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Raccolta di articoli di Gerardo Miele
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Esperienze di vita

Come eravamo: Avventure sul lago di Lugano

della serie ,:”Come Eravamo”.

Avventure sul lago di Lugano.

Se ricordo bene era l’anno 1972,ad agosto/settembre,appena arrivato a Brandizzo (TO)emigrato da Rapone.In quel periodo ero ospite per qualche giorno dal mio compianto cugino Francesco Tuozzolo,figlio di zia Carmela Miele e di zio Giuseppe Tuozzolo,all’epoca residente a Rivera/Bironico(Lugano),Svizzera.Sempre nella stessa località,ospite di Pasquale Natale(u Muluna-r),c’era il mio amico di Rapone,il compianto Oreste Tozzi,fratello di Peppino e figlio del maestro Tozzi.Ci incontrammo quasi subito con Oreste e programmammo per l’indomani una gita sul lago di Lugano.Arrivati a Lugano con la mentalità che lì al nord era molto facile “abbordare “le ragazze,cominciammo la “caccia”.Affittammo un pedalò e cominciammo a navigare sul lago.Dopo forse un’ora cercammo di “abbordare” due ragazze tedesche a loro volta su un altro pedalò.Due lingue diverse,era molto complicato ,così trovammo l’intesa parlando in francese(molto scolastico).L’intesa era buona,sembravamo due torelli spettinati.Dopo vari tentativi siamo riusciti a far capire loro che era più facile parlarci da vicino e nel loro pedalò.Loro acconsentirono.Ci siamo avvicinati (per fortuna) alla banchina per l’abbordaggio,e ancorato alla meglio il nostro pedalò,decidemmo di saltare contemporaneamente sul pedalò delle ragazze tedesche(questo anche per farle vedere che eravamo,per così dire “atletici”),facendo leva sul bordo del nostro;non l’avessimo mai fatto!,come abbiamo spinto sul bordo per darci lo slancio,il nostro pedalò naturalmente si allontanò dalla parte opposta.Finimmo in acqua, e aggrappati con le mani al pedalò delle ragazze tedesche ci bagnammo fino a sopra la cintola ,restammo bagnati per tutto il pomeriggio. Alla sera ancora bagnati abbiamo accompagnato le ragazze alla stazione di Lugano.Risultato:Oreste che era un pò più smaliziato di me ,qualche bacetto innocente sulle guance l’aveva anche dato,io neanche quello.Il giorno dopo riprovammo di nuovo l’avventura,ma,ci andò ancora peggio. Affittammo ugualmente un pedalò e ci allontanammo di parecchio dal luogo dove l’avevamo noleggiato .Dopo un pò di tempo,mentre ci trovavamo al largo, le eliche della barca si impigliarono con dei pezzi di legno caduti dagli alberi intorno al lago.Restammo bloccati per parecchio tempo al largo , senza poterci muovere e in balia delle piccole onde.Per fortuna che a Lugano e nel Canton Ticino parlano italiano così riuscimmo a comunicare con altre persone, le quali , andarono a richiamare il lontano noleggiatore,il quale,poi ,con un'altra barca e con l’aiuto di un arpione ci riportò a riva.Fine.

Gerardo Miele

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- Esperienze di vita

Emigrazioe: Scene di ordinaria partenza

Emigrazione : Scene di ordinaria partenza




Per esperienza diretta ,si vuole raccontare un pò le scene in cui si svolgevano le partenze e le ripartenze dei nostri famigliari emigranti, e lo strazio palpabile che si avvertiva.
Non parlo di quando mio padre lasciò mia madre, sola, con i miei fratelli più grandi, piccolissimi e ancora da svezzare,per andare ad arruolarsi per qualche tempo nella Polizia di Stato,reparto “Celere”,presso la Squadra Mobile di Firenze, che lui ,quand’ era ancora in vita ,ricordava come :”Quando facevo lo sceriffo….” .Sarà stata sicuramente una scena straziante , ma di cui non posso dare testimonianza in quanto non ero neanche nato. Però,ricordo benissimo le sue partenze ,i suoi arrivi e le sue ripartenze per la Svizzera, proprio come avveniva nella maggior parte delle famiglie raponesi nel secolo scorso e fino agli anni 70 (più o meno).
Il giorno della partenza: quasi sempre si partiva di pomeriggio, quasi sempre si partiva in treno e viaggiando di notte,quasi sempre appena ci svegliavamo capivamo che non era un giorno come gli altri,sempre,e ripeto sempre, eravamo un pò tristi.Anche se bene o male eravamo già abituati ad altre partenze,…sembrava che era sempre la prima volta! Non sò perchè, ma pensavamo sempre con preoccupazione,alla scena della mamma che piangeva quando sarebbe arrivato il momento dei saluti.Nella mattinata i nostri emigranti in partenza nel pomeriggio,andavano già a salutare amici e parenti più ”alla lontana”, poi rientravano a casa. Dopo aver mangiato e aver aggiunto sempre qualcosa a quella valigia di cartone pressato, color marrone, sempre più gonfia ,sempre più fragile, la si “rinforzava” aggiungendo sempre più spago.Ed ecco che: iniziavano ad arrivare per i saluti finali, parenti e amici più”stretti”.In attesa dell’arrivo della macchina che doveva portare l’ emigrante alla stazione di Rapone,per ingannare l’attesa si dialogava del più e del meno tranquillamente.Poi però,appena si sentiva il rumore del motore della macchina in sosta sotto casa,…alè! i discorsi si interrompevano e si passava direttamente ai saluti;e… a quella scena già prima temuta.Cercavamo di trattenere le lacrime,ma nonostante l’impegno non si riusciva a domarle del tutto,più si guardavano mamme e famigliari che piangevano, più ci si arrendeva.Si salutava poi con lo sguardo la macchina che ripartiva,ognuno accompagnato dalle proprie pene . Man mano che i minuti passavano, ci accorgiavamo poi, che il petto si sgonfiava e tutto tornava quasi come prima…
Per smorzare l’angoscia che ti assaliva ,già si pensava al suo prossimo arrivo(è una regola di sopravvivenza!).Nell’attesa il tempo non passava mai,prima che passasse un anno…ce ne voleva! adesso invece è tutto il contrario,il tempo trascorre velocissimo.
All’epoca , il “collegamento” fra le “parti “si svolgeva solo a” lettera”,ogni quindici giorni circa,ecco che arrivavano e partivano” lettere”.La cronaca di vita di quindici giorni di ognuna delle “parti”, riportata in quelle lettere.Molto spesso , i raponesi emigrati ,risiedevano nello stesso luogo o nelle vicinanze di altri compaesani e a volte le informazioni si ricevevano anche indirettamente nel seguente modo; si incontravano casualmente due mamme o due mogli,soprattutto, e dopo i saluti rituali iniziava l’ ’”approfondimento”,con frasi tipo:”Giuseppì, ha scritt Francis.c ?”, e lei di rimando:”Uei sì! e a ti ha scritt maritt?”,e la risposta a volte era :”Macchè!…è nu me-s ca nun scriv!...quiru mostr!” Sicuramente alla fine qualche informazione in più si era avuta.
Quando poi giungeva il momento del loro ritorno,eravamo contenti si,ma… eravamo più contenti(parlo da bambini) perchè sapevamo che ci avrebbero portato la cioccolata e le caramelle.Allora, non ci preoccupavamo certo della loro scadenza ,come fanno i nostri figli ora,anche perchè all’epoca non c’era ancora l’obbligo di riportarla sulla confezione.La genuinità,diciamo così, la scoprivamo sul campo,cioè mangiandola! e siccome all’epoca non si buttava niente ,non ricordo mai di aver buttato un pezzo di cioccolata.
Una nota a parte la merita la partenza delle famiglie raponesi che emigravano oltreoceano,soprattutto Australia e Stati Uniti,un esodo biblico che coinvolgeva tutto Rapone,
Con la quasi consapevolezza che quelle persone difficilmente si sarebbero potute rincontrare a breve distanza di tempo ,quasi tutti i raponesi andavano a salutarli prima della partenza. Personalmente, ricordo, quando partì per l’Australia la famiglia del sig. Giacinto Moliterno,dovevo andare a salutarli anch’io perchè ero amico anche delle figlie,soprattutto di Lucia,che veniva a scuola con me,ma sapendo che la casa era piena di gente e conoscendo il mio carattere troppo timido,feci una fatica enorme e alla fine andai.Ricordo che: Lucia ,conoscendo il mio carattere timido,appena mi vidde, mi venne incontro dicendomi più o meno così:” Eri l’ultimo! pensavo che non venivi!”,ricordo che capii che mi stava aspettando.Soprattutto per loro, che partivano per terre così lontane, non doveva essere facile staccarsi dagli affetti e da Rapone,lo si capiva dalla voce ,a tratti tremolante , che cercavano di nascondere dietro il sorriso di circostanza.Era forse il 1968, ci siamo rivisti solo una volta qualche anno dopo .
Come è stata e come è tutt’ora ,amara, l’esperienza dell’emigrante,quante scene si sono succedute,quante ,forse, ne succederanno ancora.Per apprezzare bene Rapone,bisogna vivere lontano da Rapone .Per noi emigranti,i ricordi dei suoi tramonti,dei suoi cieli azzurri, della sua gente, di quel venticello che sempre ti accarezza,ci accompagneranno sempre,ovvero, fino al nostro …“tramonto”.

