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Raccolta di articoli di Maria Pace
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Storia

Viriato Il Guerrigliero

 

La scena è terribile e straziante e un silenzio di morte incombe sul campo disseminato di corpi senza vita. Sono soprattutto donne e bambini e sembra un campo di battaglia.  Ma non è un campo di battaglia, perché non ci sono armi sparse per terra. Solo corpi. E’ un campo di sterminio!

Un uomo si aggira tra quei corpi straziati. Non è solo; con lui ci sono altre persone. Poche persone.

L’uomo si ferma di colpo e si piega sul corpo di una ragazza.  Ancora una bambina, in verità, ma le hanno squarciato il grembo. L’uomo le si inginocchia accanto, le accarezza il volto  con infinita  tenerezza, poi pone la mano destra sul grembo insanguinato; alle sue spalle  i compagni piangono.  Non lui! I suoi occhi sono ostinatamente asciutti e le labbra contratte, .ma un lampo  d’odio  profondo  gli attraversa  lo sguardo,  mentre  proferisce:

“Chiamo gli Dei tutti degli Inferi a sostenere questo braccio fino a  quando non avrò fatto vendetta di questo sangue innocente.”

Quell’uomo era Viriato, il grande Guerrigliero, che per anni  tenne in scacco le  invincibili Legioni romane in Lusitania. Era scampato all’eccidio solo per un caso e quella ragazzina era sua figlia.

In quella circostanza dai loschi  contorni  e  in un clima di ferocia tale da suscitare orrore nella stessa Roma, perirono circa 30 mila  persone

 

Che cosa era accaduto?

I bagliori delle fiamme di Cartagine che bruciava erano ancora vivi quando i romani occuparono la Lusitania, nella penisola iberica, zona ricca di monti e foreste, ma povera di pascoli, dove la principale occupazione della popolazione era la razzia ai danni del vicino. Inutile ogni accordo con la popolazione locale,  alla fine il console Sulspicio  Galba  propose  e ottenne dal Senato Romano il trasferimento della popolazione in altra zona più produttiva, che fu fissato per il l50 a.C.

Con la promessa di migliori condizioni di vita, dunque,  Galba riuscì a convincere la popolazione, che adunò  in un posto convenuto e  divise in tre gruppi,  pronto a trasferirla nella  nuova destinazione.  

Il generale si raccomandò che non fossero armati, dal momento che le armi non sarebbero servite, là,  dove erano diretti.  Appena formati i gruppi, però, Galba ordinò all’esercito di circondarli e massacrarli tutti, donne, uomini e bambini.

In realtà, non tutti si erano presentati all’appello. Fra quelli scampati al massacro, c’era Viriato, il quale condusse  i compagni sul  campo dell’orrore  e  in nome di tutti gli Dei degli Inferi, giurò che mai avrebbe deposto le armi  contro Roma,  fino a quando non avesse sparso fiumi di sangue romano per  vendicare l’orribile misfatto.

Chi era  Viriato,?

Viriato era l’uomo destinato, dopo quel sanguinoso episodio,  a diventare il nemico più temuto di Roma.

Da tutti ammirato, perfino dagli stessi nemici,  Viriato proveniva da una famiglia di  umili origini.  Fin da  giovanissimo  la sua occupazione fu quella del brigante  e del  mercenario,  come era uso presso le  barbare tribù lusitane.  Dotato di straordinaria  forza fisica,  resistenza alle fatiche,  alla fama ed alla sete, il giovane  avrà modo, in seguito, di  dimostrare di possedere anche doti di  diplomazia. Soprattutto, però, possedeva un intuito militare e strategico fuori del comune ed  aveva un modo di combattere tutto nuovo e particolare:  non  affrontava  il nemico a viso aperto e con le forze al completo, ma lo coglieva di sorpresa con un manipolo di uomini. In questo era anche favorito dall’impraticabilità del terreno su cui si muoveva e che conosceva perfettamente..

Grande trascinatore,  nel 147 a.C. riuscì ad unire intorno a sé  un numeroso esercito tribale  da opporre ai conquistatori romani,  guadagnandosi  presto  il rispetto della sua gente,  ma   anche dei nemici,  soprattutto quando, con uno stratagemma  riuscì a mettere in salvo i suoi uomini.

Cominciò proprio con quell’episodio la sua leggenda di  guerriero intrepido,  imprendibile ed imbattibile. In una sola parola: l’incubo dei romani.

Partì da Carpetania, che devastò, mettendola a ferro e fuoco. Qui, diede prova della misura del suo odio verso Roma,  mettendo  in scena una macabra cerimonia:  sacrificò un cavaliere romano fatto prigioniero ed invitò i suoi uomini a giurare odio eterno a Roma,  facendo mettere loro la mano destra nelle viscere della vittima.

La più grande vittoria, Viriato l’ebbe  nello stesso anno, contro il comandante romano Caio Vetilio.

Romani e Lusitani erano già pronti alla battaglia, schierati gli uni di fronte agli altri.  Ma Viriato, con un gruppo di mille cavalieri  attaccò di sorpresa  le truppe di Vetilio,  mentre,  ad un segnale convenuto,  i suoi uomini  penetravano tra  le fila dei soldati romani,  li superavano e si davano   ad  una  fuga sparpagliata.. Colto di sorpresa dall’insolito modo di guerreggiare e non potendo disperdere la cavalleria all’inseguimento dei fuggiaschi, il generale romano attaccò i cavalieri di Viriato,  ignaro di cacciarsi in una trappola.

Freschi e riposati, i cavalieri lusitani riuscirono ad allontanarsi  e .Caio Vetilio si pose al loro inseguimento. 

Per ben due giorni il barbaro condottiero lo tenne impegnato con finte fughe e improvvisi attacchi, fino ad arrivare nei pressi di Trebula, dove si apriva una gola stretta e profonda. 

Simulando una nuova fuga, Viriato e i suoi cavalieri penetrarono nella gola, fino  all’estremità. 

Vetilio li inseguì con tutto il suo esercito, ma rimase intrappolato nella gola. Qui, i Lusitani  si erano appostati sulle alture ed avevano ostruito ogni via di fuga e di salvezza.   

Fu una strage.  Seimila soldati romani vi trovarono la morte, tra cui lo stesso  Vetilio.

 

Negli anni successivi Viriato continuò  la sua espansione verso l’interno,  diventando l’incubo di Roma:  la sua tattica di combattimento nuova  ed inconsueta, stava creando una leggenda. Era nata la guerriglia e la lista dei generali romani  sconfitti ed umiliati da questa sua nuova tattica di combattimento  andò  allungandosi.  

Dopo Vetilio toccò a  Caio Plauzio e poi a Claudio Unimano il quale, dopo diverse scaramucce si  scontrò con lui. Fu una sconfitta totale, nella quale perse tutte le insegne e perfino i fasci da generale.   

Ci proverà Fabio Massimo Emiliano, questa volta, a fermare il barbaro condottiero, forte di un esercito  di 17 mila uomini, tra fanti e cavalieri. Seguirono alterne vicende.

Toccò anche a Quinto Pompeo, ma fu ricacciato anch’egli.  

Intorno a Viriato s’era creata  la leggenda e l’impegno romano si fece sempre più pressante.   

Al generale Quinto Fabio Serviliano furono consegnate due Legioni e perfino alcuni elefanti  donati dal re della Numidia e all’inizio i romani ottennero qualche   successo, ma  poi,  Serviliano assediò la città di  Erisone.   

Correva l’anno  140 a.C.  

Viriato ruppe l’assedio e penetrò nella città costringendo i romani a ritirarsi in direzione di una valle  percorsa da  dirupi e fossati, in fondo alla quale il geniale guerrigliero aveva posto una fortificazione.

Fu una sconfitta  totale.

Per evitare un massacro, Serviliano chiese la resa e Viriato la  concesse, mostrando di possedere oltre a qualità  strategiche militari,  anche doti  politiche  e  diplomatiche e non lasciandosi  vincere da quel sentimento di vendetta che per anni lo aveva sempre sostenuto. Sapeva bene che se avesse massacrato quegli uomini in suo potere, Roma non avrebbe mai perdonato e Roma disponeva di  risorse e mezzi illimitati. Così, il guerrigliero  geniale e coraggioso si mutò in diplomatico fine  e  sottile. 

Le sue condizioni di pace furono miti e ragionevoli, tanto da riconoscergli da parte dei Romani, il titolo di “Amico del  popolo romano” e perfino il  dominio sui territori conquistati.   

 

Viriato, però,  eroe schietto e  leale, non aveva fato i conti con l’arroganza del Senato di Roma il quale nemmeno un anno dopo, impugnò il Trattato e gli inviò contro un potente esercito al comando del console Servilio Cepione.  

Il grande guerrigliero, però,  non aveva intenzione di riprendere le ostilità, ma Cepione dette inizio ad una serie di provocazioni.  Ogni tentativo di Pace fallì, ogni trattativa naufragò, soprattutto l’ultimo, che si mutò in un atto di tradimento  da parte di tre dei suoi stessi uomini.  

Che cosa era accaduto?   

Per l’ennesima volta, Viriato  aveva inviato ambasciatori al campo romano per negoziare  un  nuovo accordo.  Si trattava di tre uomini di sua fiducia,  che  il console romano ricevette  sotto la sua tenda e  che dopo un lungo discorso   riuscì  a corrompere.  

Quando i tre tornarono al campo per riferire, di notte, sotto la tenda di Viriato, lo pugnalarono alla gola e fuggirono. Al campo romano, dove tornarono per la ricompensa, furono scacciati in malo modo.

Il cordoglio per quella morte fu grandissimo; il popolo pianse il suo grande Condottiero e gli tributò eccezionali onori funebri.  

Viriato aveva perso la  vita, ma la penisola iberica aveva perso la sua indipendenza.

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- Storia

Teorie sulle Piramidi

 
TEORIE sulle PIRAMIDI
 
 
E' ormai accertato che la storia delle Piramidi è legata a vicende dinastiche, ma che non mancarono componenti politiche, religiose e soprattutto sociali. Volerne attribuire, però, anche caratteristiche  esoteriche e misteriche, contribuisce solo ad alimentare disinformazione storica e culturale. Le informazioni acquisite attraverso ricerche e studi seri ed accurati permettono oggi di affermare che le Piramidi egizie erano proprio delle tombe reali all'interno di un monumentale complesso architettonico. 
 
La disputa nasce da un'apparente incoerenza che per alcuni é difficile accettare: la fatica di ammassare quasi 25 milioni di tonnellate di pietra al solo scopo di seppellirvi tre persone, ossia i  faraoni Keope, Kefren e Micerino. Tale sforzo sembra davvero eccessivo e per questo si cercano altre  teorie alternative a quella della Piramide intesa come  sepoltura.
 
Già Erodoto accettava tale teoria: che fosse sepolto il corpo oppure lo spirito del Sovrano, la funzione funeraria della Piramide era accertata ed accettta.
 
La costruzione di una "Dimor Eterna", ossia della MER, solida e protetta , per consentire al Faraone defunto di identificarsi con Osiride, divenne lo scopo principale della società egizia la quale, della figura del Faraone , aveva fatto il garante della propria serena esistenza. 
 
Il popolo egizio concentrò ogni sforzo  nella realizzazione di un progetto grandioso ed ambizioso che potesse occupare una manodopera costituita dalla totalità della popolazione.
 
Qualcuno replica che tale sforzo immane avrebbe potuto essere diretto alla realizzazione di un'opera più utile; ad esempio l'irrigazione. In realtà, all'epoca l'irrigazione, sia pur locale, era più che efficiente.
 
E c'é chi si interroga sull'interruzione di quel tipo di costruzione.
 
La risposta, forse, sta nell'evoluzione avvenuta nella società: da economia rurale, la società si era trasoformta in vita comunitaria. Forse perché l'obiettivo principale, più che la sepoltura del Sovrano, era la concentrazione della popolazione e la creazione di uno Stato centralizzato... proprio come avvenne.
 
Progettare Piramidi aveva creato una nuova società mai esistita prima: uomimi uniti da un lavoro collettivo attraverso il quale acquisire una coscienza nazionale... proprio come avvenne. 
 
Forse perché l'obiettivo principale non era  la sepoltura di chi o quale Sovrrano, ma un programma di lavoro attraverso cui  costruire un nuovo ordine sociale sconosciuto ad altre società.
 
Complessi architettonici così colossali ed imponenti dovettero richiedere l'impiego di una manodopera specializzata e non improvvisata ed una capacità di progettazione e di costruzione davvero straordinaria e non ultima,  la capacità di cambiamento del progetto o addirittura di abbandono in presenza di fattori che, oggi,  non si conoscono ancora.    Paradossalmente,  per capire veramente come sono state costruite le Piramidi, bisognerebbe smontarle...    Una ad una,  però, poiché per ognuna di esse fu adottato uno schema di costruzione diverso dal precedente.
 
Uno degli errori che si compiono oggi più frequentemente è tentare di formulare  teorie  quasi esclusivamente sulla base  di dati archeologi incompleti,  ma anche di fare comparazioni di tipo sociale con lo stato dell'Antico Egitto o peggio ancora, attraverso alcune enunciazioni di antichi studiosi ( Greci e Latini).
Quale é stato il risultato?
Che accanto a teorie serie e di metodo, ne sono spuntate altrettante strane e cervellotiche che nuocciono alla Storia e che hanno portato a quel fenomeno chiamato "Piramidologia".
 
Che cos'é la Pitamidologia?
E' una pseudo-scienza nata dalle enunciazioni di scienziati (matematici, fisici ed astronomi), scrittori ed esoterici.  Soprattuto i secondi, solamente giocolieri della parola, senza il minimo supporto di conoscenze archeologiche, hanno formulato teorie ed opinioni sulla funzione, datazione, tecniche di costruzione di Piramidi e della Sfinge (quelle di Gizah) assolutamente fantasiose.
A partire dall'inizio del secolo scorso, mistici ed esoterici hanno attribuito alle Piramidi finalità esoteriche, cabalistiche, ecc... giungendo talvolta a negare perfino la sua vera funzione e destinazione, che è quella di tomba reale.
La battaglia per una seria informazione dura ancora oggi. Anzi, é più che mai viva.
Da una parte ci sono ricerche e studi seri come quelli dell'archeologo e architetto francese J. Philippe Lauer o dell'archeologo belga J. Capart e dall'altra pseudo studiosi come Duval o J. Usher, solo per citarne qualcuno.
Stupisce anche che ricercatori seri come W. Kingsland o C. Piazzi-Smith, che pur riconoscendo alla Piramide una funzione funeraria, abbiamo espresso la loro convinzione circa altre finalità.
 
Altrettanto accesa è la disputa sulla datazione delle Piramidi.
Sono in tanti ancora oggi, disinformati da libri e articoli che hanno il solo scopo di far cassetta, ad essere convinti che le Piramidi o... più esattamente, "La Piramide", poiché quando se ne discute lo si fa  riferendosi alla piramide di Keope, sia retrodatabile di diversi millenni.
Chi più di altri ha contribuito alla diffusione di  questa pseudo-scienza  é stato proprio Piazzi-Smith,  astronomo reale di Scozia e studioso serio e  stimato.
Egli avvalorò le teorie di un altro ricercatore, J. Taylor, secondo il quale la costruzione della Piramide, nella sua grandiosità e perfezione,  non  può essere  opera umana ma di esseri illuminati e superiori.  Taylor ne attribuì la costruzione agli Hyksos, di origine semita. Per farlo, però, dovette retrodatare l'invasione degli Hyksos in territorio egizio, affermando che a guidarli fosse Sem, figlio di Noè.
L'invasione degli Hyksos,  dimostrano invece ricerche e studi, avvenne molto più tardi.
L'astronomo Piazzi-Smith era un indiscusso professionista ed un eccellente ricercatore, ma anche un abile manipolatore (lo dimostrerà con la sua enunciazione sul "cubito di Memfi");   il suo appoggio, perciò,  diede credito ad una  teoria astratta e fantasiosa  come quella  di Taylor che venne (per comprensibili motivi) immediatamente ed entusiasticamente accolta ed appoggiata in Scozia ed Inghilterra da ambienti presbiteriani ed ebraici.
 

