.

 

Il Titolo Del Libro

 

“La forma è sostanza” mi disse una volta in un colloquio il compianto don Giancarlo, illustre Professore dell’Università Cattolica Gregoriana (e di altre Università Cattoliche), sacerdote e carissimo amico della parrocchia della mia infanzia, adolescenza, maturità, San Leone I al Prenestino, e ciò si conferma nel titolo del libro di “Pesce” Nanna.

 

Batti il 5: A partire dalla Diretta n. 1: “Quando mancava poco alla fine della primissima diretta, il Dottor Pesce urlò: “Datemi il cinque!” Inviando un messaggio forte e chiaro, la distanza era fisica e non sociale. Da allora il cinque a mano aperta diventò un must, non si sarebbe più conclusa una diretta senza battere il cinque. Mai più. / Batti 5 Dottor Pesce.” (pag. 34, Diretta 1).

 

Dottor Pesce: “A un tratto mi venne un’idea. Inventare un personaggio che non avesse nessun merito e nessuna competenza per poter parlare del coronavirus, come la maggior parte di quelli che ascoltavo, ma anche di creare qualcosa per poter resistere alla solitudine e alla depressione che stava per piombarci addosso. Fu così che nacque il Dottor Pesce, tecnico industriale delle arti grafiche della scuola professionale Panfilo Castaldi di Casal Bruciato [nonché ‘anche altre mille cose, ma soprattutto un infettologo, che sono pochissimi al contrario degli infettivologi che sono invece tanti e inflazionati.’ (pag. 55, Diretta 22)].

Che poi non avevo detto bugie, mi ero aggiunto solo Dottore e avevo leggermente modificato la dicitura originale della mia ex scuola che era: L’IPSIA Panfilo Castaldi, Istituto Professionale di Stato per l’Industria e l’Artigianato, ma tutto il resto era vero.

 

Ma importava a qualcuno il vero e il falso?

 

Finalmente anche il Dottor Pesce poteva essere libero di esprimere la sua opinione.

Era facile, il meccanismo era collaudato” (Prologo, pagg. 30-31).

 

“Era una prova. Serviva a distrarmi dal pensiero fisso del virus, una tregua, un attimo di respiro, ma non avevo una minima idea di cosa volessi dire o fare.

Io e il Dottor Pesce eravamo i primi a tentare di fare qualcosa, non esisteva niente oltre al nulla.

 

Il Dottor Pesce si presentò con il suo barbone nato e cresciuto durante la sua prima quarantena, ma era ancora un avannotto. Esordì, o esordii io, ancora adesso non so chi fosse il Dottor Pesce e chi Paolo Pesce Nanna e questo disturbo dissociativo dell’identità me lo porterò appresso per tutto il libro. Comunque esordimmo dando delle indicazioni, dei piccoli consigli sul come lavarsi le mani, le ascelle, i piedi, i capelli per la prima volta qualcuno stava provando a parlare del virus in maniera differente. Nessuno ci aveva ancora provato, nessuno si era azzardato, era troppo forte per scherzarci su, per denigrarlo, c’erano troppi morti, troppa sofferenza, troppa paura. L’importante era farlo con intelligenza e questo dipendeva anche dalle persone che mi avrebbero seguito, che avrebbero seguito il Dottor Pesce. I miei amici virtuali […] erano stati selezionati accuratamente in base alla mia vicinanza di pensiero e alla mia sensibilità, per cui non mi stupii più di tanto quando si schierarono immediatamente dalla mia parte.” (pag. 33, Diretta 0)

“Nella seconda diretta il Dottor Pesce stava cominciando a prendere forma, almeno nel look. Per la prima volta mi presentai o si presentò in vestaglia. La vestaglia da allora diventò il simbolo, il marchio di fabbrica delle dirette del Dottor Pesce e non ci fu sera che non la indossò, tranne quando ospitò il suo alter ego: il comico Paolo Pesce Nanna.

 

La vestaglia, di seta, l’avevo ereditata da mio suocero Pino.” (pag. 34, Diretta 1).

 

Il Titolo Dei “Paragrafi”. Dopo la bella Presentazione di Susanna Schimperna “giornalista, scrittrice, redattrice, esperta musicale, astrologa, va beh, mi fermo sennò facciamo notte” (pag. 132, Diretta 36) che ritroviamo ospite nella Diretta n. 36 e il Prologo dell’autore, nel capitolo de Le Dirette il libro entra nel vivo.

 

65 dirette, a partire dalla Diretta 0, su facebook dal 6 marzo 2020 alle ore 20 e 25 fino all’ultima la Diretta n. 64 (65, contando la Diretta n. 0) andata in onda il 10 maggio 2020.

 

Come il primo libro e l’attività comica dovuti (ma chissà forse comunque il destino, il “fato” o la “Tyche”, l’avrebbe portato allo stesso approdo) ad un episodio drammatico (il licenziamento dall’azienda ove lavorava), la terza e ancor più matura tappa dell’iter comico di Paolo “Pesce” scaturisce da due eventi, per così dire “esogeni”: prima un gravissimo infortunio durante una partita di calcetto (rottura del tendine di achille) e poi l’inizio della ormai (purtroppo) perdurante pandemia da Covid-19.

 

In verità forse gli eventi sarebbero tre o meglio il primo dipenderebbe da questo, se si crede alla “macumba brasiliana” che aleggia dalle prime pagine del nuovo libro del dott. Pesce (un alias ormai consolidato), perché era prevista una tournée a Cuba di Nanna insieme all’amico comico Stefano Vigilante, “questa volta io e Marena saremmo volati a Cuba invece che per l’ottava volta in Brasile” (Prologo, pag. 15). E la nuova meta sarebbe stata pertanto preferita ai secondi lidi che avevano da tempo accolto il nostro comico come un figlio, vale a dire il Brasile.

 

Infatti, il Brasile al tempo aveva stregato il “Pesce”:  

 

“fu il mio primo vero grande amore, quello che non si scorda mai, cambiò il mio modo di pensare e di vedere la vita, mi insegnò che c’era altro oltre al posto fisso, che si poteva anche vivere con poco, che l’allegria non dipendeva dal denaro, che nulla è tuo e niente è per sempre. Capii che esisteva un altro mondo oltre a 100celle e se non fossi stato un genio me lo sarei perso, rabbrividivo, intristivo al solo pensiero dei miei amici, che avevo lasciato dall’altra parte dell’oceano ignari, convinti di aver avuto tutto dalla vita e io invece adesso sapevo, con certezza, che non avevano avuto niente, anzi. In Brasile era tutto più grande anche la ricchezza e la povertà. Vidi scorci di paradiso, assaporai cibi sconosciuti, conobbi ragazze talmente belle, ma talmente belle da fare invidia a divinità extra terrene, perché ancora non avevo conosciuto Marena, e poi scoprii la musica: la Bossanova, il Samba, il Forrò, il Frevo, lo Choro… Ma come avevo fatto a vivere fino ad allora senza aver mai letto un libro di Jorge Amado, una poesia di Vinicius De Moraes, senza aver mai visto un film con Sonia Braga, ma come avevo fatto a vivere fino ad allora senza aver mai ascoltato una canzone di Tom Jobim, di Elis Regina, di Chico Buarque de Hollanda, di Gilberto Gil, di Caetano Veloso, di Maria Bethânia, ma come avevo fatto a vivere fino ad allora senza aver mai mangiato un’acaraje, un bobó de camarão, una moqueca, senza aver mai bevuto una caipirinha, ma come avevo fatto a vivere fino ad allora senza aver mai partecipato a una roda di capoeira, a un carnevale, alla festa di Jemanja, ma come avevo fatto a vivere fino ad allora senza aver mai fatto un tuffo nell’oceano, senza aver mai visto il Pelourinho, il Cristo Redentor, il Maracanà, ma come avevo fatto, come? Boh?! / E già, proprio così, boh?!” (pagg. 246-247).

 

L’oltraggio nei confronti della seconda patria di Nanna, per la scelta di Cuba per un prossimo spettacolo, non poteva rimanere impunito, secondo “Pesce”: era un vero tradimento, come, suo malgrado, dovrà accorgersene l’autore, oltreché per il grave infortunio, con le miriadi di inconvenienti da affrontare nella sua originale iniziativa, “spinta dolorosa” che “Pesce”, con il tipico carattere italiano, e ancor più direi romano, accoglie e ne fa narrazione.

 

Ed è proprio questo carattere romanesco (tante volte criticato in altri lidi italici) che porta alla ricerca di una reazione a questa tuttora imperante pandemia da Covid-19

E ciò con uno STILE del tutto personale, originale e coinvolgente, che passa dalla prima alla terza persona, intriso di mille trovate e comicità, pur col consueto disincanto che connota il nostro comico.

 

Intimamente e intrinsecamente legata allo stile la STRUTTURA del libro di “Pesce” che organizza e crea anche il contenuto. Già nel secondo libro dell’autore avevamo visto una particolare attenzione a tale elemento (che si realizzava attraverso lo scandire dei mesi), ma in questa nuova opera la struttura si fa più complessa e articolata e inchioda letteralmente il lettore pagina dopo pagina. L’iterazione, la ripetizione continua e attenta al ritmo e al momento, che connota il genere comico, impronta il libro: a partire dal titolo che ritorna come un mantra nei singoli paragrafi: apparentemente semplice, ma che inevitabilmente e via via sempre più ti coinvolge, con un ritmo inarrestabile.

 

La Diretta 0 durò 3 minuti e 18 secondi, La Diretta 1 durò 6 minuti e 34 secondiLa Diretta 41 durò 49 minuti e 57 secondi La Diretta 63 durò 1 ora, 8 minuti e 54 secondi fino a La Diretta n. 64 perché l’ultima diretta descritta nel libro sarà invece la n. 30 come vedremo più avanti: “Le dirette totali durarono complessivamente 41 ore, 27 minuti e 17 secondi.” (pagg. 376-378). Dirette viste non solo in Italia, ma anche in altri lidi, all’estero, ad es. anche nella seconda “patria” del “Pesce” il Brasile, negli Stati Uniti, in America Latina …

 

E da questi paragrafi incalzanti col semplice numero della diretta e della sua durata si snoda, si scandiscono i tempi, il respiro del libro. E a tale ritmo e coinvolgimento del lettore contribuiscono gli altri “ingredienti” iterativi, all’interno degli episodi delle Dirette, com’è tipico dell’animus del comico, del “raccontatore di storie” (pag. 262) che sia abile. Per fare degli esempi: “rimasi umile”, “macumba”, “cioccolata”, “bicchieri di vino, specialmente rosso, e tisane”, talora “birra” (ma in misura minore: 11 a 98 è il rapporto delle rispettive ricorrenze), sorseggiati durante le varie Dirette:

 

“La diretta andò in onda con il Dottor Pesce impegnato al telefono con dei colleghi, cercava di capire se fosse l’unico Dottore a curare i pazienti affetti dalla depressione con il vino, la cioccolata, la cultura e il buonumore. Sì, era l’unico.

 

Gli altri si affidavano ai soliti farmaci: il Seropram, il Cipralex, lo Zoloft, il Prozac e prima di interrompere la telefonata lo pregarono di non contattarli mai più.” (p. 203).

 

E ancora: “commentò la chat” (per indicare il suo continuo rapporto con gli ascoltatori), “commentò …” con la frase dell’autore della citazione, “Dottor Pesce, tecnico industriale delle arti grafiche della scuola professionale Panfilo Castaldi di Casal Bruciato”, nonché la mitica frase alla fine di ogni puntata della “trasmissione”: “Batti 5 Dottor Pesce”. Come pure ci stupisce l’intercalare di parole, frasi, proverbi e motti anche in lingue “esotiche”:  Tujay-chay “Grazie”, Tashi Delek “Buona fortuna”, entrambe in lingua tibetana, o Shakar, “Zucchero”, in usbeco.

 

Ma le iterazioni, gli “appuntamenti” ricorrenti, rappresentano non solo il ritmo, ma sono al tempo stesso la materia di cui il libro vive e da cui riceve la propria luce esilarante, come pure di grande interesse artistico e culturale, le iniziative sociali e di solidarietà. E con quei commenti con la chat, da cui riceve lodi e critiche, ironiche e simpatiche, e con cui il “Pesce” colloquia, con i tanti bravi e prestigiosi ospiti, che “Pesce” intrattiene, e con personaggi veri o immaginari, Nanna crea un “concreto” palcoscenico virtuale (mi si conceda l’ossimoro), in quel teatro ove fortunatamente siamo capitati (magari col “passaparola”), o possiamo sempre essere “presenti”, leggendo il libro del nostro amico Paolo, diventando inevitabilmente spettatori.

 

Vediamo allora la “collaborazione” (dalla puntata n. 21) di Sergio Biagiotti, alias Rossomalpelo, noto musicista, che interpreta le sue bellissime canzoni (di cui viene riportato il testo nel libro) nonché pensatore e filosofo nel programma del “Pesce”. Purtroppo tale collaborazione dovrà interrompersi dopo la puntata n. 35, per indisposizione dell’artista che ritornerà in seguito solo in poche puntate accanto agli ospiti.

 

“Adesso avevo una piattaforma, gestivo anche la regia, mancava soltanto l’ospite, e il primo non poteva essere che lui: Sergio Gaggiotti, in arte, Rossomalpelo.

 

Io e Sergio ci conosciamo quasi da sempre. Sergio è una persona fantastica, quando lo leggerà si incazzerà, un musicista sopraffino, qua si incazzerà ancora di più, e un cantautore tra i migliori di sempre, qui mi toglierà proprio il saluto, ma come disse il Buddha: tre cose non posso essere nascoste a lungo, il sole, la luna e la verità.

 

Telefonai a Sergio e gli chiesi se conosceva il Dottor Pesce e mi rispose di sì.

 

Gli chiesi se gli andava di essere mio ospite, o suo ospite, e mi rispose di sì.

 

Da quei due sì il Dottor Pesce passò alla fase due molto prima dell’Italia.” (ibidem).

“Mitico [il] gruppo RossoMalpelo: Sergio Gaggiotti (voce e chitarra), Moreno Viglione (chitarre), Fabio Tortora (basso), Alessandro Pizzonia (batteria), Carlo Conti (sax).

 

I RossoMalpelo furono definiti da Vincenzo Mollica una delle migliori menti di musica d’autore italiana di sempre.” (pag. 66-67, Diretta 25).

 

L’idea, comunque, darà il via libera, dopo la puntata 26 e dalla puntata 27 in poi, alla “fase tre” (anche questa “molto prima dell’Italia”):

 

“Era deciso. Il Dottor Pesce a ogni diretta, fino alla fine del lockdown, avrebbe ospitato un’artista, oltre a Sergio che ospite non era più.” (pag. 79, Diretta 27).

 

Sarebbe troppo lungo, anche se interessante, stilare un “inventario” della miriade di ospiti eccellenti: musicisti, artisti di strada, cantanti (di musica “leggera” e lirica), membri dei più svariati tipi di gruppi musicali, comici, scrittori, poeti, registi, critici di cinema e altro, attori, mimi, clown, esperti in massaggi e campane tibetane, astrologi, disegnatori e umoristi, allenatori “esteri” di nazionali calcistiche, insegnanti di musica e di altre discipline: financo professori universitari di chimica (con il loro famoso “giuramento del chimico”), ecc. ecc. ecc…: qualcuno intervenuto a grande richiesta anche 2 o 3 volte.

 

Non vedo altra soluzione che rinviare all’apposito “Elenco degli ospiti delle Dirette del Dottor Pesce (v., a pag. 395), e, naturalmente, alle correlative Dirette. Tanti artisti cui Paolo, grazie alla sua fantastica idea con la quale si è nuovamente “superato”, per primo intrapresa (seguito poi da tantissimi altri), ha dato voce: “artisti rimasti come Paolo Pesce Nanna senza palcoscenici pure loro” (Susanna Schimperna, PRESENTAZIONE, pag. 9), ma di nuovo qui per tutti noi, sul multiforme palcoscenico virtuale del nostro “Pesce”. Due ospiti, tra gli altri, molto particolari.

 

“Era giunto il tempo di ritagliarmi uno spazio tutto per me, per Paolo Pesce Nanna e il venerdì mi sembrò il giorno più adatto.

 

Venerdì? Pesce! […]

 

“Paolo Pesce Nanna, cioè io, debuttai per la prima volta come me stesso e non come il Dottor Pesce, oddio me sto a perde’, pure prima ero me stesso, ma adesso diciamo che ero io di più.

 

Alla diretta ero stato invitato perché, essendo venerdì 17, tutti gli altri artisti avevano rinunciato, io invece accettai, tanto peggio di così.” (pag. 170, Diretta 41).

 

E l’ospite di eccezione che sarà in una diretta del Dott. Pesce, anzi nelle Dirette 41 e 48, Paolo “Pesce” Nanna ci farà sbellicare dalle risate, con i suoi racconti reali, che però magicamente e comicamente si ammantano di surreale, come quello della “storia di 100celle delle mamme urlatrici” (pag. 171, Diretta 41) o l’agrodolce e fonte di riflessione “La Gente” (pagg. 172-176, ibidem):

 

“Era chiaro fin da subito che fosse questa la storia giusta da fare, perché io sono strano, il Dottor Pesce è strano, Sergio è strano, gli ospiti so’ strani, la chat è strana, l’editore è strano e pure voi che mi state leggendo siete strani.” (pag. 171, ibidem); o quello della “Lentezza” (pagg. 220-223: Diretta 48).

 

Peraltro tra i tanti racconti (intercalati comunque nell’ambito delle varie Dirette) sarà memorabile quello già anticipato “Il Brasile mi stregò” (pagg. 246-247, Diretta 51) in altra diretta dedicata al tema: la n. 51, con la cantante brasiliana Rak Costa:

“Che il Brasile mi avesse fatto la macumba era assodato, ma quanta saudade mi batteva dentro il petto, troppa, dovevo placarla, nonostante un bell’assaggio lo avessi avuto da Luigi, ma come dice il Dottor Pesce: l’appetito vien suonando.

Desideravo che il prossimo ospite fosse donna, cantante, musicista, sensibile e brasiliana. Chiedevo troppo? / No, se il desiderio aveva un nome e un cognome: Rak Costa.” (pag. 245, ibidem).

 

Un altro ospite o meglio un’altra ospite, seppur non espressamente nell’Elenco degli ospiti, ci sarà comunque sempre tra le quinte, importante come lo è stata la moglie di Maigret … o la moglie del Tenente Colombo: Marena, la moglie del nostro Paolo “Pesce” Nanna.

 

Ricordiamo come all’assenza presente” della moglie del Tenente Colombo, di nome Kate, come apprendiamo dalla serie televisiva a lei dedicata (c.d. spin off , in gergo televisivo) … mai trasmessa in Italia, moglie di cui il Tenente è veramente innamorato, nominandola molto frequentemente, fa da pendant l’assidua presenza della moglie di Maigret, nella famosissima serie televisiva italiana, in bianco e nero, con il grande Gino Cervi (il nostro Commissario Jule Maigret, regia di Mario Landi,), affiancato nella parte di Louise Leonard (la moglie di Maigret) dalla splendida Andreina Pagani: anche se George Simenon “non era d’accordo sulla scelta giudicando l’attrice “troppo bella” e giovane, l’amata Sig.ra Maigret sarà presente in tutte le quattro stagioni della serie televisiva italiana, tranne un unico episodio (a quanto mi risulta: La vecchia signora di Bayeux).

 

E leggiamo infatti, nella Diretta 12:

 

“E fu così che il Dottor Pesce decise di aprire il suo cuore raccontando il suo intimo: Come aveva conosciuto il suo grande amore Marena, l’origine del suo soprannome, i suoi sogni, i suoi progetti e i suoi vizi segreti.” (pag. 42, Diretta 12).

E in seguito: “La diretta bis di Sandro [Alessandro Salvioli] si aprì con il Dottor Pesce che imprecava tenendo un bicchiere di prosecco tra le mani, tutti intuirono che non fosse il primo e che non sarebbe stato nemmeno l’ultimo.

 

‘Aiuto, aiuto, aiuto, ho fatto di tutto, ma niente, non lo vedete Sandro? Io sì, ma è muto, non so proprio più che fare, mi dispiace, non si sente, vero Marena?’

 

‘Sì, sì, si sente, tuo fratello dice che si sente, la chat pure sente’.

 

Per la prima volta si udì la voce di Marena.

 

‘Allora esiste per davvero’ si chiesero tutti.

 

Marena non solo parlò per la prima, ma addirittura si palesò da dietro una parete.

‘Allora esiste, non è solo una voce registrata’ commentò una chat ex negazionista.” (pag. 177, Diretta 42).

 

E ancora l’episodio dei famigerati “mandarini cinesi”: “il pacco conteneva 5 Kg di mandarini cinesi inviati da una coppia di amici di Casal Palocco: l’immunologo Aldo e la virologa Clorinda.

 

Marena mi disse che era stata lei a richiederli, perché aveva letto su una rivista che la marmellata di mandarino cinese, il Kumquat, poteva rendere impotente la carica virale del covid-19, però, per godere dei benefici doveva essere fatta con il frutto appena colto, perciò subito, ma subito lei non poteva, perché era impegnata su Skype con la dottoressa Silvia Stilli.

 

Mi ci volle tutto il giorno a preparare la marmellata, due ore solo per togliere i semi ai quei piccoli frutti arancioni” (pag. 117, Diretta 34).

 

E non può che farci sorridere quanto apprendiamo: “Poi risposi alle telefonate non filtrate dei pazienti, infatti mi arrivò pure quella di mia moglie che davanti a tutti mi rimproverò di non aver spolverato a dovere. Feci finta che era una paziente con lo stesso nome, d’altronde poteva anche essere, Marena è un nome così comune, ma la telefonata durò pochissimo. Cadde la linea.” (pag. 261, Diretta 53).

 

Come accennato in precedenza, saranno “presenti” nello svolgersi delle varie “trasmissioni”, con delle sempre riuscite citazioni e in sintonia con l’atmosfera del momento,  altri “ospiti”, veramente illustri, immaginari (il maestro Miyagi, Manuel Fantoni …) o reali, spesso scomparsi (Arthur Block,Wislawa Szymborska …) o ancora viventi (Gregorio de Falco, Renato Fiacchini, alias Renato Zero cari sorcini …), cantautori, scrittori, poeti, filosofi, psichiatri, politici, pittori, attori, giornalisti, scienziati …   

       

E per varie puntate diverrà un appuntamento simpatico e seguito la Rubrica dei bambini, che vedrà Sergio Cagiotti quale critico inflessibile: “loro scrivono seriamente e noi dobbiamo criticarli seriamente.” (pag. 71, Diretta 26).

 

“Riporto alcuni scritti dei bambini perché se lo meritano e anche perché sono stato minacciato dai genitori, dalle zie e dalle nonne.

 

Federiconannaroccacencia: A me sinceramente ‘sto Dottor Pesce mi sembra un pazzo […]

Celestina4c: Papà è sul divano, mamma è in pigiama a lavorare davanti al computer, io accarezzo il gatto […]

Mayamilano2012: Caro Dottore Zio Pesce, questi momenti sono difficili da spiegare ma proverò. Io mi sento sia un po’ triste e sia arrabbiata perché mi sento in trappola, ma forse anche tu sei un po’ arrabbiato vero?” (pagg. 71-72, ibidem: alcune lettere dei bambini sono riportate da pagg. 72 fino a pagg. 75).

 

Da quella prima rubrica, nella mente poliedrica del “Pesce” si affaccia anche il progetto di una “una rubrica per gli anziani: la Rubrica dei Nonni [poiché] Mi intrigava mettere a confronto le emozioni e gli scritti di due generazioni e dimostrare che i due mondi, così apparentemente distanti, fossero invece vicinissimi. Ma l’idea “A malincuore […] venne abbandonata.” (pag. 86), rimanendo un pio e suggestivo desiderio.

 

Post Fata Resurgam

 

«Hai fatto una bella cosa. Ci hai Fatto conoscere nuovi amici, artisti, ospiti internazionali e persone che guardano con ottimismo al Futuro. Due mesi di quarantena, come per magia, sono trascorsi tra pillole di serotonina e consigli pratici del Dottor Pesce. Nessuno di noi collegato alle 21.00 ha

"sentito" di essere chiuso in casa per la pandemia, semmai ha vissuto le dirette come un invito a cena e un brindisi alla spensieratezza, tra un sorriso e una canzone, tra un racconto e una spiegazione delle arti e mestieri delta nostra creatività umana.

 

Grazie. Gian Claudio Vitantoni (La chat)» (Dalla quarta di copertina).

 

L’opera di Paolo “Pesce” Nanna è veramente intrisa di comicità, ma anche di quella inventiva tipicamente italiana, che sa affrontare in modo scanzonato, disincantato, e, diciamo, positivo, avvenimenti drammatici (in primis la pandemia) o problematici della vita e del lavoro.