Gerardo Miele

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- Esperienze di vita

Servizi sanitari e medicina alternativa a Rapone

Servizi Sanitari” e medicina “alternativa” a Rapone. Anteponiamo il fatto che: fino a metà anni 60(più o meno),il Servizio Sanitario Nazionale, a Rapone, era gestito dal solo ed unico medico condotto(che ricordo io)dott.Patrissi(don Ciccio).Bene! All’infuori della medicina ufficiale, e parallelamente ad essa ,vi erano una moltitudine di altri “professionisti” con competenze di tutto rispetto in materia,acquisite per lo più con i soli studi pratici o legati ad esperienze proprie o trasmesse loro dai propri antenati,che coadiuvavano o sostitituivano la medicina ufficiale,con apprezzabili risultati. Per esempio,come “fisioterapista”,vi erano più persone in grado di esercitare tale mansione.Il “fisioterapista” piu’ rinomato a Rapone, all’epoca, era il mio bisnonno Francesco,conosciuto come “Francesco u massariedd,oppure, Francesco a Pescara” per via della masseria che aveva in contrada”Pescara” di Rapone e deceduto a fine anni 50.Egli conosceva tutti i segreti di articolazioni,ossa e muscoli ,ottenendo guarigioni e risultati sorprendenti! Fino a al 1948 ,a Rapone, non vi era l’ostetrica! Il parto era seguito dal medico condotto(don Ciccio Patrissi),e da alcune donne raponesi ricche di esperienza in materia,che sapevano gestire tutte le fasi del travaglio fino alla fine.Naturalmente, esperianza maturata direttamente o aquisita dai propri antenati. Fra queste ,diciamo così,”professioniste”, molto brave erano le signore:zia Rosa Lettieri(Cilorm),zia Sepp(Giuseppa)”a marchesa”,zia Rosa “a Cefra”. La prima ostetrica arrivò in servizio a Rapone solo ad inizio 1948. La medicina omeopatica era gestita da piu’ persone.La persona più rinomata in tale campo, a Rapone, era il sig.Michele Lamorte(r Pipp),bravissimo nel riconoscere i segreti di tutte le erbe,il quale, per lo studio, si avvaleva anche di un libro che trattava tutte le proprieta’ delle piante officinali. Per ogni malanno egli riusciva a trovare sempre la terapia giusta e quasi tutti i raponesi facevano ricorso a lui almeno una volta nella loro vita! Poi,come in tutto il meridione d’Italia e non solo,c’erano altri “dottori”, che guarivano per lo più i “malati immaginari”,esercitando su di loro il rito dello “sfascino”.A quei tempi,molte erano le persone vittime di suggestioni arcaiche che richiedevano questo rito. Ovvero,c’erano persone “malate”che pensavano che i loro malanni erano dovuti a comportamenti di persone malefiche, semmai invidiose di una condizione del loro stato,e per questo,esse, esercitavano su di loro”l’affascino”,ovvero, il “malocchio”.”L’affascino”o il così detto “malocchio”, era una sorta di maledizione,a volte anche con dolori fisici, che si abbatteva sulla vittima,la quale,per liberarsene, ricorreva alle cure di questi “dottori” che lo scacciavano con il rito dello “sfascino”.In particolare ricordo mia nonna,Maria Felice Cristiano,in Miele,deceduta a metà anni 80,che praticava anche lei il rito dello “sfascino”,che consisteva in una litania farfugliata,a bassa voce,che non si capiva quasi niente,alternata a sbadigli e che durava qualche minuto.Ricordo che mi diceva :”Più si sbadiglia e più è segno che “l’ammalata” ha un “malocchio”grave!” Ricordo ancora una volta che: con una signora, ormai deceduta, che abitava vicino casa sua,in via Regina Margherita,a Rapone,mentre stava effettuando su di lei il rito dello“sfascino”,mi accorsi che il suo ritornello liberatorio durò pochissimo tempo.Le chiesi:”Mammanò! (nonna)perchè hai fatto così in fretta?” e lei mi rispose:”Eh,ma questa viene tutti i giorni!...Ho fatto solo un cinquanta per cento!” Benedetta nonna Felicia! Seppure in tono minore,a tutt’oggi,questi riti vengono ancora effettuati a Rapone. Fra coloro che ancora effettuano il rito dello “sfascino”,c’e’ mio zio Vito Miele(classe 1930).Ricordo che a lui ,spessissimo,si rivolgeva una zitella di Rapone,ormai defunta,che richiedeva questa “prestazione” anche…via telefono! Rapone che si evolve!...

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- Esperienze di vita

La sera dopo la tempesta(giornata ordinaria)



La sera dopo la “tempesta”. (giornata ordinaria)

Parliamo del periodo:”dalla notte dei tempi”,e fino a più o meno,fine anni 60.
Il lavoro nei campi dei nostri nonni era all’inizio molto duro.Tutto si svolgeva manualmente,i più “fortunati”possedevano qualche pariglia di buoi,qualche animale da soma,soprattutto asini e muli, che con l’ausilio dell’aratro rendeva il loro lavoro meno faticoso.Poi con l’avvento delle nuove tecnologie, soprattutto trattori e trebbiatrici,un pò tutto il mondo contadino ne giovò.Non si videro più,infatti,nelle aie vicino alle masserie,giostre di buoi , trainare stanchi e con in bocca un filo di bava , quella grossa pietra piatta e rigata ,chiamata “Tufo”;sempre con moto circolatorio, su cumuli di spighe di grano maturo distese sull’aia,era la cosiddetta “trebbiatura di una volta”. Come un sogno,ma ricordo bene che: mio nonno Michele Miele,classe 1897,in località “Pescara”di Rapone,all’inizio,tanti anni fa,faceva appunto così.Poi arrivò la tecnologia e con lei la trebbiatrice. La prima trebbiatrice,che noi chiamavamo “trebbia”,arrivò a Rapone all’inizio degli anni 50(però sulla data esatta non riesco a essere più preciso,perchè mi manca l’optional della precisione),ad opera del compianto sig.Francesco Tuozzolo(mast.Francis-c),che noi tutti abbiamo avuto la fortuna di conoscere.Era una trebbiatrice molto piccola,rispetto a quelle che sono arrivante in seguito,ed era trainata dai buoi.Certo,raggiungere la varie masserie e aie , e la mancanza di strade adatte, rendeva il suo spostamento abbastanza problematico.
Per le nostre madri e per i nostri nonni,e di riflesso anche per la mia generazione,dopo aver lavorato duro nei campi,la giornata non era ancora finita.Bisognava ritornare in paese a Rapone,qualche km a piedi e forse tutto era finito;…non era proprio così!
Per il viaggio di ritorno : si radunavano gli animali,si “attrezzava”l’asino o il mulo con la “vard”(sella),la si rendeva stabile sul dorso tramite una fascia che si chiamava”u straccua-l”(sottopancia),poi si mettava la fascia pettorale e sulla testa si infilava “a capezza”;naturalmente quasi mai alla “vard”mancavano i quattro pezzi di corda che si chiamavano “iaccu-l”, che servivano per caricare qualunque cosa .Molto più facile era riportare a casa le capre,infatti quasi sempre rimanevano per tutta la giornata con la”zo-ch”(fune) attaccata al collo,quindi bisognava solo andare a liberarle vicino a qualche albero o vicino a qualche “stoccjh” (paletto conficcato per terra).Dopo aver terminato le operazioni per il rientro, mentre cominciavamo a muovere i primi passi,quasi sempre,bisognava tornare indietro perchè era stato dimenticato qualcosa fuori:una volta “u margiott”(zappa),una volta “a faucjh”(falce),una volta non è stato chiuso “u purtu-s”(buco) da dove uscivano i polli dal pagliaio o dalla masseria,insomma ! ce n’era sempre una ! Finalmente poi i nostri avi e me compreso,ripercorrevano la via del ritorno. Già da lontano, fra le grandi ombre della sera,si potevano scorgere altre famiglie che percorrendo le varie strade“carra-r”,chi con animali,chi senza,tornavano stanche alla “base”.Sembrava un presepe d’altri tempi! Spesso ci si incrociava e si proseguiva insieme fino a Rapone,parlando quasi sempre del lavoro fatto o da fare,quanti tomoli di grano, di patate, o di quant’altro si era riuscito a produrre.I bambini seguivano in silenzio loro, e le loro discussioni.
Arrivati a casa bisognava “sistemare”gli animali nelle stalle.Chi possedeva una capra(come il sottoscritto,ma in età adolescenziale),doveva poi andare prima a mungerla,ovvero, portarla quasi sempre allo”jazz”(raggruppamento in un recinto),almeno a Rapone,solo virtuale,cioè,si raggruppavano varie capre e in accordo con i proprietari,a turno,si mungevano a volte per una famiglia,a volte ,per l’altra.Quasi tutte le stalle avevano fuori dalla porta e conficcato nel muro adiacente un grosso anello di ferro(“catniedd “ ), nel quale si inserivano appunto ” r zoch”degli animali per tenerli a bada, per mungerle ,o in attesa che la stalla fosse “pronta”.Di questi “aggeggi"è pieno Rapone. Questa cooperazione solidale,permetteva una maggior produzione di formaggio e minori costi di produzione ,poichè con il latte di una sola capra si poteva fare ben poco,era più il fuoco sprecato! Sistemati gli animali,bisognava cucinare per mangiare”lauti pasti”(magari!),ma spesso succedeva che non c’erano neanche i fiammiferi per il fuoco;un rapido sguardo per scrutare nelle vicinanze qualche camino(“cacciafu-m”) fumeggiante e…voilà! con la paletta di ferro che ogni famiglia raponese aveva vicino al proprio camino(a“furnacell”),si percorreva velocemente la distanza che separava la propria casa da quella da cui fuoriusciva il fumo ,si bussava, e il proprietario a quella richiesta di avere un pò di carbone acceso(“ nu tuzzo-n”) non diceva mai di nò,anche perchè, in seguito poteva capitare il contrario e con i ruoli invertiti.La solidarietà era fondamentale in quel tipo di società.Durante la cena,almeno da piccolissimo,non ricordo che ognuno di noi mangiasse sempre nel proprio piatto,non ricordo che c’erano a disposizione di tutti, nè posate di diversi tipi,nè tovaglioli per ognuno di noi.Si mangiava spesso in un unico piatto(“spa-s”),si usavano le poche stoviglie e posate e se non bastavano si ricorreva anche al” fai da te ”;spesso bastava un pezzo di canna, di quelle che servono per le vigne, e … con due colpetti con il coltello ,alè! la forchetta era pronta!
Dopo la cena la stanchezza si faceva sentire,il sonno era inclemente,nel paese si sentivano pochissimi rumori.Non era solo calma apparente! Dopo la “tempesta”,la quiete, aveva preso finalmente il sopravvento!
Mi piacerebbe:
Mi piacerebbe che quelle scene si ripetessero ancora,mi piacerebbe che insegnassero ancora qualcosa,mi piacerebbe che quel mondo venisse apprezzato e ricordato anche da altri e non solo da mè. Rapone ha insegnato qualcosa a tutti noi.
Dimenticavo!.:.il mattino dopo ,tutto ricominciava,tutto era come prima,tutto si ripeteva,tutti speravano in un giorno migliore.