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- Storia

La vera funzione della PIRAMIDE EGIZIA

 

MER. Così, gli Antichi egizi chiamavano la Piramide: Mer, “Dimora dello spirito” (tomba); con il termine Per, invece, indicavano la Casa o il Palazzo. Hut, per finire, serviva ad indicare la dimora in senso lato.

Il termine Faraone, ossia Per-oa, significa, dunque, Palazzo-Divino (incarnazione dello spirito Divino nel corpo mortale del Sovrano).
Era d’obbligo, tale premessa, per affermare che la Piramide, cioè la Mer, è una tomba o più esattamente, il veicolo attraverso cui il Ka (spirito) del Faraone, poteva raggiungere gli Dei e farne parte.

Da sempre la funzione delle Piramidi e del loro Guardiano, la Sfinge, ha scatenato ipotesi e speculazioni che negli ultimi tempi è diventata quasi ossessione.
Fin dai tempi antichi, l’imponenza e la forma delle Piramidi, come anche di altri monumenti del passato dalle forme bizzarre e dalle proporzioni colossali, hanno colpito la fantasia del viaggiatore.
Si sono cercati enigmi e misteri suggeriti più dalla suggestione che dalla conoscenza e si sono formulate teorie disinvolte, fantasiose, assurde e talvolta perfino ridicole, mai avallate da una seria ricerca scientifica o archeologica.
Quella dell’età delle Piramidi è un argomento che affascina l’uomo moderno il quale, vivendo nel mondo che conosciamo, ha bisogno di miti, leggende e fantasie.
Una fantasia è certamente quella di retrodatarne l’epoca di costruzione di qualche migliaio di anni, arrivando addirittura a scomodare antichissime civiltà come Atlantide (della cui esistenza non si hanno certezze) o gli extraterrestri, riconoscendo ai Faraoni e al popolo egizio, il solo ruolo di Custodi di quei capolavori di architettura, ingegneria e geometria.
E’ vero che ancora oggi non se ne conoscono bene le tecniche di costruzione e varie sono le ipotesi (alcune delle quali accettabili), ma è altrettanto vero che, accanto ad una Medicina assai progredita, gli Antichi Egizi disponevano di una Matematica e soprattutto di una Astronomia, con fini puramente utilitaristici. Studi e ricerche al riguardo, condotti con serietà, si ebbero solo nel secolo appena passato.
Si è cercato anche di attribuire la stessa mano alla costruzione delle Piramidi del Messico.
A parte la datazione, l’unico apparente riscontro lo si potrebbe avere nella forma “a gradoni” con la Piramide del faraone Djoser. Anche questa comparazione, però, cade se si riconosce una sostanziale differenza geometrica: quelle messicane, in realtà, non sono Piramidi, ma Tronchi-di-Piramidi.
Era sulla “terrazza” del Tronco che veniva collocato l’altare sacrificale, poiché era quella la sua funzione: un colossale altare sacrificale.

 


In Egitto, invece, era il Piramidion, cioè la cuspide della piramide, il punto centrale. Maat era il nome con cui si indicava il vertice della cuspide della Piramide e rappresentava la potenza e l’armonia cosmica: la Maat, per diritto di cronaca, era anche il potere concentrato nelle mani del Faraone che, della piramide-sociale, era il vertice.
Quando non si costruirono più Piramidi (dopo la XII Dinastia) si continuò a dotare le tombe di una cappella sormontata da un Piramidion.

 

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le Piramidi furono frutto di ricerche, studi e tentativi falliti; di Piramidi (pur in rovina) se ne contano, in Egitto, più di ottanta, anche se quelle conosciute superano di poco il numero delle dita delle mani.
Ancora una precisazione, prima di fare un elenco di quelle più note: quello che noi gente moderna chiamiamo genericamente Piramide, era in realtà un grande complesso architettonico racchiuso da uno o più muri e costituito da diversi corpi:
- la Piramide
- il Tempio Funerario
- la Via Processionale
- il Tempio a Valle (con prospiciente il molo d’attracco)

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- Storia

La donna egizia... allo specchio!

 

Gli Antichi Egizi possedevano uno spiccato senso del bello e dell’estetica e il più bel messaggio che abbiano potuto inviarci lo hanno affidato a due celeberrimi ritratti di una Regina molto amata soprattutto dai posteri: Nefertiti!  Donna dalla leggendaria bellezza e dalla grazia delicata e sensuale.

 

 

 

                 

Nell’Antico Egitto uomini e donne apprezzavano molto balsami ed unguenti e prestavano particolare attenzione alla cura del corpo, ai profumi, all’acconciatura ed all’abbigliamento, ivi compreso i gioielli.

E ciò non soltanto per quell’innato senso estetico che li accompagnò fin dall’inizio della loro storia e non soltanto per ragioni igieniche, ma anche per un motivo squisitamente trascendentale. Era loro ferma convinzione che la temporanea vita terrena  fosse solo un preludio ad una vita eterna ed era ambizione  di tutti viverla nel modo più felice possibile e con un corpo giovanile e ben curato.

Splendide e meravigliose scene ritraggono  seducenti figure di donne con in mano specchietti dalla squisita e fantasiosa fattura.

 

 

 

 

 

Ankh era il nome  dello specchio,  stesso termine che usavano per indicare la Vita.

E non a caso!

Lo specchio non era un semplice oggetto a cui chiedere il consenso per la riuscita del trucco; lo specchio era il magico riflesso di atti e gesti quotidiani: truccata, pettinata, profumata ed abbigliata, la donna (ma anche l’uomo) poteva affrontare la sua giornata.

In metallo, argento oppure bronzo, finemente lucidato,  lo specchio aveva quasi sempre forma rotonda od ovale con preziose decorazioni e finissime incisioni  sul retro e sul manico.

 

Un certo stile di vita e pressanti  necessità igieniche favorirono l’uso di abluzioni; anche più volte al giorno. Alle abluzioni seguivano i massaggi con unguenti e creme.

Nel creare unguenti, deodoranti, profumi, ecc… gli antichi egizi erano veri maestri:  ricette di cui i  sacerdoti dei Templi di Thot o Ammon o delle sacerdotesse di Iside o Hathor erano particolarmente gelosi.

Dai famosi papiri Ebers sappiamo che dalla mirra e dai semi di dattero e incenso estraevano olii aromatici; che da grassi animali (ippopotami, coccodrilli, ecc)  e da grassi vegetali  creavano creme per rassodare la pelle, ammorbidirla e renderla levigata, attenuare le rughe, coprire i cattivi odori, ecc…  Lo testimoniano i numerosi porta-unguenti, le ingegnose spatole, i preziosi cucchiai per cosmetici, ecc… rinvenuti nelle tombe, alcuni dei quali sono vere sculture. Piccole  opere d’arte  preziose e fantasiose.

Dopo il massaggio, la vanitosa signora egizia passava al trucco. Truccarsi era una pratica assai diffusa e non solo tra le donne.

Per il trucco degli occhi  usava due sostanze: la verde malachite del Sinai  e successivamente  la nera galena del Mar Rosso, adatta, quest’ultima, anche al trucco di ciglia e sopracciglia. Entrambi i pigmenti venivano utilizzati non solo a scopo estetico, ma anche terapeutico e medicamentoso perché utili a curare la congiuntivite (male assai diffuso),  allontanare insetti, riparare lo sguardo dall’ingiuria del sole.

Oltre agli occhi la donna egizia qualche volte truccava anche bocca (piuttosto raramente, in verità) e guance, mediante l’applicazione di carminio e non mancava mai di curare mani e piedi sui quali  amava stendere una leggerissima polvere   arancio- dorata prima di infilarli  in raffinati sandali di corda intrecciata.

 

La materia prima di tutti questi prodotti, però, arrivava da terre lontane: Libano, Arabia, ecc..   Erano assai costose e non alla portata di tutte le tasche.   Solo  in età tarda gli Egizi cominciarono a piantare sul patrio suolo  gli alberi da cui estrarre le sostanze. I prezzi divennero più accessibili,  tuttavia, per molti   restavano  ancora proibitivi e  per ovviare,si faceva ricorso a sostanze meno costose, come  la menta e l’origano fatte fermentare nell’olio di ricino o altre sostanze ancora.

 

Terminato il trucco, la  dama  egizia passava all’acconciatura: una vera arte!  Un’arte nella quale era non meno vanitosa della donna moderna. E forse anche di più.

Molto in voga era la parrucca il cui uso si fa risalire fino ad epoca antica.

Capelli o parrucca?

La donna egizia amava esibire entrambi: un’acconciatura elaborata ed impreziosita da un diadema, ma anche  una parrucca acconciata in treccine ornate  di perline e cosparsa di polvere dorata. Una chioma fluente, però, ben curata, frizionata, morbida e setosa, costituiva sempre un elemento di grande seduzione.

Le più giovani portavano una lunga treccia  ricadente sulle spalle e le bambine esibivano la treccia infantile laterale  che lasciava il resto del capo rasato.

Pettinature e parrucche conobbero una certa evoluzione nel tempo. Inizialmente più corte, andarono sempre più allungando e crescendo di volume oltre che di estrosità… proprio come le parrucche dei nostri giorni.

 

Truccata e pettinata, la dama egiziana era pronta ad infilarsi nella preziosa veste di lino bianco.

Lino bianco! Era la materia prima nella fabbricazione dei tessuti pregiati. Altre fibre di cui si sono trovate tracce, canapa, cotone, lana, erano poco usate perché poco apprezzate e ritenute impure soprattutto per uso funerario… il suo uso, perciò, era lasciato alla gente di rango inferiore

Lino bianco, dunque, per le lunghe tuniche aderenti sostenute da bretelle oppure provviste di lunghe maniche ampie e plissettate. Profonda  la scollatura.

Lino bianco, ampio, leggerissimo, trasparentissimo ed a pieghe per la sopraveste che si annodava sotto il seno o sul fianco: un raffinato mantello chiamato Calasiris, che poteva essere anche  colorato, ma sempre con frange e pieghe.

Famosi i Calasiris delle pitture parietali della tomba della regina Nefertari.

 

E non poteva mancare, soprattutto nelle cerimonie e nei banchetti, il cono profumato sopra l’acconciatura. Si trattava di un prodotto grasso e profumato a forma di cono che si poggiava sul capo e che il calore del corpo scioglieva lentamente, rilasciando profumo  sulla persona e sull’abito.

 

A questo punto alla nobile e ricca signora egizia mancava solo un ultimo, irrinunciabile accessorio: i gioielli.

I gioielli, il cui valore non era legato solamente all’intrinseca preziosità della pietra, ma alla protezione magica e benefica di cui era arricchita in virtù di un suo valore simbolico che l’avvicinava al divino. Ed ecco il rilucente oro, di cui si credeva fossero fatte le membra degli Dei o l’argento di cui si credeva fossero fatte le ossa divine, ma anche la sanguigna corniola di cui si pensava fosse il sangue degli Dei.  Non mancavano il verde feldspato e il celeste turchese di cui si immaginavano gli occhi degli Dei; infine, il lapislazzulo blu, di cui erano fatti i capelli degli Dei.

 

Erano questi simbolici accostamenti a dare valore al gioiello: ornamento, ma soprattutto protezione magica.

Per questo anche le mummie ne venivano adornate.

Ma non solo la scelta del materiale era simbolica. anche la forma e la fattura lo erano.  E lo erano i soggetti.

I soggetti: pettorali, bracciali, anelli, fibule, collane, amuleti, ecc… raffiguravano le Divinità e le loro funzione.


Assai più semplici e modeste, invece, le lunghe o corte tuniche delle popolane e delle  ancelle ed assai meno costosi i loro gioielli e meno raffinati i sandali e le parrucche, benché la tentazione d

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- Storia

La donna nella società egizia

 
 
"Raddoppia il pane che dai a tua madre e portala così come essa ti ha portato..."
E' una delle massime moralistiche attraverso cui, nella società egizia, tende a manifestarsi quel vago matriarcato in cui si rispecchia la posizione della donna, paritaria con l'uomo. Proprio  come accade nel campo religioso, dove le  Grandi Divinità Femminili (come Iside, Hathor,  Neith) rivendicano la parità con le  Divinità Maschili.

Nebet Per, ossia Signora della Casa, la donna egizia godeva di una posizione di rispetto e privilegio sconosciuta alle donne appartenenti ad altre culture del suo tempo: basta osservare la donna biblica, romana o medioevale; perfino i Greci si stupivano della sua libertà ed eguaglianza
Rispetto e privilegio e nella propria casa e nella società.
Nonostante  l'istituto della poligamia e del concubinato, l'egiziano era essenzialmente monogamo ed una sola era la Signora della Casa: quella che  compariva sempre al suo fianco, perfino  nelle pitture parietali delle tombe, nelle statue  o stele funerarie.
Il gineceo egizio, l'harem, quel luogo proibito e misterioso, era appannaggio soprattutto del Faraone (per motivi politici) e di ricchi Funzionari, ma anche all'interno di un gineceo reale o privato, una sola era la Signora della Casa. E l'ideale di donna emerge chiaro dagli Inni a lei dedicati e dagli accenti appassionati di molte poesie d'amore i quali testimoniano che i matrimoni non fossero solo semplici unioni fra due persone, ma che alla loro base  vi fosse l'amore.

    "La sua sposa, la sua amata.
     Sovrana di grazia, dolce d'amore.
     Piacevole nei discorsi
     Donna perfetta......"   si legge in un papiro del IV  secolo a.C.

 e ancora:

    "L'unica, l'amata, la senza pari
     la più bella di tutte.
     Ecco, guardatela:
     é come le stelle fulgenti..."
La donna egizia é indicata con il termine Senet, che vuol dire Sorella, Amica... ma, nei documenti giuridici é chiamata invece Hemet, che significa Sposa: proprio per la funzione che ella svolge in seno alla famiglia.

La donna-sposa era molto influente nella famiglia, benché il matrimonio non fosse una istituzione legalizzata religiosamente o civilmente, ma solo una libera scelta di coabitazione fatta da due persone... scelta a volte, però, condizionata dalla famiglia.
Si deve aspettare il tardo periodo tolemaico per trovare un contratto matrimoniale (contratto che in realtà indicava soprattutto eventuali disposizioni sulla proprietà e i relativi diritti economici degli sposi in caso di divorzio)
Indicativo il fatto che il diritto di discendenza (anche nelle Case Regnanti... soprattutto nelle Case Regnanti) avvenisse per parte materna. Non era raro, infatti, che un uomo avesse rapporti con altre donne della casa e che avesse altri figli... tutti, però, legittimi.

Nello stato di donna sposata, la donna poteva disporre ed amministrare i beni ricevuti in dote o in eredità, le era accordato il diritto di comparire  come testimone o di intraprendere azioni giuridiche  nei processi. Non avendo tutori, era riconosciuta responsabile delle proprie azioni  esattamente come gli uomini e come questi, se portata in giudizio, sottoposta alle stesse pene.
In caso di vedovanza la donna egizia acquisiva il prestigio di capofamiglia, ereditava un terzo dei beni del marito e poteva risposarsi.
Alla donna ripudiata e rifiutata, invece, spettava sempre un largo compenso. La causa di ripudio era quasi sempre la sterilità, ma si poteva ovviare attraverso l'adozione.

Nella vita pubblica quanto in quella privata, la troviamo spesso impegnata in ruoli di prestigio e responsabilità, nonostante che  le cariche pubbliche fossero in realtà,  ricoperte soprattutto da uomini. Poche, infatti le donne che giunsero a detenere il potere supremo o a collaborare nell'attività politica: la regina Huthsepsut, nel  primo caso, la regina Nefertiti, nel secondo.
In campo religioso ricopriva spesso cariche di “Divina Adoratrice” o “Grande Sacerdotessa” di Divinità importanti come Sekhmet, Iside, Hathor; in campo amministrativo la si poteva trovare perfino a capo di un Dicastero come quello degli “Unguenti e Profumi”.
Nel privato si occupava della conduzione della propria casa, dell’educazione dei figli, dell’amministrazione di beni in proprietà con il marito e di altro ancora. La sua vita era facile e piacevole, vissuta quasi nell’ozio, tessendo o filando, tra feste e banchetti.
 