 

A partire dalle miriadi di problemi affrontati dal buon “Pesce” durante le trasmissioni tra i quali soprattutto i collegamenti in video o in audio (o entrambi contemporaneamente):

 

“Un Dottor Pesce, diciamo non in condizioni perfette, per tentare di risolvere il problema audio iniziò a telefonare ai pompieri, ai vigili urbani, ai bersaglieri, ma visto che non gli rispondevano iniziò a comporre numeri a caso.

 

Ogni venti secondi diceva che la colpa non era la sua, perché lui, aveva la fibra.

 

Poi finalmente cominciarono ad arrivare i primi commenti dalla chat:

 

«Si sente, continua e smetti di bere».

 

Accettai il consiglio a metà e andai avanti.

 

Ma pure la chat aveva le allucinazioni, perché molti dissero di vedermi verde tipo Hulk.

 

‘Mi stanno boicottando, ci stanno boicottando, altrimenti non si spiega, diamo fastidio a qualcuno’ ” (pag. 177, Diretta 42).

 

Ma tali inconvenienti il buon “Pesce” sa volgere, come sul palco, a suo favore, improvvisando, come sa fare ogni buon comico:

 

Per fare un altro esempio, delle difficoltà – stavolta della vita – messe in scena dal dott. Pesce, emblematica la storia del musicista Nour Eddine che era stato per anni un’artista di strada

 

“in Francia, in Germania e poi quando sono arrivato a Roma sono stato tre anni sotto la metropolitana di piazza Vittorio.

 

Io quando sono arrivato non è che avevo soldi, per cui mi rimediavo delle chitarre così […] però avevo sempre quel sogno di andare in quel negozio, perché lì avevo visto una chitarra che mi piaceva moltissimo, non so se voi avete presente la Ovation Celebrity?”

 

Con questo sogno nel cuore, ecco l’episodio (che non può che farci riflettere) del commesso, che vedendolo, un giorno:

 

“sporco, con la mia chitarra addosso, vecchia e sporca pure lei, sembravo uno di strada, oddio, non è che sembravo, ero proprio uno di strada, e mi risponde: no, quella chitarra non è per lei. Come una chitarra non è per me? Per quale motivo? Perché è troppo cara per lei, mi risponde.”

 

Anche se vi sarà un lieto fine perché la proprietaria:

 

“aveva capito che ero un suonatore di strada, si vedeva, e mi dice: va bene, porta i soldi ed è tua.

 

Sì signora, ma ho un problema. Siccome lavoro per strada, i soldi ce l’ho a casa dentro a dei sacchi grossi, ma sono tutti spicci, però secondo me sono arrivato ad averci un milione e duecento mila lire.

 

Ma sono soldi, che problema c’è? Mi risponde, portali! Poi si gira verso quel commesso di merda, che mi aveva detto proprio vattene a casa e gli dice: senti, quel ragazzo ti porterà quattro sacchi di soldi e tu li devi contare tutti”.

 

E di lì un successo, successi, insperati con l’ “incontro con Tony Esposito, che lo portò a suonare la colonna sonora del film: L’amore con i crampi. Da lì in poi, grazie anche alla collaborazione con i musicisti Pivio e Aldo De Scalzi, Nour Eddine partecipò alla composizione di tantissime altre colonne sonore: Il Bagno turco, El Alamein, Giardini dell’Eden. Poi ci fu l’incontro importante con il produttore, paroliere e compositore Paolo Dossena, fondatore dell’etichetta musicale Compagnia Nuove Indye, che coincise proprio col boom della musica etnica in Italia. Da suonare sotto la metro Nour Eddine si ritrovò a incidere canzoni assieme ai 99 posse, agli Almamegretta, a Enzo Avitabile, ai Sud Sound System, agli Agricantus.”.

 

E addirittura (credeva fosse uno scherzo): “Papa Benedetto XVI voleva un compositore musulmano per un lavoro che si chiamava Alma Mater. Si trattava di un lavoro enorme, un grandissimo progetto prodotto dall’Universal Music di Londra e da David Geffen, uno dei più grandi produttori della musica pop mondiale, manager di Michael Jackson e di tutte le star del mondo, tanto per capire, e anche se tu sai che io sono anti star system, sono un uomo rimasto umile, però devo dire che fu un’esperienza memorabile”.

 

Meno male che almeno lui rimaneva umile […]

 

‘Papa Benedetto XVI mi ha voluto anche incontrare, mi ha invitato in Vaticano e abbiamo trascorso una mattinata intera a chiacchierare’.

 

Il miracolo era roba superata. / Ma che storie ragazzi, i racconti di Nour Eddine erano di una ricchezza impareggiabile ed eravamo sbalorditi, frastornati, il virus ci aveva fatto dimenticare di quanto la vita fosse straordinaria.” (pagg. 155-161, Diretta 39).

 

Ma ci sono anche storie, vicende, che un lieto fine non hanno.

 

E la Diretta n. 30 è un esempio di questo guardare in faccia la realtà e andare avanti, nonostante tutto: la Diretta infatti aveva visto quale ospite il bravo jazzista Carlo Conti, purtroppo scomparso il 30 maggio 2020.

 

“La scelta di saltare [momentaneamente per poi riproporla invece alla fine] la diretta trenta è stata una decisione dolorosissima, mille e mille volte ho pensato quale fosse la cosa giusta da fare.

 

Non scriverla e lasciare la diretta trenta bianca, vuota, come il vuoto che Carlo Conti ha lasciato in ognuno di noi, oppure scriverla e pubblicarla per ultima, come gli ultimi che Carlo amava tanto.

 

Non so per quale strana casualità, ma il numero 30 della diretta di Carlo è lo stesso numero del giorno della sua scomparsa: 30 maggio 2020.

 

Allora, visto che ho parlato di casualità e di numeri, la diretta 30 di Carlo durò 35 minuti e 35 secondi e secondo la numerologia, quando è presente il numero 35, significa che ci si concede allo svago e al riposo, si evitano le discussioni troppo animate e ci si mette in viaggio senza meta, senza programmi, cercando luoghi appartati per restare in meditazione.

 

Adesso sei un soffio di vento, invisibile, ma percepibile anche senza ancia.”

 

Ma, a questo punto, è d’obbligo una riflessione finale.

 

Nella copertina scorgiamo un sottotitolo al libro di Paolo “Pesce” Nanna Diario di un supereroe. E ciò rappresenta la persona di Nanna e naturalmente il suo libro: non si tratta di un supereroe della Marvel o della DC Comics (di cui sono peraltro pazzamente innamorato soprattutto della prima da quando ne leggevo i fumetti da ragazzo).

 

Ritengo infatti che la splendida opera di Paolo “Pesce” possa essere compendiata nel motto latino Post fata resurgam (propr. «risorgerò dopo la morte», anche nella forma post fata resurgo: «risorgo dopo la morte»), motto riconducibile  alla leggenda della fenice, uccello mitologico e sacro agli antichi Egiziani. La frase (che peraltro compare come emblema nello stemma di alcune località italiane) comunica e infonde speranza e fiducia nella propria capacità di risollevarsi dalle contrarietà, piccole o grandi che siano, e superare le ostilità del destino o fato, che dir si voglia.

Possiamo concludere questo nostro (è un semplice assaggio) incredibile viaggio virtuale con l’Epilogo del bellissimo libro di Paolo “Pesce” Nanna, un regalo sicuramente gradito per questo Natale e queste feste natalizie. in cui dà atto della pubblicazione alla fine della Diretta n. 30, malinconica e struggente, com’è la vita e i ricordi che rimangono per sempre intangibili nel nostro cuore. Epilogo col quale il nostro amico, “Uno di noi, un fratello di sangue” (Susanna Schimperna,  Presentazione, pag. 9) per “scrivere la parola fine a questo libro, a questo percorso e a questa vita” si affida “proprio [a] lui, Sergio Gaggiotti” alias Rossomalpelo:

 

Il bello esiste. Eccolo, di fronte a me, dietro i vetri di questa finestra che guarda strade vuote, immobili. Il silenzio è musica trasmessa da fauna che torna selvaggia […]

 

Quello che Paolo è riuscito a creare con il suo programma in diretta la sera alle nove, conferma ciò che da sempre penso: il bello esiste, è lui, loro, noi. Paolo, Carlo e me, io. Non siamo eroi, non siamo “il bello” del mondo, siamo soltanto noi e io sorrido perché li amo. Sorrido perché Paolo sa farmi ridere e Carlo ride di risa così sue, che non si resiste. Gli occhioni azzurri ti strappano di dosso il brutto. Maestro Carlo […]

 

Se avessimo potuto, quanti abbracci ci saremmo dati, baci forti e strette sulle spalle, mani in altre mani, ma è il tempo della distanza e quindi eccoci lì, uniti da un programma che ci fa sentire insieme.” (Epilogo, 389 e 390).

 

Un Epilogo alla fine che consiglio di leggere intero tutto d’un fiato, nelle sue dense e commoventi due pagine e mezza (da pag. 389 a pag. 391), per vederci più forti, una catarsi di parole che sono la nostra vita. Di modo che “questo lockdown, clausura imposta di cui il termine inglese esalta la durezza e l'aspetto poliziesco” (Susanna Schimperna, ibidem), questo brutto incubo con cui purtroppo ora conviviamo senza poterci svegliare, non ci impedisca di vivere la nostra vita, diretti verso il nostro futuro: incerto, sì, come sempre lo è stato, ma che ci tocca da vicino, insieme ai nostri cari, ai nostri amici, e che dunque ci deve finalmente vedere –  anche dopo aver letto l’opera di Nanna – non solo “spettatori”, ma “protagonisti”, “supereroi” come il grande ed esilarante “Dott. Pesce”.

 

*

- Poesia

Il dio dei sogni

Il dio dei sogni *  

 

Orizzonti diVersi è la prima raccolta di poesie pubblicata dall’autrice, con lo pseudonimo di NinaGio, scelto per differenziare gli ambiti di una vasta produzione che spazia dalle pubblicazioni giuridico-economiche alle opere letterarie.

 

Il cammino della poetessa, già dal titolo della raccolta poetica Orizzonti DiVersi, apre scenari inesauribili, paesaggi d’incanto, emozioni.

 

Volendo, infatti, leggere DiVersi come una sola parola, vale a dire l’aggettivo “diversi”, ci si proietta inevitabilmente su un particolare profilo. Orizzonti “diversi”: diversi dalla vita spesso routinaria, diversi dal lavoro non sempre appagante, ma che pur bisogna svolgere, diversi da rapporti talora stereotipati, in orizzonti che si rivelano “chiusi”.

 

Altro significato, e strettamente connesso, si apre scindendo il termine “diversi” in “di Versi”: gli “Orizzonti” nuovi sono “diversi” perché “di versi”, si schiudono con e grazie ai versi, al canto poetico, alla poesia, quella branca della letteratura così particolare, per tanti aspetti diversa dalla prosa. Significativamente Erri De Luca, in riferimento alla poesia, parla di “righe che vanno troppo spesso a capo”.

 

Emblematico allora, nella Terza Sezione, “Spiragli”, la poesia Davanti a tuo dio, ove si parla del dio dei sogni, titolo che mi è piaciuto scegliere per la mia Prefazione alla raccolta di Antonella, o Nina,  ma ritornerò più in là su tale aspetto.

 

Il cammino della poetessa nella sua incantevole silloge si snoda in tre tappe o percorsi esistenziali “Idilli”, “Fotogrammi” e “Spiragli”

 

I quarantanove brevi (tranne qualche eccezione) componimenti dell’autrice in versi sciolti sono pervasi di ritmo e di colore e impreziositi dall’utilizzo di voci riprese da un ambito antico e musicale.

 

Per l’appunto gli “Idilli”(questo è il titolo della prima sezione della raccolta poetica)nella poesia greca erano brevi componimenti di tipo bucolico e agreste e nella poesia del Leopardi così sono denominate le poesie di tipo contemplativo (Idilli e Grandi Idilli). Tessere di un’atmosfera sognante e pervasa di sentimento, ove il paesaggio si fonde, è tutt’uno, con gli stati d’animo:

 

Nell’orizzonte senza limiti

  è fermo un veliero errante

 in cerca d’assoluto.

 

(Sospiri di sole).

 

Uno scarto rispetto alla prima sezione troviamo nella successiva “Fotogrammi”, ove il titolo infonde a colui che legge l’impressione di movimenti continui che si susseguono: non dunque meri ritratti, statici, volti solo a rappresentare immagini della natura, persone o stati d’animo o tesi a scolpire tali figure in un disegno compiuto. Continua infatti in ogni componimento il riverbero, il suono della musica percepita, l’afflato verso l’assoluto, in un incessante cammino:

 

Come quando piove

cadono gocce di poesia

sulle mie carte.

Come quando piove

gocce d’inchiostro

inondano i miei fogli.”

 

 (Come quando piove).

 

L’ultima sezione, “Spiragli”, appare protesa verso il futuro, nonostante il “fardello di pietre acuminate” (Turbini di luce) e i “cuori di pietra” degli incontri avuti lungo il proprio camminino (Cuori di pietra), presenti nella precedente sezione: aperture, fessure, pur strette o piccolissime, nei muri, nelle porte, nelle finestre, della propria vita, da dove rimirare, sbirciare, fin d’ora, i raggi di sole, la luce, respirare aria pura, nella possibilità di poter alla fine raggiungere una vita più piena, più felice.

 

Le tematiche nelle tre sezioni, si rincorrono, talora riprese da diverso angolo visuale: la natura (il sole, la luna, le stelle, il mare, la terra, il vento, la sera, il tramonto), le figure umane (il pescatore, i “cuori di pietra” …), il sogno, la scrittura.

 

Un tema che emerge con la seconda tappa del percorso poetico, “Fotogrammi”, è quello della figura materna, a partire dalla prima poesia (tra le poche di maggior lunghezza) della tappa, Alla mia mamma; aspetto che viene poi ripreso nell’ultima sezione, “Spiragli”, da diverso punto di vista, Preghiera di madre; o in una visione futura e ultraterrena, Vedrò mia madre; e infine nell’ultimo componimento della raccolta, Amo la vita: a significare la propria essenza:

 

come radice d’albero

piantato nella terra di mia madre

 

Accanto al tema del “mare”:

 

Accoglie il mare il suo declino

mentre dolcemente le onde

affabulano comete

nelle notti di luna

 

 (Sospiri di sole, nella sezione “Idilli”).

 

… e il silenzio frusciava sereno

sul mare di seta.

 

poco dopo, in ripresa

 

“Il tempo era fermo:

e il silenzio frusciava sereno

sul mare di seta

 

(Silenzio, nella sezione “Fotogrammi”).

 

E ancora:

 

“E noi cambiamo come le stagioni,

tra grandi solitudini marine

ed introvabili cieli.

 

(Metamorfosi, nella sezione “Spiragli”);

 

il “sogno” è l’elemento che ritorna molto spesso (ben 19 ricorrenze, 5 nella prima e 7 nella seconda e terza sezione di cui due titoli di poesie della terza sezione: Sognare ancora e Sogno), fin dall’inizio della raccolta poetica:

 

“Da lembi di nubi tenue

sfiocca l’alone

e dolcemente declina

sui volti che a notte

sognaron  l’azzurro.

 

(Alba, nella sezione “Idilli”);

 

“Su pagine ignare scrivo i miei sogni proibiti

e nel bagaglio, lungo il cammino,

porto con me

un fardello di pietre acuminate.”

 

(Turbini di luce, nella sezione “Fotogrammi”);

 

Sogno, non lasciarmi

sola su cristalli spezzati

con gli occhi pieni di notte..

 

(Sogno, nella sezione “Spiragli”);

 

tanto da assurgere, nella terza sezione, alla figura di un “dio”:

 

Il dio dei sogni,

ancella,

cerca te

che ti inchini a venerare,

là dove fede non ha dubbi

né la speranza dispera,

paga di tanta amara pena,

che lacera

e strappa dalle lacrime

gridi di gioia,

per te,

che nella vita irrompi,

dissipando le terrene cure.

 

(Davanti al tuo dio, nella sezione “Spiragli”).

 

Non poteva mancare, per la poetessa, l’aspetto della “scrittura”, della “parola”, la linfa del proprio essere persona e artista, in un’osmosi inscindibile, colma di luce, colori e movimento

 

“e il mio inchiostro iridato

scriverà parole d’amore.

 

(Raggio di sole, in “Idilli”);

 

Una pagina al giorno,

vergata su un rigo di sole

e un lembo di luna.

 

Il mio inchiostro, unguento

alle diuturne tristezze,

su fogli nudi

costruisce poesie,

come aquiloni.

 

(Pagine al vento, ibidem);

 

“E onduleggia la scrittura

mentre pensigliano ricordi

intrisi d’infinito.

 

(Come quando piove, in “Fotogrammi”);

 

“e i miei pensieri costruiscono

nidi fantastici che

lontani ricordi e nuove paure

disperdono

prima che nasca l’aurora.”

 

(Cavalcando aquiloni, ibidem);

 

“Io animo le parole,

le plasmo con il cuore […]

 

Io studio le parole,

quelle che formano parole […]

 

Io studio le parole, quelle che

son sprazzi di sillabe […]

Poi, quando vien sera, le raccolgo

nella mia gerla di pensieri

che non riesco a dipanare.

scriverà parole d’amore.

 

(Parole, in “Spiragli”);

 

“Fra poco, mentre scrivo,

il temporale finirà

con l’ultimo lampo nel cuore.

 

Lasciami andare così, poesia,

come un sasso lavato di fresco..”

 

(Poesia, ibidem).

 

In chiusa di queste brevi riflessioni, con accenni a versi tratti solo in parte da vari componimenti per non svelarli per intero al lettore, come ogni buon mistero che si rispetti, lasciando ad ognuno la propria personale scoperta, voglio sottolineare come varie poesie ricomprese nella bella ed emozionante raccolta poetica sono stati insigniti di prestigiosi premi (Alla mia mamma, Cavalcando aquiloni, La voce del giusto, Chiudo gli occhi).

 

*  La Prefazione redatta per la raccolta di poesie Orizzonti diVersi (CT Livorno editore ) ha qui qualche modifica iniziale a seguito di integrazioni inserite durante la mia partecipazione alla presentazione del 25 ottobre 20145 nella meravigliosa Biblioteca Casanatense, alla quale sono intervenuto. Le liriche dell’autrice, accanto al mio commento, sono state mirabilmente interpretate dagli attori Gennaro Momo e Lucia De Nigris. Emozionante il saluto e introduzione alle bellezze della Biblioteca della direttrice Lucia Marchi, con ampi consensi trasmessi dai qualificati ospiti dell’evento, in vista anche del che giunge alla Onlus “Il Sorriso di Titto” attraverso la vendita del libro.

*

- Letteratura

Per certi versi

A Roma, presso la storica Libreria Odradek (in Via dei Banchi vecchi n. 57 -  una traversa di Corso Vittorio Emanuele II), sabato 2 dicembre 2017 alle ore 18:00 c’è stata la presentazione del nuovo romanzo di Andrea D’Urso  La strada è un libro aperto.

 

Per la presentazione, con una buona affluenza di partecipanti, oltre all’autore, c’era l’editore della Vydia, Luca Bartoli, e il sottoscritto quale relatore.

 

Qui di seguito il mio commento esposto per l’evento.

 

“Con Andrea c’eravamo incontrati in precedenza in appuntamenti culturali, in particolare di letture poetiche, ed avevo poi avuto il piacere di presentare il suo primo romanzo, Just a Gigolò, che aveva avuto l’apprezzamento della critica, giungendo tra i finalisti, nel 2013, della XXVI edizione del prestigioso premio “Italo Calvino”. Il romanzo, dal titolo originario Nomi, cose e città, con la pubblicazione, a cura dell’editore “e/o”, aveva assunto poi il nome, un po’ ammiccante e in riferimento al particolare mestiere del protagonista, di Just a Gigolò.

 

Quel romanzo, come quello dell’odierna presentazione, La strada è un libro aperto, recentemente pubblicato, ugualmente di stile diaristico e narrato in prima persona dal protagonista, rivela indubbiamente (accanto a differenze) continuità rispetto alla precedente opera di narrativa, esprimendo il suo sguardo smaliziato verso l’esistenza, il mondo, le sue immagini e i suoi luoghi, verso la vita, in un viaggio continuo che man mano si dipana sotto gli occhi del lettore; ma sottintende, a mio avviso, anche una forte continuità con l’Andrea D’Urso poeta.

 

Andrea infatti, accanto a vari racconti, ha pubblicato poesie anche in diverse riviste francesi, canadesi e statunitensi, dando poi alle stampe la raccolta poetica Occidente Express (Imperia, Edizioni Ennepilibri, 2007), poi riedita in Francia (Le grand os, 2010). Sempre in Francia è stato pubblicato il suo testo poetico Hier est un autre jour (Collection Manos, 2010). Infine è dello scorso anno (il 2016) la sua nuova raccolta poetica rubinetteria (Eretica).

 

Scorrono via via innanzi ai nostri occhi contenuti, immagini, sentimenti, sensazioni, nelle pagine (ben misurate nelle varie parti) del romanzo, ove l’esperienza poetica è da ritenersi fondamentale in Andrea D’Urso romanziere.

 

[A tal proposito, durante la presentazione, Andrea D’Urso ha precisato che nel romanzo sono disseminate citazioni e riferimenti anche alle sue poesie: a partire da La stagione delle zanzare e Talete, che forniscono addirittura il titolo ad alcuni capitoli del libro, rispettivamente il 4° e 3°. Inoltre alla mia domanda sui rapporti per lui tra narrativa e poesia, essendosi l’autore cimentato brillantemente in entrambi i campi, lo scrittore ha riflettuto sulla circostanza che lo spunto primario del romanzo – sia pure a livello inconsapevole - gli è venuto proprio da una sua poesia Per certi versi, contenuta come le altre due citate nella raccolta poetica Occidente Express del 2007 (vedi pag. 191, pag. 193 e pagg. 145-146). Andrea D’Urso, anche su invito del pubblico presente, ha letto nel corso dell’evento la prima e la terza poesia menzionate]

 

Come nelle opere poetiche, nel presente romanzo vi è uno stile piacevole, ironico e arguto, e la quarta di copertina subito ci informa del nome e del cognome del protagonista e in sintesi della sua vicenda. In realtà, nella lettura del romanzo, il nome del personaggio principale, Arturo, ci viene svelato (se non erro) solo dopo alcuni capitoli (cap. 5, La materia dei sogni, pag. 49), mentre il cognome, Franchini, ci viene rivelato due capitoli dopo (cap. 7, La casa rosa, pag. 62), e ripreso (dopo altre citazioni) significativamente nell’ultimo capitolo (il cap. 13, Blanes, pag. 105). Ma torneremo poi su tale aspetto.

 

Arturo ha un approccio con il mondo apparentemente cinico, direi realista, sdegnoso dell’ovvio, ma anche malinconico: ad es. col ricordo del suo amore con la bibliotecaria Virginia, come pure del rapporto con la sua compagna di liceo e vicina di banco, Giovanna Rubini, con le quali nel corso delle sue vicende ha un nuovo incontro, di cui però non svelo nulla. E anche un’avventura occasionale si profila all’orizzonte, verso la fine del romanzo, presso la cittadina di Alassio in Liguria (provincia di Savona), con Teresa, una donna “alta e slanciata” e “ricca”, interessata ai libri.

 

Il narratore, Arturo, nonostante tutto, non mostra alcuna resa rispetto a quanto gli prospetta la sua vita, che affronta senza maschere, finzioni, andando avanti per il suo percorso con grande coraggio.

 

Il titolo dell’ultimo romanzo di Andrea,  La strada è un libro aperto, racchiude, a mio avviso, l’essenza del libro stesso, con i suoi tre elementi, che si rivelano illuminanti.

 

La strada: il percorso di Arturo (come quello di Pino, il gigolò del precedente romanzo), che lavoricchia qua e là, vivendo ancora con i genitori, con il suo viaggio itinerante verso le tombe di scrittori generalmente poco conosciuti, ai quali dona il proprio omaggio “libresco”, o nel caso di autori più noti offre un ricordo forse poco noto, ma per lui altamente significativo.

 

Il secondo elemento è il libro, e dunque la lettura e la scrittura, che nel protagonista (e in Andrea sicuramente) assurgono ad una parte fondamentale della propria esistenza e ne improntano il cammino e la direzione, come una mappa del tesoro.

 

E tale strada verso il “libro” si svolge a partire dal 2° capitolo, Il pane non fa ingrassare, con il grande scrittore italiano del ‘900, il frusinate e disconosciuto dalla critica, ma non da un altro grande scrittore, americano e contemporaneo, qual è Paul Auster, che lo inserisce nel novero degli scrittori da lui più amati e meritevoli di nota in una sua intervista (rinvenibile su YouTube), Tommaso Landolfi. Nel romanzo viene chiamato affettuosamente Tommasino, con il suo Racconto d’autunno, con le sue Le due zittelle o col suo Il mar delle Blatte. Si giunge infine a Blanes, città spagnola in provincia di Girona, patria di un autore, invece riconosciuto e osannato (giustamente) dalla critica, quale Roberto Bolaño, col suo poderoso romanzo 2666. Di tale autore però non si hanno precise notizie sulla sepoltura e dunque Arturo dovrà trovare un sistema del tutto particolare per dedicare e lasciare in omaggio il suo capolavoro, 2666, per l’appunto. Ogni autore una città, un luogo, che il protagonista visita e descrive.