Gerardo Miele

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- Esperienze di vita

Caccia al nido

Caccia al nido

Tanto tempo fa,ma non secoli, i bambini vivevano a stretto contatto con la natura,ne conoscevano i segreti, anche se, non sempre la rispettavano; complice anche la mancanza di una cultura ecologica,naturale e paesaggistica.Niente di grave per carità,ma guardando le cose con l’attenzione dei tempi moderni,si capiscono facilmente che certi comportamenti avuti dai ragazzi in passato,erano sbagliati!
Così avveniva ,all’epoca ,anche in un piccolo paesino di montagna della Lucania del nord e dentro quei territori di campagna,aridi e poco fruttuosi,dove la natura era impetuosa.Mancavano, allora, i grossi agglomerati di cemento,sinonimi della moderna civiltà industriale,tutto sembrava far parte ancora della vecchia civiltà contadina.
In piccole masserie in pietra,o nei pagliai fatti di pietra e paglia,vivevano una stuola di famiglie numerose, rumorose e soprattutto:laboriose! Non c’era molto spazio per il divertimento, i giorni erano tutti uguali. Dall’alba al tramonto,solo lavoro,sempre lavoro! Anche i bambini erano impegnati a dare il loro contributo per il benessere della famiglia. Già da piccoli,apprendevano dai grandi,i segreti e le conoscenze che gli avrebbero permesso ,in seguito, di svolgere tutti i lavori e le attività che i contadini dovevano svolgere nelle campagne e non solo! Benchè ancora piccoli,i ragazzi di allora , sembravano già adulti,dei veri e piccoli uomini di fatica addestrati alla vita.Le occasioni di svago per i ragazzi di allora,non erano poi molto numerose. Le “attrezzature” per giocare erano veramente povere,quasi sempre,artigianali,e soprattutto scarse.Un modo di giocare molto diffuso per i ragazzi di allora,era quello di dare la “caccia”ai nidi degli uccelli sugli alberi e non solo.Quasi mai si agiva da soli,molto più spesso,si formavano gruppi.Quando si individuavano i nidi nascosti sugli alberi o nei cespugli, scattava in loro in modo automatico, un grande curiosità,quella di scoprire all’interno la sua “sorpresa”. Se all’interno di quei nidi fatti di paglia e piccoli rametti, si scoprivano gli uccelli già grandicelli ,i ragazzini erano sicuramente più contenti,perchè con gli stessi pensavano di giocarci un pò, prelevandoli poi,con la convinzione sbagliata che potessero crescere con loro.Non era proprio così! Gli uccellini quasi sempre erano troppo piccoli ,anche se imbeccati dai bambini,non sopravvivevano all’allontanamento dal loro nido e dalla loro mamma. La legge della natura si faceva sentire.I ragazzi se ne avvedevano facilmente che quei poveretti erano in difficoltà… e quasi subito dopo li liberavano.
Viceversa, se all’interno dei nidi venivano rinvenuti ancora le uova, o gli uccellini erano troppo piccoli, si lasciava tutto intatto,non si toccava niente! Pero’ la delusione per loro era molto forte.Di questa “caccia”,adesso, non se ne sente più il bisogno,le attrazioni sono altre! Adesso si ricorda quel periodo solo quando si pensa alla scena di quando il piccolo Pietro,soprannominato,Pelè,annunciava alla sua compagnia di ragazzi ,in un linguaggio dialettale e approssimativo,di aver individuato un nido proprio in punta,punta,di una pianta di quei tanti faggi che allora costeggiavano il corso di un sorridente paesino di montagna, fra il monte Vulture e il fiume Ofanto.

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- Esperienze di vita

I mulini ad acqua di Rapone

Dalla serie”Come Eravamo”
I mulini ad acqua di Rapone

Forse so perchè,ma mi immagino ancora il Rapone di tanti anni fa come un antico presepe!
Tanti anni fa, ma nel secolo scorso, e precisamente fino ad inizio anni 50,nel Canale Milordo, che nasce nelle vicinanze dell’ex” lago Ri Nasc”,alle pendici della montagna Mancosa, a nord di Rapone, e che si riversa poi nel torrente Liento,a sud di Rapone,vi erano impiantati n°4 mulini ad acqua.Il primo mulino,era posizionato proprio a poche decine di metri dalla sorgente del canale stesso,e a poca distanza dalla “fontana Ri Nasc”, era di proprietà di zio Domenico Pinto(mulino r Francischiedd).
Poi ,molto più in giù, ovvero, alla confluenza con il Canale di San Vito,c’era il mulino di zio Antonio D’onofrio(Marra-n).
Ancora più a valle del mulino su detto, si trovava il mulino di proprietà del sig. Francesco Guerra,situato appena poco più sotto del Ponte Nuovo.
Poco più giù ancora,si trovava l’ultimo mulino di Rapone,ed era di proprietà del sig. Francesco Antonio Mastrangelo. Tutti questi mulini, per la macina dei vari cereali, usavano delle ruote di legno e di pietra molto voluminose e pesanti, con “ingranaggi”per lo più di legno duro che di metallo.
Purtroppo,quasi tutti questi mulini,con il movimento franoso del 1930/31,che modificò anche il corso e la potenza del torrente,vennero distrutti o gravemente danneggiati,così da non permette più la loro operatività.IL movimento franoso si estese a nord/ovest di Rapone, e con inizio da poco sotto la montagna Mancosa,precisamente a monte della sorgente Sambuco.
Si ricorda che quel movimento franoso,di dimensioni bibliche,travolse anche varie masserie e pagliai che si trovavano nelle contrade Sambuco e Sanatrella,fin quasi a dove poi sorse il Ponte Nuovo! Causò anche il prosciugamento del lago “Ri Nasc”, riducendolo a un modesto acquitrinio. Adesso,quasi tutta quella zona viene identificata come:”A Frana”.
Fu in quella occasione che fu poi costruito il “Ponte Nuovo”!prima di allora, i raponesi per andare a Ruvo,o alle contrade ,Pescara,Mustarulo,ecc.ecc. dovevano guadare il torrente proprio sotto le pendici del paese,molto più a valle dell’attuale “Ponte Nuovo”.Quando si dice: non tutti i mali vengono per nuocere!
Di questi mulini, si salvò solo in parte, quello di zio Antonio D’onofrio(Marran),il quale trasferì i “macchinari” a Rapone,e continuando l’attività con un mulino elettrico.Fu allora recuperata la ruota in pietra,e si integrò il mulino con una macinatrice moderna,di metallo, “a cilindro”.Alla sua morte, l’attività proseguì con l’opera dei figli Donato e Vincenzo D’Onofrio(Marra-n),e si protrasse fino a metà anni 60(più o meno).I restanti mulini cessarono l’attività quasi subito dopo il movimento franoso.
L’attività dei vari mulini, quand’erano ancora funzionanti,per ognuno,si svolgeva a giorni alterni; a volte l’attività di macina riguardava esclusivamente la lavorazione del grano,altri giorni, l’attività era svolta solo per macinare granoturco(mais), fave,avena,orzo, o altro, e destinati ad alimentare maiali od altri animali.
Per il trasporto dei cereali al mulino si usavano esclusivamente asini e muli, e quasi tutte le famiglie ne possedevano almeno uno.Adesso a Rapone e dintorni ,trovare una famiglia che abbia anche un solo asino è molto difficile se non impossibile!Le stalle sono tutte vuote!I tempi sono cambiati,quasi tutti sono sempre”connessi a internet”e motorizzati! Peccato che solo uno come me rimpianga quei tempi passati, dove anche l’asino che ragliava pareva che ti salutava! Ora guardo il mio presepe,e mi appare più silenzioso e più spento,solo una cosa ancora mi accarezza,il vento!