Tutto ciò, naturalmente, se si trattava di donne benestanti. Le donne di più umile origine, invece, avevano vita assai meno facile. Tessevano e filavano anch’esse, ma oltre a ciò, si occupavano dei lavori domestici e di quelli dei campi e facevano mille altre cose… come tutte le donne del mondo, prima e dopo di loro. Partecipavano ad ogni tipo di attività lavorativa, ma con preponderanza verso quelle domestiche: erano fornaie, mugnaie, birraie, spigolatrici, filatrici, tessitrici, contadine, nutrici, cantanti, musiciste,ecc...
Non solo lavori domestici, però. Le troviamo impegnate anche in attività amministrative con ruoli di di responsabilità. Incontriamo donne medico-ostetrico per donne e bambini, come Pesechet, della V Dinastia, ma anche donne dedite al commercio del vino e della birra ( attività squisitamente maschile) e sappiamo di donne che svolgevano attività di Giudice, Scriba e perfino Visir (corrispondente al nostro Presidente del Consiglio dei Ministri).

Diversa, però, era l’esistenza vissuta in  un Ipet, il gineceo reale.
Qui, le donne vivevano in una condizione di recluse, all’interno di una gabbia dorata, con il solo scopo di arrecar piacere al Sovrano e senza nessuno dei diritti riservati alle donne comuni; scelte in tutto il Regno, quella condizione, però, era un grande onore per se stesse e le loro famiglie.

Le varie statuette rinvenute nelle tombe,  le scene parietali, ecc... ci  mostrano una donna assai bene inserita nella società lavorativa: ci trasmette, cioè, il grado di rapporto paritario raggiunto con l'uomo; assai diverso d quello delle donne appartenenti a civiltà della stessa epoca.
La donna, però, era soprattutto il pilastro della famiglia e la famiglia era il pilastro della società e come tale  la donna egizia era rispettava e protetta.

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- Storia

La Maledizione dei Faraoni

 
Qualcuno crede ancora nella “Maledizione dei Faraoni”? Probabilmente sì!
C’è qualcosa di vero? Naturalmente no!   
Come e quando è sorta questa leggenda? Che cosa l’ha alimentata così a lungo?
Tutto cominciò quando l’archeologo inglese Haward Carter scoprì la tomba del celeberrimo faraone Thut-ank-Ammon, durante una spedizione archeologica finanziata dal magnate americano  Carnarvon.
Rimanderemo ad altra occasione la straordinaria e clamorosa scoperta di questa tomba e resteremo nell’ambito della più colossale “bufala” (così la chiameremmo oggi), architettata ad arte per sfruttare un’inaspettata ingenuità, dilagante nel momento intero.
Innanzitutto bisogna riconoscere l’uso che nel Mondo Antico si faceva di formule di maledizione per colpire o annientare un nemico. (uso che purtroppo persiste ancor oggi: basta seguire qualche programma televisivo)
Una delle forme più comuni di Maledizione, presso l’antico popolo egizio, era quello di scrivere una formula magica su un vaso o un coccio, facendola seguire dal nome del malcapitato: una formula con cui, naturalmente, si augurava ogni sorta di sciagura. Nel corso di una cerimonia si mandava in frantumi il vaso, accompagnando l’atto con le Parole Magiche: le He-kau.
Studiosi ed archeologi moderni, sia quelli seri, sia quelli che seri non erano affatto, conoscevano perfettamente l’uso di quelle pratiche.
Una di queste tavolette maldicenti fu trovata da un assistente di Carter. Fu dapprima  catalogata come tutti gli altri reperti, ma in seguito, ripulita del terriccio, venne decifrata.
I geroglifici recitavano così:
     “la morte colga con le sue ali
      chiunque disturberà il sonno del Faraone.”
Fra il personale addetto agli scavi si diffuse un’immediata inquietudine: consapevoli delle paure ancestrali degli uomini del posto (manovali, sterratori, portatori) in primo momento si cercò di tenere  segreta la notizia di quel ritrovamento e si fece perfino scomparire il reperto. Ancora oggi non si sa dove sia… né se sia davvero esistito.
Si trattava, però, di una notizia davvero ghiotta; impossibile da nascondere. Non passò molto tempo, perciò, prima che arrivasse a gente di pochi scrupoli e con conoscenze archeologiche e scientifiche praticamente nulle: avventurieri,  truffatori e, immancabilmente, esoterici.
Quasi ad avvalorare le teorie di costoro, che sostenevano l’esistenza di una “maledizione”, una seconda iscrizione maldicente comparve all’interno della camera principale del sepolcro e recitava pressappoco così:
    “Io respingo i ladri di tombe
     e proteggo questa hut-ka (sepolcro)”
La notizia fece il giro del mondo e la leggenda della “Maledizione di Thut-ank-Ammon” ebbe inizio.
Come resistere a quell’affascinante storia di fantasmi e mistero?
Tredici, delle ventidue persone che componevano la Spedizione-Carter, persero la vita, si disse. Si disse e si ripeté per anni in tutto il mondo e in tutte le lingue, alimentando una superstizione che aveva il fascino del più profondo mistero. Si alimentarono ad arte un’inquietudine ed una paura sempre crescenti.
“Chiunque entri a contatto – si diceva – con la tomba del faraone Thut-ank-Ammon, resta vittima della sua Maledizione.”
Quel che si ometteva di dire, però, era il fatto che tutte quelle morti erano spiegabili, perché provocate da fattori naturali (cattiva igiene, malaria, morsi di serpenti, ignoranza).  E  si omise  di precisare che molte di quelle morti erano avvenute in tempi molto successivi e per cause tutt’altro che misteriose.
La leggenda della Maledizione, però, era estremamente affascinante e quel fascino catturava molti… Troppi, forse. Catturò letteratura e cinema. Soprattutto il cinema, che girò una pellicola dal titolo suggestivo: “La Mummia”, che fece da battistrada ad un filone di genere nuovo e accattivante: il “fantasy”.
Cos’è, dunque, la “Maledizione dei Faraoni”?
Gli studiosi conoscono perfettamente la profonda religiosità dell’antico popolo egizio: religiosità permeata di magia e superstizione, prodigi e misteri.
Una elite di persone, però, si staccava dalla moltitudine e nella misura in cui la Conoscenza cresceva (Scienza, Astronomia, Matematica, Medicina, Architettura, ecc) crescevano anche il loro sapere e il divario con un popolo lasciato nell’ignoranza. ( come in tutte le culture, naturalmente. Non esclusa la nostra)
Gli studiosi moderni conoscono anche lo sforzo costante degli antichi Sacerdoti egizi per proteggere le tombe da profanatori e saccheggiatori, in azione fin dai tempi più remoti. ( la tomba di Thut, ad esempio,  fu violata durante il primo anno successivo alla sua morte).
Congegni, trabocchetti, trappole: nulla di tutto ciò avrebbe tenuto lontano ladri audaci e con nulla da perdere.
Una sola forza poteva trattenerli e fermarli. I Sacerdoti egizi la conoscevano bene: la paura. La paura alimentata ad arte dalla superstizione; la paura dell’inspiegabile e dell’ignoto. In altre parole: la paura di una “maledizione”.
Per farlo, però, bisognava rendere credibili ed efficaci le minacce di una “maledizione”.
Quali mezzi avevano, gli antichi Sacerdoti egizi, per farlo? Possedevano conoscenze scientifiche e tecniche totalmente ignote al popolo e che custodivano assai gelosamente.
Un esempio? Gli antichi Sacerdoti egizi conoscevano gli effetti (ignorandone la causa) di sostanze radioattive come il radio o l’uranio; soprattutto quest’ultimo, che trovavano in profondità nelle miniere d’oro, (profondità in cui erano mandati a lavorare i condannati... soprattutto di reati gravi) .  Conoscevano le proprietà allucinogene o letali di certe piante e sostanze: oppio, aconito, cicuta, arsenico, i cui fiori dai petali colorati rallegravano i famosi “giardini di Hathor”… e non solo quelli.
Nessun congegno, per quanto pericoloso, poteva essere efficace quanto un’allucinazione o una morte inspiegabile. Se ancora oggi esistono persone ingenue che credono nelle maledizioni e si affidano a responsi, (lo attesta la numerosa clientela di santoni, veggenti e chiromanti) come stupirsi che in un passato così remoto ne fosse vittima gente ignorante e superstiziosa?
Ed ecco la domanda cruciale: che cos’è, in realtà, la famosa “maledizione dei Faraoni”?
Sono le conoscenze scientifiche e tecniche che gli Antichi Egizi possedevano e mettevano in pratica per proteggere le loro tombe. Sone le misture di allucinogeni dei colori utilizzati nelle pitture murarie... sono gli oggetti resi radioattivi e poggiati in bella mostra, che toccati o portati via potevano condurre ad una misteriosa e sono accorgimenti di tale tipo
Com’è nata, in tempi moderni, quella leggenda?
Nacque dall’incredibile interesse mondiale sorto intorno a quella tomba, la più ricca mai scoperta prima, e fu alimentata da una stampa irresponsabile e da fantasiosi narratori, i quali cavalcarono l’emotivita, l’ignoranza e quell’inconscio desiderio di favole che è in fondo allo spirito di ognuno di noi. Esoterici e pseudo-studiosi fecero il resto, proponendo le più stravaganti ed improbabili fantasie e spacciandole per teorie che… se non sbaglio, sono cose che vanno dimostrate.
La “maledizione dei Faraoni” non è neppure una teoria, ma solo una fantasia per tutti quelli che credono in questo genere di favole.
 

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- Società

Concetti e Preconcetti sul velo islamico

 
 
 
 
 
Concetti e preconcetti sull'uso del velo islamico
 
Innanzi tutto esistono diverse tipologie di veli usati dalle donne islamiche che riflettono la tradizione delle diverse regioni  e non sempre sono legati a precetti religiosi.  Nomi diversi per indicare i diversi usi e funzioni:
 
- Hijab:  si tratta del foulard che copre solamente il capo, lasciando scoperto il volto. E' il meno mortificante  ed é anche quello più in suo presso le donne musulmane sia nei paesi occidentali che in quelli islamici  più moderati.
Solitamente viene associato ad un abito ampio e lungo.
 
- Chador:  si tratta di  un semplice fazzoletto che ricopre solamente il capo, ma può essere anche un  mantello che nasconde tutto il corpo, generalmente di colore nero. E' in uso sopratto in Iran.
 
- Niqab: è un velo che copre il volto, lasciando scoperti solamente gli occhi. E' in uso soprattutto  in Arabia Saudita e nello Yemen.
 
- Abaya:  è un velo leggero che, però, ricopre interamente la figura, da capo a piedi, mortificandone la femminilità. E' in uso soprattutto nel Golfo Persico.
 
-   Haik:   Questo tipo di velo, in cotone, copre dalla testa ai piedi la figura femminile;  le donne più anziane lo usano anche per coprirsi il volto, tenendo uniti i due lembi con i denti.  E' in uso soprattutto nei Paesi del Nord Africa, cme Tunisia, Marocco, Algeria, ecc...
 
- Burka:  é quello che maggiormente penalizza la figura femminile, perché la nasconde completamente, cancellandone anche l'dentità. Generalmente é di colore azzurro ed é comune in Afganistan, ma ve ne sono anche di colore scuro in altre regioni.
 
E' inevitabile che la vista di una donna nascosta, segregata, castigata in un tale abbigliamento possa far nascere pregiudizi nella cultura occidentale, più libera e tollerante. 
La  concezione di una donna sottomessa, nel mondo islamico, costretta a coprirsi interamente é ievidente ed nnegabile, ma é una realtà assai variegata, come si é visto dalle varie fogge di veli in uso nei vari Paesi. Non in tutti, ma  in molti  di questi Paesi,  purtroppo,  esiste una  grande disparità tra la condizione maschile e quella femminile,  il cui simbolo, si ritiene, sia proprio il velo: velo come simbolo di sottomissione dell'uomo alla donna.
 
E' proprio da qui, però, che nasce il pregiudizio occidentale su quello che si ritiene solamente un "simbolo" di sottomissione. 
In realtà, per la donna islamica l'uso del velo può risultare addirittura liberatorio, poiché alla donna islamica, prima che la "segregazione" del proprio corpo e spesso del volto, sono state negati molti diritti e molte libertà: l'apparire in pubblico da sole é uno di questi. Ed ecco che, quello che per la cultura occidentale é una forma di segregazione, per la donna islamica diventa invece una forma di "liberazione":  "protetta" dal velo, la donna islamica può rivolgere pubblicamente la parola ad un uomo, stringere rapporti d'amicizia, lavorare, studiare ecc...  tutti diritti che le sono stati negati. E questo fa, la donna islamica. Utilizza il velo per appropriarsi  delle libertà negate... anche quella, ad esempio, di guidare un'auto.
 
Per la cultura occidentale tutto ciò appare inconcepibile, ma solo perché la donna europea ed occidentale ha già condotto le sue battaglie (anche se non le ha propriamente vinte) per l'emancipazione e l'uguaglianza.
  
Per la donna araba, anche per quella  che ogni giorno combatte per la propria emancipazione, il velo non rappresenta, dunque,  uno strumento  ideologico o un simbolo di sottomissione all'uomo, ma un rispetto della tradizione e perfino un mezzo di riscatto.
E'  quasi sempre una convinzione personale  e, in quanto tale,  ha il pieno diritto di scegliere se indossarlo oppure no... solo se le venisse imposto contro la propria volontà, sarebbe una costrizione condannabile.  Soltanto là dove questo accade... e accade, purtroppo... l'uso del velo é da considerarsi una pratica restrittiva.
 

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- Sociologia

La Primavera araba ... e la donna musulmana

 

 

 

 

La Primavera araba del 2011 ha giovato alla donna musulmana ed al suo percorso di emancipazione?

E' accaduto, dopo la primavera araba del 2011, quello che era accaduto già quando, in un passato recente, tutti quei regimi moderati o laicisti (Turchia, Iran, Libia Egitto, Tunisia..) tentarono di imporre ad una società fondamentalmente tradizionalista l'emancipazione della donna come strumento per sradicare quella mentalità.

Quando quei regimi crollarono, primo fra tutti l'Iran, si tornò ai vecchi sistemi:

- repressione delle libertà riconosciute alla donna

- reintroduzione della poligamia

- reintroduzione dell'infibulazione (peraltro fuori legge dal 2008).

 

Si riscontra nei regimi post primavera araba, che i Capi di Stato   sono diventati religiosamente più intransigenti , che  il fenomeno terrorismo si é fatto più evidente, che scontri e guerre civili sono aumentati, che persecuzioni nei confronti di minoranze si sono inasprite e che la condizione della donna è peggiorata.

Così, ad esempio:

- in Siria lo stupro pare diventato arma da guerra

- In Libia, Marocco ed altri Paesi è stata reintrodotta la poligamia

- nello Yemen, ma anche in altri Paesi) è lecito e permesso sposare bambine

- che non è  permesso, invece, in Arabia Saudita ad una donna di mettersi al volante di un'auto o andare in giro da sola

- che là dove questo é permesso, come in Egitto, le aggressioni sono di una frequenza impressionante, tanto da indurre le autorità a istituire, nelle metropolitane, vagoni per sole donne.

- che molte delle donne che parteciparono alla Primavera del 2011 durante la repressione da parte dei regimi hanno subito soprusi, umiliazioni, aggressioni sessuali, visite ginecologiche ed altre inaudite vessazioni.