 

Ma i libri con i quali il nostro eroe omaggia i suoi scrittori, come indica il terzo e ultimo elemento contenuto nel titolo, non sono chiusi, ma aperti. Il libro è aperto, con la sua vita, il suo preziosissimo contenuto, sempre diverso e mai uguale, unico (come nella forma del resto), nei percorsi degli autori, quelli che valgono però, e deve permeare la propria esistenza ed essere rivelato.

 

Nel primo capitolo introduttivo, infatti, significativamente intitolato Il senso della vita, Arturo si interroga sulla domanda su quale sia questo senso, cui circolarmente occorre ritornare (pag. 9):

 

“Una notte di maggio guidavo costeggiando costeggiando quel che permaneva della pineta di Castel Volturno e mi ponevo la domanda più antica del mondo. La domanda di sempre, in grado di sorprendermi in qualsiasi momento […] La domanda che mi veniva da porre anche agli atri, indiscriminatamente […] volevo sapere, di tanto in tanto ti interroghi sul perché del tuo essere in vita? […] La domanda di sempre, la risposta di sempre: nessuna.

 

Tuttavia, negli ultimi tempi, riconsideravo il senso della domanda stessa. Il senso inteso non come significato, ma come direzione. La mia direzione restava la mia vita, che proverò qui a spiegare, ma non assicuro nulla.”.

 

E Arturo nel primo capitolo racconta la sua “scoperta del libro”, come leggiamo a pagina 12 e 13 del romanzo:

 

“I miei genitori. A loro non dovevo unicamente la mia sussistenza, ma anche la mia propensione per i libri. Quand’ero bambino non c’era orma di un libro a casa nostra, uno che fosse uno, neanche una selezione del Reader’s Digest. In salotto dominava la scena, incontrastata, una corpulenta quanto dozzinale enciclopedia verde pisello, ma non si trattava di libri, quella per mio padre era il Sapere. In camera mia annoveravo un paio di oggetti colorati con delle figure che chissà chi aveva introdotto, ma nemmeno in quel caso potevano essere definiti libri; mia madre, per dire, li chiamava i cartoni animati. A scuola guerreggiavamo con un testo onnisciente, che da solo sfondava la cartella per quanto era ponderoso e voluminoso: ma non era un libro, era il sussidiario. I libri veri, quelli piccoli e di colore diverso, ognuno col suo titolo e la sua storia, non esisteva modo di farli entrare a casa nostra, non si capiva se non volessero entrare loro o non li facevamo entrare noi, fatto sta che non entravano. Talvolta in televisione si materializzavano alcuni signori che ne discutevano, li glorificavano o li stroncavano, mentre i miei seduti a tavola prestavano attenzione reverenziali e circospetti — li osservavo — percepivano che quei signori avevano studiato e avevano ragione, come d’altronde tutte le persone che parlavano in tv. Ma, a parte questo, non è che percepissero granché.

 

Quando un pomeriggio andai a casa di un amichetto e mi accorsi dell’esistenza di quelle polverulente creature. Stavamo giocando a nascondino e mi nascosi appunto dietro una cosa che venni a sapere più tardi prendeva il nome di libreria. Alzai la testa e li analizzai uno per uno. Non stavano lì per bellezza, anche perché non erano così belli a vedersi. Probabilmente servivano a qualcosa, dato che si sfilavano e poi si rimettevano a posto; quello, nient’altro che quello, doveva essere il meccanismo alla base di tutto che avevo intuito come per istinto. Ma che cos’erano? Qualunque cosa fossero, la famiglia del mio amichetto li possedeva e noi no, e già solo questo particolare, in sé, m’intrigava. Tu li aprivi e trovavi scritto qualcosa, anche se la sensazione che mi colse fu quella che continuò a cogliermi per sempre: che mi parlassero. Sì, dentro si racchiudeva qualcuno che ti parlava e tu non dovevi che ascoltarlo. Un dato statistico: la maggior parte di quelli che ti parlavano erano morti. Ecco, connaturatamente, in quel dato, scintillava il nesso: preferivo i morti ai vivi, con loro mi sentivo più a mio agio.”.

 

Rileggo allora una parte del passo del romanzo appena letto a pag. 13.

 

“Tu li aprivi e trovavi scritto qualcosa, anche se la sensazione che mi colse fu quella che continuò a cogliermi per sempre: che mi parlassero. Sì, dentro si racchiudeva qualcuno che ti parlava e tu non dovevi che ascoltarlo.”.

 

Il libro non può rimanere chiuso ma deve essere sempre riaperto dal lettore, come ci illustra il filosofo francese Jean-Luc Nancy nel suo chiarissimo saggio  Del libro e della libreria del 2006.

 

Sempre nel primo capitolo Arturo ci illustra come si dipana la sua vita, a pag. 10:

 

“La mia vita fondamentalmente si divideva in due fasi cicliche. Nella prima ammonticchiavo soldi, nella seconda li spendevo. Nella prima lavoravo (quello che capitava) e leggevo (non quello che capitava). Nella seconda partivo e non facevo nulla. Nella prima dormivo a casa, nella seconda dormivo in macchina o nelle stanze d’albergo. Qualche riga più su ho scritto che nella seconda fase non facevo nulla. Beh, ho scritto male, perché nella vita, per quanto ci si possa sforzare, è impossibile non fare nulla.

 

Nella mia seconda fase visitavo le tombe degli scrittori. Di quelli che piacevano a me. Sceglievo una delle loro opere — non necessariamente la più famosa o la mia preferita — e gliela deponevo, come un fiore. L’opera comunque me la ricompravo. Nel frattempo, tra una tomba e un’altra, prima di ritornarmene alla base, non era detto non succedessero delle cose. Per esempio, quando terminavo i soldi e avevo voglia di vagabondare qualche altro giorno, battevo la zona alla ricerca di un conosciuto-semisconosciuto parente o di un vecchio presunto amico (vecchio perché di amici nuovi non ne contavo, né sunti e né presunti) al fine di scroccare un pranzo, un letto, o tutte e due le cose insieme, perché no?”.

 

Nel passo prima richiamato Arturo riflette che “la maggior parte di quelli che ti parlavano [vale a dire degli scrittori] erano morti.”

 

Questo richiama alla memoria la famosa Lettera XI di Niccolò Machiavelli (del 10 dicembre 1513) a Francesco Vettori, ove il famoso storico, filosofo, scrittore e drammaturgo italiano, vissuto tra la fine del ‘400 e gli inizi del ‘500, scrive queste stupende parole:

 

“Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.”

 

Come pure riecheggia, col viaggio del protagonista verso le tombe dei suoi scrittori, il tema sepolcrale del grande Ugo Foscolo, nella sua celeberrima opera in versi Dei Sepolcri (del 1807), trattato già dai preromantici inglesi, sul significato e la funzione che la tomba assurge per i vivi a celebrazione di quei valori e ideali che possono e debbono dare un significato alla vita umana, il senso della civiltà e della poesia.

 

Avevo detto prima alle “tombe dei suoi scrittori”, di quelli che piacciono ad Arturo, perché non deve sfuggire il particolare emerso nella breve citazione delle due fasi “cicliche” della vita di Arturo Franchini:

 

“Nella prima lavoravo (quello che capitava) e leggevo (non quello che capitava).”.

 

Non bisogna dunque leggere quello che capita (o comunque esserne consapevoli), ma sicuramente fare una cernita tra autore e autore, operazione questa piuttosto difficile in questa nostra società postmoderna e (il termine da me non è molto amato) liquida, secondo la nota definizione di Zygmut Bauman, sociologo, filosofo e accademico polacco, morto appena a gennaio di quest’anno. In queste osservazioni del protagonista è presente dunque una critica (che è la critica di Andrea D’Urso) all’odierno mondo letterario ed editoriale italiano e no.

 

La vita “bifasica” e ciclica di Arturo Franchini, descritta nel primo capitolo e divisa tra lavoro (più o meno occasionale, più o meno gradito) e il mondo delle lettere (lettura/scrittura) è peraltro quella della stragrande maggioranza degli scrittori di narrativa e poeti di oggi (penso allo stesso Andrea, al mio amico Giovanni Ricciardi, autore di libri polizieschi, professore di latino e greco in un liceo di Roma, e anche del sottoscritto invero): chi è che in questo nostro periodo vive unicamente di letteratura? Solo pochissimi e a certi livelli.

 

Sul mestiere dello scrittore emerge poi e viene sottolineata la grande fatica della scrittura, di cui ha parlato il grande poeta, nostro contemporaneo e ancora vivente, Elio Pecora, sabato 23 dicembre scorso ad un incontro poetico, al “Piccolo Teatro della Parola” (in Via Castelforte n. 4, a Roma), al quale era presente lo stesso Andrea. Infatti, nel capitolo 4°, La stagione delle zanzare, vi si fa riferimento (nelle pagg. 34-35) nel richiamare ironicamente da parte di Arturo i “tentativi” di scrivere il suo “grande romanzo”:

 

“Oltre a lavorare, leggere, catalogare tombe, tentavo di scrivere il mio grande romanzo. Scrivevo dei gran bei avvii, che lì per lì mi spumantizzavano dentro […] Il problema stava nel fatto che a ogni inizio mi fermavo, non mi spinsi mai oltre la pagina sette. D’improvviso la mia scrittura si pietrificava, il flusso si arrestava e le visioni si disperdevano. D’improvviso mi ritrovavo in una strada chiusa, sbarrata, cieca. Dovevo ritornare indietro e ricominciare tutto da capo.”.

 

Abbiamo accennato prima alla necessità di discernere nella lettura.

 

Nel capitolo 4° appena citato, il narratore menziona un fenomeno molto particolare che prende il nome di aNobii (v. pagg. 33-34).

 

Qui diciamo che “gioco in casa”, perché sulla piattaforma di aNobii, creata nel 2006 ad Hong Kong (l’anobium punctatum è l’insetto che si nutre della polpa del legno - cellulosa, emicellulosa e lignina -  deponendo le uova le cui larve forano le pagine dei libri di cui si nutrono per poi volare via) e acquisita da qualche anno dalla Mondadori (come l’altro sito gratuito dei lettori Goodreads è stato acquisito dalla Amazon), sono iscritto dal febbraio 2009. Si parla spesso di social network, ma invero la dizione esatta per tale realtà è (in inglese) social reading, trattandosi dell’incontro di lettori che leggono, commentano e discutono tra di loro i libri che amano. Come dicevo sono iscritto da un po’ di anni e ho avuto modo varie volte di discuterne, ad es. con la giornalista e scrittrice Loredana Lipperini, con la compianta giornalista della la RepubblicaAnnalisa Usai (venuta a mancare il 23 novembre 2011) e, in modo più burrascoso, con il giornalista de “Il Sole – 24 Ore”, Stefano Salis (in occasione di un sondaggio del domenicale del quotidiano sul “miglior libro dell’anno 2009”: non voglio entrare nei particolari).

 

Ma ecco il brano relativo al nostro “portale dei lettori”.

 

“In quel periodo iniziai a sondare i testi orientali. Al di là che gravitassi in un’età perfetta per la conversione, lo zen, così come il buddismo, si effondeva accattivante, si faceva ben volere, ti lasciava carta bianca, essenzialmente dovevi rimanertene tranquillo, dopodiché potevi comportarti suppergiù come ti pareva, un po’ come l’ama e fa ciò che vuoi di Sant’Agostino, nel loro caso non eri obbligato ad amare, bastava che ti preservassi pacato e impassibile. Ma non leggevo soltanto i libri, orientali o occidentali che fossero, leggevo anche le recensioni degli utenti. Praticavo una nuova abitudine: rovistare tra le librerie di Anobii. Mi si sbottonò un mondo: gente che affastellava libri bellissimi, inconsueti, sofisticati, esiliati. E sapeva parlarne, eccome se ne sapeva. Gente vivificata non solo dalla passione, ma anche da un’invidiabile e perspicua perizia. Gente apolide, colta e sapiente. Gente che magari faceva il cassiere al supermercato, il dentista, l’impiegato di banca. Nello stesso tempo, le pagine culturali e non dei giornali più prestigiosi erano un festival di articoli vuoti e recensioni fasulle. Che cosa significava allora? Che era tutto capovolto? Che gli ultimi erano i primi come nel regno dei cieli? Non esattamente. Poteva capitare che il guardiano notturno fosse un letterato e il letterato fosse un cazzone, ma poteva capitare pure il contrario. Innegabile che il genio contemporaneo simpatizzasse per un certo fare sotterraneo, ai limiti del catacombale, ma simpatizzava ancor di più per l’assenza di ogni possibile corollario. Il genio contemporaneo si prestava a tutto, tranne che alle semplificazioni. Il genio contemporaneo si snodava alquanto complesso nell’apparente grossolanità delle sue trame. Il genio contemporaneo era un vaso cinese frantumato sul pavimento e hai voglia a chinarti per raccogliere i pezzi. Il genio contemporaneo ti faceva venire il mal di schiena. Il genio contemporaneo era come quei grossi cubi negli autogrill. Se vi affondavi il braccio dentro, in mezzo ai Cugini di Campagna, Richard Clayderman e le hit dell’estate dell’86, potevi esumare Paolo Conte o le Variazioni Goldberg di Glenn Gould.”.

 

Come nel 13° e ultimo capitolo, Blanes, verrà ripreso anche il cognome oltre al nome di Arturo, vale a dire Franchini (pag. 105), così nell’excipit di quest’ultima tappa del nostro protagonista, con la ripresa del tema del viaggio che inizia con Arturo che sta guidando (pag. 9):

 

“Una notte di maggio guidavo costeggiando quel che permaneva della pineta di Castel Volturno e mi ponevo la domanda più antica del mondo.”,

 

e nell’ultimo capitolo (pag. 109):

 

Guidavo verso il ritorno e mi sentivo propositivo.”,

 

c’è la risposta alla domanda che il protagonista si pone, indicata anche nel titolo del 1° capitolo Il senso della vita.

 

Ma per conoscerla dovrete arrivare all’ultima pagina (la 110a) del bel romanzo di Andrea D’Urso.

 

Vi consiglio di assaporarlo piano piano, di entrare in punta di piedi nel mondo del protagonista Arturo, per gustare lo stile di Andrea, così particolare, fatto di iterazione, metrica e discontinuità, elementi questi, non poteva dubitarsene, in comune con l’Andrea D’Urso poeta.

 

Ad es. nel Cap. 4° La stagione delle zanzare, a pag. 32,

 

un esempio di discontinuità

 

“L’estate non era la stagione degli amori, delle camminate sulla spiaggia, dei cinema all’aperto.”,

 

che mi ha richiamato alla memoria (anche perché suonata spesso recentemente alla radio) la recente canzone L’estate di John Wayne, il singolo del cantautore italiano Raphael Gualazzi, pubblicato nel 2016:

 

Torneranno i cinema all’aperto e i riti dell’estate

 

Le gonne molto corte

 

Tornerà Fellini e dopo un giorno

 

Farà un film soltanto per noi”

 

[Come sottolineato dall’autore durante la presentazione il riferimento era piuttosto a Franco Battiato – ritengo al brano Summer on a solitary beach del 1981 – ove sentiamo:

 

Passammo l’estate su una spiaggia solitaria

 

E ci arrivava l’eco di un cinema all’aperto

 

E sulla sabbia un caldo tropicale dal mare.”.

 

Probabilmente – notavo - in Gualassi sarà riecheggiata la famosa canzone del grande Battiato.];

 

e in tutto il capitolo vi sono continui fenomeni di iterazione

 

(come nel capitolo 4°, La stagione delle zanzare, a proposito de “L’estate” o nel capitolo 7°, La casa rosa, in merito alla “casa rosa” di Guido Morselli, per fare degli esempi).

 

Per chiudere questo mio intervento, e potrà Andrea riprendere i punti ed elementi che io ho toccato, mi piace citare alcune frasi del nostro protagonista che riflette sulla sua vita:

 

“non facevo nulla”, anche se “nella vita, per quanto ci si possa sforzare, è impossibile far nulla”;

 

“[Nel database dei soggetti funzionali alla causa per scroccare un pranzo, un letto, o tutte e due le cose insieme, nel viaggio verso le tombe dei suoi scrittori] Come dire perseguivo una mia decadenza. Il problema era che per decadere bisognava cadere da qualcosa, mentre io mi guardavo intorno e non vedevo che una sterminata piana di inconsistenze.”;

 

“i libri mi dicevano […] chi non ero”

 

(tutte nel Cap. 1, Il senso della vita, rispettivamente, pag. 10 e pag. 14);

 

“Durante il viaggio di ritorno [dalla casa degli zii] ripensavo alla mia vita. Il solo aspetto che non disdegnavo, che in qualche modo salvavo e difendevo, stava nella sua implausibilità”

 

(Cap. 8, Il grande freddo, pag. 72).

 

Se in nostro (anti)eroe, Arturo Franchini, avrà alla fine la sua “redenzione” resta solo a noi scoprirlo, leggendo il bellissimo nuovo romanzo che ci è stato regalato da Andrea D’Urso: La strada è un libro aperto.

 

*

- Letteratura

La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo

La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo (The Time Traveler's Wife )

    

Come accade talvolta, mi era capitato di vedere anche la versione cinematografica del romanzo di Audrey Niffenegger, La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo (The Time Traveler’s Wife ).

 

Il titolo in italiano del film è (non si sa bene il perché, considerato che il titolo originale è uguale a quello del libro): Un amore all’improvviso

 

(http://www.comingsoon.it/scheda_film.asp?key=47003&film=Un-amore-all-improvviso )

 

Ma avremo modo di ritornare più tardi sul profilo cinematografico appena accennato.

 

Come è successo talora, mi sono imbattuto fortunatamente sul sito di aNobii, nell’ambito del gruppo “Gruppi di lettura”, proprio in una discussione ove si stava per intraprendere la lettura comune del bel libro di Audrey Niffeneger (del 2003, tradotto per i tipi della Mondadori nel 2005).

 

E da questa partecipazione a quel gruppo di lettura (è accaduto di sovente) è scaturito un commento (era il 2 aprile del 2010), e intendo riprendere, con alcune modifiche, le osservazioni formulate allora.

 

Ho raggruppato le osservazioni sotto alcuni paragrafi per dare un visione più chiara e ordinata.

 

 

I. Scelte stilistiche: prima persona

 

In un inserto domenicale de “Il Sole 24 Ore” di qualche tempo fa (il n. 245 di domenica 6 settembre 2009, p. 27), nella rubrica “Emozioni tra le pagine”, avevo riscontrato un titolo interessante: Il soppalco di Maupassant. L’articolista con questo titolo ammiccante accennava brevemente al libro di Elisabetta Rasy Memorie di una lettrice notturna, riportando un brano dall’introduzione:


quando ci immergiamo in quegli speciali avvenimenti che sono i libri c’è una voce che ci accompagna”.

 

Mi pare un buon punto di partenza per riportare un passo che ritengo utile ad una migliore comprensione del testo.

 

Vincenzo Cerami (Consigli a un giovane scrittore, Torino, Einaudi, 1996) sottolinea come vi siano due “modalità di scrittura” e che il “dato più importante” sia la “sintassi” e il “tono di voce del narratore. La scrittura, infatti, mima sempre la voce di qualcuno. E il personaggio che ha quella voce è sempre e comunque il protagonista della vicenda.” (p. 38). Di conseguenza le “possibilità sono soltanto due: la prima e la terza persona. Vale a dire un io che racconta una vicenda di cui è stato protagonista (o testimone); oppure un io neutro, impersonale, che si limita a riferire fatti accaduti ad altri. Da un punto di vista narrativo i due modelli propongono testi radicalmente differenti. Nel primo caso il narratore non potrà raccontare se non ciò che ha vissuto o visto personalmente, o gli è stato riferito: la narrazione segue il percorso del protagonista, così come lui dice di aver vissuto la vicenda.” (pp. 38-39).

 

Aggiunge ancora Cerami: “E’ evidente che nel caso della prima persona il mondo rappresentato, essendo frutto di una «soggettiva», non possa non proporre che una visione relativa […] della realtà, filtrata attraverso il personaggio che «parla», tanto precisa quanto limitata della sua personalità.” (p. 39).

 

La nostra autrice, quale voce che parla sceglie la prima, ma introduce dal punto di vista stilistico una complessità: la voce che parla viene infatti scissa in due voci, quelle dei protagonisti, Henry DeTamble e Clare Abshire.

 

In base a quanto evidenziato si profila dunque nel romanzo un primo elemento essenziale di tipo strutturale:

 

1) le due voci narranti in prima persona (con i cc.dd. cambi di prospettiva ), cui ho accennato all’inizio.

 

Ma si può ritenere facente parte ugualmente del profilo “strutturale” anche l’elemento de

 

2) i viaggi nel tempo (salti temporali ).

Tale aspetto costituisce un sicuro punto di interesse (e di interrogazione). È possibile infatti dedurre dall’indice (profilo che sarà trattato a breve) la presenza nella struttura del romanzo della Niffenegger di una linea portante, che si può far cominciare dal primo incontro (importantissimo) nel presente (“Primo appuntamento, uno”, p. 15) di Henry e Clare il 26 ottobre 1991), incontro collocato non a caso (prescindendo dal “Prologo” introduttivo) all’inizio del libro. Significativo è il “commento” in merito ad opera dei versi finali della stupenda IX Elegia di Rilke (in esergo al Capitolo I).

 

Otto anni di differenza separano Henry DeTamble (16 giugno 1963) da Clare Abshire (24 maggio 1971), nella data del loro primo incontro nel “presente”: Henry ha 28 anni e Clare 20.

 

Da quel momento si dipana una linea temporale diacronica, con delle inserzioni dovute ai viaggi temporali di Henry nel passato e, alla fine, nel futuro, che creano dei particolari effetti “flasback” di tipo cinematografico in tutto l’arco del romanzo.

 

II. Una bussola di viaggio: l’indice

 

Fin dall’inizio, come è stato spesso osservato, occorre abituarsi al disorientamento creato dai passaggi nel testo tra un protagonista e l’altro e ai viaggi nel tempo tra passato presente e futuro in relazione ai due personaggi principali del romanzo Henry DeTamble e Clare Abshire.

 

Mi ero quindi messo al lavoro in occasione del gruppo di lettura per dotarmi di uno strumento di ausilio per una futura analisi del testo (unitamente e successivamente alla sua lettura) e con pazienza avevo formulato un Indice dei Capitoli, Paragrafi e citazioni presenti nel romanzo.

 

A distanza di tempo da quella bella discussione su aNobii, ho pensato di rivedere (eliminando alcune imprecisioni e inserendo alcune indicazioni in nota) l’Indice, che ora ho inserito nel sito de “La Recherche”

 

(l’edizione utilizzata è quella Oscar Mondadori del 2009):

 

http://www.larecherche.it/testo.asp?Tabella=Articolo&Id=1608

 

M’è venuta poi l’idea di tentare, testo originale alla mano, la stesura di un indice anche del testo originale in lingua inglese

 

(l’edizione è la Vintage Books di London del 2005),

 

messo parimenti a disposizione anche questo sul sito de “La Recherche”:

 

http://www.larecherche.it/testo.asp?Tabella=Articolo&Id=1615 )

 

Spero con tale lavoro di fare cosa gradita per chi desideri meglio apprezzare (e vedere scanditi) tutti i passaggi temporali (e dunque l’alternarsi delle vicende) con le rispettive età dei protagonisti, Henry e Clare, i vari eserghi (oltre ai due iniziali, anche quelli che precedono due delle tre parti in cui si suddivide il romanzo: la I. L’uomo fuori dal tempo e la III, Trattato sulla nostalgia, e quello inserito all’interno del capitolo II. Una goccia di sangue nella scodella del latte. Ultima la citazione finale, significativamente ripresa dall’Odissea di Omero.

 

III. Le Copertine – Le Citazioni – Una Dedica

 

Le Copertine

 

Mi sembra importante soffermarmi su un elemento extratestuale che è il primo, insieme al titolo, e poi al risvolto e retro di copertina, a colpirci nel nostro ingresso in una libreria: la copertina. In realtà vi sono quantomeno due copertine del libro, in relazione, come spesso accade, a differenti edizioni.

 

Entrambe le copertine in questione sono riprese sulla mia pagina del sito de “La Recherche” nell’ambito dell’articolo La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo.

Indici:

 

http://www.larecherche.it/testo.asp?Id=1619&Tabella=Articolo

 

Vi è una copertina “originale” (di Tim Hetherington, presente sia nel testo in lingua originale sia nella prima traduzione in italiano del romanzo), ove appaiono (lo sfondo è un prato) le gambe di una bimba con calzettoni bianchi e scarpette nere con a fianco dei vestiti ripiegati e un paio di scarpe nere da uomo:

http://tinyurl.com/yhu3a73

L’immagine da un senso di “attesa” (fiduciosa) di qualcuno che sta per venire ed è tra i temi fondamentali del libro.