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- Esperienze di vita

IL bidello di una volta

Il bidello di una volta
Come è cambiato il mondo,soprattutto a Rapone!
Fino alla fine della seconda guerra mondiale(1945),le persone che rappresentavano l’Autorità del comune di Rapone erano: il Podestà,ovvero il sindaco,il Segretario Comunale,la Guardia Comunale e,…il bidello!
I carabinieri di stanza nella caserma di Ruvo del Monte, allora come adesso,avevano giurisprudenza sul territorio di Rapone,e per svolgere il loro servizio,raggiungevano il nostro paese…a piedi! All’epoca per l’Arma dei Carabinieri,i cittadini avevano più rispetto e timore di adesso!
A tale proposito, mio padre,tanti anni fa mi diceva con tono scherzoso che: il mio bisnonno, Francesco u Massariedd,quando si trovava nel suo terreno,in località Pescara di Rapone,quando vedeva i carabinieri che da Ruvo del Monte venivano a piedi in direzione di Rapone,attraversando la strada sterrata(u carrar)sotto la sua masseria,in segno di rispetto li salutava così:”Buon giorno signor carbunier!”(Era un altro mondo!).
A quell’epoca,il bidello,era il factotum del Comune! Un vero Deus ex Machina! Nella stagione fredda,si alzava di mattina presto per tagliare la legna,che doveva poi servirgli per accendere tutte le stufe presenti in ogni classe delle scuole elementari e di avviamento,alias,poi,medie.Inoltre,egli provvedeva ad accendere anche le stufe degli uffici comunali.Lo stesso,oltre alla pulizia delle scuole,provvedeva pure alla pulizia delle strade di Rapone! Un lavoro non facile, poichè a quei tempi,quasi tutte le famiglie raponesi possedevano animali di tutti i tipi,soprattutto: asini,capre,maiali,le strade del paese erano piene dei loro escrementi,ed erano pure accompagnati dai loro caratteristici”profumi”.Non ricordo che, egli,per lavorare, usasse mai i guanti nè qualche mascherina di protezione!Col tempo aveva preso talmente tanta” confidenza” con questi “prodotti” che ,probabilmente per lui, era tutto normale.Non so se gli spazzini di adesso farebbero ancora quel lavoro con tanta”disinvoltura”! I bidelli di quel tipo si chiamavano:Giovanni Repole(r.Rienz) e in ordine di successione , zio Vito Nicola Natale. Gli altri, seguivano subito dopo con qualche mansione in meno.
In quel tempo però,il bidello,oltre alle mansioni su descritte, si occupava pure del servizio cimiteriale, e con piccone e pala,scavava a mano la fossa per ospitare la salma,aiutato in questa operazione dai parenti del defunto,o altro personale “assunto” per l’occasione.Stando a quanto su detto,oggi,appare impensabile che il comune di Rapone dell’epoca, potesse chiudere qualche volta il bilancio in deficit!Aveva in dotazione, una”macchina da guerra”umana, che sopperiva a tutte le moderne tecnologie! Peccato che i tempi sono cambiati!ma mi consola il fatto che tanti raponesi ,trovando lavoro in Comune,non sono più emigrati e i nostri colori han ben rappresentato.Ora che il vento della bora mi sfiora e mi consola,il mio sguardo ricerca ancora… il vecchio bidello con la scopa e la carriola!

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- Esperienze di vita

I pellegrinaggi di una volta

Dalla serie :”Come Eravamo”

I pellegrinaggi di una volta,e fino ad inizio anni 60.

Beh! Se quei tanti pellegrinaggi di allora,o se almeno uno di quelli, si realizzerebbe adesso,si potrebbe sicuramente gridare al”miracolo!”. Oppure,la notizia di un simile avvenimento, avrebbe riempito sicuramente la cronaca di tutti i cittadini raponesi,e non solo!
I pellegrinaggi di adesso,sono davvero poca cosa,rispetto a quelli che li hanno preceduti,complice la tecnologia e il ricorso quasi sistematico ai mezzi di trasporto motorizzati,soprattutto, autobus.
Una volta non era cosi’!Nei pellegrinaggi di allora,l’unico mezzo di trasporto usato in quel periodo in questa parte d’Italia,e non solo,da qualche fedele in particolare,era soprattutto l’asino,detto un tempo”vettura”,seguito subito dopo dal mulo.Per raggiungere i santuari o altre mete oggetto del pellegrinaggio,i Raponesi,ma anche i pellegrini dei paesi vicini,partivano in gruppo,di solito di notte e a piedi.Percorrevano svariati chilometri,anche fino a 30/40 circa,spesso,anzi quasi sempre,ne percorrevano altrettanti per tornare indietro ,come per esempio,quando andavano alla festa di San Rocco a Lioni(AV),il 16 agosto,impiegando circa 8 ore di cammino per terminare il percorso. Oppure,quando si recavano a Materdomini(AV),al santuario di San Gerardo Maiella,il percorso di sola andata si concludeva in circa 9 ore.Per raggiungere Ripacandida(PZ) per la festa di San Donato,occorrevano circa 7 ore di marcia.Molto più facile era raggiungere il santuario di Pierno,nella vicina San Fele(PZ),con 3 ore di cammino si arrivava alla meta.Per raggiungere Materdomini per la festa di San Gerardo soprattutto,ma anche per mete più lontane,spesso si partiva il sabato e si ritornava il lunedì,a volte anche il martedì(quasi sempre a piedi),dormendo sulle sedie e sui tavoli delle “Sale del Pellegrino” dei diversi santuari.Prima delle costruzioni di tali sale,i fedeli dormivano sui prati adiacenti…! Potenza della fede!(non parliamo poi dei pasti frugali e delle condizioni igieniche…!) Fonti di queste notizie: due memorie storiche di Rapone,Vincenza Moliterno ,classe 1928, e Giuseppina Summa,classe 1927.
Le strade percorse dai pellegrini erano tutte sterrate(i carrar), ogni gruppo aveva almeno un conoscitore della strada e delle scorciatoie(non c’era ancora il navigatore,Tom.Tom…!) ,e che guidava i passi dei fedeli verso la meta.
IL gruppo di pellegrini si muoveva compatto in direzione dei santuari,pregando e cantando canti liturgici e non,come per esempio, quando cantavano:”Un mazzolin di fiori!” alcuni,ricordo benissimo anch’io che,per devozione,percorrevano l’intero tragitto ,scalzi! Altri,si toglievano le scarpe solo in vista del santuario. Personalmente,sono andato a piedi a San Gerardo(AV) solo una volta all’età di 10/12 anni.Ricordo che siamo partiti di notte, ed io,per cercare di dormire un pò durante la marcia,mi mettevo a correre in avanti e distanziando il gruppo, aspettando poi il ricongiungimento con esso,sdraiato per terra e nella ricerca di dormire.Non penso che mi sia riuscito di dormire,ma a furia di ripetere queste tappe,credo di essere giunto a Materdomini più morto che vivo! In questo viaggio,i pellegrini,si riposavano e si ristoravano alla fontana di Quaglietta,e alla Sella di Conza.
Mia madre,Giuseppina Summa(classe 1927),che all’epoca era molto religiosa(anche adesso)ed era iscritta nell’Azione Cattolica di Rapone,spesso coinvolgeva anche me nei suoi pellegrinaggi.Ricordo che:mi portò a piedi anche a Ripacandida(PZ) e al santuario di Pierno(PZ).Per raggiungere Pompei e Montevergine si usava il bus(meno male!...)
A quei tempi,anche scarpe confortevoli potevano aiutare la marcia del pellegrino (me compreso),ma era già troppo se si possedevano ed erano in discrete condizioni! Adesso,i nostri figli ,oltre a non percorrere certe distanze a piedi,se non hanno le scarpe da ginnastica,semmai,anche firmate,non escono neanche di casa!
Per fortuna che ad inizio anni 50,il comune di Rapone e la Provincia di Potenza,asfaltarono ’ la strada che da Rapone porta al Bivio di San Michele,cosi’ i primi autobus potevano finalmente giungere a Rapone! Sollievo dei tanti pellegrini e non, che spesso,per il solo viaggio di ritorno,potevano servirsi di detto mezzo,oltre poi al fatto che potevano raggiungere mete di pellegrinaggio molto più lontane,proprio come adesso!
Giova ricordare che: appena prima degli anni 50,le strade di Rapone erano solo sterrate,o pavimentate in pietra. Per raggiungere la stazione di Rapone per la consegna o il prelievo della posta,si utilizzava un calesse trainato da un cavallo,di proprietà del compianto raponese sig. Domenico Leccese(Minguccio),il quale era addetto a tale servizio.Sempre prima di quel periodo, i migranti raponesi,raggiungevano la stazione di Rapone a piedi e caricando le valige sull’asino di qualcuno che li accompagnava. Non era raro vederli a piedi e valigia in spalla!...
Sempre in quegli anni,per andare a Calitri,bisognava guadare l’Ofanto,solo successivamente fu costruito il ponte attuale.A questo proposito,mi viene in mente una storiella vera che mi raccontava mio padre. Un signore di Rapone,ormai defunto,che aveva una masseria in campagna, ma che abitava in paese in via Guglielmo Pepe,un giorno andò a piedi a Ruvo del Monte per vendere un “panaro”(cesto di vimini)pieno di uova.Arrivato a Ruvo,gli venne detto che a Calitri,per ogni uovo gli avrebbero pagato una lira in piu’. Questo signore ,anche se stanco,si diresse di nuovo a piedi verso Calitri. Arrivato nei pressi del fiume Ofanto,nell’atto di guadarlo,scivolò sulle pietre e ruppe tutte le uova! E’ facile immaginarne la reazione che ebbe!
Per i piu’ giovani:”Ragazzi! Questa,non e’ preistoria,(come sembrerebbe ora),ma la storia di Raponesi (alcuni vivono ancora oggi ) che queste “esperienze” le hanno vissute neanche da molto tempo!