 

Da questi inasprimenti, però, è nata quella che è stata definita l'Intifada delle donne arabe:

 Intifadat  al-mar'ah'ah fi-l'alam  al-'arabi  per il riconoscimento e la conquista più che di una parità, di una complementarietà fra uomo e donna, ossia di unione e completamento secondo l'antica tradizione islamica venuta in seguito a scontrarsi con l'attaccamento a vecchi costumi.

La Primavera araba ha avuto effetti positivi sulla e nella donna musulmana: il  risveglio della coscienza ed una consapevolezza di sé mai avuta prima.

Si tratta di un cambiamento non violento, lento, ma irreversibile che sta trasformando la società araba; una rivolta organizzata e condotta in maniera, forse, inusuale, ma efficace: attraverso i media.

Facebook e Twitter.

 

Non in tutti i Paesi, però, é stato possibile.

Kuweit, Marocco, Egitto, Tunisia... sono Paesi in cui la donna ha visto migliorate le proprie  condizioni di vita, ma anche in Paesi come l'Arabia Saudita, lo Yemen, l'Iraq ecc...  notoriamente più intransigenti,  vi sono segnali pr una conquista di emancipazione.

 

Si può affermare, dunque, che sì, la Primavera araba ha giovato alla donna araba nel suo percorso di emancipazione.

Si può affermare che, quando si parla di donna araba, é sbagliato fare considerazioni  soltanto riguardo l'uso del velo o la sottomissione all'uomo, realtà innegabili in vari Paesi.

Si può affermare che sono molte le altre realtà:

- è realtà che il Pakistan abbia avuto per Primo Ministro una donna, al contrario dell'Italia

- é realtà che in Marocco il 20% del Parlamento sia composto di donne. Esattamente come in Italia

- é realtà che nel mondo arabo la percentuale delle donne laureate sia superiore a quello degli uomini

- é realtà che in Kuweit  le donne abbiano raggiunto un traguardo che nella sostanza, forse,non c'é neppure in Occidente e questo in soli dieci anni... da quando, cioé, é stato riconosciuto loro il diritto di voto.

- é realtà che ad una donna dello Yemen sia stato riconosciuto il Premio Nobel per la Pace

- é realtà che in molti Paesi mediorientali siano state le donne ad emigrare per prime per poi essere raggiunte da congiunti in Europa e in Italia

 

Discriminazione esiste, ma non é uguale in tutti i Paesi, né su tutti i piani: religioso, politico, sociale.

Nei Paesi più tradizionalisti o in quelli che rivogliono il rispetto per la tradizione e la  reintroduzione della Sharia, dove le norme del Corano sono interpretate ed applicate in modo più rigido, il percorso  sarà più lungo e faticoso. Lo sarà meno in quei Paesi meno tradizionalisti dove le donne si sono già viste riconoscere diritti un tempo riservati a soli uomini.

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- Teologia

RIFLESSIONI su:HORO-bambino e GESU’-bambino

 

Horo-Bambino e Gesù-Bambino: i due Salvatori del Mondo per eccellenza.
Il primo, attore di eventi terreni appartenenti ad un passato assai remoto (se ne parlava già nel 2500 a.C.)  e il secondo, ad un passato remoto assai più recente. (2000 anni fa)
Il primo, Horo-Bambino, destinato  a riportare nel mondo la MA'AT, ossia la "Giustizia e l'Ordine Cosmico"  perturbati dalla violenza e dal disordine provocati da Seth, Signore delle Tempeste.
Il secondo, Gesù-Bambino, inviato ad attuare la   BUONA NOVELLA, ossia la Giustizia e l'Uguaglianza, perturbate dalle miserie e dagli errori dell'uomo spinti dall'azione di Satana. (notare: SETH  e  SATANA).
Ad annunciare l'arrivo del primo, Horo-Bambino, è la comparsa all'orizzonte, ad Oriente, di Sothis, la Rilucente Stella, che porta con sé il messaggio dell'Avvento  del Nuovo Anno e di una Nuova Era di Pace, Giustizia ed Ordine.
Ad annunciare l'arrivo del secondo, di Gesù-Bambino, è la comparsa della Stella Cometa, sempre ad Oriente, che porta con sé il messaggio di una Nuova Epoca di Pace e Giustizia.

Non solo le circostanze di tale Avvento sono comuni ai due, ma anche il luogo della nascita:
in una "grotta" nasce Gesù-Bambino e in un "cespuglio", nasce Horo-Bambino.
In realtà, quella "grotta" era un CLAN, ossia un Caravan-serraglio, una sorta di albergo, alla periferia della cittadina di Betlemme e il "cespuglio" era il CHEMMIS, un boschetto in prossimità della cittadina di Buto.
Il concetto del   "Salvatore del Mondo"  che giace piccolo, indifeso e indigente  in un posto selvaggio ed inospitale è presente in molte Religioni: dall'India alla Mesopotamia, dalla Persia a Roma.
Saggi e Re, Angeli e pastori vanno a rendere omaggio e ad annunciare la  Buona Novella: Gasparre, Melchiorre e Baldassarre, sono i Re-Magi che accorrono da Gesù-Bambino mentre Thot é il Grande Mago che si precipita a soccorrere Horo-Bambino. 
Concetto che incontriamo nei canti natalizi che celebrano Gesù-Bambino, come nei Testi delle Piramidi che celebrano Horo-Bambino:
                "Tu scendi dalle stelle, o Re del Cielo
                   e vieni in una grotta, al freddo e al gelo..."

ma anche:
                 "Ah, Horus, figlio mio! Giaci con la febbre in luogo solitario.
                   Non c'è acqua qui, per spegnere il fuoco..."



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- Storia/Mitologia

ANTICO EGITTO - Il FALCO DIViNO ossia lo Spirito Santo

 

Che cosa ne è stato di Seth, Signore della Distruzione e uccisore di Osiride, terminata la Contesa con Horo-Falco Divino?

Verrà scaraventato nel Mondo Sotterraneo a scontare le sue malefatte, vien da pensare.  Invece no!
Il Dio-Supremo dispone per lui un "castigo" assai singolare: Seth sarà condannato a proteggere la Barca Solare nel suo percorso notturno dagli attacchi di Apep (meglio conosciuto come Apofi),   il Grande Serpente Primordiale.
Apep è la Forza della disorganizzazione primordiale; se guerre e carestie si abbattono sul Paese, é perché la Barca Solare si è arenata sul "banco di sabbia" di Apep.
Apep e Seth si assomigliano, ma non sono uguali. Sono due aspetti del Male, ma assolutamente diversi. Seth è il "male necessario":  l'inondazione disastrosa o la tempesta del deserto, che si possono imbrigliare e controllare.  Apep, invece è il   "male assoluto"  il cui scopo é solo l'annientamento.
Seth il Perturbatore, è Colui che sconvolge le regole e l'ordine dell'Universo,  Apep il Distruttore, è colui che mira alla distruzione dell'Universo: una lotta che si ripete ogni notte a bordo della Meskhenet, la Barca Solare Notturna.
E' la lotta fra il Bene e il Male e sarà proprio Seth, ogni notte, ad uccidere Apep con la sua Fiocina da bordo della Barca, per ritrovarselo davanti la notte successiva.
Così sarà fino alla fine del mondo... fino a quando regneranno ordine e giustizia.

 

Tutto questo, Horo vincitore,  deve riferire al padre, Osiride, affinché la sua "passione"  si compia e dia i suoi frutti.
Vita, morte, cicli vegetativi, rinnovo generazionale: l'uomo antico e non solo l'antico egizio, subisce la quotidianità di tali complessi fenomeni della Natura ed é da essi che attinge per creare  i propri miti.  Le acque in secca, la natura spoglia, sono espressione di morte;  la germinazione,  il rigonfiamento delle acque, sono espressioni di rinascita.
La Natura rinasce. Osiride rinasce, ma è l'azione di suo figlio Horo, il Falco-Divino a compiere il miracolo.
Immobile e passivo, ma "in potenza", nel luogo nascosto ed inaccessibile del Busiris, che  gli antichi egizi chiamano Gedu,  Osiride aspetta  ansioso l'arrivo del figlio.
Lo chiama:
                 "Oh, Horus, vieni a Busiris!
                   Provvedi.
                   Fai il giro della mia casa
                   Vedi le mie condizioni..."   
Ed Horo accorre, ma non prima che il tempo sia maturo, poiché l'anima di Osiride è il grano che germoglia e il ciclo della fertilità della Natura deve essere completato.
Così  si legge nei Testi delle Piramidi:
             "Il cielo è buio, la Terra trema.
             Horus viene, appare Thot
             Essi sollevano Usiris su un fianco
             lo fanno comparire davanti alla Divina Compagnia..."

Di altro tono, però, è la composizione dei Testi dei Sarcofagi, d'epoca più tarda, quando identificarsi con Osiride non era appannaggio di soli Re e nobili, ma anche della gente comune.
Horo non accorre personalmente dal padre, ma manda un messaggero in vece sua, alterando in tal modo la sequenza stessa del mito.
Horo prega suo padre di aspettare.   Anzi, lo sollecita a scuotersi ed a trovare la forza per reagire: lo  invita  a fare  appello alle proprie energie.
             "Guardati nella tua condizione e metti in movimento l'animo tuo.
                Fallo venir fuori e controlla il movimento, sì che il tuo seme
                si sparga fra il genere umano..."
Il Messaggero che Horo invia al padre è un Essere divino e primordiale che egli   investe della propria forma di Falco-Divino ed a cui infonde il suo Santo Spirito.
 
Impossibile, a questo punto, non riscontrare un'altra analogia: quella  con la   TRINITA'  ebraica e cristiana:   PADRE - FIGLIO  -  SPIRITO SANTO (quest'ultimo, sotto forma di colomba)               

Il viaggio del Messaggero è un racconto pieno di pathos e  di estrema vivacità.
La Duat, il Mondo Sotterraneo, è un posto pieno di insidie e pericoli. Ma non sono soltanto demoni e spiriti malvagi, paludi, orridi e caverne a creare difficoltà al Messaggero Divino. Le stesse Divinità si mostrano poco disponibili con lui, tanto che più volte il Supremo deve intervenire in suo soccorso:
          "Horus è assurto ai suoi troni e questo (il falco) che ha la sua forza.
           E' un potente egli stesso ed é uno che il suo signore (Horo)
           ha equipaggiato e investito dell'animo suo..."
oppure esortare:
           "La Sacra  Via sia aperta per lui quando i Demoni                                         vedranno la sua forza e udranno quello che ha da dire.
            Giù! Col viso a terra, o Dei del Mondo Sotterraneo..."

E così, al passaggio del Falco-Divino,  tutti gli Dei  degli Inferi  si ritirano per lasciargli il passo:  gli Abitanti delle Caverne, i Custodi della Casa di Osiride,  Aker, il Guardiano delle Porte,  i Custodi del Cielo e i Sorveglianti della Terra.  Perfino Ruty, il Demone più infessibile, che dimora in una caverna all'estremo nord del mondo e che si mostra il più ostinato fra tutti, poiché il Falco non porta la Corona Nemes, simbolo di potere, finisce per arretrare.
Tutti, alla fine, sono  costretti a cedere di fronte al potere del Falco-Divino, potere che gli viene  direttamente da Horo, il nuovo Signore dell'Universo.
Gli viene riconosciuto il diritto di proseguire e gli vengono consegnati Corona ed Ali e finalmente il  messaggero può raggiungere la Casa di Iside, nella Palude, per farsi raccontare della nascita di Horo e delle sue peripezie da riferire a suo padre Osiride.
Da qui potrà spiccare il volo verso l'alto  e chiedere a Nut, Signora del Cielo, il permesso di  attraversare la volta celeste, possibilmente indenne dalle insidie che vi si nascondono.

Un viaggio lungo e irto di pericoli, dunque, quello del Falco Divino, prima di poter raggiungere gli Inferi e Busiris, la Casa dove Osiride giace sempre  immobile e sofferente e in attesa  di notizie.
Il Falco lo informa della grande vittoria conseguita da suo figlio sul nemico e l'annientamento di questi e gli riferisce la volontà del Supremo di ritirarsi e lasciare il comando dell'Universo ad Horo, suo erede legittimo, quinto nella linea di successione:
 - Atum il Supremo
 - Shu, suo figlio
 - Geb, il di lui figlio
 - Osiride, figlio di questi
 - Horo

Così  come il  Benu,  la Fenice, fu Angelo dell'Annunciazione  della Vita,  ora  il Falco-Divino è Angelo dell'Annunciazione della ricostituita Ma'at, ossia l'Ordine e la Giustizia Universale.
Il viaggio, che anche l'anima del defunto dovrà affrontare,  è diviso tre tappe:  dalla terra per raggiungere il cielo e dal cielo  ridiscendere nel mondo sotterraneo.
L'essenza del mito, dunque, é che Osiride esprime sia le forze cicliche dell'uomo (nascita, vita, morte) che quelle della Natura (acque e vegetazione), ma  anche dell'intero Cosmo, con la Luna, le Stelle, il Sole, la Luce e le Tenebre.




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- Storia/Mitologia

ANTICO EGITTO - Horo ... Il Salvatore dell’Umanità



HORO-GIOVANE....  il Salvatore

Salvatore di Osiride e Salvatore dell'umanità.
Se Osiride è considerato  il Dio della gente comune poiché al contrario di Ra, Ptha o Ammon non fornì mai una base al potere politico, suo figlio Horo dell'umanità fu considerato il Salvatore. 
Ad Horo è affidata la missione di riportare  Ordine e Giustizia in un mondo caduto nel Disordine e nella Confusione,  compromesso  e stravolto da Seth il Perturbatore. Suo padre Osiride  è morto e giace inerte e completamente passivo e questo stato di cose durerà fino a quando il suo erede non vincerà sui nemici.
I nemici di Horo sono Seth e i suoi sostenitori.
La lotta sarà lunga e terribile, poiché Seth è la personificazione della Morte e del disfacimento fisico e le  battaglie saranno durissime ed a tratti tragicomiche:  Horo strapperà i testicoli a Seth e Seth caverà un occhio, quello sinistrao, ad Horo.
Una lotta senza quartiere che si trascinerà per lungo tempo senza vinti né vincitori, ma che sconvolgerà "l'età d'oro" istaurata da Osiride e spingerà La Divina Compagnia ad intervenire perché vi si ponga fine; Thot, Personificazione dell'Ordine,  avrà il delicato incarico della pacificazione.
               "Oh, Thot! Che cosa sta succedendo fra i figli di Nut? - dice Atum il Supremo -
                 Essi han creato la lotta; hanno eccitato la confusione.
                 Hanno agito male, hanno suscitato la rivolta..."
Seth e Horo, i due  Contendenti, sono chiamati a interrompere le ostilità ed a presentarsi al cospetto della Divina Compagnia, che deciderà a chi dei due assegnare la palma della vittoria e il diritto ad occupare il trono d'Egitto. 

Il Giudizio divino favorisce Horo: Ordine e Ragione prevalgono su Disordine e Violenza.

Horo è riconosciuto erede di suo padre e può finalmente prendere il potere e sedere sul trono come Nuovo Re e subito dopo partire per il Mondo Sotterraneo per portare al padre, sempre inanimato ed immobile, la Buona Novella.