 

L’altra copertina (di Maria Giulia Giorgiani) è presente per l’edizione Oscar Mondadori (quella che ho utilizzato per la lettura comune).

 

C’è un albero le cui fronde proiettano un’ombra su uno sfondo, che però più che un prato sembra quasi un mare grigio o un deserto. Appare, sotto all’albero, una ragazza o bambina, quasi evanescente, girata di spalle con delle scarpe (dorate) con i tacchi, che si protende con le braccia e le gambe slanciate verso i rami dell’albero poderoso (e non vecchio), cercando di toccarli.

 

In tale posa risulta alzata la maglietta e la gonna bianche della figura femminile; o meglio sembra che la gonna non vi sia e si scorgono le mutandine con un indumento sopra queste ultime (che però le lascia ampiamente visibili).

 

Mi sembra di scorgere, espresso in quest’altra copertina, un altro elemento importante del libro: lo sforzo di questa adolescente o bambina di andare verso il futuro, verso la maturità espressa da quell’alto albero con le sue verde fronde e forti rami: albero che potrebbe inoltre raffigurare lo stesso Henry, adulto, uomo, che Clare conosce la prima volta da bambina quando lei ha sei anni, mentre Henry ne ha 35.

 

Citazioni

 

Troviamo nel libro varie citazioni di autori e poeti.

 

Due all’inizio del libro prima del “Prologo”.

 

Una citazione di Amore dopo amore (dal libro Mappa del nuovo mondo) di Derek Walcott (questa una lettura della poesia che prende spunto dal film del 2005 La febbre di Massimilano D’Alatri, con Fabio Volo e Valeria Solarino: http://tinyurl.com/yabvkeg ).

 

Una citazione di Man and time di J. B. Prestley (John Boynton Priestley, 13 settembre 1894 - 14 Agosto 1984), conosciuto come JB Priestley, è stato uno scrittore, drammaturgo e giornalista televisivo (il libro in questione è del 1964).

 

Due citazioni del libro di Antonia S. Byatt Possessione (come esergo al capitolo II Una goccia di sangue nella scodella del latte e in quello al capitolo III Trattato sulla nostalgia).

 

Alla fine sono riportati i versi 231-240 del Libro Ventitreesimo dell’Odissea di Omero. Ulisse è ritornato nella sua Itaca. Celato nelle fattezze di un povero mendicante, nelle quali è stato trasformato dalla madre Atena, l’eroe ha incontrato prima Eumeo, poi il figlio Telemaco, e successivamente ha preparato e portato a termine la strage dei pretendenti. Il libro XXIII è quello dell’atteso e bellissimo riconoscimento di Odisseo da parte della moglie Penelope, che da anni lo attendeva. Veramente dei versi di una bellezza intramontabile.

 

Ma le citazioni più numerose (ben tre) sono dedicate ad un poeta che evidentemente è tra i prediletti di Audrey Niffenegger: René Marie Rilke (Praga 1875 - Montreux 1926)

 

Due sono tratte dal libro Elegie duinesi, precisamente:

 

- la IX Elegia (versi 7 – 8; 11-13; 22 – 27 come esergo al Capitolo I, L’uomo fuori dal tempo)

 

- la V Elegia (dedicata alla Signora Herth Koenig gli ultimi versi, 95 – 107, nel Capitolo II, paragrafo Compleanno, su richiesta di Clare, Henry, in sala parto, recita questi versi di quella che è definita come “la poesia degli amanti sul tappeto”, Angelo)

 

Infine troviamo citata un’altra poesia di Rilke (come esergo del capitolo III, Trattato sulla nostalgia) Quella che diventa cieca .

 

Evidenzio come le Elegie Duinesi (1911-23) (insieme ai Sonetti a Orfeo - 1923 - a I quaderni di Malte Laurids Brigge – 1910 - e alle postume Poesie estreme) segnano il culmine della produzione poetica del poeta Rilke (interrotta dalla morte per leucemia sopravvenuta nel 1926 nel sanatorio svizzero di Montreux). Rinvio in merito alla bella introduzione delle Elegie duinesi (con biografia, giudizi critici, e relativa bibliografia) di Franco Rella e a quella di Rossana Dedola, rispettivamente, nelle due edizioni del libro in mio possesso (BUR, Milano, 1994, pagg. 5 – 40; e Crocetti, Milano, rist. 2009, pagg. 7 - 20).

 

Sarebbe interessante un lavoro di riscontro delle frasi o versi riportati che indubbiamente anticipano, illustrando, o facendo intuire o percepire, il tema della parte del testo cui sono premessi.

 

Una dedica

Un primo dettaglio cui seguirà poi un altro.

 

Sappiamo che i due protagonisti sono Henry DeTamble e Clare Abshire

 

Sotto il titolo (nell’edizione italiana: in quella inglese è nella pagina successiva di sinistra e meno visibile) troviamo una dedica:

 

Per Elizabeth Hillman Tamandl

20 maggio 1915 – 18 dicembre 1986

 

e Norbert Charles Tamandl

11 febbraio 1915 – 23 maggio 1957

 

Non sembra anche a voi che il cognome delle due persone, probabilmente marito e moglie, “Tamandl” ricorda in parte (con anagramma parziale) quello di Henry, “DeTamble?

 

IV. Ma… Quante sono le serrature sulla porta della casa di Henry?

 

Dopo aver letto il libro della Audrey Niffenegger nella traduzione italiana di Katia Bagnoli, ho voluto acquistare il romanzo anche in lingua originale, sia per apprezzare meglio la scrittura dell’autrice sia per dipanare eventualmente qualche dubbio, qualora dovuto alla traduzione.

 

Notavo ad esempio che nel testo in italiano:

 

nel Cap. I, “Primo appuntamento, uno”, Più tardi quella sera, vi sono “diciassette serrature”:

 

“Primo passo: aprire le diciassette serrature della porta di casa

(pag. 18: 6 righe dopo il titolo);

 

e poi subito dopo le serrature diventano “trentasette”:

“richiudo le trentasette serrature

 

(21 righe dopo il primo riferimento).

 

Di seguito, sempre nello stesso capitolo e paragrafo (a pag. 26 stavolta), le serrature arrivano a ... “centosette”:

 

“Metto in azione il mazzo di chiavi sulle centosette serrature e socchiudo la porta”.

 

Il dettaglio mi sembrava inquietante e non credevo che la traduttrice, Katia Bagnoli, avesse potuto equivocare su dei semplici riferimenti ad aggettivi numerali cardinali.

 

Il significato di quell’ “incremento” di serrature al momento non mi era ben chiaro, mi sfuggiva e ritenevo che occorresse pensarci su, non credendo – ripeto - che l’autrice l’avesse inserito per disattenzione. Grazie all’aiuto di una partecipante del gruppo di lettura sono alla fine pervenuto alla soluzione.

 

Questa la traduzione seguita dal testo in originale.

 

“Primo passo: aprire le diciassette serrature della porta di casa”:

 

unlock seventeen locks on apartment door’;

 

“richiudo le trentasette serrature”:

 

‘lock the thirty-seven locks’;

 

“Metto in azione il mazzo di chiavi sulle centosette serrature e socchiudo la porta.”:

 

‘I wield my fistful of keys on all 107 locks and crack the door slightly.’

 

Ma qual è l’arcano?

 

        La mia amica aNobiiana mi ha segnalato, dopo una ricerca, che in un vecchio forum, ormai inattivo, Audrey risponde alle domande dei lettori; in particolare una lettrice aveva fatto la stessa domanda che m’ero posto. Questa la risposta della Niffenegger:

 

«It’s meant as a joke, but evidently it isn’t a very good one because people ask about it rather often. Henry is just exaggerating for comic effect».

 

Vale a dire:

 

«È inteso come uno scherzo, ma evidentemente non è molto buono perché le persone chiedono informazioni su tale questione piuttosto spesso. Henry sta solo esagerando per un effetto comico.».

 

La spiegazione dunque era più semplice di quel che pensavo: era un pensiero “ironico”, per cui se ne deduce che a volte capire queste sfumature non è facile (soprattutto in un testo tradotto).

 

E tale frase ironica non può essere nell’ambito de La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo quello che si potrebbe definire (prendendo in prestito per analogia un’espressione impegnativa) un hàpax legòmenon (dal greco ἅπαξ λεγόμενον: “detto una volta sola”), vale a dire una forma stilistica, che compare una sola volta nell’ambito del testo.

 

Si potrebbe ad esempio notare come Alba (un altro personaggio del romanzo) abbia riconosciuto Henry nel museo per aver visto in passato dei video che lui le aveva lasciato con le istruzioni per scassinare le serrature.

 

Inquadrando tale frase nell’ambito di una sfumatura ironica sicuramente la circostanza potrebbe destare meno reazione e perplessità (di quella che invece in genere ha destato nei lettori).

 

E sicuramente nel libro potranno rinvenirsi altri passi con sfumature ironiche.

 

V. Fantasy o Storia d’amore?

 

Un problema che subito si è posto, come rilevato da vari partecipanti del gruppo di lettura, è l’inquadramento del romanzo: genere Fantasy o Storia d’amore?

Connessa a questo problema è anche la domanda che ci si poneva “qual è il senso dell’artificio letterario di fare viaggiare nel tempo il protagonista?”, vale a dire “la logica del viaggio?”

 

Una premessa: il paradosso del nonno

 

In un bell’intervento nell’ambito del gruppo di lettura era stato affermato, con riferimento al “determinismo”, che in “realtà l’ammissione di ‘curve temporali chiuse’ manda in corto circuito il principio di causalità, uno dei pilastri del determinismo: la causa è causa di sé stessa...”.

 

Veniva inoltre aggiunto che il

 

“libro, così come molti libri e film di fantascienza, si basa sul famoso ‘paradosso del nonno’: se io torno indietro ed uccido mio nonno da giovane, io non posso essere stato concepito e per questo non posso essere tornato indietro ad ucciderlo.”

 

VI. Un confronto illuminante

 

Un importante inciso e poi torno subito al “paradosso del nonno”, mentre per l’aspetto del genere (fantasy/storia d’amore) rinvio al paragrafo IX di queste osservazioni.

 

Delle volte il caso è veramente strano.

 

Nel periodo del gruppo di lettura (avevo appena finito di leggere Racconto d’autunno di Tommaso Landolfi), una sera nel rovistare velocemente su alcune piccole “cataste” di libri per scegliere un testo da portare con me nel consueto viaggio verso l’ufficio, il mio occhio si era imbattuto, dopo aver letto in precedenza La donna che non poteva essere qui (Sauve-moi, Paris, XO Éditions, 2005; Milano, BUR Biblioteca Universale Rizzoli, 2008) in due altri libri dello scrittore francese Guillaume Musso.

 

Si trattava de L’uomo che credeva di non aver più tempo (Et après..., Paris, XO Éditions, 2006; Milano, BUR Biblioteca Universale Rizzoli, 2008) e di Chi ama torna sempre indietro (Seras-tu là?, Paris, XO Éditions; Milano, BUR Biblioteca Universale Rizzoli, 2009. Leggendo il retro di copertina decisi di inserire nella capiente (e paziente!) borsa il secondo libro.

 

Il mattino seguente mi accingo a prendere in mano il libro di Musso: ed ecco un evento quasi magico (capitano spesso nel mondo dei libri non trovate?). Infatti anche quello dello scrittore francese è un libro che parla di “viaggi nel tempo” e con “cambi di prospettiva” dei personaggi narranti (anche se in misura minore rispetto al libro della Niffenegger).

 

Chi ama torna sempre indietro (pubblicato a Parigi nel 2006), successivo al libro della scrittrice statunitense (del 2003), ha una struttura abbastanza simile (basta dare un’occhiata anche ai rispetti indici).

 

Da una rapida consultazione, sfogliando il libro, mi accorgo di altri elementi in comune: oltre agli accennati “cambi di prospettiva” (meno accentuati), troviamo un “Prologo” e un “Epilogo” (nel libro della Niffenegger in realtà non vi è un “Epilogo formale”, ma vi ricomprenderei, come vedremo più avanti, i due ultimi paragrafi), anche se i vari “viaggi” (molto diversi in verità, ma non voglio svelare nulla) sono racchiusi non in tre capitoli principali, con all’interno le varie “tappe” con le date e le età dei protagonisti del brano specifico, ma in ventiquattro capitoli.

 

Similmente a La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo ogni capitolo di Chi ama torna sempre indietro è preceduto da una citazione di un autore o poeta (ad eccezione dei capitoli 10, 11 e 12, che hanno due citazioni: nel primo caso dello stesso autore e dello stesso libro, Tarun J. Teipal, Loin de Chandigarh, nel secondo di testi di famosi cantanti: Charles Aznavour, da un lato, e John Lennon – Paul McCartney – Yesterday-  dall’altro; infine degli scritti di Râmana Mahârshi e Stephen Hawking).

 

Il libro della Niffenegger, oltre agli eserghi dei tre capitoli, ne ha due al Prologo e uno nell’Epilogo (considerando in tal modo gli ultimi due paragrafi, come dicevo) e una citazione interna nel paragrafo “Compleanno” (un frammento della V Elegia gli ultimi versi, 95 – 107, in cui parla dell’Angelo di Rainer Maria Rilke, autore – come già detto - caro all’autrice, ripreso in esergo anche nel I e III capitolo).

 

Peraltro in Chi ama torna sempre indietro mi sembra di aver rinvenuto un elemento, in riferimento ad una “corrispondenza” (anche se sui generis nel caso del libro di Musso) tra passato e futuro, che mi ricorda due films visti qualche tempo fa: La casa sul lago del tempo (The lake house, anno 2006, di Alejandro Agresti, con Keanu Reeves, Sandra Bullock e Christopher Plummer) e Frequency (di Gregory Hoblit del 2000, con Dennis Quaid e James Caveziel).

 

Ritornando al parallelo tra il romanzo della Niffenegger (come dicevo anteriore a quanto risulta) e quello di Musso, accanto alla somiglianza strutturale oltre che tematica concernente i viaggi del tempo, mi sembra illuminante il testo del romanzo di Musso per capire il senso profondo del libro fatto oggetto della lettura comune aNobii.

 

Ecco la premessa che Musso pone prima del “Prologo” del libro (p. 5) e che – a mio avviso - centra il cuore del problema:

 

Tutti ci siamo posti almeno una volta la domanda: se ci dessero la possibilità di tornare indietro nel tempo, che cosa cambieremmo della nostra vita?

Se potessimo modificare ciò che è stato, che errori correggeremmo? Quali dolori, rimorsi, rimpianti cercheremmo di cancellare?

Davvero oseremmo dare un nuovo senso alla nostra esistenza?

Ma per diventare cosa e andare dove?

E con chi?”.

 

Penso che in queste parole possa essere riposto il senso profondo anche del romanzo della Niffenegger.

 

Non vi è capitato nei confronti della persona che amate di avere il desiderio di seguirla nella sua giornata per vederla anche in altri contesti e situazioni e scoprire tutto di lei e ancor più il desiderio di ritornare nel passato per scoprire com’era da bambino o da bambina?

 

Ritengo che “il rapporto” sia biunivoco, nel senso che anche il passato, quel che siamo stati e che siamo nel profondo, può trasformare il futuro, può emergere dalle tante tracce che, più o meno consapevolmente, abbiamo lasciato, nel corso della nostra storia, anche per noi (oltre che per gli altri) per noi nel futuro, pur non avendoci in quel momento pensato attentamente (ad esempio una lettera, un diario, una poesia).

 

VII. Il paradosso del nonno: qualche esempio del “viaggio nel tempo” nella letteratura e nel cinema

 

Ponendo mente nuovamente al nostro “paradosso del nonno” Musso antepone una nota sempre al “Prologo” che riporto: “Il ‘paradosso del nonno’, citato al capitolo 7, è preso dal libro di René Barjavel Il viaggiatore imprudente” (p. 6).

 

Il paradosso del nonno, come si diceva in precedenza, è un paradosso sul viaggio nel tempo e il primo a descriverlo fu proprio René Barjavel, nel suo libro che risale al 1943 (Le voyageur imprudent è il titolo in lingua originale).

 

Il paradosso del nonno è stato molto utilizzato, in letteratura e nel cinema, per dimostrare che i viaggi nel tempo sono impossibili. Invece secondo la meccanica quantistica, nella sua interpretazione a molti mondi non si creerebbe un paradosso per questo tipo di eventi perché ogni evento produrrebbe un nuovo universo parallelo nei quali la storia si evolve in maniera indipendente.

 

Barjavel, dal canto suo, potrebbe aver tratto spunto da un altro paradosso, formulato questa volta da Einstein, quello “dei gemelli”. “Einstein non ipotizza di muovere una persona oltre la velocità della luce e fare un confronto nel passato, ma di portare una persona a una velocità costante prossima alla velocità della luce e confrontarla nel futuro, con il suo gemello invecchiato.” (cfr. wikipedia).

 

Oltre a La fine dell’eternità di Asimov quale esempio di racconto con viaggi nel tempo, e ad un episodio della famosa saga di Henry Potter, Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban, possono farsi, tra gli altri, gli esempi per la letteratura di Timeline di Michael Chricton, della trilogia (poi ampliata con altri due testi) di Hyperversum di Cecilia Randall (Hyperversum, Il falco e il leone e Il cavaliere del tempo, cui hanno fatto seguito il romanzo collettivo La strega e il cavaliere e Hyperversum Next), nonché del romanzo Rabbia, ove Chuck Palahniuk propone una soluzione alternativa del “paradosso del nonno”.

 

Troviamo nel 1988 il romanzo di Philippa Pearce Il giardino di mezzanotte (tradotto da Salani nel 2005), mentre un altro esempio di romanzo del genere è il romanzo La straniera del 1991 primo della serie fantasy dedicata a “Claire Randall” di Diana Gabaldon, prima professoressa presso il Centro per gli Studi ambientali dell’Università statale dell’Arizona, poi ricercatrice ed esperta di analisi numerica e di database e dal 1988 scrittrice. Il primo romanzo (dopo una prima edizione ridotta da parte della Sonzogno, con vari tagli e con il titolo Ovunque nel tempo) e gli altri della serie è stata edita da Corbaccio dal 2003. La casa editrice ha diviso – inspiegabilmente – in due parti ogni romanzo, al momento otto, tranne il primo – poi distinto anch’esso in due volumi: L’anello d’argento e Lo spirito della sorgente.). Secondo il suo sito web la scrittrice sta al momento lavorando al nono romanzo del ciclo. Dalla saga è tratta una recente serie televisiva cui si farà cenno fra breve

 

(per un elenco di romanzi in cui il tema del viaggio nel tempo ha un rilievo importante:

 

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Categoria:Romanzi_sui_viaggi_nel_tempo   )

 

Per la cinematografia, accanto al film del 2014 Interstellar di Christopher Nolan (con – tra gli altri – Mattew McConaughey, Anne Hathaway e Michael Caine) o un altro bel film del 2006 Déjà vu - Corsa contro il tempo (Déjà Vu) del regista Tony Scott (quello di Nemico pubblico - 1998 - Spy Game – 2001 - Man on Fire - Il fuoco della vendetta – 2004 - Domino 2005), con Denzel Washington, Val Kilmer, Paula Patton, Bruce Greenwood, Adam Goldberg e Jim Caviezel, oppure, sempre del 2004, The Butterfly Effect di Eric Bress e J. Mackye Gruber, con, tra gli altri, Ashton Kutcher ed Amy Smart (sequel nel 2006 con The Butterfly Effect 2, di John R. Leonetti, con Eric Lively, Erica Durance, Gina Holden).

 

Oltre a L’esercito delle dodici scimmie (Twelve Monkeys del 1995, di Terry Gilliam, con Brad Pitt, Madeleine Stowe, Christopher Plummer, Bruce Willis, Jon Seda), viene ripreso il paradosso, tra le altre pellicole, in Edge of Tomorrow del 2014 di Adam Corolla (con Tom Cruise ed Emily Blunt), in Questione di tempo del 2013 di Richard Curtis (Notting Hill ! con Domhnall Gleeson, Rachel McAdams, Bill Nighy), nella famosa trilogia di Robert Zemeckis Ritorno al futuro (con Michael J. Fox e Christopher Lloyd), i films “cult” Il pianeta delle scimmie (Planet of the Apes, del 1968, di Franklin J. Schaffner, con il fantastico Charlton Heston, e con un successivo remake nel 2001 di Tim Burton), e L’uomo che visse nel futuro del 1960 (titolo originale The time machine, di George Pal, con remake nel 2002 ad opera di Simon Wells), tratto dall’omonimo classico della letteratura di fantascienza di H.G. Wells.

 

Aggiungerei anche Kate & Leopold del 2001 del regista James Mangold (con Meg Ryan, Hugh Jackman), nonché, pur nelle loro diversità, La casa sul lago del tempo e Frequency, citati in precedenza (detto per inciso, rispetto a quest’ultimo film, il libro di Walter Veltroni del 2007 La scoperta dell’alba è un po’ troppo simile, quanto all’aspetto del deus ex machina che “scatena” il contatto tra passato e futuro, per non destare qualche piccolo sospetto).

 

Possiamo notare inoltre Il giardino di mezzanotte (di cui è stato prima menzionato il romanzo, dal titolo originale Midnight garden) del 1999, regista Willard Carol, con Anthony Way, Nigel Le Vaillani, Grata Scacchi, James Wilby e il film Terminator del 1984, diretto da James Cameron, con Arnold Schwarzenegger, Michael Biehn e Linde Hamilton, cui ha fatto seguito un fortunato ciclo cinematografico, con altre quattro pellicole (l’ultima del 2015, Terminator Genisys di Alan Taylor)

 

(per un elenco di film che includono il tema del viaggio nel tempo:

 

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Categoria:Film_sui_viaggi_nel_tempo     )

 

Accanto al grande schermo, alla categoria del “viaggio nel tempo” sono dedicate molte serie televisive, tra cui quella del Doctor Who, Seven Day, o più recentemente la serie canadese Continuum, di Outlander (dal ciclo di Claire Randall, prima citato), e vari episodi della serie (tratta dal fumetto della Comics) Flash (in particolare della prima serie:  l’episodio 16°, Lisa Snart, 17°, Trickster, 18°, Bug-Eyed Bandit, 20°, La trappola, 23°,  Wormhole; della seconda serie: l’episodio 11°, Il ritorno dell'Anti-Flash, 17°, Flash Back, 21°, La forza della velocità, 23°, Sfida finale)

 

(per un elenco di serie nelle quali il tema del viaggio nel tempo svolge un ruolo importante all'interno della trama generale:

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Categoria:Serie_televisive_sui_viaggi_nel_tempo     )

 

 

VIII. Dasein

 

Mi ha molto incuriosito, nel capitolo III. Trattato sulla nostalgia, il paragrafo intitolato Dasein.

 

Il termine (v. alla voce dell’enciclopedia on line della Treccani) è stato usato tradizionalmente nella filosofia tedesca per indicare l’esistenza.

 

Così si trova in Kant, per es., nella tavola delle categorie della Critica della ragion pura.

 

In Hegel assume un diverso significato, indicando «l’essere determinato», l’alcunché finito, una delle prime categorie della logica, successiva e in opposizione a quella del divenire, sintesi d’essere e nulla; come tale il dasein, appartenente alla sfera dell’essere, ossia dell’immediato, è la base di tutte le ulteriori determinazioni.

 

In Heidegger il vocabolo viene introdotto (con la grafia Daseyn) nella sua opera Essere e tempo. L’opera, dedicata al maestro, Husserl, è un’applicazione originale del metodo e dei concetti della fenomenologia.

 

Per Heidegger il dasein è l’ente privilegiato, poiché è l’unico che si mette in questione, ponendosi il problema dell’essere: è l’uomo, in quanto è gettato nel mondo, sottoposto alle relative limitazioni, ma anche in grado di trascenderlo con un atto di libertà, facendone il progetto di atteggiamenti e azioni possibili.

 

Il dasein è – diversamente da Hegel - il superamento dell’immediatezza, «esser-ci» o «esistenza» per cui l’uomo, nel suo essere-nel-mondo, è ente tra gli enti e, al tempo stesso, ente che trascende, trascendenza. A esso si ricollegano concetti fondamentali della filosofia heideggeriana come limitatezza e fondamento, nonché il problema del rapporto del piano ontico con il piano ontologico.

 

Si è usata la locuzione “esser-ci”. “La traduzione del vocabolo (come per altri utilizzati dal filosofo) risulta non agevole.

 

Il termine “Sein” in tedesco significa “essere”, mentre “da”, nella medesima lingua, indica uno spazio ideale a metà strada fra l’immediatezza del “qui” e la distanza propria al “”.