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- Esperienze di vita

Chiamatelo pure ’sfruttamento minorile’

Dalla serie: “Come Eravamo”

Chiamatelo pure “sfruttamento minorile”!...
Con la mentalità dei giorni nostri,leggere le realtà in cui vivevano i bambini di un tempo e,fino a inizio anni 60,farebbe rabbrividire chiunque!
Da sempre e,fino a qualche anno dopo la fine della seconda guerra mondiale(1945),le popolazioni contadine di tutta Italia,soprattutto quelle meridionali,vivevano veramente nella miseria più nera.Quasi la totalità dei contadini meridionali di quei tempi, lavorava su terreni in affitto o a mezzadria con i proprietari terrieri. Spesso,questi latifondisti, li sfruttavano con richieste di canoni esosi.Le loro condizioni migliorarono molto quando,nel 1950,il primo Governo Repubblicano,dopo una lotta dura con manifestazioni e scioperi dei braccianti agricoli,approvò la cosiddetta Riforma Agraria ,con la quale molti contadini presero possesso di molti terreni espropriandoli ai latifondisti stessi.In Basilicata furono espropriati molti terreni del metapontino ,altri, nelle zone di Melfi,Lavello, Lagopesole.
Anche dopo la suddetta riforma,non è che i suoi effetti furono miracolosi per i coloni lucani e per quelli raponesi in particolare! Per lavorare i terreni agricoli senza l’ausilio di qualche trattore o trebbiatrice ,era duro! Questo,fu uno dei motivi per cui le famiglie di allora erano molto numerose.Più figli,voleva dire,più terreni che potevano coltivare,quindi,più ricchezza per la famiglia,Spesso,anzi quasi sempre,le famiglie di allora,non mandavano i bambini a scuola,perchè ritenevano che per il loro futuro,era più importante il lavoro che non l’istruzione.I bambini iniziavano le scuole elementari,ma pochissimi le completavano.Poi la mancanza di soldi faceva il resto!
Nelle campagne di Rapone,era normale,vedere bambini di 7/8 anni che già lavoravano o che pascolavano pecore. Anche i più piccoli qualche cosa facevano! Tutti venivano “addestrati”già dai primi passi alla vita. Ribellarsi era difficile,se non impossibile! I genitori di allora,erano molto severi(non tutti per la verità),e senza troppi “complimenti” “elargivano” schiaffi,se non di peggio,e non chiedevano il permesso a nessuno! Quando si vedeva un papà togliersi la cintura dei pantaloni(a curresc),bisognava…preoccuparsi!
A quell’epoca,non solo a Rapone,ma anche in gran parte d’Italia,molte famiglie mandavano le proprie figlie,anche solo di 10/12 anni(a volte anche meno), a lavorare come donne di servizio,presso famiglie nobili o benestanti di allora,e anche oltre i confini del nostro paese.Queste ragazze,a Rapone,si diceva che: “andavano per serve”. Molte di loro me le ricordo anch’io! Molte altre ,già a quell’età, venivano mandate in campagna a lavorare alle cosìdette “giornate”. Non era raro che queste ragazze si sposassero già a 16 anni(come mia madre),essendo già preparate a portare avanti una famiglia.Tutto ciò, adesso, sarebbe a dir poco,fantascienza!
Per i maschietti di quella eta’,non e’ che le cose andassero molto meglio! Se non venivano mandati in campagna,venivano mandati come “riscibl”(discepoli,ovvero, apprendisti),presso le “putee”(botteghe,laboratori) dei mastri artigiani di Rapone.Andavano a “o mastr”! Ogni artigiano o “mastr”, era “professore” di almeno uno o due “riscibl”contemporaneamente.Tanti ragazzi raponesi hanno così imparato un mestiere! A quel tempo,non era raro vedere “all’opera” bambini anche piu’ piccoli.
Personalmente,ricordo ancora che: uno di questi “riscibl”,molto”intraprendente”,di qualche anno più piccolo di me,all’interno della sua officina meccanica,stava “ allestendo” anche uno… “studio dentistico”.Per fortuna che… “l’attività,” cessò quasi subito!
Tale tipo di “organizzazione”,con le leggi attuali,sarebbe,a dir poco,fuorilegge! Non mi è mai capitato di sentire che i bambini di allora si sentivano sfruttati,ricordo che erano contenti e,alcuni, si davano già delle arie da uomini consumati! Ricordo che anch’io all’età di 7/8 anni,dopo la scuola, andai con molto entusiasmo per un paio di pomeriggi a …”imparere il mestiere” in una forgia di Rapone. Visto poi che il fabbro(ormai defunto)mi faceva girare solo il mantice che alimentava i carboni accesi,smisi quasi subito!
Anche durante la frequentazione delle scuole elementari,difficilmente i bambini restavano in paese.Dopo il termine delle lezioni,essi,raggiungevano le varie campagne,naturalmente a piedi,e percorrendo a volte svariati chilometri.
Personalmente ricordo che: fino a metà anni 60,il sottoscritto,per raggiungere i nostri terreni in località “i filici” e “vischisuj”,a nord/ovest di Rapone,doveva pure attraversare un paio di torrenti ,guadandoli! Se pioveva e avevamo pure la capra o il maiale dietro,era quasi un dramma! Per fortuna che a metà anni 60,la strada(u carrar)che collegava Rapone a queste località ,venne eliminata per far posto alla moderna strada che collega Rapone a S.Fele,e i cui ponti, eliminarono il guado dei torrenti.
Noi ragazzi di allora,eravamo “addestrati” a qualunque percorso,e tutto ci sembrava normale.
Ricordo le mie preoccupazioni per un mio amico di Rapone,Michelangelo Repole,a volte compagno di viaggio,che dalla campagna veniva a scuola in paese(come tanti altri)a piedi dalla località “u castagnon” a nord/ovest di Rapone. A volte lo vedevo sotto la pioggia,sotto la neve,venire a scuola o ritornare a casa nella sua masseria(all’epoca).
Queste cose i figli di adesso non le faranno più,perchè ora c’e’…il Telefono Azzurro!
Anzi,se all’epoca, a Rapone, ci fossero stati gli Assistenti Sociali di adesso,la popolazione di Rapone,e non solo,si sarebbe…estinta da tempo!