Osiride giace nel Mondo di Sotto, ma non è morto, bensì trasformato in forza "inerte" della Natura che aspetta di "mettersi in movimento"
                          "Il mio corpo alla Terra
                            La mia anima al Cielo."
farà dire, in un testo risalente all'epoca del faraone Zoser.
Sarà suo figlio Horo, il Nuovo Signore dell'Universo che, rendendolo consapevole della Buona Novella del ricostituito Ordine Cosmico,  "metterà in movimento" il suo corpo inerte e lo scuoterà dallo stato di incosciente torpore:
                           "Sorgi, Tu che fosti buttato giù a Nedit!
                              Respira felicemente in Pe!"
e ancora:
                            " Questi é Horus che parla.
                              Egli ha allestito un processo per suo padre
                              Si è rivelato padrone della Tempesta (Seth)
                              Si è opposto alle tonanti minacce di Seth..."
Osiride è riportato in vita. Osiride si scuote. Rinasce. Rivive, ma non nella vecchia forma, bensì come Spirito della Vegetazione, poiché egli è la Natura. La Natura così come era intesa all'epoca: con la desolazione estiva e lo spirito della vita che poteva addormentarsi e morire, ma che poi si svegliava per tornare a vivere.
                               "Se ne andò, si addormentò, morì."
                               "Tornò, si svegliò, vive di nuovo!"
L'intervallo, però,  tra queste due fasi, la Morte e la Resurrezione,  è un momento critico  e delicato. Pieno di pathos. Il pericolo di disfacimento e corruzione fisica è altissimo. E' questo l'acme dell'intero dramma.
Vulnerabile ed inerme, esposto ad ogni insidia,  Osiride ha bisogno di protezione, come anche lo Spirito della  Natura che simboleggia e il corpo del defunto che in Lui si identifica.
 Questa "vigilia di passione", questo periodo di "transizione", nelle vicenda di Osiride era colmata dalla "veglia" e dal pianto di Iside e Nefty  in attesa che Horo svolgesse la sua missione.
Nelle vicende umane, invece, erano familiari, amici e prefiche ad assistere e piangere il defunto. Lo facevano nel corso delle numerose cerimonie funebri, come quella, fondamentale, della "Apertura della Bocca",  un momento di grande tensione emotiva, in cui il sacerdote esorcista funerario fingeva di dormire e di svegliarsi al richiamo della voce  che lo "chiamava in soccorso".  

"Riemerso" dalle  tenebre, rinato e risorto,  Osiride può finalmente liberare la propria Anima. Ma é solo  al comparire del Disco Solare che Egli  mostrerà i  primi  segni  di rianimazione: Il Disco Solare sta attraversando gli Inferi nel suo percorso notturno e nel vederlo dice:
                 "Oh, Osiride,  Possa la mia Luce illuminare la tua Caverna...
                    ... Sorgi dalla Terra."
E' il momento più elevato del dramma. E' il momento della vittoria e del trionfo: é l'apice della Rinascita e della Trasformazione di Osiride.
L'opera di Horo è terminata; come terminata è l'assistenza di Iside.
Atum in persona, il Dio-Supremo, é entrato in scena  e con lui c'é l'onnipresente Thot, Signore dell'Ordine:  é il momento culminante della trasformazione di Osiride, ma non è  più quello della "passione", bensì quello del "trionfo".
Nella "passione" erano state Iside e Nefty a sorreggerlo, nel "trionfo" è Atum il Supremo a  condurre l'azione. E' Atum ad autorizzare ogni atto  da questo momento: la consegna dell'"Occhio di Horo"  e  della "Parola divina" (He-Ka  per gli egizi o Logos per i greci), simboli di Vita-attiva e di Supremo-potere.  Ed é Atum a sollecitare l'arrivo del Vento del Nord che con il suo respiro annunzia l'Inondazione e l'inizio del nuovo ciclo di vita della Natura e della Resurrezione del Dio morto.
Osiride ha lasciato il luogo di tenebre e  d'ora in poi  dimorerà nel Luogo Primevo e il suo trono poggerà sul Tumulo della Creazione, nella "Niwt", la "Città Luminosa", al centro dell'Universo, dove  ridìsiederà per Giudicare.
Egli è  Signore della Rettitudine,  Signore dell'Ordine della Natura e  Signore dello Spirito della Germinazione.
Osiride, però,  è anche  il Signore dei defunti, che dopo un esame da parte di 42 Giudici Divini,  vengono condotti in sua presenza da Horo per essere giudicati.



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- Religione

Osiride... Il Dio Morto e Risorto

 
 

OSIRIDE...  il Dio che tocca i cuori

La più complessa, ma straordinaria elaborazione del pensiero etico-filosofico-religioso egizio è senza dubbio la figura di Osiride.
Osiride è diverso da tutte le altre Divinità.
Osiride è simbolo del dramma dell'esistenza umana: l'ineluttabilità della morte e la speranza della resurrezione. Osiride è il simbolo del Ciclo: Vita-Morte-Resurrezione. E' la "vittima" per eccellenza: viene sacrificato, ma il suo sacrificio e la sua passione, vengono compensati dalla Giustizia e dall'Ordine Universale ristabiliti. Sposo e padre amato, viene soccorso dalla sposa Iside e dal figlio Horo...
Osiride non é una Divinità Cosmica, ma un "Figlio di Dio". Non é il Signore dell'Universo;  non é Ra il Dio-Supremo nel cui destino solare, attraverso una metafisica apoteosi, il Sovrano si identifica dopo la morte.
Osiride é la Divinità in cui é l'uomo comune ad aspirare ad  indentificarsi.
Osiride é la Divinità che conosce il destino dell'uomo e di tutte le creature mortali che fanno parte della Natura; non solamente gli uomini, ma  la Natura stessa: vegetazione ed animali. Osiride é la forza della Natura che muore e si risveglia.
Osiride é colui che soffre con l'uomo, che conosce la sofferenza e la Morte proprio come l'uomo, ma che poi si riscatta con la Resurrezione. Proprio per questo l'uomo aspira ad identificarsi con Lui perché  é il solo, unico Dio che tocca le corde del sentimento.  

 

"Divenire Osiride" dopo la morte, per il genere umano è entrare a far parte del ciclo della Natura. Un concetto che può sfuggire alla comprensione immediata, ma che é presente in molte culture del vicino Oriente: Damuzi dei Sumeri, Attis di Persia, Baal di Siria, ecc..
Non si sa con esattezza fino a  quando far risalire il culto di Osiride; con certezza si sa che era presente già nel 2500 a.C.  poiché compare nei Testi delle Piramidi;  la sua popolarità cresce durante il Nuovo Impero e continua anche in Epoca Tarda fino ai tempi della dominazione romana allorquando, giunto a Roma, diventa Serapide.

Come dice R. Clark,  mentre Ra, Atum o Ptha danno una  spiegazione della loro origine per fornire  basi al potere politico, Osiride, invece, tocca i cuori. E'  più facile, infatti, spiegare e capire il dramma di Osiride, che comprendere la natura delle altre Divinità. 

La  letteratura  Osiriaca  é permeata di passionalità, sofferenza, dolore, ma anche di esaltazione  e gioia e sono proprio queste caratteristiche che la distaccano  e distanziano  dai culti delle altre Divinità.
Sicuramente il carattere di Osiride nasce all'interno di un antichissimo culto della fertilità e per questo si avvicina più alla Natura che alla Regalità: più agli uomini che ai Sovrani.
Osiride é il "ciclo delle stagioni" e il suo culto é una rappresentazione drammatica, perché drammatico é  il contesto naturale in cui tale culto é nato.  Se per i popoli occidentali  i cambiamenti climatici delle Stagioni sono soltanto fenomeni passeggeri della Natura e l'associazione dell'inverno alla Morte   é solamente  una metafora, per le popolazioni orientali sono da sempre l'espressione di un dramma vero e proprio: é la Natura che muore davvero. Muore perché diventa così arida e bruciata che si stenta a credere che possa rinascere ancora e  il dramma di Osiride é la rappresentazione del dramma della Natura.
Egli "muore" di morte terribile e  violenta proprio come la Natura  sottoposta  a forze incontrollate,  ma poi "risorge" forte e rigoglioso... proprio come la Natura. 

Per i contadini egizi ed orientali  la terra, nella stagione  riarsa e rovente,  era come il deserto, ossia il Regno  della Morte e solo il ritorno delle Acque poteva riportarla alla Vita.  Però, mentre il deserto era lì, minaccioso e onnipresente, le inondazioni potevano non tornare, ritardare o arrivare troppo abbondanti.
Ecco come era salutato l'arrivo della pioggia:
            "Salute a voi, Acque che Shu ha portato
             e bagnerà le membra di Geb (la terra).
             Adesso i cuori possono perdere la paura e i petti il terrore.."

Ed ecco, invece, la preghiera ad Osiride:
             "Osiride appare ovunque
               ci sia un traboccare di acque."
Osiride, dunque, non é "le Acque" o la "Inondazione" che risveglia la Natura, Osiride é la Forza di riproduzione della Natura vegetale e animale. Le acque del Nilo nutrono il seme  e stimolano la sua crescita fino a quando spunterà dalla superficie del terreno come grano.

Ecco cosa riporta un testo dei Sarcofagi in cui lo Spirito del Nilo annuncia il risveglio della Natura:
                 "Io sono colui che esegue per ordine di Osiride
                   al tempo della grande piena.
                   Io alzo il mio Divino Comando al sorgere d Osiride
                   nutro le piante e rinverdisco quello che era secco..."
Osiride, dunque, é il Signore delle Messi.

Nella Teologia é  un Dio di quarta generazione: ATUM - SHU/TEFNUT  -  GEB/NUT
Osiride é figlio di Geb, Signore della Terra e Nut, Signora del Cielo: é sposo di Iside e fratello di Seth, eterno nemico e di Nefty.
Osiride ha regnato come Sovrano d'Egitto durante l'Età dell'Oro. Le liste Reali iniziano proprio con il Regno-degli-Dei, poi  seguono quelle dei Semi-Dei, degli Esseri-di-Luce e infine quelle dei Servitori-di-Horo.
Il mito di Osiride é noto a tutti: ucciso dal fratello Seth e ridotto in pezzi il corpo, questo fu ricomposto dalla pietà di  Iside e Nefty e dall'opera di imbalsamazione di Anubi, il figlio avuto da Nefty.   Benché non completamente riportato in vita, Iside concepì con Lui un figlio, Horo, che si incaricò, appena cresciuto, di vendicare il padre e riportare l'ordine nel mondo distrutto da Seth.
L'apice del dramma si raggiunge proprio adesso.
Nella sua forma mummificata, Osiride é immobile e impotente, in balia di nemici. Proprio come la vegetazione é in balia degli eventi atmosferici ed aspetta di essere salvato  e sostituito.  E' il "Vecchio" che verrà sostituito dal "Nuovo" e il "Nuovo" é Horo, suo figlio.
Horo é il figlio vendicatore che combatte  contro Seth, ossia il deserto, espressione della Natura nel suo momento più drammatico:  l'arsura e la siccità. Ma Horo vincerà su Seth e nel mondo tornerà l'ordine precostituito delle cose... le Acque vinceranno sull'Arsura e  la  Natura tornerà a germogliare, sotto la spinta di Neper, il Genio del Grano.


C'é, nella teologia egizia,  la tendenza  ad accostare  i fenomeni della Natura alla funzione  ed alla personalità delle varie Divinità: Seth e le tempeste, Hapy e la piena delle acque... Osiride e la forza vegetativa.




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- Cultura

MATERA... Capitale Europea della Cultura 2019


Meritatissimo riconoscimento. Ma un pò anche merito del cinema italiano e soprattutto di Hollywood che l'ha scoperta, inducendo... forse...  il Cristo ad attraversare i confini di Eboli e percorrere anche il territorio lucano.
In realtà, meritatissimo riconoscimento ad una città antichissima, ricca di storia e cultura, che affonda le sue radici nella preistoria ed i cui primi insediamenti si fanno risalire addirittura al Paleolitico, per poi  svilupparsi in epoca preistorica e successivamente ai tempi della Magna Grecia.
Mateola: questo il suo nome ai tempi in cui i superstiti di Metaponto e di Eraclea ripararono dentro le sue mura. Occupata da Annibale e da Pirro, Matera fu devastata dai Goti. Ma risorse con i Longobardi, prima di passare sotto il dominio dei Saraceni prima e dei Bizantini, poi.
Ancora una volta fu devastata e distrutta;  questa volta dai Saraceni che tornarno e sconfissero i Bizantini. Seguirono i Normanni.

Matera.  Matera Vecchia, dalla straordinaria, inquietante bellezza:  il centro storico più suggestivo d'Italia.
Matera Vecchia, quella che sorge su una zona geologicamente assai interessante. Quella conosciuta come:  Sassi di Matera, le cui grotte  cotituirono il primo insediamento umano di genti quasi certamente provenienti da Oriente, in tempi passati e difficilmente databili,  che dovettero ritenere quelle grotte adatte per adorare le loro Divinità. Grotte trasformate in seguito in  pittoresche Chiese Rupestri.
Matera Vecchia. Quella scavata nella pietra calcarea murgiana, che si affaccia sull'orlo di una rupe  lungo la quale si arrampicano strade a gradinata di dantesca memoria; quella dalle abitazioni ad unica facciata in muratura, le une addossate alle altre, con i pittoreschi comoignoli delle case sottostanti, svettanti verso l'alto.
 
Riscattati e riportati a nuova vita, i Sassi di Matera sono oggi una grande attrazione per il Paese. Appena dopo i moti del Risorgimento, però,  costituirono una vera vergogna per  il Paese e per lo Stato  a causa del degrado totale e delle disumani condizioni di vita di coloro che li abitavano: mancanza di acqua, luce, rete fognaria e soprattutto mancanza di aria... senza contare la  promiscuità con gli animali.
Qui vivevano i "cafoni": contadini senza terra né altre risorse, se non una miseria estrema. Grande quanto la ricchezza dei loro antagonisti: i "galantuomini", ricchissimi latifondisti che si sentivano superiori per diritto naturale, ma sopratutto diritto indiscusso.  Due realtà contrapposte, destinate a scontrarsi in una   lotta di classe che conobbe la vergogna di  vedere lo Stato appoggiare la classe già favorita  dalla sorte.
Si dovrà attendere gli anni '50 per vedere attuata una Legge che stabiliva  lo sgombro di quelle grotte e la costruzione di più dignitose abitazioni


Una città bellissima e particolare, Matera,  semisotterranea  e sovrastata da chiese, torri e castelli; trattenuta da una strada che corre lungo il cornicione di roccia.
I  castelli!   
Il castello Normanno, oggi scomparso ma un tempo conteso da diverse Signorie, le cui tracce si possono raccogliere in quel che é  lo stupendo Palazzo GiudiciPietro, che  un tempo ne era l'angolo nord.

Il  Castello Tramontano, datato 1498 e così chiamato dal nome del suo costruttore: il conte Giovanni Carlo Tramontano che lo aveva avuto in assegnazione insieme alla Signoria alla fine del '400 da Ferdinando d'Aragona. Costituiva una poderosa fortezza, un baluardo difensivo e d'osservazione, costruito secondo i più validi criteri architettonici e difensivi, ma rimase incompiuto.
Dominavano, come vigili  sentinelle sulla vecchia cittadina seminterrata, le tre torri cilindriche-coniche dalle mura a feritoie, presumibilmente collegate tra loro da una muraglia o da un trinceramento d'ordine rinforzato.
Si dice che da quelle torri, attraverso le feritoie, si facessero segnali di fuoco e fumate per trasmettere messaggi in caso di pericoli.  Un maniero che avrebbe dovuto essere militarmente inaccessibile, secondo le intenzioni del conte Tramontano, ma che così non fu.

Quel popolo, infatti,  oppresso ma fiero, mal tollerava il giogo delle Signorie.
Su quella terra di gente indomita, le basi piantate dalla varie Signorie furono sempre precarie ed instabili.  Ucciso il tirannico Signore, il castello venne in parte smantellato e la cittadina conobbe,  fino al 1663, periodi di autonomia alternati a dominazioni di potenti feudatari, tra cui gli Orsini.