 

In italiano a seguito della proposta di Pietro Chiodi, che è stato il primo traduttore nella nostra lingua di Essere e tempo, e rimasta poi stabilmente nel lessico heideggeriano, si utilizza la locuzione di “esser-ci”, laddove il ci non indica una semplice localizzazione spaziale, ma un concetto più ambiguo e complesso, ovvero il modo in cui concretamente (fenomenologicamente) l’Essere si dà nella storia, ad es. nell’esistenza dell’uomo.

 

IX. La trasposizione cinematografica del romanzo: i contenuti extra

 

Come accennavo in premessa, “il caso” che mi spinse a seguire il percorso del gruppo di lettura su aNobii sul romanzo della Niffenegger è stata la visione della versione cinematografica (il regista è Robert Schwentke (tedesco di origine che aveva avuto il suo esordio americano con il thriller del 2005 Flightplan - Mistero in volo, tit. orig. 2005 Flightplan, con Jodie Foster) La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo: Un amore all’improvviso, in italiano, titolo originale The Time Traveler’s Wife

 

(la scheda del film su coming soon: http://tinyurl.com/yas866c e quella su mymovie: http://tinyurl.com/ybr82d9 ), con Rachel McAdams, nella parte di Clare Abshire e Eric Bana nella parte di Henry DeTamble.

 

La sceneggiatura del film è di Jeremy Leven e di Bruce Joel Rubin (lo sceneggiatore del celebre Ghost - era il 1990 - del regista Jerry Zucker: chi non ricorda la giovane Demi Moore e il compianto Patrick Swayze?). La regia è di Robert Schwentke, con Rachel McAdams nella parte di Clare Abshire e Eric Bana nella parte di Henry DeTamble.

 

Mi sembrano importanti per la tematica in questione richiamare dei passaggi dei contenuti extra del film, che ho avuto cura di trascrivere.

 

Bruce Joel Rubin, sceneggiatore

 

Un romanzo impiega molto tempo a svelarsi. Può allontanarti dalla storia principale e poi riportarti indietro. Lo scrittore ha mondi da dipingere, cose da dire e modi per coinvolgere che in un film sono immediati. Ma le parole devono descrivere l’immagine e riempire lo spazio […]

Nella struttura un romanzo e un film sono diversi.

Nel libro ogni capitolo ha un titolo con l’età del personaggio e il momento della storia, perché saltano da un periodo all’altro. La cosa interessante quando leggi un libro è che la mente si attiva in modo diverso rispetto a un film.”.

 

Robert Schwentke, regista

 

Non è un film di fantascienza. Il viaggio nel tempo è un concetto fantascientifico, ma in realtà si tratta di due persone che cercano di far funzionare il loro rapporto.

Il viaggio nel tempo è solo il catalizzatore per quello che tiene separate queste due persone.”.

 

Eric Bana, che interpreta Henry DeTamble nel film omonimo

 

L’elemento più importante è la relazione tra Henry e Claire.

[Il tempo è un elemento che caratterizza una intimità:] l’intimità del tempo. Sono fisicamente inseparabili, una coppia con una profonda intimità.

Ci sono dieci – quindici Henry diversi.

Noi, io, abbiamo cercato di concentrarci su due periodi principali:

1. uno è prima che lui sappia della sua vita con Clare;

2. l’altro dopo la consapevolezza del suo futuro con Clare.”.

 

Dai passi riportati, che fanno riferimento anche al romanzo da cui è tratto il film, risulta che La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo non è solo o tanto “un libro di fantascienza”, o un libro di “filosofia”, ma un romanzo d’amore, intriso peraltro del “dolore” che tutti noi proviamo continuamente per “l’assenza” (anche talvolta brevissima) della persona amata.

 

L’altro elemento utile per un ulteriore approccio al libro è la suddivisione di due discrimini cronologici:

 

- prima che Henry sappia della sua vita con Clare;

 

- dopo la consapevolezza da parte di Henry del suo futuro con Clare.

 

Io aggiungerei altri due periodi

 

- Un terzo periodo connota il desiderio, in particolare di Clare, di avere un bambino, con tutte quello che ne consegue.

 

- L’ultimo periodo, verso il quale converge tutto il racconto, è il destino finale di Henry e la situazione successiva.

 

Conclusioni

 

Tante osservazioni si potrebbero fare ancora sul romanzo della Niffenegger.

 

Ci sarà stata sicuramente qualche influenza della versione della pellicola, che illustra, necessariamente, solo alcuni aspetti del libro, soprattutto la storia d’amore, asse portante della pellicola, con varie differenze

 

(ad esempio: nella macchina in occasione del mortale incidente, ove muore la madre, Henry piccolo è seduto dietro, anziché davanti e la dinamica è diversa; viene solo accennato –in una scena- alla storia con Ingrid; non ci sono rapporti intimi tra Gomez e Clare; c’è un viaggio nel futuro ma non quello finale, lasciato percepire nella fine del testo; non c’è l’intrappolamento di Henry nella “gabbia” della Biblioteca né la conoscenza dei colleghi della particolare situazione; non mi sembra vi sia la famosa “punizione esemplare” del ragazzo…).

 

Di certo mi sono piaciuti il protagonista Henry e Alba. Personaggi che si pongono in modo differente rispetto alla particolare facoltà di viaggiare nel tempo del protagonista: per Henry è una malattia (definita come “crono alterazione”, il problema come espone Henry al dott. Kendrick, è nel “dasein” – che abbiamo visto in    precedenza -, il disturbo è infatti l’ “alterazione della percezione cronologica”, p. 299), una maledizione, senza nessuna possibilità di averla sotto controllo; mentre per Alba tale situazione è interessante, dandole la possibilità di rivedere suo padre, e lei riesce a padroneggiarla.

 

Non ho gradito invece il personaggio di Gomez (che nel film appare più amico che rivale, in fondo, di Henry), e le figure di Clarisse, Ingrid e della sua amica, Celia, che non sembrano molto approfondite.

 

Non mi è dispiaciuta, invece, tranne che per alcuni episodi (ad es. quanto accade per l’evidente condizione di fragilità emotiva dopo la morte di Henry), la figura di Clare, talvolta in alcuni commenti ritenuta “irritante”, “egoista”, “odiosa”: personaggio visto peraltro anche con gli occhi del cinefilo.

 

Indubbiamente la scrittrice indulge di tanto in tanto in alcuni aspetti (forse un po’ melensi o di rito), ricercando il consenso (è il suo romanzo di esordio), in particolare delle lettrici, e la sua mano femminile, non del tutto distaccata, non gli consente di rimarcare in modo più accentuato la differenza delle due voci narranti, maschile (Henry) e femminile (Clare).

 

Appaiono – a mio avviso - molto belli e pervasi di poesia due incontri finali  del protagonista (soprattutto il secondo), che qui non approfondisco per non anticipare nulla.

 

In fondo come accennavo prima, i due ultimi paragrafi Rinascita e Sempre d’accapo, svolgono bene la funzione di “Epilogo” a compimento di quanto annunciato nel “Prologo” dai due protagonisti:

 

Odio trovarmi dove lei non è, quando lei non c’è. E invece me ne vado sempre, e Clare non mi può seguire” (Henry, p. 12).

 

È dura rimanere indietro. Aspetto Henry senza sapere dov’è e se sta bene. E’ dura essere quella che rimane. […] Lui scompare senza preavviso e involontariamente. Io l’aspetto. Ogni minuto scorre lento, trasparente come vetro. Attraverso ogni minuto vedo un’infinità di minuti in fila, in attesa. Perché se ne va dove io non posso seguirlo?” (Clare, p. 9).

 

Viene così superato il canto meraviglioso, ma struggente, della “tristezza” di Rilke, poeta più volte citato dalla Niffenegger nel romanzo, quel “mondo inesorabilmente caduco […ove le] cose periscono. Le parole periscono. La nostra stessa identità perisce corrosa dal «vento di cosmici spazi» […] E dunque, ancora una volta, da un lato, quaggiù, gli amanti, gli amati e le amanti, il fanciullo, e l’eroe, l’amore materno della vergine, e il turbine innominato del sangue e dell’istinto, e in alto, irraggiungibili, sempre, gli angeli” (Franco Rella, Introduzione alle Elegie duinesi, Milano, BUR, 2008, p. 12).

 

L’attesa del ritorno, che pervade tutto il libro della scrittrice statunitense, diventa allora pienezza e possiamo pronunciare finalmente, anche noi con consapevolezza, le parole incantevoli, imperiture e piene di gioia di Omero (i versi 231-240 del Libro Ventitreesimo dell’Odissea), riportate dalla scrittrice alla fine dell’opera, che ci parlano di un altro famoso viaggiatore, Ulisse, e similmente di una sposa da anni in attesa, Penelope.

 

Questi sono i meravigliosi e commoventi versi, con i quali concludo questo commento, nella traduzione, di Rosa Calzecchi Onesti, dell’Edizione tascabile Einaudi, con testo a fronte (Torino, 1989, p. 645), immaginando che a pronunciarli sia l’indimenticabile voce di Giuseppe Ungaretti

 

(che precedeva ogni volta le puntate della famosa rappresentazione televisiva dell’Odissea trasmesso dalla RAI nel 1968, diretta da Franco Rossi, insieme con Piero Schivazappa e a Mario Bava; nel cast spiccavano Bekim Fehmiu nel ruolo di Ulisse e Irene Papas nel ruolo di Penelope):

 

Così disse, e a lui venne più grande la voglia del pianto;

 

piangeva, tenendosi stretta la sposa dolce al cuore, fedele.

Come bramata la terra ai naufraghi appare,

a cui Poseidone la ben fatta nave nel mare


ha spezzato, travolta dal vento e dalle grandi onde;


pochi si salvano dal bianco mare sopra la spiaggia


nuotando, grossa salsedine incrosta la pelle;


bramosi risalgono a terra, fuggendo la morte;


così bramato era per lei lo sposo a guardarlo,


dal collo non gli staccava le candide braccia.

*

- Letteratura

La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo. Indici

La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo (The Time Traveler's Wife ) – Un indice (An Index)

 

   Come accade talvolta, mi era capitato di vedere anche la versione cinematografica del romanzo di Audrey Niffenegger, La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo (The Time Traveler's Wife).

 

   Il titolo in italiano del film è (non si sa bene il perché, considerato che il titolo originale è uguale a quello del libro): Un amore all'improvviso

 

(http://www.comingsoon.it/scheda_film.asp?key=47003&film=Un-amore-all-improvviso ).

 

   La regia del film è di Robert Schwentke, con Rachel McAdams, nella parte di Clare Abshire e Eric Bana nella parte di Henry DeTamble. La sceneggiatura è di Jeremy Leven e di Bruce Joel Rubin, lo sceneggiatore del celebre Ghost (era il 1990) del regista Jerry Zucker (chi non ricorda la giovane Demi Moore e il compianto Patrick Swayze?).

 

   E, come è successo talora, mi sono imbattuto fortunatamente sul sito di aNobii, nell’ambito del gruppo “Gruppi di lettura”, proprio in una discussione ove si stava per intraprendere la lettura comune del bel libro di Audrey Niffeneger (del 2003, tradotto per i tipi della Mondadori nel 2005).

 

   Tra i vari contributi, avevo notato fin dall’inizio, era stata sottolineata la confusione notata dai vari partecipanti riguardo ai passaggi del discorso tra un protagonista e l’altro e ai – contestuali - viaggi nel tempo tra passato presente e futuro in relazione ai due personaggi principali del romanzo Henry DeTamble e Clare Abshire.

 

   Mi ero quindi messo al lavoro per dotarmi di uno strumento di ausilio per una futura analisi del testo (dopo la sua lettura) e con pazienza avevo formulato un indice dei Capitoli, Paragrafi e citazioni presenti nel romanzo.

 

   A distanza di tempo da quella bella discussione, ho pensato di rivedere (eliminando alcune imprecisioni e inserendo alcune indicazioni in nota) l’Indice, che ora trovate nel sito de “La Recherche”

 

(l’edizione utilizzata è quella Oscar Mondadori del 2009)

 

http://www.larecherche.it/testo.asp?Tabella=Articolo&Id=1608

 

   M’è venuta poi l’idea di tentare, testo originale alla mano, la stesura di un indice anche del testo originale in lingua inglese

 

(l’edizione è la Vintage Books di London del 2005), che metto parimenti a disposizione anche questo sul sito de “La Recherche”

 

http://www.larecherche.it/testo.asp?Tabella=Articolo&Id=1615 .

 

   Spero con tale lavoro di fare cosa gradita per chi desideri meglio apprezzare (e vedere scanditi) tutti i passaggi temporali (e dunque l’alternarsi delle vicende) con le rispettive età dei protagonisti, Henry e Clare, i vari eserghi (oltre ai due iniziali, anche quelli che precedono due delle tre parti in cui si suddivide il romanzo: la I. L’uomo fuori dal tempo e la III, Trattato sulla nostalgia, e quello inserito all’interno del capitolo II. Una goccia di sangue nella scodella del latte. Ultima la citazione finale, significativamente ripresa dall’Odissea di Omero.

 

   Le citazioni più numerose (ben tre) sono dedicate ad un poeta che evidentemente è tra i prediletti di Audrey Niffenegger: René Marie Rilke (Praga 1875 - Montreux 1926).

 

   Due sono tratte dal libro Elegie duinesi, precisamente

 

- la IX Elegia (versi 7 – 8; 11-13; 22 – 27 come esergo al Capitolo I, L’uomo fuori dal tempo),

 

- la V Elegia (dedicata alla Signora Herth Koenig gli ultimi versi, 95 – 107, all’interno del Capitolo II, Una goccia di sangue nella scodella del latte, paragrafo Compleanno. Su richiesta di Clare, Henry, in sala parto, recita questi versi di quella che è definita come “la poesia degli amanti sul tappeto”, Angelo).

 

   Infine troviamo citata un’altra poesia di Rilke (come esergo del capitolo III, Trattato sulla nostalgia) Quella che diventa cieca.

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- Letteratura

L’amore non c’entra?

Questo è il mio intervento in occasione della presentazione romana del libro, svoltasi, in presenza dell'autore, presso la libreria "Marcovaldo" di Roma il giorno 8 maggio 2015.

 

Luca Martini   L’amore non c’entra

 

Ringrazio Luca Martini di avermi chiamato a presentare il suo bel libro di racconti, dal titolo L’amore non c’entra, testo che peraltro non rappresenta l’esordio dell’autore ma giunge dopo altre sue opere.

 

Dopo alcune raccolte di poesie, l’autore ha pubblicato alcuni testi su riviste letterarie (quali “Toilet”, “Fernandel”, “Il paradiso degli orchi”, “Catrame letterario”), vincendo con il racconto inedito Un comunista  il “Premio Arturo Loria 2008”, organizzato nell'ambito del “Festival del racconto” di Carpi (Modena). Il racconto ha dato il titolo all’antologia di racconti finalisti Un comunista ed altri racconti, pubblicata dalla casa editrice “Marcos y Marcos” di Milano.

Nel mese di giugno del 2009 è uscita la sua prima raccolta di racconti, La geometria degli inganni (a cura della casa editrice Voras, con prefazione di Gianluca Morozzi), raccolta finalista del Premio editoria di Qualità), cui ha fatto seguito, nel 2010, sempre per l’editore Voras, il suo primo romanzo Le mani in faccia. Entrambi i libri sono stati “libro del giorno” alla trasmissione di Radio Tre Rai “Fahrenheit”. Nel 2011 ha partecipato, quale scrittore, al progetto “Sorprese Letterarie”, promosso dalla scuola Holden insieme a Tre Marie, che lo ha portato a scrivere un racconto lungo rilegato sotto forma di libro, inserito nelle uova di Pasqua, insieme ad altri sei scrittori, per una tiratura complessiva di 110.000 copie. A settembre del 2012 è uscito il libro a quattro mani L'amore spaccato – quattro storie di ordinario abbandono, scritto insieme a Carla Sermasi Calvi e pubblicato dall’editore Incontri.

Nel giugno 2014 è uscito un altro romanzo Il tuo cuore è una scopa, per l’Editore Antonio Tombolini, nella collana Officina Marziani.

 

Penso che il miglior modo per iniziare la presentazione del bel libro di Luca Martini, prima di formulare qualche osservazione in merito, è leggerne qualche brano.

 

E allora mi sembra molto significativo scegliere proprio uno dei racconti centrali del libro, l’8° dei 18 della raccolta, che reca lo stesso titolo dell’opera: L’amore non c’entra (pagg. 98-112; il 3° racconto in lunghezza, a pari merito con Le mani sul volante, parimenti di 15 pagg.; dopo: Nemici: 22 pagg.; Formiche, diciottoanni e Il cuscino, 17 pagg.).

 

L’amore non c’entra

 

Ho le palpebre pesanti e appiccicose.

Mi sento come se fossi stata presa a calci, buttata fuori da qualcosa di bello, come un bagno caldo o una sauna profumata. Lanciata da qualche parte, forse nella neve, o in qualcosa di fastidioso e inospitale.

Una gran botta, insomma.

Le narici mi pizzicano.

Sento l’odore di bucato delle lenzuola mentre un sorriso mi invade piano il viso, superando le piccole rughe d’espressione che da qualche tempo sono comparse.

Apro un occhio, sono ancora assonnata, e nella penombra della mia camera allungo la mano.

Trovo le grinze umide di una federa fuori posto.

Porto le dita alla gola e premo forte.

Il cuore traballa, come sempre, ma il suo ritmo è calato, adesso, e non ho più la sensazione che qualcosa mi scoppi nel petto.

Sono sola nel letto, il cuscino è finito dall’altra parte e le lenzuola sono tutte ammonticchiate in mezzo, come due buste accartocciate. Sento l’umido con i polpastrelli, sono chiazze di lotta, tatuaggi di qualcosa che viene, passa, non si ferma. Non credo di essermi addormentata, ho soltanto chiuso gli occhi pochi minuti. Ho la sensazione di aver sognato, però. Non ricordo cosa, deve esser stata roba di pochi minuti, ma sono certa di aver sognato qualcosa.

Mi sforzo per ricordare, ma non c’è niente da fare, ed è meglio così, perché sono mesi che non sogno niente di buono.

Vedo la luce che filtra da sotto la porta.

Lui è in bagno, sento la sua voce stonata canticchiare una canzone che ho ascoltato qualche volta per radio. Riesco ad attraversare il legno bianco della porta con gli occhi, a vedere il suo profilo, il rasoio che batte sul lavandino, i peli neri che scorrono sull’acqua, che cadono nello scarico, che si fermano sullo smalto bianco insieme al sapone.

Quando Daniele esce, lascia le impronte dei piedi bagnati sul parquet.

Anni fa l’avrei sbranato, ma oggi non mi importa niente.

Si è fatto la doccia e profuma di deodorante al muschio bianco, l’odore che fanno tutti, tutti quelli che non hanno personalità.

Quando viene da me si porta sempre la sua borsa da palestra.

Deve essere quella la scusa, e allo stesso tempo torna a casa con i suoi profumi sulla pelle.

Un piano perfetto: pulito, rasato e profumato.

Io resto nel letto, fingo di dormire e mi metto ad ascoltare. Lui si avvicina alla cassettiera e si sistema i capelli bagnati all’indietro guardandosi nello specchio.

Si piace da morire, questo è sicuro.

È una cosa che mi ha sempre irritato di lui, questa sua insensata attrazione verso il proprio aspetto.

Continua a mimare con la bocca una canzone. Non canta ma accompagna le passate della spazzola con un suono gutturale appena accennato.

«Te ne vai?»

Ha un sussulto, pensava che dormissi. Mi guarda di nascosto, bloccandosi con la mano sul ciuffo scuro, indurito dal gel.

«Ho un appuntamento di lavoro.»

«Non sapevo avessi un lavoro.»

«Appunto, ancora non ce l’ho. È un’offerta che mi hanno fatto.»

«Di cosa si tratta?»

Riprende a pettinarsi, sposta lo sguardo dal mio seno alla sua riga dei capelli, e si fa serio.

«Non mi va di parlarne, è ancora presto. Forse vado a Parigi.»

«Inviato?»

«Dalla Francia, per un canale satellitare.»

«Complimenti.»

Da quando ci siamo separati ha cominciato a viaggiare per il mondo.

Quando stava con me andava a lavorare in autobus e       non faceva mai niente di interessante. Era redattore di nera al Carlino e non si sarebbe mai mosso per nulla al mondo, nemmeno per un lavoro da reporter per «La Stampa» di Torino che gli avevano proposto.

Forse se avesse accettato ora staremmo ancora insieme.

«È presto per i complimenti.»

Mi stiracchio all’indietro, puntando le dita delle mani contro il muro e stendendo i piedi come una ballerina di danza classica.

Ho fame e vorrei far qualcosa.

«Ti è piaciuto?»

Lui sorride, si sente soddisfatto.

«Che domanda...»

«Sì o no?»

«Mi piace sempre, lo sai.»

«Davvero?»

«Certo, perché me lo chiedi?»

Mi rigiro tra le lenzuola ancora umide e mi metto su un fianco.

«Così.»

«Così cosa?»

«Niente, mi è sembrato che tu abbia finito in fretta stavolta.»

Daniele pesca da un astuccio e si passa il deodorante sotto le ascelle.

«Forse perché mi eccitavi più del solito.»

«Perché?»

«Boh, non lo so, forse erano solo pensieri.»

«Pensavi a un’altra?»

«Ma no, pensieri e basta.»

«Ah, ho capito.»

Apre il cassetto e prende il dopobarba che non ha mai portato via e che deve essere lo stesso che usa ancora.

«A te è piaciuto?»

Si picchietta le gote increspate di barba appena accennata. «Sì, ma se duravi ancora un po’ mi sarebbe piaciuto di più.»

«Non avevi pensieri strani tu?»

«Niente di che, i soliti.»

Lui si ferma, il sorriso scema, le dita smettono di saltare sulla pelle e iniziano a spalmare il profumo, mentre i suoi occhi mi scrutano per cercar di capire se sono seria.

«Cercherò di impegnarmi di più la prossima volta.»

«Farò lo stesso anche io.»

Sono seria.

Scosta lo sguardo, torna sulla sua faccia, si scruta i capelli, osserva se ne ha qualcuno bianco che l’ultima volta non c’era.

Non ha apprezzato la mia osservazione.

È proprio un uomo e non mi stupirei se ora andasse in bagno a misurarselo con il righello.

«Quando ci rivediamo?»

Abbassa le braccia, sospira facendo rumore con il naso chiuso.

«Non lo so, Elisabetta, dipende da questo appuntamento.»

«Addirittura?»

L’accarezzo sulla coscia con la punta del piede destro.

Lui non dice nulla e mi riserva soltanto una veloce occhiata dallo specchio.

«Passerà una settimana, due mesi, tre anni? Quanto?»

Ancora tace. Ed è meglio così, in fondo. D’altro canto sono io che prima l’ho sposato e poi l’ho lasciato, io che lo trovavo insignificante, io che non sopportavo più di essere sfiorata da lui mentre eravamo sposati. Adesso, invece, non so perché, è il mio unico appiglio a una sessualità che non riesco più a vivere in altro modo. Non è che sia l’amante migliore del mondo, ma mi rendo conto che ormai ce la faccio solo con lui, forse perché mi conosce bene e sa cosa voglio e cosa non mi piace. A pensarci bene non è così, anche Mirko, il mio primo marito, mi conosce da quel punto di vista, anzi, forse meglio di Daniele, ma con lui, ora, non prenderei nemmeno un caffè. Quello che so è che adesso Daniele lo vedrei tutti i giorni. Soltanto per scopare, s’intende. Nient’altro. Certo, gli voglio bene, ma il bene non basta per pensare di ritornarci insieme. Solo adesso riesco a lasciarmi andare davvero con lui, ora che non ho più legami, ora che non ho più obblighi e non ci sono patti o promesse dietro l’angolo, pronti a rovinare tutto.

Ora che non devo più amarlo […]”

 

Ci fermiamo qui (alla pag. 103 del brano) e sicuramente i lettori incuriositi vorranno andare avanti nel seguire la vicenda della protagonista Elisabetta.

 

Devo ammettere che generalmente preferisco come lettore i romanzi (o i saggi), ma la raccolta di racconti di Luca Martini (che mi giunge in concomitanza con quella di un altro amico autore) procede agevole nella lettura, con uno stile che indubbiamente coinvolge il lettore.

 

Tra i vari aspetti che possono essere evidenziati in merito al libro L’amore non c’entra, voglio sottolinearne due.

 

1)  Il primo, come mio solito, è un profilo, che definirei, per così dire, “strutturale”, un sentiero di lettura e interpretativo che non a caso prende l’avvio proprio dal titolo del libro (e pertanto ha attinenza anche – come vedremo a breve – con il racconto appena letto).

 

I. Ritengo infatti molto significativo il titolo di questa raccolta di racconti, titolo che si presenta con quella negazione “di principio”, L’amore non c’entra, che in realtà viene poi ad essere, per così dire, smentita, proprio dal contenuto, dalle vicende e dalle emozioni dei racconti e dei loro protagonisti, e, in modo esplicito – mi permetto di anticiparlo, anche perché potrebbe sfuggire - , nelle ultime righe (quello che viene definito l’excipit) del “saluto” di chiusura, con i ringraziamenti e annotazioni dell’autore, alla pag. 230 del libro, avente quale titolo Ecco.