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- Alimentazione

la lingerie di una volta

Racconti della serie:”Come eravamo”

La “lingerie” di una volta
Beh,come consolazione possiamo anteporre che: non solo dalle nostre parti,ma anche nelle zone vicine,gli usi e costumi erano pressochè uguali,quindi,possiamo dire:mal comune mezzo gaudio!
Non è che voglio affondare il coltello nella piaga,ma se il passato ci aiuta a comprendere il presente e forse anche il futuro,ogni tanto fare qualche riflessione sulla nostra esistenza potrebbe essere molto salutare.
Per capire bene l’evoluzione dell’”arredamento intimo”,bisogna partire dall’inizio della nostra vita,più precisamente,dai primi anni del secolo scorso(potendoci avvalere di testimonianze che quel periodo l’hanno vissuto)e fino ai giorni nostri.
Premesso che: i pannolini li hanno inventati all’incirca negli anni 60,e che prima di quel periodo le famiglie italiane,comprese quelle raponesi,non navigavano certo nell’oro,anzi,il contrario, Premesso che: a quei tempi era molto sviluppata l’arte “dell’arrangiarsi”, non si buttava via niente, si riutilizzava tutto.Beh! Tutto sommato adesso potremmo dire:”Meno male che siamo sopravvissuti!”
Appena nati,per coprire le parti intime,ai bambini venivano fatti indossare un sorta di camicia e una mutandina rigorosamente fatte a mano.Detto abbigliamento,veniva ricavato principalmente da qualche lenzuolo o qualche abbigliamento disfatto,raramente da pezzi di stoffa comprati per l’occasione.Molto spesso,anzi,quasi sempre,si riutilizzavano gli indumenti dei famigliari ormai maggiorenni.
Fino all’età di un anno(più o meno),i bambini(maschi e femmine) venivano avvolti da una fascia che li avvolgeva dai piedi fino al collo,lasciando loro libere solo le mani.
Sembravano proprio come delle piccole mummie imbalsamate,che venivano poi sfasciate ogni volta che si rendeva indispensabile il cambio della”mutandina”.
Non si conosce bene l’origine di questa usanza,ma probabilmente era dettata da qualche convinzione medica di allora.Quando poi giungeva il momento in cui i bambini potevano cominciare a muovere i primi passi,li si sfasciavano definitivamente.AI maschietti venivano fatti indossare dei pantaloni coi “trantl”(bretelle), corti e aperti davanti e di dietro,senza mutande,così da “agevolare” l’evaquazione , e che indossavano fino a quando non erano in grado di “autogestirsi”.Si coprivano le gambe con delle calze spesse fino al ginocchio, e tenute ferme da una molla elastica(anche in inverno).Personalmente ricordo che anch’io le ho indossate fino all’età di cinque o sei anni.Per le bambine,la gonna sostituiva il pantalone,per il “resto” era tutto uguale.Non ricordo di preciso,l’uso della carta igienica in quel periodo,ma su questo… voglio stendere un velo pietoso!
Le persone anziane,a volte anche le adulte,spesso non usavano indossare mutande. Quasi tutti i maschi “anziani”,indossavano delle mutande lunghe di lana o di cotone,quasi tutte “residuati bellici”, ovvero, l’equipaggiamento che indossavano quando erano soldati e che continuavano ad usare anche con l’ausilio di qualche toppa.Le donne anziane,che vestivano ancora con i vestiti larghi e tipici dell’epoca,erano più o meno nella stessa situazione dei maschi.Non oso pensare però,anche se lo so,come facevano queste donne tanti anni fa a “gestire” i loro giorni difficili di ogni mese,senza pannolini,senza bidè in casa,spesso anche in abitazioni senza acqua e senza servizi igienici,per non parlare di tutto il resto!Una persona a me’ molto vicina,mi racconto’ che tanti anni fa,quand’era ancora giovane,nel giorno del suo matrimonio era molto preoccupata di quando sarebbe giunto il momento di ballare,poichè a quell’epoca si indossavano mutande senza elastico e tenute ferme da una fascetta stretta(a sciulidd) di tessuto annodata con il “fiocco”;la stessa persona,temeva che durante il ballo della sposa le mutande si sarebbero sfilate.Per ovviare a ciò, fece un nodo talmente stretto che si beccò pure un bel mal di pancia!
Poi a fine anni 50,all’inizio del boom economico italiano,nelle fiere si cominciavano a comprare e vendere abbigliamento intimo di serie, con prezzi accessibili,e poco dopo iniziarono ad arrivare anche i primi pannolini.
Dulcis in fundo,ricordo che fino agli inizi degli anni 60,sia a Rapone che nel sud Italia,quasi nessuno per dormire indossava i moderni pigiami.Il mio primo pigiama l’ho avuto all’età di 7/8 anni,un pigiama fatto confezionare da mia madre,e ricavato da una stoffa che doveva servire per fare il materasso”r cuoffl”(foglie di pannocchie di granoturco),quindi abbastanza rigido,fatto a strisce verticali come quelli che indossavano i carcerati,ma che io indossavo con piacere, poichè in quel periodo, avevo appena saputo che anche qualche mio amico aveva appena iniziato ad indossarlo anche lui.
A pensarci bene,le prime,chiamiamole”mutande” che ho indossato,somigliavano molto ai boxer non elasticizzati che indossiamo adesso! E poi dicono che la moda non ritorna! Ritorna,ritorna,eccome che ritorna!
Gerardo Miele

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- Esperienze di vita

Eppure,nella miseria si ballava sempre

Dalla serie : “Come Eravamo”

Eppure,nella miseria,si ballava sempre!(prima degli anni 60).

Quante cose potrebbero insegnarci ancora le persone di una volta,le persone della generazione precedente alla nostra e, fortunatamente presenti ancora nella vita dei giorni nostri. Esse,ci accompagnano nel nostro cammino dispensandoci ancora consigli.
Noi,dovremmo ascoltare sempre più spesso i racconti della loro vita,delle loro esperienze,e farne tesoro nella misura che ognuno di noi riterrà più opportuno.Loro, saranno contenti di scaricare le loro pene passate,di trovare sempre qualcuno che li ascolti e che li faccia sentire ancora importanti.Stimolarli con domande discrete su esperienze passate,rassereneranno parte delle loro lunghe giornate facedole sentire più vive!
Se ascoltassimo di più queste”esperienze viventi”,potremmo riflettere con maggiore serenità sulle nostre apparenti difficoltà che la vita di oggi ci presenta e,semmai,potremmo poi esclamare:”Alla faccia…e allora ,loro, che dovevano dire?,che dovevano fare?” Ci accorgeremmo così,che le nostre difficoltà,pur se difficili,sono poca cosa rispetto a quelle affrontate dalle precedenti generazioni.Eppure per loro,tanti anni fa,ogni momento era buono per ballare! Beati loro! Oggi noi,prendiamo ogni cosa troppo sul serio,e questo,non ci aiuta ad essere sereni.
All’epoca,quando per lo più si viveva nelle campagne,quasi in ogni masseria era presente almeno un organetto(u ricanett).
Il più usato,perchè il più semplice, era “u ricanett” a 4 bassi,poi in successione di maggiore difficoltà a suonarlo, c’era “u ricanett” a 8 bassi,poi a 12 bassi,e fino a 24 bassi.L’organetto,accompagnava feste importanti come:matrimoni,fidanzamenti,e l’immancabile festa legata al giorno in cui le famiglie raponesi ammazzavano il maiale.Ogni altra occasione era buona per suonare e per ballare! A volte,bastava che una famiglia facesse visita ai vicini di casa,o di un’altra masseria,che facilmente poi si suonava e si ballava.In quelle occasioni soprattutto,oltre a suonare e ballare,veniva offerto agli ospiti il vino, che passava di mano in mano dentro un fiaschetto di legno(u fiaschiedd),di solito di due, ma anche di quattro litri,che tutti,uomini e donne,bevevano tenendolo in alto e senza far toccare con le labbra “u cannitt”,che era una piccola canna di circa 5 centimetri,posta al centro del”fiaschiedd”,e che serviva per veicolare meglio il vino.A quei tempi,i raponesi più bravi a suonare l’organetto erano:Giusepp r Pepp,e mio zio Vito Miele, fu Michele. Essi,suonavano per lo più ad orecchio,cioè senza una grande conoscenza delle note musicali.
A quei tempi,a Rapone, era presente anche la fisarmonica ,che veniva suonata dai raponesi Felice Schettino,poi emigrato oltre oceano, e in seguito,dal compianto sig.Pietro Luisi(u banditore).Essi,allietavano soprattutto le feste di matrimonio di allora,contribuendo quasi sempre a “risollevare la festa” con le loro tarantelle e le loro quadriglie tipicamente lucane e folcloristiche. Dico,”risollevare la festa”,nel senso che:le tavole di allora,non erano imbandite come quelle di adesso,i pranzi erano veramente poca cosa rispetto a quelli di adesso.Normalmente il primo piatto era solo pasta a mano,il secondo ed ultimo piatto,nella stragrande maggioranza era composto da:cotenna di maiale(cotica),verdura cotta,verze,cicorie,cavoli,e a volte,anche di una verdura selvatica che si chiamava”i suvun”.Poi in base alle condizioni economiche delle famiglie,si cucinava anche carne di agnello,bollito! In seguito, da fine anni 50 circa,con l’inizio del boom economico italiano,il”menù” si arricchì anche di carne e patate al forno! Oltre che di liquori colorati ,fatti a mano,e paste secche.Solo da inizio anni 60(più o meno) comparvero a Rapone i moderni pasticcini,solo che all’epoca erano molto più grandi.Ricordo che a Rapone il primo pasticcere si chiamava Nicola Repole,e la sua “vetrinetta” era posta a fianco della sua abitazione,al centro(quasi) di via Nino Bixo.Dopo di lui,l’attività si spostò e proseguì davanti alla chiesa madre, ad opera del compianto Nicola Lamorte(u Chianghier),che gestiva un forno con i genitori,e i sui dolci mi piacevano moltissimo!
IL matrimonio si concludeva quasi sempre sotto la casa degli sposi,con canti(sonetti) e serenate!
Quando, occasionalmente,per le strade di Rapone si risente quel suono allegro e gioioso di quell’organetto,risveglia in noi il ricordo di quei tempi passati,quando si lavorava e… anche a pancia vuota si ballava!
Come vorrei sentire più spesso per le nostre strade, quel suono allegro dell’organetto,testimone di tempi passati,dove non mancava mai “u fiaschiedd”,ma neanche “u ricanett!”
Gerardo Miele