Queste le notizie storiche sul castello Tramontano, ma Matera vanta altri testimoni della propria storia e cultura, di ben più felice cronaca: il Duomo.
Costruito fra il 1268 e il 70, il Duomo è il monumento più notevole della città. Ancora oggi, salvo pochi cambiamenti e rifacimenti, é possibile ammirarne lo stile originario romanico-pugliese.
La facciata é splendidamente  decorata da un portale: un magnifico rosone e  bellissime architetture sostenute da colonnine poggianti su mensole. Stesso motivo sulle fiancate;  su quella destra, prospiciente la Piazza Episcopio, due splendidi portali fanno  mostra di sé, riccamente decorati con mensole e colonne poggianti su leoni. Il fianco sinistro é arricchito da portali chiusi  e parzialmente distrutti.
Vi si erge anche un bel campanile a tre piani e, secondo il più puro stile romanico, sui si affacciano finestre  con due aperture divise da un pilastro.
Un invito, dunque, per chi arriva a Matera per visitare i Sassi, a  passare anche sull'altro versante della città.

 

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- Storia

IL CAMPO SCELLERATO... ovvero la tomba delle sepolte vive

Era un luogo lungo la strada selciata di Porta Collina dove le Vestali ree di inadempienza al proprio voto di castità venivavo sepolte vive. Si trattava di un seminterrato provvisto di un pagliericcio e di una porticina che veniva sprangata dall’esterno ed in cui la sventurata doveva vivere la sua angosciosa e lunga agonia, con solo un bricco di latte, una pagnotta ed una lampada ad olio .

La prima di queste sventurate, sotto re Tarquinio Prisco, accusata di aver attentato alla propria virtù, fu la nobile Pinaria, figlia di Publio. Seguì Minuzia, la quale attirò i sospetti su di sé per la cura eccessiva che dedicava alla propria persona. Ad accusarla fu uno schiavo e non le fu possibile dimostrare la propria innocenza.

Nella guerra di Roma repubblicana contro i Volsci, la sorte era decisamente sfovorevole a Roma e si disse che gli Dei erano insoddisfatti e corrucciati ed esigevano sacrifici.
Si pensò subito alla condotta delle sacerdotesse di Vesta: molte delle disgrazie che piovevano sulla città venivano loro attribuite. Qualcuno mise in giro la voce che la responsabilità era proprio di una delle Vestali: Oppia, colpevole di aver oltraggiato la sua virtù con due uomini. Sottoposta a giudizio e condannata, la ragazza fu sepolta viva e i due presunti colpevoli, uccisi a colpi di verghe.

Stessa sorte toccò ad un’altra Vestale, la giovane Urbinia, questa volta durante la guerra di Roma contro Veio. Poiché in città e nelle campagne  donne e bambini si ammalavano e morivano di morti sospette, la pubblica attenzione si concentrò una volta ancora sulla Casa di Vesta e sul comportamento delle sue Sante Figlie. Ad essere accusata di non aver rispettato il giuramento di verginità fu, questa volta, la povera Urbinia ed anche lei conobbe l’orribile sorte di essere sepolta viva in quella fossa infame.
Anche per i due presunti colpevoli non ci fu scampo: processo e condanna a morte.

 

Altre quattro Vestali furono riconosciute colpevoli e condannate, ma tutte preferirono darsi morte piuttosto che affrontare il ludibrio di un processo e una morte orribile: Lanuzia, accusata da Caracalla, che si gettò dal tetto della sua casa; Tuzia che, accusata di aver avuto rapporti con uno schiavo, si trafisse con un pugnale; Gapronia che si strangolò e Opimia che scelse il veleno; Florania, invece, non riuscì a sfuggire alla terribile sorte.

Non mancarono casi di Vestali condannate nonostante la comprovata innocenza, come nel caso della bella e giovane Clodia Leta e la nobile Aurelia, le quali preferirono affrontare il martirio piuttosto che cedere alle profferte libidinose del loro accusatore: l’imperatore Caracalla.

Innocente era anche la bella Cornelia, ai tempi di Domiziano il quale, respinto, l’aveva accusata di aver attentato alla propria virtù con un certo Celere. Non potendo sostenere le accuse in Senato, l’Imperatore l’accusò in un improvvisato tribunale allestito in una casa di campagna senza dare alla povera ragazza possibilità alcuna di discolparsi e difendersi.
Riconosciuta colpevole, l’infelice Cornelia fu condannata e condotta sul luogo del supplizio.
Qui, mentre scendeva i gradini che la portavano in fondo alla fossa, il mantello si impigliò. Il Littore fece l’atto di tendere una mano per aiutarla, ma Cornelia lo respinse per non contaminarsi e dimostrare di possedere ancora la propria virtù e purezza.
Non ancora soddisfatto da questa condanna, Domiziano fece uccidere con le verghe anche il povero Celere, del tutto estraneo a quei fatti.

Singolare é la storia di altre tre infelici: Marzia, Licinia ed Emilia, Vestali ai tempi della Repubblica.
Marzia aveva una relazione amorosa con un giovane di buona famiglia che durava già da qualche tempo quando fu accusata; Lucio Metello, il Pontefice Massimo, si lasciò impietosire dalla loro storia d’amore e graziò la ragazza.
Sempre sotto il suo Pontificato, altre due Vestali, Licinia ed Emilia, vennero meno ai loro voti di castità concedendosi l’una al fratello dell’altra. Scoperte e accusate da uno schiavo, un certo Manius, comparirono davanti al tribunale, ma solo Emilia fu condannata, perché accusata anche di aver intrattenuto relazione illecita con alcuni schiavi per evitare denuncia da parte di quelli.
Il popolo romano, però, assai “bigotto” avremmo detto oggi, riguardo la virtù delle proprie Vestali, si mostrò assai scontento di quelle assoluzioni e pretese un nuovo processo.
Questa volta le tre infelici ragazze vennero tutte condannate e con esse anche quelli che le avevano protette e in qualche modo sostenute.



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- Storia

NUMA POMPILIO... II° Re di Roma e la ninfa EGERIA

Se Romolo è passato alla storia come il Fondatore, il Dux,  Numa Pompilio, il suo successore é ricordato come un Re pacifico; durante tutto il suo regno non condusse né subì guerre.

Ma é ai suoi due predecessori, però, Romolo e Tito Stazio, che bisogna riconoscere il merito di un tale status: il primo per aver stipulato un trattato di pace di cento anni con gli etruschi e il secondo per aver stabilito l’egemonia sabina su Roma. E Numa Pompilio era di origine sabina.

Essere pacifici, però, non significa essere permissivi. Fu lui, infatti, a dare o ad introdurre istituzioni  religiosi e sociali,  molte delle quali con regole davvero assai severe. Come quella delle Vestali, condannate ad essere sepolte vive in caso di inadempienza al voto di castità.

Un integralista religioso, lo definiremmo oggi. A lui si deve la costruzione del Tempio delle Vestali e di quello di Giano-Bifronte, con le due Porte: la Porta della Guerra e la Porta della Pace; durante il suo regno, la Porta della Guerra restò sempre chiusa. Uomo di pace e legislatore, a Numa pompilio  si deve anche la riforma del Calendario.

Egli portò  l’anno a 355 giorni divisi in 12 mesi:

7  di 29 giorni (gennaio, aprile, giugno, agosto, settembre,  novembre, dicembre)

4 di 31 giorni (marzo, maggio, luglio, ottobre)

1 di 28 giorni (febbraio)

chiamò:   Calendae:   il 1° giorno di ogni mese Nonae:

il   5° giorno dei mesi di 29 giorni  e il   7° giorno dei mesi di 31 giorni Idi:

il    13° giorno  dei mesi di 29 giorni  e il    15° giorno dei mesi di 31 giorni

Occupato quello che sarà il Gianicolo e il Trastevere (oltre il fiume), il nuovo Re ritenne opportuno delimitare i confini del nuovo Stato e distribuire le terre ai poveri, con il particolare per niente trascurabile, però, che si trattava di terre  sottratte a vecchi proprietari; forse etruschi.

Quale, la condizione della donna sotto il regno di questo Re così pacifico? Se già ai tempi di Tito Stazio la donna s’era visto negare molte dei diritti che Romolo  le aveva riconosciuto con l’introduzione di una serie di Leggi “modernizzatrici” di stampo etrusco, con Numa Pompilio le condizione della donna precipitarono.

Ecco cosa dice lo storico Dionigi al riguardo: “… impose loro grande riserbo…  tolse loro ogni influenza negli affari pubblici e le abituò a tacere…. In assenza del marito non potevano prendere la parola neppure sui casi urgenti.”

Quale via percorse questo Re per farsi eleggere? All’epoca era il popolo ad eleggersi il Sovrano e si detto e ripetuto che la scelta  era caduta sulla sua persona perché il popolo era stanco di guerre e desiderava un periodo di pace. Non c’é motivo per dubitarne, ma bisogna riconoscere che egli era il più legittimato a ricoprire quel ruolo: era il marito di Stazia, figlia di Tito Stazio, Re di Roma assieme a Romolo; l’altra figlia di Stazio, Ersilia, l’aveva sposata lo stesso Romolo.

Numa Pompilio, dunque, legittimo erede di Tito Stazio, di cui mostrò subito di voler riprendere la politica interrotta da Romolo sia in campo civile che religioso e per prima cosa sciolse il Corpo dei Celeri, la Guardia armata di Romolo ed istituì, invece,  il Corpo dei Salii, in onore di Marte,   il  Collegio dei Pontefici ed la Casa delle Vestali.

Per quanto riguarda la sfera privata, rimasto vedovo Numa Pompilio  prese a condurre una vita ritirata e tranquilla… apparentemente tranquilla. Fu proprio in questo periodo della  sua  vita, infatti, che fece la sua comparsa la ninfa Egeria, sulla cui esistenza, probabilmente qualcuno aveva espresso le  sue riserve.

Ecco cosa racconta lo storico Dionigi al riguardo: “Egli  invitò alcune persone nella sua modesta casa per un pranzo fin troppo frugale, ma li  invitò a tornare per cena. L’abbondanza di cibi, frutta, bevande ed ogni altro ben di Dio e la ricchezza degli arredi era tale da far gridare al miracolo… e al miracolo gridarono,infatti, i suooi ospiti e nessuno dubitò più dell’esistenza della misteriosa, divina creatura capace di compierlo.”

La Ninfa Egeria! Fu lei la misteriosa ispiratrice del Re, la consigliera fidata che lo guidò nelle Riforme e nelle Istituzioni Religiose.

Per i romani le ninfe erano divinità della natura, venerate come geni femminili di boschi, monti, laghi, sorgenti… Egeria, chiamata anche Camena perché cantava vaticinando, era proprio una Ninfa di Sorgente. Fonte di Egeria era chiamata la sorgente e Valle delle Camene era chiamata la valle in cui scorreva il fiume sacro, l’Almone. La Ninfa viveva in una grotta nascosta e occultata alla vista da un impraticabile sentiero nel mezzo di un boschetto ai piedi del Celio e  i suoi  convegni notturni con Numa Pompilio avvenivano proprio alla sorgente di quel fiume. Gli storici, oggi, son tutti d’accordo nell’affermare che questa Egeria altra non fosse che un’amante segreta del Re con grande ascendenza su di lui,  ascendenza che Dionigi giustifica così:

“…  fu indotto dall’onore, di cui fu ritenuto degno, di sposare una Dea. Costei si concesse a lui e l’amò e Numa, uomo felice, vivendo con lei comunicava con Dio.”

La leggenda narra che alla morte di Numa, Egeria si disperò così tanto da indurre la dea Diana a trasformarla in una fonte, nel bosco di Aricia, sui Monti Albani,  dove la ninfa si rifugiava per piangere il suo dolore.

Un altro bel mistero, però, é legato alla morte del II°  Re di Roma. Contrariamente al costume locale che era quello di bruciare il cadavere su una pira, il corpo di Numa Pompilio fu sepolto in una tomba sul Gianicolo; due i sarcofagi: nel secondo furono depositati 12 libri, scritti di suo pugno, con cui dava istruzioni ai futuri Pontefici. Quando, però, nel 181 a.C. nel corso di lavori pubblici affiorò la tomba, il sarcofago che doveva contenerne i resti fu trovato vuoto e i libri contenuti nell’altro sarcofago furono portati in Senato per essere esaminati;  il loro  contenuto,  però, fu ritenuto così pericoloso, da indurre i Senatori a bruciarli.

Un vero rompicapo!



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- Storia

ROMOLO... I° Re di Roma



Tutti gli scrittori latini hanno cercato di coprire la distanza cronologica esistente fra l'arrivo di Enea in terra laziale  e la fondazione  della  città di Roma: era indispensabile fornire il primo Re di Roma di mitologici natali.
La nascita di Roma é stata fissata al 21 aprile del 753 a.C. ma si tratta di una data inesatta su cui ancora oggi si continua a discutere. La fondazione della Città Eterna non fu un evento improvvisato, bensì un processo espansionistico graduale, caratterizzato dalla presenza di  numerosi borghi, ognuno dei quali rappresentava un buon mercato di scambio, che finirono per confluire in un'unica "unità urbana".
Molta gente, latini, sabini, etruschi, ecc.. era affluita alle foci del Tevere, cosicché ai Latini dovette sembrare una buona decisione quella di fondare una nuova colonia nella zona dei Sette Colli, proprio  davanti all'isola Tiberina ed al porto fluviale che si erano costruiti gli etruschi (peraltro bene attrezzato).

La leggenda affida ai due divini gemelli l'impresa e ci dice che fin da subito  fra i due  si accese aperta rivalità con tanto di seguito: i Fabii di Remo e i Quintilii di Romolo.
Ci dice anche quanto distanti fossero le loro posizioni e tendenze politiche: spiccatamente etrusche quelle di Romolo e visceralmente latine, invece, quelle di Remo.
Di diverso parere,  i due fratelli, furono anche nella scelta del posto su cui edificare la città: Remo propose l'Aventino, ottima postazione per fronteggiare le velleità etrusche; Romolo,  invece, scelse il Palatino, con il pretesto, come riporta Dionigi:
     "... per la fortuna che  quel luogo aveva portato ai gemelli che vi erano stati allevati..."
Remo occupò subito l'Aventino, sostenuto dai Fabi e da Faustolo e Plistino, i gentori adottivi;  Romolo, da parte sua, occupò il Palatino con i suoi Quintili.

Paliliae erano le Feste in onore di Pale, Dea degli armenti. Si celebravano il 21 aprile nei pressi del Palatino, consacrato proprio alla Dea e da cui il colle aveva preso il nome.
Per l'occasione vi era affluito un gran numero di persone e animali e i due fratelli,  di comune accordo, avevano fissato quella data per dare inizio ai lavori per la  fondazione della propria città.
In verità, Remo s'era messo già al lavoro e il fratello si accingeva a farlo, cosicché, tutta quella gran massa di gente si trovò ad assistere alla competizione dei due fratelli.
Inevitabile che si creassero tensioni e confusione e si finisse per parteggiare per l'una o per l'altra delle due fazioni.  Le forze, però, erano pari, anche perché Romolo non aveva disdegnato, incoraggiandolo perfino, l'accesso a stranieri di ogni provenienza: ladri, schiavi fuggiaschi e chiunque altro si  era  presentato.

Remo prese a tracciare la cinta di mura di quella che doveva essere la sua città e che si sarebbe chiamata Remonia, ma  Romolo non tardò contestarlo  e mandò ambasciatori ad AlbaLonga a chiedere disposizioni a nonno Numitore, il Re.
Questi rispose consigliando di affidarsi a responsi divini per risolvere  la  faccenda e cioé, dice Dionigi:
"... sarebbe stato Re della nuova colonia chi avesse visto per primo gli uccelli del buon augurio..."
Che sarebbero i famosi avvoltoi.
Si stabilì il giorno, si celebrarono riti propiziatori e si ritrovarono tutti al centro della Valle Murcia, nel più assoluto silenzio, aspettando che sull'Aventino, dove s'era piazzato Remo oppure sul Pallatino, occupato da Romolo, arrivassero gli avvoltoi.
Come in ogni "partita" che si  rispetti, le versioni non furono concordi e nemmeno  lo  fu  il   tifo.
Gli avvoltoi, raccontano le cronache (così come le conosciamo ancora oggi) , arrivarono per primi sull'Aventino ed in numero di sei e già Remo esultava. Giustamente!
Ma ecco, a dire dei sostenitori di Romolo, arrivarne dodici sul Palatino.  
Con un po'  di ritardo, certo, sostennero gli amici, ma in numero maggiore.
Vincitori tutti e due, dunque!
No! Numitore era stato ben chiaro: sarebbe diventato Re soltanto il primo che avesse avvistato gli avvoltoi. E il primo era stato Remo.
Ma non é tutto qui!
In tutta la faccenda l'inganno di Romolo era sfacciatamente palese: egli aveva mandato messaggeri al fratello col falso messaggio di averli già avvistati.
Riferisce Plutarco:
"... come Remo venne a conoscenza della frode del fratello, si adirò..."
Insomma, la nuova città già fondava sull'inganno.