 

Vi leggiamo infatti:

 

“un’ultima cosa, ma forse l’avrete capito da soli.

 L’amore c’entra eccome.

 Sempre.”

 

Peraltro, ben si potrebbe sottintendere, nel titolo, un punto interrogativo, che diverrebbe così L’amore non c’entra?

E questo piccolo stratagemma ci potrebbe consentire di entrare ancor più rapidamente in sintonia e in profondità con la parte più intima del testo.

 

II. Altro elemento rilevante da sottolineare e strettamente collegato al titolo della raccolta di racconti è - a mio avviso - la citazione – o come si dice tecnicamente l’esergo – posto all’inizio del libro (a pag. 3), prima della dedica al figlio di Luca Martini, Giacomo.

Sono dei versi tratti da una poesia di Raymond Carver: Le pietre azzurre.

Mi sembra un elemento importante la circostanza di aver premesso da parte di Martini un componimento poetico al suo libro di racconti, considerato che anche Luca Martini è poeta, scrittore di poesia.

Come accennavo in premessa, Luca ha infatti pubblicato negli anni alcune raccolte di poesie (dovrebbero essere tre se non erro), l'ultima nel 2006, dal titolo Partitura compiuta per pensieri distratti (pubblicato dalla casa editrice Giraldi).

 

Una piccola parentesi.

 

Ritengo siano sempre importanti come elementi e strumenti interpretativi che noi come lettori – e non solo i critici letterari professionisti – se vogliamo, possiamo utilizzare: il titolo ed eventuali citazioni iniziali, le ricorrenze interne, e la parte iniziale della prima pagina del libro (detto incipit), vale a dire il primo, i primi periodi, dello stesso, cui fanno da pendant le ultime battute alla fine del libro (il c.d. excipit).

Tutti questi che ho evidenziato possono sembrare elementi estrinsechi, esterni al libro, o ad effetto, per strizzare (come si dice) l’occhio al lettore, accattivarselo; ma invece (come del resto la struttura del libro e lo stile dello scrittore e questo per ogni libro) sono (di norma) determinanti ai fini della comprensione e della sintonia con l’opera da parte del lettore. Il lettore, infatti, accingendosi a leggere il libro sta compiendo non solo una lettura, ma una “riscrittura” del libro stesso, in un percorso continuo e senza fine, di osmosi e compenetrazione (cammino che probabilmente lo troverà diverso da quando ha intrapreso quella lettura, pur in minima parte): un percorso sconosciuto allo stesso autore del libro una volta dato il libro alle stampe, perché calato nella vita, nelle vicende, nella sensibilità e nei sentimenti di chi ne sta affrontando la lettura.

Un sentiero che l’autore potrà conoscere se decida di avere un colloquio e ascoltare i suoi lettori, cosa che può succedere del resto talvolta anche in occasione delle presentazioni del suo libro.

 

Altro elemento che può essere utile (quando non sia solo di ammiccamento al lettore) per entrare in empatia col testo e con l’autore è spesso la copertina del libro.

 

Nel caso del testo di Luca Martini spicca la significativa e bella copertina tratta da un’opera di Armin Vasiliauskas: Facing your face, tradotto in italiano: ‘di fronte al tuo volto’, ove però c’è in inglese il gioco dei termini “Facing” – “face”, difficilmente riproducibile in italiano.

 

Ma ritorniamo al 2° elemento accennato, in linea con il titolo della raccolta, che ritengo utile evidenziare.

 

Leggiamo allora i versi della poesia Le pietre azzurre (che Carver ha dedicato alla moglie) riportati da Martini:

 

«Quella sera cammini sulla spiaggia,

 con il tuo amico chiacchierone, Ed Gonocourt.

 Gli dici che in questi giorni

 quando scrivi scene d'amore puoi venire

 senza muoverti dallo scrittoio.

 «L'amore non c'entra niente» dici.

 Ti godi un sigaro e una bella visione di Jersey.

 La marea si ritira dalla ghiaia,

 e niente al mondo può fermarla».

 

Vediamo per l’appunto come nei versi della poesia compaia la frase “L’amore non c’entra”.

 

In realtà, se prendiamo l’intera poesia di Carver da cui sono tratti i versi appena ricordati posti ad esergo del libro, possiamo notare che tale frase ricorre anche nei versi precedenti altre due volte: quindi in tutto tre volte nel componimento.

 

Mi permetto di riportarli:

 

“Stai scrivendo una scena d'amore
tra Emma Bovary e Rodolphe Boulanger,
ma l'amore non c'entra per niente.

 

[…]

 

L'amore non c'entra per niente.
Scrivi e riscrivi quella scena […]”.

 

III.  Sempre sul sentiero intrapreso su questo profilo che stiamo analizzando, si può notare un piccolo inciso che troviamo nel primo racconto della raccolta Ada love Eva.

C’è infatti nel brano un riferimento a qualcos’altro che non c’entra.

 

La protagonista, nel vedere due innamorati su di una panchina,

 

“Desidera essere entrambi quei ragazzi.

Il sesso non c’entra, contano solo le labbra, nient’altro.

Il ricordo si trasfigura e pare illuminare a giorno la notte che si fa piccola, come le mani gelate.

Ma allora non è stato soltanto sesso.

E lo scopri ora?

No, tu lo sapevi benissimo, ma speravi che non fosse così. Farlo non è mai stato fondamentale per te, Ada. Almeno fino a quando non l’hai conosciuta. E poi? E poi cadi in un buco che diventa sempre più grande e il tuo cervello sempre più piccolo, fin quasi a sparire. E quando capisci dove stai andando è troppo tardi, lei non ti vuole più, perché per lei è diverso.

Per lei è soltanto sesso.

Ada non crede nemmeno a questo ma qualcosa dovrà pur raccontarsi.”

 

(Ada love Eva, pag. 15).

 

Avremo modo di ritornare, se ve ne sarà tempo, su questo coinvolgente e drammatico racconto.

 

IV. Ma veniamo ad un ulteriore più immediato aspetto con riferimento alla frase contenuta nel titolo.

 

Abbiamo letto all’inizio il racconto dal titolo emblematico: L’amore non c’entra.

 

Ma, oltre al titolo e proprio in connessione con esso, c’è un profilo significativo da evidenziare.

 

Nel racconto infatti, come possiamo riscontrare tornando con la mente, con più attenzione, sul quel brano appena letto, ricorre più volte proprio la frase L’amore non c’entra”.

 

A partire dall’espressione similare, pronunciata dalla protagonista del racconto, Elisabetta, a pag. 105:

 

“il cuore […] Quello non c’entra e non deve entrarci mai.”

 

e più avanti leggiamo a pag. 110:

 

“Ma l’amore, spesso, non c’è o non basta.

 

Se penso a me, posso dire tranquillamente che l’amore non c’entra.”

 

E ancora, due pagine dopo (pag. 112):

 

“Lo so, l’amore non c’entra.

Ma a volte vorrei che non fosse così.”.

 

Si diceva in precedenza dell’importanza del titolo del libro (oltre ad eventuali citazioni iniziali: ad es. nel romanzo La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo ogni capitolo ha un esergo), come delle ricorrenze interne.

 

Peraltro e similmente, ugualmente significativi rispetto al titolo dell’opera sono anche i titoli dei capitoli del libro stesso e, come nel nostro caso in L’amore non c’entra, i titoli dei racconti sono utile elemento di interpretazione.

 

Possiamo scorrerli rapidamente:

 

Ada love Eva (p. 7); Formiche (p. 17); Antinomie (p. 34); Ombre giapponesi (p. 46); Cento sacchi (p. 58); Ululati (p. 66);  diciottoanni (p. 79); L’amore non c’entra (p. 96); Nemici (p. 111); I cristi in testa (p. 133); Il cuscino (p. 142); Pappa (p. 159); opocaJ (p. 170); Un pallone forato (p. 182); Senza guardare (p. 185);  Veronica (p. 197); Guardie e ladri (p. 206); Le mani sul volante (p. 211).

 

Basta soffermarsi su alcuni elementi, come ad es. il fatto che diciotto anni è scritto tutto in una parola sola; oppure abbiamo il titolo Ombre giapponesi anziché "Ombre cinesi"; o ancora il titolo con il verbo all’inglese Ada love Eva; per non parlare dell’emblematico opocaJ, di cui non svelo la soluzione per lasciarla ai lettori.

 

2) Ma in premessa ho fatto riferimento a due aspetti, tra i vari riscontrabili, attinenti a questo libro, cui perveniamo sempre prendendo le mosse dalla metodica appena illustrata.

 

Dei 18 racconti, di varia lunghezza, si può osservare come tutti tranne quattro, se non erro, recano il nome del o dei protagonisti e sarebbe interessante saperne dall’autore il motivo, come un primo spunto di discussione con Luca Martini, cui potranno seguire altre domande dei partecipanti all’incontro e cui potrò aggiungere eventualmente – qualora rimanga del tempo – qualche altra domanda.

 

I racconti di cui il protagonista non ha nome mi sembra siano Cento sacchi, Ululati, Un pallone forato, Guardie e ladri.

 

Ed ecco sono giunto più propriamente all’aspetto, per così dire, “contenutistico” cui voglio far cenno.

 

Come si legge anche sul sito delle edizioni lagru, casa editrice che ha pubblicato il libro di Luca Martini di cui oggi discorriamo, lungo i sentieri che si snodano e possiamo intraprendere in ognuno dei racconti della raccolta incontriamo uomini e donne di ogni età, ma anche ragazzi o bambini (come in Ombre giapponesi, diciottoanni, I cristi in testa, ove c’è uno scontro tra generazioni, in un certo senso, e come in Antinomie, in cui lo scontro generazionale è tra padre e figlio in particolare) o flashback in cui il protagonista rivede scene della sua giovinezza (come in Cento sacchi e Le mani sul volante). In un racconto è protagonista addirittura un infante (Pappa).

 

E questo dare un nome ai personaggi, talora in cerca di una svolta per cambiare la propria esistenza, talora intrappolati, nelle loro difficoltà, nelle loro vite che non riconoscono, in situazioni che sembrano senza via d’uscita, questo descrivere i luoghi, talvolta utilizzando anche precisi riferimenti topografici, fa sì che noi sentiamo che quello potrebbe essere il nostro paesaggio e quei o quel personaggio potremmo essere noi, o un frammento di noi, appartenente ad una nostra vicenda passata o che stiamo vivendo o futura; o potrebbe essere un amico, un compagno o una compagna incontrati lungo il cammino della nostra vita, che ci hanno confidato (o ci confideranno) una storia proprio simile a quella che stiamo leggendo o abbiamo appena letto.

Quei drammi, quelle vicende le possiamo trovare – come si è detto – anche molto vicine a noi

 

Ad es. per quanto mi riguarda potrei far riferimento al racconto I cristi in testa , essendomi ritrovato coinvolto (per fortuna ero solo senza mia moglie e i miei figli) in una circostanza simile qui a Roma, sotto la mia abitazione, qualche tempo fa.

 

Oppure per chi scrive, come il sottoscritto, altamente significativo è il contesto, le vicende e l’epilogo, a metà strada tra i reality e il mercato, il business, editoriale, di Nemici  il cui titolo echeggia o può echeggiare – così mi sembra – per contrapposizione al noto programma condotto dalla Filippi Amici.

 

Spero in questo percorso di osservazioni di avervi suscitato curiosità e desiderio di immergersi in queste storie e nei loro personaggi, in queste vicende spesso a tinte forti, drammatiche, talora più sognanti  e nostalgiche, in questa sapiente e attenta descrizione di attimi di esistenza, indagati in profondità e dilatati in un’analisi disincantata e senza false speranze; figure e vicende nelle quali, secondo le varie modalità di cui si diceva, possiamo ritrovarci.

 

Spero anche di aver fornito, sia per coloro che desiderano acquistare il bel libro di Luca Martini, sia per quelli che ne sono già in possesso, e magari hanno già iniziato a leggerlo o ne hanno finito la lettura, delle possibili chiavi o spunti di lettura, tra le varie percorribili

 

A mio avviso - e qui concludo – ben si possono richiamare per lo stile e il contenuto dei racconti contenuti nel libro di Luca Martini L’amore non c’entra, due poesie, entrambe di Raymond Carver.

 

La prima poesia, richiamata nell’esergo del libro, quella di Raymond Carver Le pietre azzurre, o meglio gli ultimi quattro versi del componimento, non riportati dall’autore, alludono proprio alla scrittura dei racconti e della bellezza dell’opera dello scrittore quando vale:

 

« Le pietre lisce che hai raccolto e che esamini
al chiarore della luna sono state rese azzurre
dal mare. La mattina dopo, quando le tiri fuori
dalla tasca dei pantaloni, sono ancora azzurre

 

         La seconda poesia, sempre di Raymond Carver, contiene versi che ritengo possano esprimere in modo suggestivo ciò di cui in fondo sono in cerca i personaggi dei racconti di Luca Martini.

 

La poesia si intitola Ultimo frammento

 

E hai ottenuto quello che volevi

da questa vita, nonostante tutto?

Sì.

E cos'è che volevi?

Sentirmi chiamare amato,

sentirmi amato sulla terra.”.

 

Penso che i partecipanti dell’incontro gradiranno un altro excursus tra i bei racconti inclusi nella raccolta.

 

Ho scelto per chiudere questo intervento il primo, intenso, racconto del libro, prima accennato, così commovente e pieno di pathos (pagg. 9-18):

 

Ada love Eva

 

Ada si sveglia di soprassalto e si sente come in mezzo a un campo minato.

Non vede i nemici, non con gli occhi, ma li sente.

Li avverte vicini, bisbigliare frasi oscene, nascosti nel buio, coperti da un dolore denso e nauseabondo.

Tutto, intorno, le pare scoppiare.

Di colpo la scena si capovolge.

Resta la sensazione, sa di essere osservata, ma le cose non sono più le stesse.

Non è nel campo.

È lei la mina, lei che sta per esplodere.

Si volta intorno e realizza.

La tapparella chiusa lascia filtrare un filo di luce dalle fessure.

Il clima di festa le fa tremare le palpebre pesanti.

Da lontano sente qualcuno che canta Bianco Natale in maniera strozzata. Sembrano ubriachi e quelle parole urlate in modo così sguaiato le rimbalzano in testa, riportandola sulla terra, fuori da quel sogno così reale e vicino.

 Ada accende la luce, guarda fuori dalla finestra e vede l’albero del condominio di fronte tutto addobbato con luci multicolori. Poi allunga la mano, tastando a memoria sul comodino, e prende il telefono.

Osserva la cornetta, come per avere risposte.

Non parla nessuno ma dentro di lei qualcosa ancora sussurra.

Compone un numero.

Non sono in casa. Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico.

In sottofondo si avverte la voce stonata di una bambina piccola.

Ada tentenna.

Silenzio.

Segnale acustico.

Ada ascolta il tu tu ripetitivo del telefono. Poi riaggancia la cornetta, appoggiandola con il timore di chi ripone un animale di cristallo in uno zoo di vetro. E se ne resta qualche secondo a pensare a quelle cifre, ancora impresse nella sua mente dopo tanto tempo.

Per ogni numero scorrono cento ricordi, una chiave, una lama, qualcosa che la taglia e le fa male dentro, farfalle che devastano la pancia, che fanno singhiozzare, mentre tutti quelli che conosci ti sfottono e dicono che sei fuori di testa.

Ada è inquieta.

Non c’è spazio per la tristezza.

Fuori tutti si stanno divertendo.

Tutti tranne lei.

La testa le gira, è intontita dal Tavor trangugiato due ore prima, nella disperata ricerca di una calma artificiale che non è mai stata tanto lontana.

Il pensiero la ossessiona ancora.

Non è servito nemmeno un matrimonio per dimenticare, figuriamoci ora un divorzio.

Qualcosa la tormenta.

Forse il tempo, che sa passare così in fretta quando non serve, che ti ripiomba tra le ossa come un fulmine umido quando ormai ci credi.

Tempo galantuomo, tempo bastardo.

Si sente soffocare. I muri sembrano avanzare verso di lei, opprimendola, come una camicia di forza di calce e cemento, e d’improvviso la casa diventa troppo piccola.

Qualcosa la schiaccia.

Ha bisogno d’aria, un senso di nausea la pervade.

Le mani cominciano a formicolare, il cuore accelera e diventa torrido.

Si infila in fretta i pantaloni, la maglietta e il maglione ruvido di lana cotta. Poi si mette gli stivali, che ha lasciato aperti sul tappeto, come sfioriti.

Due margherite appassite.

Esce, cercando in strada quello che non ha trovato in camera, che assomiglia a un sogno abbandonato in fretta, perché fa troppo male o sai che non si realizzerà mai.

Fa freddo, le gocce ghiacciate che piovono dal cielo cadono diritte sul suo viso e si vanno a conficcare tra il collo e la nuca, nell’unico pertugio lasciato libero dalla sciarpa di ciniglia.

Ada trema, le sembra di avere addosso il freddo più freddo di sempre.

Guarda la gente che incrocia, ma ha la sensazione che loro non la pensino così.

Nell’aria c’è una vaga tristezza d’inverno e un sospetto di noia che il Natale, forse, porta sempre con sé al suo arrivo.

Attorno scorrono bande di ragazzi allegri, mentre dalle case arrivano suoni di stoviglie e profumi di dolci appena sfornati.

«È già Natale.»

Lo sussurra tra i denti, parlando a chi non c’è, e stringe i pugni per la rabbia.

Gli alberi addobbati e i sorrisi uditi in lontananza le ricordano la gioia di una festa che vorrebbe soltanto sotterrare insieme a lei.

Una macchina di ragazzi con la radio altissima sgomma dalla strada laterale e si avvicina, inchiodando a pochi centimetri dalle sue caviglie.

Ada ha un sussulto e indietreggia di scatto, gli occhi spalancati, il pallore che risalta nel buio della sera.

Il cuore le schizza direttamente in gola.

«Ehi bella, dove vai tutta sola?» dice il passeggero, ubriaco.

«Dai, vieni a divertirti con noi…» dice quello di dietro aprendo lo sportello e rischiando di cadere.

«Andatevene via» risponde Ada senza riguardo.

«Ehi, ma che ti prende? Dai, stronza, sali in macchina, su, è Natale, facci un bel regalino.»

Quello dietro mette fuori una gamba e si tocca a due mani tra le cosce, sporgendosi con un sorriso nauseante.

«Vattene a fare in culo, bastardo.»

Ada urla, usa un linguaggio duro, quasi isterico, ma è l’unico che le viene in mente adesso.

«Ma che ti prende? Stiamo solo scherzando. È festa per tutti, su.»

Quello che guida si intromette, usa un tono diverso, come se volesse scusarsi o avesse capito che c’è qualcosa che non va.

«Lasciala perdere, Andrea. Andiamo via. Questa qui è fuori di testa, non hai visto che faccia da cazzo che ha?» dice quello che sta davanti, vicino all’autista.

«Hai ragione. Buon Natale, stronza, e fatti curare.»

E il tono buono si perde subito, confuso nel rumore di gomme che sfregano sull’asfalto bagnato e risate che muoiono lontano, in un effetto doppler che si propaga fin dentro le costole di Ada, ancora ferma nella stessa posizione.

Quando non li vede più Ada si gira e continua a camminare per le vie della città, verso una meta senza contorni.

Respira forte, per allentare le pulsazioni, cercando di ritrovare una calma che non aveva nemmeno quando è uscita di casa.

La testa inizia a pulsare e i piedi si mettono ad andare da soli, sempre più in fretta, cercando a fatica di raggiungere una panchina nascosta tra gli alberi di un giardino condominiale. Sopra di lei un enorme abete addobbato con festoni dozzinali, e sul tronco una scritta incisa con il coltellino svizzero, quello rosso di papà: Ada love Eva.

Non le serve la luce. Ada la trova a tastoni, la sente seguendo le lettere con le dita, ricordando ogni millimetro di quella scritta solcata tanti anni addietro, prima sul cuore e poi sul legno.

 Si siede e si accuccia sulla panchina, tenendosi il capo con le mani, e osserva le finestre accese del palazzo di fronte. Appese al davanzale ci sono due paia di calze color carne, proprio come quelle che usava Eva.

Ada rivede le sue cosce, così sinuose e tornite, profumate di vaniglia.

La sua prima volta.

Un mistero nascosto tra le gambe, una dominazione senza padroni, un brivido percorso a piedi, tra la pelle screpolata e la saliva dolce, come nettare guadagnato.

E poi gli incontri, il batticuore, la normalità di un piacere divenuto abitudine, non tanto al benessere quanto alla gioia.

Forse non se la meritava quella felicità, forse non l’ha mai neanche cercata.

E allora perché me l’hai fatta provare?

Ada sorride e scuote la testa, sa che è tutto finito, che non è bastato sposare Alberto per colmare quell’assenza. E sa anche che è stato un errore farlo. Ma è fiera almeno di non avere messo al mondo bambini. Sarebbe stato ingiusto far pagare a loro le insoddisfazioni di una vita espiate attraverso scelte sbagliate.

La notte si fa sempre più buia, il freddo sempre più pungente e adesso anche le voci e le musiche sembrano soffocare.

Il Natale va morendo mentre nasce il rimorso.

Qualcuno sta di certo facendo l’amore, nel caldo rassicurante e umido del piumone imbottito. Qualche moglie starà fingendo il piacere, qualche altra non lo farà nemmeno ma alla stupida domanda del marito sei stata bene? risponderà con un sì scontato, senza nemmeno cercare di essere credibile. E lui, il marito, si convincerà, perché gli fa comodo così, perché è meglio credere in qualcosa che ritrovarsi nudo, coperto di incertezze.

Ada decide di tornare a casa, con la testa zeppa di pensieri.

Passa vicino al campo sportivo.

Alza la testa e osserva l’ultimo piano.

Le finestre sono tutte spente, la festa dev’essere già finita. O forse non è mai iniziata.

Sopra una panchina due ragazzi si annusano il viso.

Ada si ferma e li osserva.

Desidera essere entrambi quei ragazzi.

Il sesso non c’entra, contano solo le labbra, nient’altro.

Il ricordo si trasfigura e pare illuminare a giorno la notte che si fa piccola, come le mani gelate.

Ma allora non è stato soltanto sesso.

E lo scopri ora?

No, tu lo sapevi benissimo, ma speravi che non fosse così. Farlo non è mai stato fondamentale per te, Ada. Almeno fino a quando non l’hai conosciuta. E poi? E poi cadi in un buco che diventa sempre più grande e il tuo cervello sempre più piccolo, fin quasi a sparire. E quando capisci dove stai andando è troppo tardi, lei non ti vuole più, perché per lei è diverso.

Per lei è soltanto sesso.

Ada non crede nemmeno a questo ma qualcosa dovrà pur raccontarsi […]”.

 

Come nel primo racconto letto ci fermiamo qui (alla pag. 15 del brano) nella lettura del racconto Ada love Eva: sicuramente, come il precedente, i lettori andranno avanti nel seguire la vicenda della protagonista Ada.

 

Cedo la parola ora a Luca per le sue osservazioni in merito, cui potranno far seguito eventuali domande o richieste di chiarimenti o curiosità da parte dei presenti, e – se rimane del tempo – qualcun’altra da parte mia, oltre alla curiosità dei 4 – mi sembra – racconti ove i protagonisti non hanno nome e del significato di questa circostanza.

 

Domande

 

1) Per la prima domanda (dopo quella già posta) prendo le mosse dalla poesia di Raymond Carver, riportata in esergo. Carver infatti è ritenuto figura, oltreché di eccellente scrittore di racconti (tanto da assurgere a modello di tale genere) di scrittore di poesie, alcune peraltro piuttosto esplicite in alcuni riferimenti, come del resto la presente nella sua interezza.

 

 “Anche se sono stati i racconti a renderlo celebre, Raymond Carver ha sempre alternato alla prosa la poesia, con risultati di pari perfezione, al punto che l’autore si considerava prima poeta e poi narratore.”

 

(dal sito di minimumfax - Orientarsi con le stelle , tutte le poesie di Raymond Carver)

 

Come è stato osservato (da Elena Frontaloni, su “Stilos” in occasione dell’uscita nel 2013 della raccolta completa di tutta la raccolta poetica di Carver, per l’editore Miminum fax: Orientarsi con le stelle) in Carver c’è un esercizio poetico (un trentennio) “che scorre parallelo a quello in prosa fin dal 1957, ne anticipa spesso schegge e tonalità (a mo' di canovaccio, o come diversa scarnificazione dell'attimo sulla pagina […] e che diventa, negli ultimi dieci anni di vita (quelli del post-alcoolismo, del connubio con Tess Gallagher, del successo), il territorio privilegiato d'una disinvolta sperimentazione su eterogenei riferimenti letterari (da Kafka a Milosz) e stralci di quotidiano.”