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- Esperienze di vita

I ’servizi igienici’di una volta

Dalla serie:”Come Eravamo” I “servizi igienici” di una volta. Prima consolazione: Meno male che riesco a descrivere solo la fine di quel periodo! Da tempi remoti , a più o meno,inizio anni 50,i servizi igienici delle popolazioni italiane,se non mondiali,erano,diciamo così “poco funzionali”,o per nulla esistenti.Tranne le grosse città o i grossi centri, nel resto del paese e nelle zone rurali, come la nostra,la situazione era abbastanza travagliata. Nella nostra Rapone,non se la passavano,o per meglio dire,non ce la passavamo di certo meglio.Le linee fognarie erano quasi inesistenti,per gli scarichi,si utilizzavano i cosiddetti “pozzi neri”,ma questi erano ad appannaggio esclusivo delle famiglie benestanti,il resto della popolazione,invece, doveva “organizzarsi”,nel senso che:per i "bisogni"notturni,si utilizzava un recipiente di metallo leggero che si chiamava “pisciatur”(orinatoio),nascosto quasi sempre sotto il letto, e il cui contenuto si andava poi a “depositare” di mattina presto in alcune zone periferiche di Rapone”deputate” a tale servizio.Ogni quartiere di Rapone ne aveva una. Personalmente ne ricordo solo una:a Santa Maria,cioè,alla fine di via Regina Margherita,poichè da piccolo ho abitato per qualche anno in quella zona;ma famose erano quelle di Miezz Col e della “Funtana Vecchia”.Le altre venivano subito dopo! Già per poter svolgere,diciamo così,queste suddette “funzioni” ,si avvertiva il disagio,poichè le abitazioni di allora erano quasi tutte piccole,a volte solo monolocali,e la carta igienica era…quasi assente(…per non affondare il dito nella piaga),non c’era intimita’ insomma! Nelle ore diurne,invece,si andava tranquillamente(maschi e femmine), direttamente in queste …zone all’aperto.Se non c’era nessuno,bene,se era già occupata si ritornava dopo;a meno che la cosa era…irrimandabile. Beato chi stava in campagna,gli spazi più grandi,e la presenza dei tanti “Murriscn”(mucchi di pietra ricoperti di sterpaglie),ne agevolavano le “evacuazioni”. Poi agli inizi degli anni 50,il comune di Rapone si dotò di una rete fognaria e piano piano tutte le famiglie cominciarono a collegarsi.I primi “bagni”(chiamamoli così) erano veramente nulla rispetto a quelli di adesso,in qualche casa,ricordo personalmente,che c’era solo un buco in mattoni,dietro la porta, e con un mattone a copertura. Nella casa in cui ho abitato io fino all’età di sei anni,via Regina Margherita,proprio sotto la Chiesa Madre, non vi era nè acqua potabile e nè bagno. Per l’acqua potabile usavamo “u Uarril”(barile),che mia madre andava a riempire alla fontana,e come bagno usavamo quello di mio nonno,Michele Miele,classe 1897,che fu uno dei primi ad assersene dotato. Ricordo perfettamente,però,che qualche volta, per non disturbare sempre mio nonno,andavo anch’io “all’aperto “ e alla zona di Santa Maria. Ad inizio anni 60,i miei genitori comprarono la casa dei miei bisnonni (Vallario), in via Fratelli Cairoli (custaredd),dotata di” bagno”,e così la mia “Odissea” finì. L’opera fu completata pochissimi anni dopo,allorchè poi ,comprarono nella stessa via un altro locale,dove costruirono un altro bagno(stavolta vero),e con tanto di doccia. Le situazioni su descritte hanno interessato la quasi totalità della mia generazione,non mi sento però di dire:”Mal comune mezzo gaudio!”ma sono ricordi,neanche tanto amari,che vivranno in me. Facendo una mia riflessione personale ,e cioè:”Non si può apprezzare il presente se non si conosce il passato”, cerco di trasmettere ai miei figli questa sensazione. A loro che usano il bagno per ore,fanno la doccia tutti i giorni,delle mie sensazioni, o raccomandazioni, sembra che ne facciano a meno . Ho la sensazione che il passato per loro non esista,tutto è normale,tutto è dovuto! Sarà il segno dei tempi che cambiano,ma sempre più spesso mi accorgo che forse sono io a non stare al passo coi tempi ! I vecchi ricordi pesano come macigni,a mè che quasi tutto è mancato,a mè che quasi tutto…ho sprecato! Gerardo Miele

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- Esperienze di vita

L’arredamento di una volta

Dalla serie:”Come Eravamo”

L’arredamento di una volta
Prima della 2^ guerra mondiale,ma anche dopo,la vita matrimoniale di una nuova coppia iniziava ,veramente,sempre in salita!
Quasi tutti,spesso,anzi,quasi sempre,avevano come “dote” quasi sicura,l’essenziale! E cioè,il letto matrimoniale,il comò,u granier(il granaio), u mbastapan(dispensa).
IL letto matrimoniale,naturalmente senza reti,era rappresentato da due cavalletti di ferro sormontati da tavole longitudinali, su cui era adagiato il materasso. All’interno del materasso non vi era quasi mai la lana,ma era riempito dalle foglie che avvolgevano le pannocchie di granoturco(mais) che si chiamavano "cuoffl”,fatte essiccare per l’occasione e che venivano rinnovate ogni anno.Ogni mattina poi,bisognava rifare il letto e ,soprattutto il materasso,attraverso quattro buchi(squarcedd)che si trovavano nel materasso,tramite un’asta di legno con una estremità biforcuta(la furcedd).
Ricordo che da piccolo anch’io dormivo su questi materassi.Ricordo pure che spesso quando mi giravo nel sonno,i”cuoffl” producevano un fruscìo che spesso mi svegliava.Per fortuna che da bambini il sonno è abbastanza pesante! Se quelle condizioni ,perdurassero ancora adesso,per le persone di una “certa eta’” come la mia,con un sonno leggerissimo,e’ facile immaginare che per dormire si farebbe molto piu’ fatica.
Altro arredo,quasi immancabile,era il como’.Dentro il quale,si racchiudeva tutto il possibile immaginario in termini di vestiario.Peccato poi…che la dotazione vestiaria di cui disponevano i nostri antenati era veramente ridotta all’essenziale.Quasi sempre,al massimo, si deteneva un cambio! Per cui,essi,non si ponevano il problema dell’armadio,di come riempirlo e dove collocarlo.Il como’,conteneva tutto e bastava anche per famiglie numerose(quasi tutte),poiche’ i “vestiti” si tramandavano da generazioni,da padre in figlio,da fratello o sorella maggiore al fratello o alla sorella minore,senza nessun tipo di problema.Adesso, noi siamo abituati alle nostre case piene di mobili,armadi zeppi di vestiti di tutti i tipi,e che spesso,anche se appena comprati neanche indossiamo,o perche’ non ci piacciono,oppure, perchè leggermente diversi da come l’avevamo visto in vetrina,e quindi li destiniamo nella spazzatura.Questo ci dovrebbe far riflettere! Bisognerebbe pensare al comportamento delle persone anziane che ci hanno preceduto,al valore che esse davano alle cose che avevano comprato con tanti sacrifici, o ricevuti in eredita’dai loro antenati.Sicuramente non si sarebbero comportate come facciamo noi adesso(io per primo!).Viviamo in un’altra realtà,questo è vero,ma i valori che ci hanno trasmesso i nostri avi ,riusciamo solo in parte a trasmettere ai nostri figli,ed è un peccato!
Altro mobile che faceva da coreografia all’ambiente domestico ,quasi sempre unico,di tutte le abitazioni di allora era il “granier”(il granaio),che si riempiva ogni anno ad ogni trebbiatura di grano.La sua struttura era fatta in legno massiccio, con due mini sportelli alla base che servivano ,non solo, per aerare il granaio,ma anche per far uscire da queste aperture il grano occorrente da portare al mulino,senza dover ricorrere all’apertura principale che si trovava sulla sommità dello stesso e, molto più difficoltosa da raggiungere.
Per ultimo, c’era il mobile dove si custodiva il pane,ovvero “u mbastapan”(dispensa),anche lui di legno duro,dentro il quale si lavorava pure la pasta per fare il pane stesso.Serviva anche come custodia del pane dopo la cottura.Spesso all’interno di esso,si custodiva anche il formaggio,piatti,posate,ovviamente,non in quantità industriale come adesso. Era sempre chiuso.
Adesso che siamo abituati ad avere le nostre case zeppe di mobili di ogni tipo,pensare che tanti anni fa,vivevano lo stesso,con l’essenziale,ci dovrebbe far meditare sul fatto che: in ogni epoca ,l’uomo si adatta alla vita e alle abitudini del tempo che vive. Fra non molti anni però,anche le cose che possediamo adesso,saranno giudicate antiquate dalle generazioni del futuro. Anche loro ci giudicheranno per le condizioni di vita che abbiamo adesso,anche loro stenteranno a credere che vivevamo proprio così.
Arrendiamoci al fatto che:il progresso è inarrestabile e, prepariamoci ad un nuovo mondo in continua evoluzione,dove tutto ci sembrerà poi sempre superato,e dove un giorno il robot ci cambierA…”il pannolino”!
Gerardo Miele