 

 


Nonostante le contestazioni, Romolo cominciò a porre in atto tutte quelle cerimonie che precedevano l'inizio della fondazione di una città; dall'alto del colle dell'Aventino, Remo trattenendo la collera, assisteva alla scena e con lui Faustolo e la sua gente.
Seguendo il costume etrusco, Romolo, con un lembo della toga calato sul capo e sotto lo sguardo corrucciato del fratello, tracciò nel terreno il primo solco; guidava un toro e una giovenca aggiogati all'aratro e lo seguivano i suoi uomini, che rovesciavano  verso l''interno,  secondo l'usanza etrusca,  la terra rimossa.
Remo assitette per un po'  alla scena e quando la misura fu colma, calò giù dal colle insieme ai suoi e sotto l'empito di una collera legittima ed intrattenibile, attraversò il solco tracciato dal fratello.
Stramazzò immediatamente al suolo con il cranio fracassato da un colpo di zappa.

Ancor oggi i pareri su chi inferse quel colpo sono discordi: fu Romolo oppure uno dei suoi?
Ecco cosa dice Plutarco al riguardo:
"... chi lo aveva colpito approfittando del disorientamento generale per darsi alla fuga, scese  a precipizio dal colle, passò a nuoto il fiume e riparò in Etruria."
In quel "disorientamento" erano provvidenzialmente  caduti anche Faustolo e Plistino, ultimi testimoni di tutta la faccenda.
In realtà, su quella mano assassina si discusse fin da subito e si continuava a farlo anche a quasi novecento anni di distanza da quei fatti, cioé ai tempi di Plutarco, il quale chiaramente, ma diplomaticamente denuncia:
"... che ancora oggi si discute su chi sia stato l'assassino, ma la maggior parte della colpa viene fatta ricadere non su Romolo, ma su altre persone.."
Personalmente oppure su commissione, si trattava pur sempre di fratricidio.

E così Romolo fondò la sua città e si fece Re di quella città.  Il suo regno all'epoca contava solo due o tremila sudditi; quasi tutti maschi. Ma durerà ben 38 anni.
Gli esordi, però, come  ben sappiamo, non furono né felici né facili.
Ripetutamente il   Re della nuova città  mandava messaggeri ed ambasciatori presso le vicine città in cerca di alleanze e donne (da sposare, ovviamente) e ripetutamente ogni richiesta veniva disdegnata: nessuno voleva allearsi  o  imparentarsi  con gente fratricida, fuggiasca e  strana.
Come finì é noto a tutti: Romolo e i suoi, le donne se le presero con la forza.
Per fortuna tutto finì bene... a parte lo stesso Romolo che per ben cinque anni dovette "accomodarsi" sul trono di Roma assieme a Tito Stazio, Re dei Sabini, che lo aveva battuto, sia pur con la scusante delle Porte aperte da quella "collaborazionista" di Tarpea, che gli stessi Sabini punirono seppellendola sotto i loro scudi.
Morto Tazio, assassinato, naturalmente, le cose andarono meglio per Romolo che poté finalmente regnare: fino a quel momento aveva fatto  solo da "spalla" al vero Re.

Le condizioni poste da Tito Stazio, infatti, erano state davvero pesanti sia in  campo civile  che in campo militare e soprattutto in campo religioso.
Il Senato raddoppiò (con il partito di Tito in testa e ben compatto), l'esercito si modernizzò (con armamento ben più efficace) e la Religione si uniformò (con qualche comprensibile attrito per la supremazia, fra le Divinità).
Anche sul territorio i due Re erano vissuti da "separati": il Palatino e il Celio a Romolo, Campidoglio e Quirinale a Stazio.
La morte di Tito Stazio, però,  risolvette tutto e la vera leggenda di Romolo, forse, comincia proprio adesso,

Consolidato il mito della nascita divina e della leggendaria fondazione della città, molti furono gli avvenimenti e le opere a lui attribuiti  che possono ritenersi  storici.  
A lui si deve la divisione della città in Montes e Pagi, ossia villaggi in città e quelli al di fuori e successivamente inglobati; un'altra divisione che interessò la città appena sorta fu quella dei Vici, corrispondenti ai quartieri. Secondo la tradizione, inoltre,  egli divise la città in tre tribù: Ramsense o Romani, Titienses o Sabini(dal loro re Tito Stazio) e Luceres, ossia etruschi, albani ecc.. a loro volta divise in dieci Curie di dieci Centurie o Gens divise, queste ultime, in Famiglie.
Quanto al cerimoniale, pubblico e religioso, vi era in esso netta inflenza etrusca, come la Sella-Curulis, il sedile del Re o la Toga-Praetexta dei Magistrati e nobili, vietata a servi e stranieri.
Anche l'istituzione del Corpo di Guardia del Re, i Littori, era di provenienza etrusca.

Gli avvenimenti successivi alla morte di Tito Stazio riguardarono  le guerre condotte contro le città vicine: Fidene, ma soprattutto Veio; città etrusche a cui probabilmente Romolo non avrebbe voluto muovere guerra, se Tito Stazio non ne avesse creato le premesse e se il Senato, in maggioranza di etnia sabina, non ve l'avesse sollecitato.
La presa di Fidene fu un capolavoro di tattica guerresca che bisogna riconoscergli: "guerra lampo", la definiremmo oggi  e gli guadagnò il favore del popolo, soprattutto latini e romani.
Costretta Veio a ritirarsi ed a  lasciare molti prigionieri nelle sue mani, Romolo poté finalmente celebrare il suo trionfo per le strade della città.
Commise, però, l'imperdonabile errore di concedere ai vinti una pace troppo lieve: lasciò liberi molti prigionieri senza riscatto e senza consultarsi con il Senato; concesse a molti di essi di restare a Roma con incarichi di prestigio e, soprattutto, stipulò con Veio una tregua di cento anni.
Molti gli storici che sono concordi nell'affermare che proprio questa decisione sia all'origine della causa della sua morte, oltre al fatto che, come disse Dionigi:
"... sembrava diventato un capo arrogante e tracotante, che governava non più da Re, ma da Tiranno..."

Come fu ucciso?
Leggenda e verità.
Così come leggendaria era stata la nascita, altrettanto, per il popolo, soprattutto romano e latino, doveva essere la morte. Lo si fece "ascendere" al cielo e gli si donò l'immortalità.
Al popolo si disse che si trovava in Campo Marzio a presiedere una rassegna militare  quando  si scatenò un violento temporale e una nube di fuoco lo rapì. Marte in persona, si disse, era sceso a rapire il figliolo divino per portarlo in cielo.
Qualche riserva deve esserci stata, naturalmente, soprattutto da quella parte del popolo che lo aveva sempre seguito.  Ecco, secondo Tito Livio, come deve essere stata risolta la faccenda.  Riferendosi al senatore Giulio Proculo, che annunciava al popolo una miracolosa apparizione dopo la morte, ecco il racconto dello storico:
"... Romolo, il Padre di questa città, stamane all'alba é calato dal cielo e mi é apparso...   Io rimasi immobile e pieno di timori...   - e prosegue   - Egli mi disse: va. Annunzia ai romani che gli Dei vogliono Roma capo del  mondo; che curino l'arte militare e sappiano e anche ai posteri tramandino  che nessuna umana potenza potrà resistere ai romani....  Ciò detto risalì in alto... - e  infine conclude - Io sono il vostro nuovo Dio-Quirino."
Questa la leggenda, a cui i romani, soprattutto la plebe che a Romolo era sempre stata  affezionata, credette subito e volle continuare a credere.
La verità!
Sono sempre gli storici a rivelarcela. Ce  la rivela Dionigi:
"I patrizi cospirarono contro di lui e decisero di ucciderlo: avrebbero compiuto il delitto nel Senato, fatto a pezzi il cadavere e si sarebbero allontanati ciascuno con il proprio pezzo sotto le vesti..."
Uno scenario davvero raccapricciante per una fine davvero ingloriosa, coperta da una apoteosi leggendaria costruita ad arte.

 

*

- Storia

Quando ROMO diventò REMO?

Quando ROMO... diventò REMO?

Quando la leggenda italica dei "Gemelli Albani" divenne la leggenda latina di "Romolo e Remo".  Quando la vincitrice di Cartagine, la nuova potenza militare,  avvertì l'esigenza di procurarsi più nobili natali: il vecchio mito era così poco raffinato, così plebeo e anche così indecente che andava  rivisitato e nobilitato.
E chi, fra quanti lo conoscono, ancor oggi non sarebbero d'accordo con Plutarco, Livio e perfino con Virgilio?  La "faccenda",  così com'é,  appare veramente sconcia ed inaccettabile ed é comprensibile averla voluto nobilitare.

C'é una splendida leggenda che narra le peripezie di uno splendido eroe partito fuggiasco da Troia ed approdato in terra laziale, dove i discendenti fondano una città: AlbaLonga è il suo nome.
Collegare i due gemelli ai destini di questa città  in qualche modo é possibile e perfino accettabile, soprattutto se é una versione sostenuta da storici greco-latini come Timeo o Peparezio.
La mostruosa creatura ignea dell'antica leggenda italica si fa sostituire con il forte ed audace dio Marte ed al posto della schiava, troviamo una giovane vestale della famiglia Silvia: Rea.
Anche il Tiranno cambia nome. Non é più Tarchezio, ma si chiama Amulio. Anche lui della famiglia Silvia, discendente di Enea Silvio, nipote di Enea, l'eroe troiano.
Rea é nipote di Amulio, Tiranno-usurpatore di AlbaLonga, ma é anche figlia di Numitore, legittimo Sovrano della stessa città, detronizzato dal fratello e costretto all'esilio.
Marte s'invaghisce della bella vestale e in spregio al fatto (come suo solito) che la fanciulla appartiene a Vesta ed é inviolabile, la violenta e la rende madre di due bei gemelli. Comportamento pur sempre riprovevole, ma non  scurrile come nella primitiva leggenda.

In realtà, sia Dionigi che Livio non scartano l'ipotesi di uno stupro ad opera di un mortale.
"... vi é chi dice che l'autore del misfatto fosse un corteggiatore della vestale, incapace di dominare la sua passione..." dice Livio e Dionigi:
Rimasta incinta - racconta - Rea Silvia si rifugia in famiglia dalla madre dopo aver abbandonato la Casa delle Vestali con il pretesto di una malattia.
Re Amulio, però, presta poca fede a quella giustificazione e insospettito sulla vera causa di quel prolungato allontanamento, manda medici a fare accertamenti.
La ragazza mostra segni di gravidanza avanzata e il Tiranno convoca il Senato denunciando il fattaccio e chiedendo il supplizio  della vestale che con la sua condotta avrebbe potuto attirare sciagure e digrazie sulla città.
Il povero Numitore, padre di Rea, tenta una disperata arringa in  sua difesa  davanti al Senato, chiamando a testimone dell'innocenza di sua figlia gli Dei tutti  e, prima che questo si pronunci, provvidenzialmente arriva la notizia che la ragazza ha dato alla luce due gemelli.
Numitore gridò al prodigio: quell'evento non può essere che opera di un Dio... che solo un rapporto sessuale con una Divinità poteva concludersi con un parto gemellare e che se pure violenza umana c'era stata, uno dei due gemelli doveva essere per forza un Semi-Dio.
Ad ogni rapporto, all'epoca, corrispondeva la nascita di un figlio... due figli, due rapporti e uno non poteva essere che concepito con un Dio:  come Castore e Polluce,...

 



Sempre la stessa domanda, però: quale dei due era il figlio divino? Romolo o Remo?
A giudicare dai racconti delle vicende che seguirono, pare che il favore degli storici propendesse proprio per quest'ultimo.
Remo era bello, forte e coraggioso; entrambi un po' selvaggi ed attaccabrighe, era vero,  ma, a dire di Plutarco nella sua "Vita di Romolo":
"... Romolo, però, sembrava più assennato e dotato di maggior intuito politico..."  e con queste parole, diplomatiche ma assai sibilline,  il grande storico riconosceva a Remo maggiori possibilità di accampare discendenze divine.
"Intuito politico"  sottointendeva astuzia, diplomazia, furbizia che Romolo, peraltro, non tardò a dimostrare;  Remo, invece, possedeva forza, audacia e impeto battagliero: proprio di Marte, che neppure questi tarderà a dimostrare.
Romolo acquisì i suoi talenti, probabilmente, frequentando le vicine popolazioni etrusche; le sue simpatie per la cultura etrusca è sempre stata più che evidente,  soprattutto in riferimento ad una liturgia religiosa. Sono molti gli storici che asseriscono che etrusco fosse egli stesso;  ne discutono ancora oggi senza mettersi d'accordo.
Non si sa.
Si sa invece che che etrusco fu il rito con cui fondò la città: scavò un solco con un aratro trascinato da un toro e una giovenca dal mantello immacolato, dopo aver fatto volteggiare nell'aria dodici avvoltoi, uccelli del buon augurio.

Ma torniamo alle vidende dei due  fratelli che attraverso la narrazione di Dionigi, Plutarco e Livio ci arriva con qualche discordanza, sia pur di lievissima entità. Su un fattore, però, sono tutti e tre in perfetto accordo: la ripetuta ambiguità del comportamento di Romolo.
A diciotto anni - racconta Dionigi - i due fratelli erano già a capo di una banda di pastori che  non disdegnavano di venire alle mani con altri pastori della zona. Se la prendevano regolarmente con tutti, ma soprattutto con i pastori del deposto Sovrano, Numitore, le cui greggi pascolavano lungo i colli dell'Aventino.
Un giorno, continua il racconto, mentre Romolo era occupato nella cerimonia religiosa dei Lupercali, Remo si lasciò coinvolgere in una delle tante risse con i pastori dell'Aventino i quali erano riusciti a sottrargli degli armenti. Si  armò e con un gruppo di pastori partì all'inseguimento, ma finì in una imboscata e con i compagni fu condotto ad AlbaLonga e trascinato al cospetto di re Amulio.
All'epoca l'amministrazione della Giustizia era  compito dal Sovrano, ma l'esecuzione della pena era rimandata all'offeso che in questo caso era l'ex Sovrano, ossia Numitore,
E questo fece Amulio, il despota usurpatore del regno di Albalomga: consegnò i colpevoli nella mani del danneggiato.
Reati come il furto di bestiame venivano puniti con la morte.
Remo, dunque, era prigionero di re Amulio per aver difeso gli interessi comuni, suoi e di suo fratello,  mentre Romolo era tutto preso dalle celebrazioni dei Lupercali.
I Lupercali,  il 15 febbraio, in onore del Fauno Luperco,  era una festa agrestre in cui si offrivano doni per propiziarsi i favori di Divinità campestri. Subito dopo l'offerta del sacrificio, i giovani, quasi nudi, ad eccezione delle parti intime coperte con le pelli degli animali sacrificati,  si misuravano in  una corsa rituale fra i campi.
 