 

A tal proposito, si può osservare che la poesia di Carver citata da Martini, a sua volta, reca una citazione (o esergo) all’inizio da un’altra poesia, questa volta dello scrittore francese Flaubert.

 

«Se chiamo azzurre le pietre è

perché, credetemi, azzurre è la parola giusta.»


Come è stato osservato

 “ancora da Flaubert ci viene la migliore lezione di stile - «se chiamo azzurre le pietre è perché, credetemi, azzurre è la parola giusta» - e che Carver l'ha accolta: chiamando la propria tensione a dire «felicità» e «gratitudine» nei confronti delle vite a lui vicine e della parola; nominando amore l'«amore» e paura la «paura» senza eluderne le complicazioni e le insondabilità.”

 

(Elena Frontaloni, su “Stilos”)

 

Veniamo al dunque:

 

Il tuo è un libro di racconti. Ti sei ispirato a livello stilistico, come modello, a Raymond Carver, ritenuto da gran parte della critica tra i migliori scrittori del genere e/o a quali altri scrittori di racconti italiani o stranieri?

 

2)  Quale tra i racconti della raccolta è tra i tuoi preferiti o ti riconosci di più?

 

3)  Ritornando ancora una volta alla poesia di Carver e di lì alla poesia in generale; nella tua esperienza letteraria, come in precedenza evidenziato, c’è una presenza di poesia e di prosa.

 

In una presentazione di un suo recente libro di racconti, Leonardo Bonetti, uno scrittore anch’egli poeta e ora “prosatore”, ha affermato che

«Scrivere racconti è uno sprofondamento intenso, ma breve, attraverso la parola e che l’elemento poetico è più presente [rispetto ad un romanzo], in quanto la scrittura poetica nel racconto è molto più sentita

Ti ritrovi in questa asserzione di un intreccio – quasi indissolubile – nella scrittura tra poesia e prosa o la tua è un’esperienza ancora diversa?

 

*

- Letteratura

C’è un gigolò dentro tutti noi

L’intenso e particolare romanzo, dallo stile diaristico, di Andrea D’Urso Just a Gigolò aveva già avuto l’apprezzamento della critica, giungendo nel 2013 tra gli otto finalisti della XXVI edizione del prestigioso “Premio Calvino”.

 

Il libro recava, peraltro, in tale “competizione” il diverso titolo di Nomi, cose e città

 

http://premiocalvino.it/?p=5037  

 

a motivo probabilmente di uno dei giochi d’infanzia, quello dall’omonima intitolazione, cui erano dediti il protagonista Pino e la sorella Franca:

 

“Nel letto inoltre ci nascondevamo, soprattutto quando alla sera mia madre cominciava con le scenate di gelosia, mio padre cominciava a bere ed entrambi cominciavamo a urlare […]

 

E allora ci mettevamo a giocare a nomi, cose e città. Un nome con la t, una città con la s, dall’altra parte del muro botte, insulti e grida, ma noi pensavamo al nome con la t e alla città con la s.”

 

(Cap. 2, Nizza, pag. 17).

 

Elemento questo ripreso nell’ultimo capitolo del romanzo:

 

“potremmo [con Elena] giocare a Risiko, potremmo giocare a nomi, cose e città (no, forse meglio di no)”

 

(Cap. 22, Elena, pag. 165).

 

Ulteriore ragione dell’originario titolo dovrebbe attribuirsi inoltre all’andamento “tripartito” dei capitoli, fornito dai tre elementi in questione: sette gruppi di triadi (per un totale di 21 capitoli), ad eccezione del capitolo conclusivo (il 22°, su cui torneremo più avanti), dedicato ad un nome, quello di Elena.

 

In verità la sequenza effettiva sarebbe, per la precisione, Nomi (di donna), Città (italiane e straniere) e Cose (“oggetti” estremamente significativi nei quali il protagonista fa rientrare anche l’amore, il treno e la palestra).

 

Tale aspetto della “partitura ternaria” del romanzo merita una particolare riflessione.

 

Si tratta di tre “blocchi” tematici, tre filoni, sentieri, di lettura: “Nomi”, “Cose” e “Città”, che sono, da una parte, autonomi. Addirittura si potrebbe immaginare una lettura “trasversale”, non “cronologica”, sequenziale, dei capitoli, bensì per area tematica, del libro, accorpando i capitoli aventi la medesima tipologia (penso sarebbe una bella esperienza di lettura).

 

Ma dall’altra, come si accennava, i tre elementi tematici sono perfettamente funzionali al racconto e forniscono unitarietà, dal loro insieme complessivo, al romanzo, poiché ogni area tematica è collegata con le altre per via dei riferimenti che affluiscono al lettore ai fini della costruzione delle vicende e la vita del protagonista (forza “centripeta” dei tre elementi che potrebbero essere considerati, sotto certi versi, anche “centrifughi”, avendo ognuno strade e percorsi propri). In ogni capitolo, infatti, da ciascuna tranche tematica pervengono frammenti che vanno a comporre un quadro che man mano si delinea sotto ai nostri occhi, evidenziando anche un preciso “spaccato sociale”, che pur sullo sfondo emerge ugualmente.

 

E, a tal punto, il riferimento al D’Urso poeta, cui accennavo all’inizio, diventa essenziale.

 

La scrittura del romanzo infatti scorre piacevole e arguta ed echeggia, per l’appunto, con il suo sguardo di disincanto sull’esistenza, sul mondo e le sue immagini, di fronte alla vita, insomma, quella del D’Urso poeta, similmente allo sguardo di Pino, figura principale del romanzo e narratore, accattivante e apparentemente cinica, sprezzante dell’ovvio, ma anche malinconica, senza però alcuna resa di fronte alla vita, da affrontare senza veli, senza infingimenti, senza ipocrisie.

 

L’autore infatti, accanto a vari racconti, ha pubblicato poesie in diverse riviste francesi, canadesi e statunitensi, dando alle stampe la raccolta poetica Occidente Express (Imperia, Edizioni Ennepilibri, 2007), poi ripubblicata in Francia (Le grand os, 2010). Sempre in Francia è stato pubblicato il suo testo poetico Hier est un autre jour (Collection Manos, 2010).

 

E sui contenuti, sulle immagini, sentimenti, sensazioni, che fluiscono via via innanzi ai nostri occhi nello scorre le pagine (ben calibrate nelle varie parti) del romanzo, l’esperienza poetica è da ritenersi fondamentale in Andrea D’Urso romanziere.

 

Come è stato notato, “la modernità ha reso estraneo a sé il poetico”, ma in questa “distanza estrema dalla sapienza antica”, in questo “tempo ‘impoetico’ ” in cui viviamo, l’esperienza del poeta, e più in generale dello scrittore, “può stare in ogni forma di sapere, in ogni forma di linguaggio [… in ] un affinamento della sensibilità: questo per chi, come D’Urso, vuole “guardare nel ‘deserto della vita’ senza l’ombra riposante dell’utopia e senza l’adeguazione alle ideologie del ‘secolo’. Scrutare, corrosivamente e caldamente, i modi del sapere e le forme del potere.”

 

(le annotazioni riportate si collocano all’interno dello splendido saggio di Antonio Prete su Leopardi, Il pensiero poetante, Milano, Feltrinelli, 2006, pag. 192 e pagg. 9-10).

 

In linea con l’atmosfera, con il pathos, che scorre, nel continuo flusso di pensieri del protagonista Pino di Just a Gigolò, riflessioni che attraversano luoghi, personaggi, oggetti, ben possono attagliarsi le note poetiche dello scrittore, quali:  “siamo solo un insieme di parti che non fanno un tutto, ma un’altra ennesima parte”, in un mondo ove “i computers non sbagliano mai/gli errori li hanno già fatti tutti gli uomini”, una vita nella quale “non serve un senso, ma un movente”, in questo “contrasto, o contraddizione, tra il desiderio della felicità – costitutivo dell’essere, connaturale, biologico – e l’impossibilità di essere felici.”

 

(Antonio Prete, Il pensiero poetante, cit., pag. 193; i versi in precedenza riportati sono tratti dalla menzionata raccolta poetica di Andrea D’Urso, Occidente Express, e rispettivamente nei componimenti: La camera oscura, fol. 13; I computers non sbagliano mai, fol. 135; Non serve, fol. 167).

 

Ma è pur vero che si può “sperare che due vite sbagliate/sommate assieme ne facciamo una giusta”, perché può venire “il momento giusto/per tirare su con la cannuccia l’ultimo rimasuglio di ghiaccio,/togliersi gli occhiali a specchio/e guardare lontano

(Occidente Express, Tutto sta, fol. 139 e Gli ultimi giorni della mia vita (Il momento giusto), fol. 84).

 

Accanto a quest’aspetto, forse più immediato, che mette in rapporto, in simbiosi, le due anime dello scrittore, passando dal livello “contenutistico” del romanzo, sostanziale, a quello stilistico, possiamo rilevare come la struttura triadica, la simmetria nello svolgersi del cammino, dia una scansione tutta particolare all’andamento del romanzo, un ritmo che ritorna come un refrain prezioso.

 

Paradossalmente, mentre le poesie di D’Urso sembrano, in apparenza, prive di metrica, perché il ritmo, in realtà, è dato dallo sguardo del poeta e dalle immagini, dalle sensazioni, dalla profondità dell’intimità ricreata nel verso: come sembra far trasparire Cristina Babino nella sua introduzione alla raccolta poetica dell’autore Occidente express

 

“C’è un modo di fare poesia che sta tutto nell’occhio. C’è una poesia che si fa sostanza di uno sguardo nuovo, di un punto di vista eccentrico, ricalibrato, telescopico. Che annulla le distanze, o ne instaura di nuove. Che magnifica i particolari, o li ridimensiona. C’è un modo di fare poesia che sta tutto nel modo di guardare le cose fuori. Come dal vetro di un finestrino, su un veicolo in movimento. La poesia di Andrea D’Urso - col suo verso lungo e lunghissimo che quasi va a capo per necessità, più che per scelta – è uno scorrere senza soluzione di continuità di immagini viste da dietro un finestrino.”

 

(Cristina Babino, Quel che mi ha detto il tram. Sulla poesia di Andrea D’Urso, introduzione alla raccolta di poesie Occidente Express, fol. 5),

 

il romanzo risulta, per la caratteristica “tripartita” che si diceva un libro – direi – poetico, con una precisa metrica, fornita proprio da questa tripartizione derivante dal famoso gioco. E probabilmente dal gioco, nel quale tanti di noi si sono intrattenuti da ragazzi, comincia proprio l’avventura del D’Urso romanziere, che non può essere distinto, ma riceve una preziosità tutta particolare, dal D’Urso poeta.

 

Il nuovo titolo del libro, Just a Gigolò, molto probabilmente dovuto alle "pressioni" della casa editrice (Edizioni e/o), per un nome ritenuto più accattivante per i lettori, richiama la famosa canzone, magistralmente interpretata dal grande Louis Armstrong

 

( https://www.youtube.com/watch?v=AH2_ms1Mu0s  ).

 

autore della musica Leonello Casucci nel 1929; a comporre il primo testo in italiano il paroliere Enrico Frati, poi Bruno Pallesi; la traduzione  successiva in inglese della canzone da parte di Irving Caesar: di lì il grandissimo successo del brano, cantato, oltreché da Armstrong, anche da Bing Crosby e Ted Lewis).

 

La canzone viene evocata da Natalia, una delle tante donne incontrate lungo il cammino da Pino, il protagonista del romanzo, calciatore mancato ma perfetto gigolò:

 

“All’improvviso [Natalia] mi sorride in silenzio, un sorriso prolungato e risoluto.

 

«Che c’è?».

 

«La musica … non la senti?».

 

«Sì, la sento».

 

«Be’, parla di te».

 

Non ci avevo fatto caso. Mi spiega tutto, per filo e per segno. La musica che la radio sta mandando è Just a Gigolò. La voce è quella di Louis Armstrong, ma la canzone è italiana e il testo originale racconta di un giovane ussaro che si guadagna da vivere facendo ballare le donne, perché fare il gigolò non aveva proprio lo stesso significato di oggi.

 

«In fondo anche tu fai ballare le donne, giusto?».

 

«Se intendi metaforicamente è compreso nel prezzo, mentre se intendi proprio alla lettera, devo applicarti un supplemento».

 

Pensavo di farla ridere [...]”.

 

(Cap. 16, Natalia, pag. 121).

 

Mi rimproverano sempre di avere, nella lettura dei testi, il pallino delle ricorrenze. A tal proposito, detto per inciso, il termine “gigolò” ricorre in particolare nel capitolo 16° (vale a dire verso i due terzi del libro che consta di 22 capitoli).

 

Il titolo definitivo del romanzo, probabilmente, può anche ricordare una famosa pellicola cinematografica del 1980 sul tema: American Gigolò

 

( http://www.mymovies.it/film/1980/americangigolo/trailer/  ,

 

il noto film al tempo immortalò l’attore Richard Gere, regista Paul Schrader).

 

Altre pellicole, d’altro canto, vengono evocate nel romanzo (da Risvegli, a Blade runner, a Il grande freddo) come pure, ritornando all’alveo poetico, vari riferimenti possono essere riscontrati ad un attenta lettura.

 

A partire dal prezioso esergo montaliano al romanzo:

 

Occorrono troppe vite per farne una.

 

(Eugenio Montale, L’estate, componimento della raccolta poetica del 1939 Le occasioni),

 

per passare alle Poesie esoteriche di Fernando Pessoa:

 

Dio non ha unità, come potrei averla io?

 

(Cap. 10, Virginia, pag. 68 e 70).

 

Versi “incontrati” e svelati dalle donne nelle quali si imbatte Pino (in questo caso la donna è Natalia), come quelli di un grande poeta del novecento italiano

 

Io vivere vorrei addormentato

entro il dolce rumore della vita.

 

(Cap. 16, Natalia, pag. 120)

 

“Sono andato a vedere di chi erano queste parole. Sono di un poeta che si chiama Sandro Penna. Non lo conoscevo.”

 

(Cap. 17, Tokio, pag. 124

 

viene da chiedersi rispetto alla sincerità del protagonista: ma quanta parte della critica letteraria italiana lo conosce veramente?).

 

Altri ancora i riferimenti letterari, poi “riscontrati” dal protagonista, quali Il Profumo di Patrick Süskind

 

“Una manager un giorno mi regalò pure un libro, che secondo lei mi avrebbe fatto cambiare idea [sul profumo]. Guarda caso s’intitolava Il Profumo, non mi ricordo di chi è, aveva un nome strano. Una sera ci provai, a leggerlo. Non sono riuscito a superare le prime tre pagine. Lei ci rimase male e non mi chiamò più.”

 

(Cap. 3, Il profumo, pag. 25).

 

Similmente non del tutto gradite dal protagonista sono anche le poesie di Pessoa (Poesie di Àlvaro de Campos):

 

“Il libro mi ha un po’ deluso. La maggior parte delle poesie sono troppo lunghe, quasi estenuanti, non ce la faccio a finirle. A volte non capisco dove vuole arrivare, con chi ce l’ha, cosa vuol dire. Meglio quelle corte, dove ho trovato un altro paio di frasi interessanti. E me le faccio bastare, pe chi come me nella vita non ha mai trovato nulla”

 

(Cap. 10, Virginia, pagg. 70-71).

 

E non manca sempre in tale ambito letterario un riferimento veramente illustre, che prende spunto da una festa a Ibiza organizzata da una “contessa”:

 

“Nel pomeriggio cominciano ad arrivare gli invitati e io mi calo nella mia parte, con il bicchiere in mano. Nulla che non abbia già visto, ce n’è per tutte le latitudini e tutte le tasche. Giovani, vecchi, belli, brutti, reazionari e fricchettoni.

 

C’è il pezzo grosso dell’esercito con la signora e c’è pure lo scrittore anarchico con il signore, anche se mi sarei aspettato un maggior numero di gay. Abbondano invece artisti, artistoidi e artistelli. Ci sono anche, come dire, persone apparentemente normali.

 

È una versione aggiornata della Divina Commedia. Non so precisamente in che girone ci troviamo, ma siamo certamente nel Purgatorio, nonostante non veda ancora nessuno, me compreso, puro e disposto a salire alle stelle.”

 

(Cap. 11, Ibiza, pag. 76).

 

Anche se il nostro amico Pino si affretta poi a dire:

 

“No, non è che ho letto la Divina Commedia, mi sono solo un po’ divertito a spizzicarla qua e là, soprattutto i finali dei canti.”

 

(ibidem, pag. 77. Difatti quello citato è l’ultimo verso dell’ultimo canto del Purgatorio: il verso 145° del canto trentatreesimo).

 

S’era accennato prima all’elemento relativo alla struttura “triadica” dei capitoli.

 

Altra particolarità, diciamo “strutturale”, ma, come l’altra, nel contempo sostanziale, è la circostanza osservata nell’excipit di ogni capitolo: l’ultima parola infatti è sempre il vocabolo “nulla”.

 

E al “nulla” esistenziale (così almeno ritenuto dal protagonista) rimanda un riferimento, questa volta interno e non finale, nel menzionato capitolo dedicato a Il Profumo (riguardo ai particolari “problemi” incontrati nella peculiare professione di Pino):

 

“È come spegnere un interruttore, un clic e non sento più nulla.”

 

(Cap. 3, Il profumo, pag. 24).

 

E proprio in riferimento al vuoto provato ed espresso dal protagonista nella sua vita (quel “nulla” continuamente evocato nella chiusa di ogni capitolo del romanzo) risulta del tutto condivisibile la riflessione che il linguaggio del poeta, dello scrittore è “la terra di un azzardo, di un’avventura estrema: dire l’infinito nell’impossibilità di dirlo […] Perché l’infinito, come il nulla, il linguaggio non lo può raccogliere: ed è questa infigurabilità e intransitabilità dell’infinito che la poesia assume come miraggio della sua avventura” (Antonio Prete, Il pensiero poetante, op. cit., pag. 199).

 

E al disincanto fa da pendant un sorriso, anche amaro, del protagonista e nostro, che ci accompagna sfogliando le pagine del libro e come Laurence Sterne nell’epistola dedicatoria del libro The Life and Times of Laurence Sterne  afferma che

 

“Un sorriso può aggiungere un filo alla trama brevissima della vita”, così, similmente, la “lettura di un pezzo di vera, contemporanea poesia, in versi o in prosa […] aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita.” (Leopardi, Zibaldone di pensieri, 1° febbraio 1829; per il riferimento a Sterne v. anche in Ugo Foscolo, la prefazione di Didimo Chierico in Notizia intorno a Didimo Chierico pubblicata nel 1813 insieme alla traduzione da parte dello scrittore italiano del romanzo di Sterne).

 

Un accenno (che sarebbe tutto da approfondire) alla trattazione dei personaggi che costellano la storia di Pino, il protagonista del romanzo.

 

Tra questi, le donne incontrate dànno uno specifico titolo ai capitoli (risultando riferimenti peraltro anche negli altri blocchi tematici “Cose” e “Città”), donne che si rivolgono a Pino per la sua particolare professione (tranne la psicoanalista Rebecca, in un capitolo molto importante, il 19°,  anche per gli aspetti affrontati: i sogni, il calcio, il rapporto con gli specchi delle persone della famiglia di Pino e del protagonista); mentre le figure della madre Marisa (e la sua instabilità mentale), del padre (insensibile e donnaiolo – com’è del resto caratteristica dei “maschi” di famiglia), della sorella Franca (con la sua esperienza della droga) appaiono trasversalmente nei vari capitoli, fornendo a volte con più pudore, a volte con più decisione e forza (considerata la drammaticità della situazione familiare e delle tre figure del nucleo in questione),  elementi preziosi. Come, da ogni area tematica, capitolo, vicenda narrata, donna incontrata, e immagine rappresentata prende forma l’immagine di Pino (nome che legandosi al particolare cognome è motivo di ulteriore risentimento nei confronti della figura paterna), con la sua “lettura dell’enciclopedia” e l’essere troppo presi da sé stessi. Vale la pena rileggere insieme alcuni passi significativi in tal senso (n.b. il grassetto è mio).

 

“Nel tempo mi sono fatto una mia idea: leggere l’enciclopedia farebbe bene alle persone. Avrebbe fatto bene ai miei, per esempio. Non tanto perché se avessero saputo dell’esobiologia si sarebbero messi a fare chissà che cosa, ma perché non si sarebbero messi a fare tante altre cose. Un diversivo insomma.

 

Perché siamo tutti, o quasi, troppo presi da noi stessi e avremmo bisogno di allontanarci un po’. Da noi stessi, appunto.

 

Anch’io sono troppo preso da me stesso, altrimenti non farei la vita che faccio. Ma che mi metto a che fare adesso? A lavorare in un call center o in una pizzeria? A fare il modello o un provino per la televisione? A buttarmi dentro un lavoro o progetto, quando il solo progetto qui è di mettertela nel culo, per dirla in fiammingo?

 

No, preferisco fare quello che faccio. Anche perché mi sembra che non sappia fare altro. O che non voglia fare altro. Che vi avevo detto? Sono troppo preso da me stesso. Pure io. Ma l’esobiologia potrebbe fare al caso mio. E poi m’intriga proprio questa cosa che la cultura è ciò che sai dopo che non sai nulla”

 

(Cap. 6, Orologio, pag. 43).

 

Ma lo stesso capitolo 6° dedicato all’Orologio contiene importanti elementi per la ricomposizione della figura del protagonista e appare opportuno, anche in tale caso, riportare alcuni passi del romanzo:

 

“Ricordo esattamente le sue parole [di mio padre]: «Questo orologio apparteneva a mio padre, che l’ha lasciato a me, io lo lascio a te, tu lo lascerai a tuo figlio, che lo lascerà a tuo nipote».

 

Per fortuna al nipote si è fermato. Io ho pensato subito, ancor prima che finisse di pronunciare il suo teorema, che ne stava per andare. Invece no. Purtroppo mi sbagliavo.

 

Ma si sbagliava pure lui, perché io a mio figlio non lo lascerò mai, semplicemente perché non ho mai voluto fare e non farò mai un figlio. Mica per altro, basta pensare alle ultime generazioni della famiglia Silvestre. Mio nonno andava con un sacco di donne, era un puttaniere nel vero senso del termine. Appena aveva un soldo in tasca lo spendeva per andare a puttane. Mio padre andava anche lui con un sacco di donne, ma senza pagare, non ne aveva bisogno, era stronzo ed era bello. Non gli mancava nulla. Io pure vado con un sacco di donne, perché sono bello, ma non sono stronzo e mi faccio pagare. Da mio nonno a me la situazione si è ribaltata, la dissoluzione della specie si è compiuta. Ora non so che potrebbe succedere alla prossima generazione. Non mi meraviglierei se per reazione il prossimo maschio Silvestre divenisse prete o omosessuale. Oppure tutt’e due, perché no.

 

No, non farò mai un figlio. E anche se a mia insaputa l’avessi fatto, non gli lascerò mai quel cazzo di orologio.”

 

(ibidem, pagg. 39-40).

 

Un ultimo spunto di riflessione, tra i tanti e davvero interessanti che offre il romanzo.

 

Si può osservare come il primo e l’ultimo capitolo del romanzo siano dedicati ad una donna (Nome), rappresentando, nella prima tappa del libro, intitolata Marisa, l’inizio del mestiere di gigolò del bello e atletico Pino:

 

Marisa si chiamava la prima donna con cui sono stato. Con cui sono stato a pagamento, intendo. A pagamento che sono stato pagato e non l’incontrario, intendo ancora”,

 

Ma Marisa è anche il nome della “prima donna” “incontrata” in assoluto dal protagonista, che, nonostante tutti i problemi e difficoltà descritte nel romanzo, ha dato inizio alla sua vita:

 

“Marisa è anche il nome di mia madre, anche se non c’entra nulla.”

 

(Cap. 1, Marisa, rispettivamente, pag. 11 e pag. 14);

 

Occorre a questo punto ritornare al D’Urso poeta (cui si faceva cenno in precedenza) che è strettamente, intimamente collegato al D’Urso scrittore: per comprendere appieno l’uno è importante volgere lo sguardo all’altro, in un’osmosi tra due cifre stilistiche molto vicine.

 

E proprio l’ultimo capitolo del romanzo (ritornando all’elemento sopra evidenziato), dedicato nuovamente ad una donna, Elena,  delinea, in contrapposizione rispetto ai problemi e difficoltà che vengono illustrati a partire dal primo capitolo, l’attuale situazione del protagonista (l’ultima da noi conosciuta), che lascia un interrogativo sul suo prossimo futuro, prestandosi a diverse possibili interpretazioni e forse riaprendo un senso, una nuova direzione alla sua vita:

 

Elena è il nome che avrei dato, o cercato di dare, a mia figlia, se ne avessi avuta una. Elena però è anche il nome della ragazza che serve al bancone del bar dove sono ora.

 

E anche lei è qui, ora. A volte mi sorride, a volte io sorrido a lei. Mi sembra una ragazza a posto […]

 

Ho la sensazione di piacerle e non solo fisicamente.”