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- Esperienze di vita

IL camino(a furnacell)

Dalla serie di racconti: “Come eravamo”                                                                                                 IL camino(a furnacell).                                                   Volendo o nolendo,ma fino ai primi anni 50 era così! Sedersi vicino ad un camino(a furnacell)per noi bimbi di allora,era facilissimo,non ci rendevamo conto di quali sacrifici i nostri genitori facevano ogni giorno per accendere quel fuoco.Appena si sentiva il tepore provenire dalle fiamme di un fuoco appena acceso,ecco che,ci siedavamo subito li’ accanto su un “comodo"..."chianghiedd", alias,”scannett”(sgabello),o su una piccola sedia(“seggia piccinenn”),in attesa che qualcuno(quasi sempre la stessa persona)ci metteva sopra quelle fiamme “u quallar" (calderone).Si portava l’acqua a bollitura e successivamente ci si immergeva qualcosa da mangiare.Prima e durante quegli anni,sotto la brace,la faceva da padrone la “pizza r grandinjj” ,e sopra, la polenta, sempre di “grandinjj”(granoturco).Accanto al fuoco, spessissimo,c’era un recipiente di terracotta(a pignaath),con dentro quasi sempre fagioli,cicerchie, o altri legumi,con alcuni pezzi di cotenna di maiale(cotica)e persino verdura varia.Non era una dieta molto varia,ma ricordo ancora con nostalgia, quelle profumatissime minestre paesane! Nel 99% dei casi, l’”addetta”al camino o alla cucina era la mamma, a volte,qualche sorella più grande(chi ce l’aveva). Quando poi soffiava la tramontana ,ovvero,”u vient r cimm”,o la legna messa ad ardere non era abbastanza stagionata o secca,ecco che: la casa si riempiva di fumo! La cosa non generava un fuggi ,fuggi generale,come potrebbe succedere ai bambini di oggi,ma noi bambini di allora, eravamo talmente abituati a simili evenienze che la cosa non ci preoccupava affatto. Il solo camino non poteva quasi mai scaldare a sufficienza la casa.Tutta la famiglia però, era ben temprata a sopportare le basse temperature di allora,e non ci si ammalava facilmente come qualcuno potrebbe pensare adesso.Nei mesi freddi, tutti i racconti e i discorsi di famiglia e conoscenti si svolgevano intorno al fuoco del camino.A quell’epoca,le donne,per proteggere le gambe dal freddo,usavano indossare delle calze molto spesse,che arrivavano al ginocchio o poco più su’,tenute ferme da delle molle elastiche(i collant sono arrivati dopo,inizio anni 60).L’eccessiva vicinanza o esposizione al fuoco delle zone di gambe non protette dalle calze,causava in dette zone, delle macchie leopardate di un colore rosa acceso, chiamate:“i parient”,(dermatite da scaldino)molto antiestetiche.A tale proposito,ricordo che:un mio amico di Rapone che si chiamava,e si chiama, Donato T.,abitante adesso, in provincia di Torino, quando un giorno gli chiesi come mai rifiutava le avance di una bella ragazza di Rapone,mi rispose piu’ o meno cosi’:”Non mi piace perchè ha le cosce a mortadella!” Per fortuna che poi sopraggiunsero i collant, il gas e i termosifoni, il fuoco nel camino si faceva sempre piu di rado,e quegli spettacoli quasi scomparvero!... Alla nuova generazione giova ricordare che: la legna(“r zepp”),non piovevano magicamente dal cielo nel camino,ma bisognava andarle a prendere in campagna,nel bosco di Rapone,e vicino al bosco di Pescopagano. Una persona che ho avuto la fortuna di conoscere anch’io,e di cui, come raponese, ne sono orgoglioso,andava al bosco a raccogliere legna,scalzo, avendo avuto il suo primo paio di scarpe, più o meno, all’età di quattordici anni. Quasi tutte le donne di Rapone,compresa mia madre(i mariti erano emigrati), andavano al bosco a raccogliere legna, da sole,a volte anche in compagnia,e se non avevano un asino,portavano pure la fascine in testa fino al paese,anche più volte in un solo giorno! Sono sicuro che le mie figlie non lo farebbero mai, ma probabilmente non lo farebbero neanche i figli di questa generazione,abituati ad un altro ritmo,e sempre piu’ spesso,abituate a non credere al sacrificio di chi ci ha preceduto;orgoglio di noi che invece,in loro,abbiamo sempre creduto! 

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- Esperienze di vita

IL fidanzamento di una volta

Dalla serie di racconti:”Come eravamo”                                                                                    IL fidanzamento di una volta.                                                     Nel sud Italia,compreso Rapone(PZ),fino agli inizi degli anni 60,(più o meno) l’approccio dei ragazzi al fidanzamento non era così diretto come adesso.I ragazzi e le ragazze di allora, avevano molte difficoltà ad incontrare liberamente coetanei dell’altro sesso. Le ragazze soprattutto, erano ,diciamo così, “controllate a vista”,dai genitori,dai fratelli,e perchè nò,anche dagli estranei,che a volte,riferivano ai genitori della ragazza,sia i suoi spostamenti e sia le sue frequentazioni. Se le ragazze “sgarravano”,quando rientravano a casa erano quasi sempre botte! Per loro non era facile muoversi in simile contesto. L’occasione che le ragazze attendevano di più per uscire liberamente di casa,era la domenica, quando insieme alle loro amiche,in gruppo e a braccetto,si recavano in chiesa ad ascoltare la “messa cantata”delle 11, e partecipando poi a quasi tutte le processioni ecclesiastiche. Anche i ragazzi, quasi sempre, viaggiavano in gruppo di amici per le vie del paese,cercando di incrociare gli sguardi delle ragazze. A volte, le seguivano anche a debita distanza cercando un qualche segnale di intesa.Quasi sempre si tentava l’approccio tramite un amico o un’amica che faceva da intermediario,ovvero, ”l’ammasciatore” (ambasciatore),il quale,portava”l’ammasciata”,cioè,portava a conoscenza della”eventuale fidanzata”, la richiesta di fidanzamento.Quasi sempre la ragazza interessata si prendeva un certo lasso di tempo per la risposta,di solito entro una settimana. Se la cosa era fattibile,la futura fidanzata ,doveva ottenere anche il placet di tutta la famiglia,e se la sua famiglia era d’accordo,nella risposta ,la ragazza comunicava anche il giorno del fidanzamento ufficiale,cioè il giorno in cui l’aspirante fidanzato doveva fare l’ingresso in casa della futura sposa accompagnato da almeno un genitore.Solo dopo l’ufficializzazione del fidanzamento i due giovani potevano uscire insieme,ma sempre scortati e seguiti da un genitore della sposa,di solito la madre, o un fratello o sorella; tutto questo fino al giorno del matrimonio.Tali scene erano molto frequenti per le strade di Rapone e in tutto il sud Italia.Personalmente ricordo che anche i miei fratelli maggiori,quando erano fidanzati (meta’anni 60), facevano proprio così,cioè passeggiavano con la”scorta”! Dal giorno del fidanzamento e fino al matrimonio,i movimenti della futura sposa erano abbastanza limitati.Se non usciva con “la scorta”di cui sopra,o se non c’era il fidanzato,al massimo poteva uscire con la sorella o qualche parente del fidanzato,raramente con qualche amica. Se la poveretta “sgarrava”anche una sola volta e lo sposo lo avrebbe saputo,quasi sempre si arrivava allo “scioglimento” del fidanzamento.Detti comportamenti si avvicinavano molto agli attuali modelli “Talebani”! A tale proposito, mi ricordo vagamente,ma ne sono sicuro,che a quel tempo alcune signore, in chiesa soprattutto,portavano anche un velo sul capo. Già a fine anni 60 pero’,quando “cercavo di entrare in campo” anch’io,la situazione si era molto evoluta.La timidezza che avvolgeva gran parte di noi ragazzi,in quel periodo, cominciava a diradarsi.Ricordo che anch’io provavo a “fare da me’”e senza ricorrere all’”ambasciatore”. Molte volte mi preparavo,sotto tutti i punti di vista,per dichiararmi ad una ragazza del mio quartiere,ma ogni volta poi la mia timidezza mi frenava e rimandavo la cosa sempre alla prossima volta.Povero me’!....Per fortuna che mi sono “svegliato” in seguito! All’epoca a Rapone(PZ),non era ancora in uso il saluto sbrigativo di adesso,cioè: il “ciao!” e cercare di attaccare bottone con una ragazza che ti emozionava,anche se con discorsi appena un po’ più lunghi, per i timidi come me,non era facile! Adesso con l’avvento delle nuove tecnologie,soprattutto telefonini,internet e una liberta’ pressochè assoluta,i fidanzamenti attuali sono molto più facili e diretti. Difficilmente ci avvaliamo di intermediari,e la figura del vecchio “ambasciatore” non è che poco più di un suggestivo ricordo,per noi che quell’esperienza l’abbiamo vissuta,per noi che non l’abbiamo ancora dimenticata.