 

(Cap. 22, Elena, pagg. 163-164).

 

Ma le infinite possibilità che balenano ora davanti agli occhi del protagonista Pino (ed efficacemente rappresentate dal continuo utilizzo del verbo “potere”) si concretizzeranno?

 

“E se Elena potesse essere il nome non solo di mia figlia, ma anche della madre di mia figlia? Certo, ne scaturirebbe un conflitto di interessi, una cosa per volta allora […]

 

Se tentassi un approccio ... Ma perché non lo tento? Cosa mi manca?

(ibidem, pag. 164).

 

E continua il nostro amico a ripetersi questa domanda, lungo quest’ultimo capitolo che snoda innanzi a noi un flusso di pensiero che, stavolta, va via via aumentando la sua acme e capacità di coinvolgimento, di fronte a nuovi sentieri che si mostrano percorribili:

 

“Se non avete nulla in contrario, io proseguo.

Insomma, potremmo uscire insieme […]

Cosa mi manca?

 

(ibidem).

 

“Proseguo. Potremmo cercare una casa […]

 

Cosa mi manca?

 

(ibidem, pag. 165).

 

“Proseguo. Potrei conoscere i suoi genitori […] potremmo […]  potrei […]

 

(ibidem, pagg. 165-166).

 

E lì il sentiero incerto gli si offre tangibile:

 

Potrei pure smettere di leggere l’enciclopedia, potrei essere un buon marito, potrei essere un buon padre, potrei dirle che l’amo, potrei non dirle nulla e amarla, lei, i miei figli, la mia famiglia, potrei.”,

riproponendo anche nell’excipit del capitolo e del libro, a sé stesso e tutt’intorno, il suo interrogativo, che diviene fragoroso, carico di possibilità e vita, a fronte del consueto cinismo e indifferenza

 

Cosa mi manca? […]”,

 

(ibidem, pag. 166).

 

Possiamo dunque chiederci che cosa manca in Pino? E cosa manca in tutti noi?

 

Potremo ancora giocare – o forse sarebbe meglio di no – come ritiene il protagonista del romanzo, Pino, a “Nomi, Cose e Città”?

 

Penso che tali domande, per noi lettori ormai irrimediabilmente coinvolti nelle vicende di Pino, noi che ci chiediamo se quello letto alla fine sarà davvero l’ultimo capitolo, si potrebbero girare allo scrittore Andrea D’Urso che con la sua ironia e disincanto, ma anche con la sua acutezza psicologica, ci ha affascinati lungo il percorso di questa vita, lasciandoci la tensione per un riscatto, per una vita diversa, anche per tanti di noi.

*

- Letteratura

Un metodo?

Premessa

 

Per  gustare un libro occorre avere una predisposizione particolare dell’animo, raccolta e non distratta, attenta anche se propensa a “sentire” -pur per il tramite- al di là delle parole che si sta leggendo. Capita allora di allontanarsi un attimo per poi ritornare più consapevoli e con uno sguardo più acuto per guardare ancora più in profondità. Lo stesso accade anche nella visione (successiva) di un film o nell’ascolto di una musica o di una canzone.

 

Il leggere (come lo scrivere) è un atto delicatissimo, frutto di stati d'animo, di volontà, di echi di letture (anche di cinema, teatro, televisione, se è per questo), voglia di provare e riprovare: è un fiore delicato da annaffiare continuamente, anche se il bocciolo a volte ci sembra chiuso. Molto gioca anche quel che definiamo intuito o intuizione. Ogni lettore (e scrittore, ognuno in varie misure è anche questo) lo ha. Occorre possedere in una certa misura -per così dire- la "sindrome di Asperger" (cfr. Uomini che odiano le donne di Stieg Larsson, p. 587).

 

Agevola questa modalità di lettura anche l’attitudine analitica, che porta inevitabilmente a scoprire meandri di approfondimenti e sentieri interpretativi (anche se è pur vero che alla fine dell’analisi si deve poi necessariamente, dovendo fare il punto, procedere alla riorganizzazione e, dunque, alla sintesi di tutto il materiale rinvenuto).

 

Ci si ritrova allora ad andare in profondità, aprendo nuovi spunti e aspetti da esplorare, nuove “porte” interpretative.

 

Anche quando sembra di avere inquadrato il testo, basta rileggere una pagina, una frase, ritornare indietro a quanto letto in precedenza, ed ecco che una nuova luce appare.

 

È un po’ come accade con quei disegni particolari che dànno luogo a illusioni ottiche: gli stereogrammi. Oltre l’immagine piana bidimensionale si genera infatti una visione di profondità, tridimensionale, esattamente come quando ci si incanta a guardare il vuoto.

 

È importante dunque la capacità di trovare associazioni, anche non consuete, che si attiva allo stesso modo per altri tipi di arte (come la musica o il cinema, per ritornare agli esempi già fatti). Si riesce allora a rendere chiaro ciò che a volte riusciamo solo a sentire o intuire, formulare in un modo semplice e limpido ciò che già conosciamo o sappiamo, ma non riusciamo a portare alla luce in modo così evidente. È –facendo certo gli opportuni distinguo- come l’opera dello scultore che vede nel blocco di marmo grezzo la sua creazione finita e deve solo liberarla del materiale “superfluo” che la circonda.

 

Associazione è dunque la nostra “prima parola” da riporre con cura nella “bisaccia” da portare in ogni percorso di lettura: meccanismo (e dono) frutto di uno stato dell’animo e della mente sempre all’erta.

 

 

Letteratura e cinema

 

La “misura” o “cifra” dell’approfondimento dipende certamente dalle letture fatte, dai film visti, dalle musiche ascoltate, dalle opere d’arte conosciute. Così il Cardinale Gianfranco Ravasi, noto e autorevole biblista, nelle sue esposizioni, negli articoli (v. in particolare nel domenicale de “Il Sole-24 Ore”), nelle rubriche televisive dedicate all’approfondimento biblico, nei suoi libri, utilizza di continuo, oltre ai consueti metodi ermeneutici, efficaci riferimenti a tali diverse arti.

 

D’altro canto, per fare l’esempio della pittura (o delle opere d’arte in genere, come le sculture) nel medioevo e in epoche successive gli affreschi dipinti nelle Chiese erano veri e propri libri illustrati che i fedeli (in genere analfabeti) potevano “leggere” per conoscere le Sacre Scritture, le vite dei personaggi biblici, dei santi e gli insegnamenti della Chiesa.

 

Un riferimento importante, denso di prospettive ed associazioni per la letteratura, è –a mio avviso- il cinema.

 

Ed ecco allora che si possono operare accostamenti (come in campo musicale tra musiche o canzoni di autori diversi), ad esempio, tra films visti in epoche differenti rispetto ad un libro letto di recente (Racconto d’inverno di Leonardo Bonetti), tra due film (Il giardino di mezzanotte del 1998 di Willard Carroll, con David Bradley, Greta Scacchi, Joan Plowright, James Wilby, Anthony Way – e dunque il libro di Philippa Pearce del 1958, dall’omonimo titolo, da cui il film è tratto – Tom’s midnight garden - e La casa sul lago del tempo -The lake house, anno 2006, di Alejandro Agresti, con Keanu Reeves, Sandra Bullock e Christopher Plummer); tra libri dello stesso autore (ad es., nel caso di Daniel Pennac, Signori Bambini, da un lato, e i primi tre libri dello stesso autore, tra quelli scritti per ragazzi, della quadrilogia di Kamo, dall’altro); tra due libri (L’eleganza del riccio -L’élégance du hérisson 2006; ora anche un film Il riccio - 2010 - Le hérisson di Mona Achache - 2009 con Josiane Balasko, Garance Le Guillermic, Togo Igawa, Anne Brochet, Ariane Ascaride - ed Estasi culinarie - Une gourmandise, 2000 - di Muriel Barbery, considerata la presenza di un “grandissimo critico gastronomico” e il suo ricordo di un indefinito, mitico sapore, dell’infanzia, perduto nel tempo) e due film (Ratatouille della Walt Disney e Qualcuno sta uccidendo i più grandi cuochi d'Europa di Ted Kotcheff  con il grande protagonista Robert Morley); o tra un libro (La scoperta dell’alba di Walter Veltroni del 2007), da una parte, e (quanto all’aspetto del “deus ex machina” che “scatena” il contatto tra passato e futuro) un film (Frequency di Gregory Hoblit del 2000, con Dennis Quaid e James Caveziel), dall’altra.

 

Gli intrecci possono essere peraltro molteplici e labirintici.

 

Un tema che mi ha sempre affascinato (considerato il mio amore per la fantascienza e il genere fantasy) è quello dei “viaggi nel tempo”. È allora, ad es., indubbia la somiglianza tra La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo di Audrey Niffenegger (The Time Traveler’s Wife, Harvest Books, 2004, Milano, Mondadori, 2006) ora anche film (del 2009 dall’omonimo titolo in inglese di Rober Schwentk, tradotto in italiano con il titolo Un amore all’improvviso), e il successivo libro dello scrittore francese Guillaume Musso Chi ama torna sempre indietro (Seras-tu là?, Paris, XO Éditions, 2006 –  Milano, RCS Libri - 2007 ed. BUR 2009).

 

Inoltre in riferimento al tema del “paradosso del nonno”, che “aleggia” sui due libri citati, vi è una nota espressa di Musso (nel “Prologo”) che rinvia ad un altro testo: Il viaggiatore imprudente di René Barjavel (a p. 6; il libro è del 1943, il titolo in lingua originale è Le voyageur imprudent).

 

In campo letterario, quali esempi di racconti con viaggi nel tempo oltre al classico Il canto di Natale di Charles Dickens(che ha ispirato molte opere cinematografiche e, da ultimo, A Christmas Carol  di Robert Zemeckis del 2009), a La fine dell'eternità di Asimov e al famoso episodio della saga di Henry Potter (Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban) possiamo ancora fare gli esempi di Timeline di Michael Chricton, della trilogia di Hyperversum di Cecilia Randall (Hyperversum, Il falco e il leone e Il cavaliere del tempo) e il romanzo Rabbia, di Chuck Palahniuk.

 

Peraltro in Chi ama torna sempre indietro mi sembra di aver rinvenuto un elemento, in riferimento ad una “corrispondenza” (anche se sui generis nel caso del libro di Musso) tra passato e futuro, che mi ricorda due films, visti qualche tempo fa e già citati: La casa sul lago del tempo  e Frequency.

 

Del resto in ambito cinematografico in tema di viaggi intertemporali sono svariate le pellicole cinematografiche sull’argomento. Così il film del 2006 Déjà vu - Corsa contro il tempo (Déjà Vu) del regista Tony Scott (quello di Nemico pubblico - 1998 - Spy Game – 2001 - Man on Fire - Il fuoco della vendetta – 2004 - Domino 2005), con Denzel Washington, Val Kilmer, Paula Patton, Bruce Greenwood, Adam Goldberg e Jim Caviezel), o L'esercito delle dodici scimmie (Twelve Monkeys del 1995, di Terry Gilliam, con Brad Pitt, Madeleine Stowe, Christopher Plummer, Bruce Willis, Jon Seda).

 

Ugualmente viene “in ballo” il “paradosso”, cui facevo riferimento poc’anzi, nella famosa trilogia di Robert Zemeckis di Ritorno al futuro (con Michael J. Fox e Christopher Lloyd), in una puntata del cartone animato Futurama, creato da Matt Groening, e tra gli altri –a mio avviso- nei films “cult” Il pianeta delle scimmie (Planet of the Apes, del 1968, di Franklin J. Schaffner, con il fantastico Charlton Heston, e con un successivo remake nel 2001 di Tim Burton), e L’uomo che visse nel futuro del 1960, titolo originale The time machine (di George Pal, remake nel 2002 di Simon Wells), tratto dall’omonimo classico della letteratura di fantascienza di H.G. Wells. Aggiungerei anche Kate & Leopold del 2001del regista James Mangold (con Meg Ryan e Hugh Jackman)

 

 

Un metodo

 

Ancora alcune ultime annotazioni introduttive.

 

I libri a noi cari, sono divenuti, divengono e diverranno parte di quel che oggi siamo, di quel che saremo domani –e mutandone la prospettiva e lo sguardo- di quel che eravamo ieri: ritengo infatti che ogni lettura “rilasci” in noi (nella nostra mente, nel nostro cuore), in misura più o meno ampia, anche se non ce ne accorgiamo, “memorie” (per così dire), che permangono in modo indelebile (sia pure per dire solo che il libro di quell’autore, con quell’argomento, di quel genere, non ci piaceva): è un po’ come il senso dell’odorato; in realtà funziona perché singole particelle di materia giungono al nostro naso.

 

I libri, la lettura (come il cinema, come le varie manifestazioni dell’arte), sono poi un ottimo antidoto per non essere “plagiati” dai mass media, un vaccino di buone letture che ci rende immuni da “virus” e “batteri” mediatici. Ciò in modo da non essere limitati solo all’immagine, all’apparenza, alla parola-spot, all’ipse dixit.

 

Ci difendiamo così, rafforzando il nostro “priming” da ogni artificio connesso con la PNL (Programmazione Neuro Linguistica) che viene utilizzata non solo nella pubblicità, ma anche nei vari tipi di comunicazione sui mass media.

 

Veniamo ora al cuore del discorso.

 

Il “metodo”, per così dire, di cui cerco di tratteggiare i contorni, senza certo pretendere di delineare un vero e proprio sistema scientifico di lettura dei testi, consiste in un’attività istintiva, non “premeditata”. Non bisogna abbandonare il piacere della lettura, facendosi prendere dal desiderio di analizzare il testo. Si parte dall’ “interno” del testo, non dall’esterno.

 

Quando trovo una frase (o più frasi) che mi colpiscono, che colgono il cuore, a mio avviso, di quel discorso che si va svolgendo, di quel capitolo (talora di tutto il libro), lascio una piccola traccia nella pagina (un segnalibro, un pezzetto di carta, un pezzetto di giornale…).

 

In una fase successiva – generalmente alla fine della lettura del libro, ma non sempre - trascrivo a mano o su di un file il testo o talvolta, per comodità, utilizzo una fotocopia della pagina (o delle pagine), in modo poi da poter usare la matita, la matita bicolore, la penna, l’evidenziatore giallo, sottolineando quel passo o quei passi, e talora poter “appuntare” un concetto o un pensiero (altrimenti in genere scritto su mille foglietti volanti poi raggruppati in seguito).

 

Tale “usanza” risale al periodo del ginnasio (erano gli anni ’70), quando riempivo dei quadernetti con i fogli a spirale di citazioni, commenti, recensioni, ritagli di articoli, titoli di libri, di riviste, di film, di poesie, o riportavo brani, o versi o intere poesie di autori che mi avevano colpito: il tutto a mo’ di Zibaldone (un po’ come il grande poeta). E quei quadernetti sono ancora con me, a parlarmi di quelle letture, di quell’autore, pieni di messaggi che dal passato ancora mi svelano se ho voglia di ascoltare, messaggi lasciati (inconsapevolmente) anche per il futuro, per quello che sarei diventato.

 

La mia professoressa di italiano delle medie (e lo stesso cantautore Fabrizio De Andrè) usava invece “postillare” il libro al margine (come i “glossatori” medioevali).

 

Le frasi una volta trascritte – o evidenziate in pagine fotocopiate-  vanno come a comporre un disegno, che può anche diventare un complesso mosaico, se si vuole sviluppare un’analisi di tutto il libro. Infatti una volta data “forma” a ciò che ci ha colpito, le frasi parlano –per così dire- da sole e rimandano spesso ad altre frasi: cominciano infatti a svelare un discorso più profondo e intimo, proprio dell’autore e del testo che ha voluto creare.

 

L’analisi arriva, se del caso, se lo merita lo scrittore (il regista e lo sceneggiatore nel caso di un film) in seconda lettura (con una nuova proiezione), finita la prima, ormai capito lo sviluppo della storia narrata nel libro (la trama del film). Un atteggiamento leggermente distaccato e distante dal libro consente allora di vedere meglio “l’ordito” nascosto, la “tridimensionalità”, che sfuggiva nello spazio piano sul quale si è costretti dalla prima lettura del libro (o dalla prima visione del film)

 

Si attua allora una scomposizione e una frammentazione del testo e poi una sua ricomposizione, con associazioni delle frasi e delle loro singole componenti (soggetti, predicati, complementi, sostantivi, aggetti, verbi, parti variabili del discorso) nelle varie parti del libro, arricchite anche con elementi extratestuali, come accennavo in precedenza.

 

È un’operazione che si svolge a “tratti”, generalmente in momenti diversi della giornata e in giorni diversi, ma anche talora –avendo tempo e ispirazione- di continuo, nel luogo anche fisico dove si accendono luci inattese; spesso facendo tutt’altro (in metropolitana, sull’autobus, camminando, vedendo un film). È come un meccanismo automatico sempre acceso, che funziona grazie ad associazioni. E “associazione” è la parola chiave.

 

La mente lasciata libera continua in sottofondo a lavorare sul testo (sul film), quasi inconsciamente e all’improvviso scopre nuovi legami, intrecci, connessioni.

È come quando ci si addormenta pensando ad un problema geometrico e matematico e durante il sogno si scopre la soluzione. Come mi è veramente successo (in questo caso me ne sono accorto, probabilmente altre volte la soluzione è stata inconsapevole) durante il periodo in cui frequentavo la scuola media per un problema geometrico (mi sembra che riguardasse il teorema di Pitagora), sul quale c’eravamo arrovellati con un mio compagno di classe: inutilmente. E invece nel sonno, come d’incanto, la soluzione era lì, semplice e chiara, a portata di mano: bastava solo ricordarla al risveglio, com’è in effetti avvenuto. Altre volte non mi è riuscito (che si trattasse di un problema, di un testo di letteratura, di una poesia…).

 

È simile ad uno stato di trance – come dicevo in precedenza - proprio come avviene guardando nel vuoto, o scrutando uno stereogramma, e vedendo tutt’altro da quel che è immediatamente visibile nel testo (o nella proiezione di un film).

 

Capita allora di collegare la prima pagina all’ultima, di saltare da un capitolo all’altro, di trovare associazioni continue, che si intrecciano le une con le altre, svelando la paziente tessitura, la ragnatela, abilmente ricamata dall’autore.

 

Quando ciò avviene si assapora l’intima essenza del libro e si acquisisce uno “stato” di percezione diverso (ricorda un po’ il libro di genere fantastico Flatlandia, scritto da Edwin Abbott Abbott). E come l’abitante di un ipotetico universo bidimensionale, che entra in contatto con un altro essere facente parte di una realtà tridimensionale, scopriamo un mondo a più dimensioni.

 

Avevo prima fatto riferimento al primo elemento (da riporre nella nostra –ipotetica- bisaccia lungo il nostro –lungo o breve che sia- cammino per le pagine del nostro libro) che ritengo essenziale: quello dell’associazione.

 

Da quanto detto mi sentirei di introdurre un ulteriore elemento importante. La parola associazione va infatti messa in correlazione con un’altra: risonanza.

 

Con uno sguardo “prospettico” si può infatti, grazie al “risuonare” delle parole in noi già “associate”, “vedere” nell’insieme –dopo il preliminare (e quasi inconsapevole lavoro di selezione di frasi e parole) ciò che è celato (spesso si tratta di “parole chiave”), “tracce” di cui è disseminato il testo (talora neanche volontariamente da parte dell’autore, perché il testo con la “creazione” acquista vita propria e autonoma).

 

Ogni “traccia”, oltreché da sé stessa, dalla sua “sostanza linguistica”, prende luce allora da un’altra, da una frase, da una pagina, in un percorso in avanti e a ritroso nel testo e “apre” sicuramente ad una comprensione “superiore”, che consente di accedere a “strati” più profondi e intimi del libro, fino al suo “cuore”: in un cammino a spirale che, una volta avviato, sembra non avere fine, in questo “risuonare” continuo nella mente, questo “ruminare” “rabbinico”, per così dire, della parola, e di tutte le sue componenti.

 

Si passa talora ad un’intuizione, passo a volte successivo –che indica il passaggio dall’analisi alla sintesi, che può condurre anche ad un seguente approfondimento del testo, in avanti e indietro, sulla scia di questa “illuminazione”.

 

Accanto a questa “tipologia” di sintesi frutto di “intuizione” (a volte insieme a volte al posto di questa) si pone un’altra specie di sintesi, cui avevo fatto accenno all’inizio: si tratta del momento in cui si vuole fare “il punto” della “situazione” e si verifica il passaggio dall’analisi, precedentemente svolta, alla necessaria (con la sua riorganizzazione) sintesi di tutto il materiale fino ad allora elaborato.

 

Anche in tal caso, mediante tale operazione - più razionale che intuitiva – si può avere qualche “illuminazione” e scoprire aspetti prima non “percepiti”.

 

Allora viene spontaneo ritornare sui nostri passi, ad una rilettura del testo, se non altro per verificare di aver avuto l’impressione giusta, scoprendo talvolta altri “sentieri” di comprensione del testo. Si può pervenire dunque, anche per tale altro percorso, ad una “sintesi” stavolta “intuitiva” che può dar corso ad una nuova analisi, e così via.

 

Si tratta di un circuito “virtuoso” che da una prima lettura con le nostre “tracce (fogliettini vari) e appunti (a margine, su foglietti, sottolineature…) di viaggio” ci conduce, attraverso l’analisi, l’associazione, la risonanza, la sintesi “intuitiva” e/o la sintesi “razionale”, per poi riprendere, eventualmente, il percorso dell’analisi, letteralmente ad uno “scavo” del testo indubbiamente ogni volta più profondo e interiore.

 

E il percorso allora diviene più chiaro, intelligibile, e spesso da “incerto” appare ora (se abbiamo avuto cura di riporre quegli elementi nella nostra “sporta” di viaggio intrapreso nell’universo della parola) più “luminoso”: una o più scoperte, un disvelamento, che non possono non arricchirci intimamente nel nostro essere, inevitabilmente cambiandoci nell’ora e adesso ma anche nel passato, o meglio nella comprensione più profonda di esso, e nel nostro futuro.

 

Certo senza accostarmi e fare un paragone con l’irraggiungibile esempio, con un’esperienza tanto profonda e sublime, tuttavia mi sembra che potrebbe farsi un accostamento al metodo della “lectio divina” utilizzato dai Padri della Chiesa per la lettura della Bibbia. Per noi moderni tale particolare lettura è agevolata dai rimandi ai passi biblici del Nuovo e del Vecchio Testamento contenuti a margine nell’immancabile e irrinunciabile “Bibbia di Gerusalemme”, sia nella versione completa che in quella “pocket” da viaggio, che mi segue da anni (dal 1982).

 

In verità, tale approccio, l’ho in effetti sperimentato, qualche tempo fa, per cui è sempre immanente, e basta poco perché vi sia un’osmosi tra “sacro” e “profano”. Rinvio per un sintetico sguardo a tale metodo di lettura esperienziale all’appendice Come fare la lectio divina in famiglia (pp. 67-88: vedi pure rimandi bibliografici nell’altra sezione dell’appendice Per approfondire la conoscenza della Bibbia in famiglia, pp. 89-92) da me curata nel libro di Claudio e Laura Gentili Per star bene in famiglia (Ed. Fiordaliso, 1998).

 

Ad ogni modo, la lettura rimane sempre un’esperienza personale e autonoma e non può (tranne il caso certo che sia effettuata a motivo del proprio lavoro) prescindere dalla libertà.

 

In conclusione, non può che tornare pienamente valido allora il decalogo del nostro amico Daniel Pennac (Come un romanzo, Milano, Feltrinelli, 1993, ed. orig. 1992, Comme un roman, Paris, Gallimard), con i suoi diritti imprescrittibili del lettore (p. 116):

 

  1)     Il diritto di non leggere.

  2)     Il diritto di saltare le pagine.

  3)     Il diritto di non finire un libro.

  4)     Il diritto di rileggere.

  5)     Il diritto di leggere qualsiasi cosa.

  6)     Il diritto al bovarismo.

  7)     Il diritto di leggere ovunque.

  8)     Il diritto di spizzicare.

  9)     Il diritto di leggere a voce alta.

10)     Il diritto di tacere.

 

Mi congedo citando un brevissimo testo.

 

L'ho trascritto una mattina, dopo aver accompagnato a scuola i miei figlioli (allora frequentavano il primo la quarta, la seconda la seconda elementare), scorgendolo in un cartellone ben visibile per gli alunni, ma anche per tutti coloro -come me- che si sono ritrovati in quel luogo, quasi in un cammino a ritroso, per così dire, nel tempo, a percorrere quei corridoi "scolastici".

 

Il testo recita così:

 

"Leggere

 

Ogni progresso viene dalla lettura

 

e dalla meditazione.

 

Le cose che non sappiamo

 

le impariamo leggendo.

 

Le cose che abbiamo imparato

 

le conserviamo meditando.

 

                  Antica sentenza"

 

 

Non mi rimane che augurare a tutti …buone letture.