Ma proprio in questa occasione si fa manifesta l'ambiguità del comportamento di Romolo, soprattutto in una narrazione che ne fa un altro storico: Elio Tuberone.
Si tratta di una versione dei fatti totalmente differente da quella resa dai tre storici citati, ma assai più verosimile agli occhi di storici moderni.
Secondo questa versione tutto sembrerebbe calcolato e  organizzato  per catturare Remo allo scopo di toglierlo dalla circolazione.
La schiera dei Luperci-Fabiani, i giovani pastori con cui gareggiava Remo, secondo Tuberone, era assai forte ed aggressiva, mentre  quella dei Luperci-Quintilii,  i sostenitori di Romolo,  assai meno battagliera  e competitiva  (la loro preferenza andava più alle pratiche divinatorie che  a quelle di forza e resistenza).
Ad essere aggredita, però, non fu,  stranamente,  la debole schiera dei Quintilii,   ma quella dei Fabiani; catturati e trascinati ad Albalonga al cospetto di Re Amulio, Remo e i compagni si trovarono accusati di  razzia.
Il fratello Romolo - prosegue il racconto di  Tuberone - invece di gettarsi all'inseguimento dei rapitori di suo fratello, perde tempo in inutili considerazioni insieme a Fautolo, (padre putativo) il quale per mettergli un po' di sollecitudine, pensa sia giunto finalmente il momento della grande rivelazione:  quella della nascita sua e del fratello.
E mentre Romolo conversa e prende tempo, in un atteggiamento quanto meno sospetto, Remo é quello dei due che ruba la scena a tutti. Compreso il fratello.

 


Lo troviamo di fronte all'ex sovrano, Numitore,  a cui re Amulio l'ha rispedito per la condanna.
Ma Numitore resta  affascinato e soggiogato dalla personalità del suo giovane prigioniero, dalla sua fierezza, dal coraggio e dallo sprezzo per il dolore fisico: egli é arrivato alla Reggia ferito e sanguinante, ma senza un lamento.
A Numitore piace quel ragazzo atletico e dalle proporzioni fisiche inconsuete, bello e dal nobile aspetto; sente per lui un istintivo trasporto. Gli chiede da dove arriva e qual é la sua famiglia.
E Remo racconta. Racconta di sua madre (di cui ignora il nome), della condizione di esposto assieme al fratello gemello, della lupa,  del pastore che li ha allevati...  e mentre   il  ragazzo  racconta, Numitore si commuove poiché ha capito di avere di fronte uno dei figli della infelice Rea, sua figlia.
A confermare l'emozionante racconto arriva ansante e trafelato il vecchio Faustolo con le prove: la culla di cannicci che Numitore ben conosce.
Faustolo arriva trafelato proprio  a causa del ritardo nel soccorso da parte di Romolo... egli  aveva preso in mano la situazione e si era precipitato lungo i colli dell'Aventino  nella speranza di scongiurare una nuova tragedia in famiglia.

Quando arriva Romolo, ogni cosa é stata chiarita e ogni cosa é satta sistemata: perfino la vendetta. La vendetta contro re Amulio, causa di tanti lutti e tragedie.
Ed é stato  fu Remo ad incaricarsene mentre il fratello bighellonava ancora con i suoi lungo i colli.
Con un gruppo di audaci, Remo aveva sorpreso il Tiranno che dall'alto della terrazza della reggia guardava di sotto incuriosito gli uomini di Romolo che avanzavano sparpagliati su verso la reggia.
E' Remo,  dunque, il Semi-Dio,  forte e audace, bello e coraggioso. E' Remo che permette al nonno, lo spodestato Numitore, di tornare ad occupare il trono di Albalonga.. ma sarà Romolo a diventare il Re della città che non é ancora sorta.

 

*

- Storia

ANTICA ROMA - I Gemelli Albani

 

Conosciamo tutti il mito latino di Romolo e Remo, i gemelli figli di Marte e Rea Silvia, così come ci é stato tramandato da Dionigi, Tito Livio, Plutarco… Ma che cosa sappiamo, invece, del mito più antico, quello italico?
Innanzitutto i loro nomi non erano Remo e Romolo, ma Romo e Romolo e Romolo significa: piccolo Romo.
Una versione, quella latina e successiva, piuttosto castigata e manipolata, rispetto a quella antica dei “palaiotatoi mytoy”, i  “racconti antichissimi”,  sboccati e licenziosi, tramandati a voce, raccolti e riportati dal greco Promatione nel suo “Storia d’Italia”, peraltro andato perduto, a parte i riferimenti riportati da Plutarco.
Un racconto assai diverso da quello da noi appreso sui  banchi di scuola; un racconto a tinte fosche, sguaiate e scurrili.
Eccolo qui!
Facciamo  un salto indietro  fino ad una notte di metà ottobre del 771 a.C.  e raggiungiamo la città di AlbaLonga poiché,  come nella nuova versione del mito, anche in quella più vecchia ed apocrifa (perché tale è!)  fu proprio lì che ebbe inizio ogni cosa.
Tarchizio, Tiranno di Albalonga, stava tranquillamente dormendo quando fu svegliato dalle grida scomposte dei servi terrorizzati  da uno strano fenomeno: una “cosa” fiammeggiante e mostruosa si era materializzata nel focolare domestico e minacciava tutti.
In verità, il mostro aveva un aspetto inquietante e di fuoco ardente, sì, ma decisamente familiare: quello di un fallo maschile e tutte le donne presenti, prese da panico e terrore, fuggivano scompostamente di qua e di là.
Per un po’ la mostruosa creatura le inseguì, ma poi finì per fermarsi in una  stanza vuota che il Re, tutt’altro che coraggioso, comandò di sprangare subito, indi, inviò messaggeri in Etruria ad interrogare un certo Oracolo: Tetha.
La risposta dell’Oracolo fu senza dubbio assai particolare, ma non proprio singolare per l’epoca ed i prodigi che continuamente si presentavano: il ProtoNume,  manifestatosi    come Ignis, il Fuoco-personificato, ordinava di volersi unire ad una fanciulla vergine perché:
“… da lei – riferì il messaggero -  nascerebbe un figlio tale da innalzarsi su tutti gli uomini come il più illustre, forte e coraggioso.”
Re Tarchezio, in realtà, aveva capito fin dall’inizio le intenzioni del Dio-Grande degli Italici : egli voleva un nuovo figlio, forte e vigoroso, capace di dar vita ad un nuovo popolo. Voleva un nuovo figlio simile ad Ercole e per questo si era manifestato attraverso il Dio-Ignis, forte, vigoroso e violento.
Un ordine perentorio, inquietante e soprattutto minaccioso per lui: da un tale ardente amplesso con una vergine, pensava preoccupato il Tiranno,  sarebbe  nato un bambino che crescendo sarebbe diventato forte e illustre più di tutti… più di lui, il Re, il Tiranno di Albalonga.  Un  ordine giunto per bocca di un oracolo etrusco a cui non ci si poteva ribellare.
Un bel dilemma!
Non ubbidire all’Oracolo sarebbe stata una sfida al Fato, ben  lo sapeva Tarchisio e il Fato era una Forza  che non si lasciava  ingannare da nessuno, Divinità comprese. Ubbidirgli, però, sarebbe stato come consegnarsi a lui e decretare la propria rovina,    poiché il “figlio del Fuoco”, appena cresciuto,  per prima cosa si sarebbe liberato di lui.

Che cosa fare per scongiurare la minaccia, si sarà chiesto il Tiranno. Una soluzione c’era, che lo avrebbe salvato dalla rovina e che avrebbe anche potuto accrescere il suo potere.
Re Tarchisio  aveva una figlia. Proprio in età da marito.  Diventare suocero di un Dio  e nonno di un Semi-Dio era un’aspirazione tutt’altro che mavagia.
Qualcosa, però, mortificò i suoi sogni di grandezza: appena al cospetto di quella  mostruosa “cosa”, la sua bella figliola si lasciò cogliere da profondo disgusto e  pensò bene  di farsi sostituire da una schiava.
Ignaro dello scambio. il Tiranno cominciò l’attesa dei nove mesi; strada facendo, però, si accorse che ad essere incinta non era sua figlia, ma la di lei ancella.
Suo primo impulso fu di disfarsi di questa e del frutto del suo seno, ma a trattenerlo dal mettere in atto  quel proposito fu la paura dell’inevitabile reazione del Dio-Fuoco.
Con pazienza attese la scadenza.
Una nuova sorpresa, però, era ad attenderlo: i neonati erano due e non uno.
Una grossa complicazione davvero, poiché uno solo dei due poteva essere il  Figlio del Fuoco.  Ma quale? Lo sapevano tutti che da un amplesso amoroso poteva nascere un solo bambino. La nascita di due gemelli   era un evento prodigioso e significava che i rapporti avuti non potevano essere che due con lo stesso uomo oppure due con due uomini diversi.
Che la fanciulla avesse avuto rapporti con due uomni era più che evidente: lo avevano visto tutti che il Dio-Ignis si era intrattenuto per un solo rapporto.
E allora?
Allora,  solo uno di quei due bambini era un Semidio, l’altro era solo un bambino.
Per risolvere la faccenda, il Tiranno ricorse al sistema più semplice, sbrigativo e soprattutto in auge a quei tempi: esporre i due gemellini, sperando che tutti si dimenticassero di quel prodigio che… che dopotutto non era unico né il primo.
Chiamato Tirezio, servo fidato ed incorruttibile,  gli affidò una cesta da abbandonare, attraversata l’ampia  pianura,  dall’altra parte del grande fiume. In quella cesta c’erano i due gemelli che egli aveva separato dalla madre.

Il Tiranno era certo che Dio-Ignis avrebbe evitato la morte  a suo figlio e così fu.
La cesta fu raccolta e i gemelli tratti in salvo da una lupa, animale sacro a Marte, che provvide a nutrirli e proteggeeli. Dopo la lupa a nutrirli arrivò un altro animale sacro al Dio della Guerra, un picchio ed infine giunsero due umani: Faustolo e Plistino, i quali raccolsero la cesta e la portarono ad Acca Laurenzia, moglie di Faustolo.
Fu propro costei, secondo la primitiva ed apocrifa versione del mito a dare i nomi ai due gemelli. Chiamò Romo, da “rumon”, ossia fiume, il primo: quello più bello, forte e robusto e Romolo, cioé “il Romo più piccolo”, il secondo, più piccolo e gracile.
Romo e Romolo, dunque, non erano propriamente uguali  e  Romo, che la versione postuma dei Latini ribattezzerà Remo, era il più forte, il più audace e il più battagliero dei due.

Come prosegue il mito?
Ci adegueremo anche noi ed al gagliardo Romo cambieremo in nome in  Remo…  in tal modo, Romolo non sembrerà più “il piccolo Romo”  e Remo sarà semplicemente… Remo: entrambi ribelli e attaccabrighe.


Il mito, così addomesicato, ci dirà che i due gemelli a capo di una banda di giovani altrettanto ribelli ed attaccabrighe attaccarono AlbaLonga e uccisero il despota Tarchesio, dopo di che, si dichiararono pronti a  gettare le fondamenta di una nuova città e si accinsero a sceglier il posto più adatto.

segue:  “Quando  ROMO diventò REMO ?”



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- Letteratura

IL RAIS - Misteri d’Oriente

Il forte interesse e la grande ammirazione verso tutto ciò che era Orientale, creò nel XIX secolo uno dei capitoli più complessi della storia intellettuale europea.
Si trattò di un fenomeno assai diffuso a causa dello spiccato interesse per tutto quanto fosse orientale e per alcune caratteristiche in particolare: l’arte, la falconeria, i divertimenti (soprattutto danza del ventre).
Si giunse perfino a deporre l’abito europeo per preferire quello orientale. Molte personalità lo fecero: il pittore David, l’archeologo Belzoni, l’avventuriero Laurence d’Arabia, per citarne solo alcuni.
Si trascurarono, però, alcuni degli aspetti fondamentali di quella cultura; a volte si finì anche per ironizzarne.
Mancò spesso il rispetto per una cultura considerata piuttosto folkloristica e quel che è peggio, si trascurò la condizione assai precaria che la donna (salvo poche eccezioni) ricopriva in quella società.
Ossessione per una terra ed una cultura che, in fondo, non si conosceva affatto, ma che spinse tanti europei a travestirsi da arabi…

In queste vicende, infatti, non si incontreranno solamente figure storiche realmente esistite, ma anche personaggi partoriti dalla fantasia, perché il tema principale e:

AMORE - PASSIONE - FASCINO - AVVENTURA - AZIONE -  MISTERO -  FANTASIA -  STORIA  

 

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- Storia/Mitologia

Le vicende di ISIDE - OSIRIDE - HORO


Le vicende di:   OSIRIDE - ISIDE  - HORO

La più complessa, ma straordinaria espressione del pensiero etico-filosofico-religioso egizio è senza dubbio la figura di Osiride.
Osiride è diverso da tutte le altre Divinità.
Osiride è simbolo del dramma dell'esistenza umana: l'ineluttabilità della morte e la speranza della resurrezione. Osiride è il simbolo del Ciclo: Vita-Morte-Resurrezione.
Osiride è la "vittima" per eccellenza: viene sacrificato, ma il suo sacrificio e la sua passione, vengono compensati dalla Giustizia e dall'Ordine Universale ristabiliti.
Sposo e padre amato, viene soccorso dalla sposa Iside e dal figlio Horo...

Ma vediamo un po' più da vicino il Mito di questa "Sacra Famiglia" e le sue vicende quasi umane.
Nut e Geb,  Signora del Cielo e Signore della Terra, avevano quattro figli: Osiride, Iside, Seth   e Nefty.  Iside ed Osiride, narra il mito, erano innamorati ancora già nel grembo materno. Belli, generosi ed operosi, costituivano la coppia perfetta.  Al contrario degli altri due figli della coppia divina, Seth e Nefty, che si detestavano cordialmente ed erano irresistibilmente attratti l'uno da Iside e l'altra da Osiride.

I Testi, gli Inni, le Litanie che raccontano questo Mito, però, non hanno i toni e gli accenti del dramma e della tragedia; però, sono pervasi dal dolore profondo della "Passione" e dalla esultanza della "Resurrezione":  Osiride è Fondatore di una "Epoca d'Oro" raggiunta attraverso la instaurazione della Giustizia e dell'Ordine.
Recita un Inno del Nuovo Regno:
               "Egli stabilì la Giustizia su tutte e due le sponde
                  Mise il Figlio al posto del Padre..."

Ma Osiride ha un grande nemico. Si chiama Seth ed è suo fratello minore.
Seth è litigioso, violento e irascibile. In una parola: Tempestoso. Seth è la personificazione della Violenza e della Forza Cieca.  Perfino la sua nascita fu una esplosione di forza a violenza.
                "Tu, che la Dea pregnante, Nut, Signora del Cielo, partorì
                  quando spaccasti il Cielo in due,
                   Tu sei investito con la forma di Seth,
                    che proruppe fuori con violenza...!"
Fu Seth a distruggere l'Ordine  Precostituito delle Cose e lo fece uccidendo Osiride.

Come avvenne il fattaccio?
Varie le versioni di questo delitto.
Il mito più recente é quello riportato da Plutaro (II° secolo d.C.) che parla di una festa durante la quale Seth convinse l'ingenuo Osiride a stendersi in una cassa per vedere se riusciva a contenerlo, dopo di che, gettò la cassa nel Nilo.
La cassa, continua il mito, fu spinta dalla corrente fino a Biblos e finì su un albero che,  crescendo a dismisura, attirò l'attenzione del Re di quella città il quale fece tagliare il tronco per farne la colonna portante del suo Palazzo.

Iside, giunta a Biblos, si fa consegnare il corpo dell'amato Osiride intrappolato in quel tronco e lo riporta in Egitto; qui, però, Seth, approfittando di un suo momento di disattenzione, riesce a trafugare la salma, tagliarla a pezzi ( 7 oppure 14) ed a gettarli in diverse zone del Paese.
Il mito più antico e primitivo, appartenente alla Teologia Memfitica, parla, invece, di annegamento nelle acque del Nilo e descrive così l'evento.
                   "Nefty ed Iside accorsero subito perché Osiride stava annegando.
                     Esse lo guardarono, lo videro e inorridirono.
                     Horo comandò a Iside e Nefty di afferrare Osiride per impedirgli di annegare..."

Altra versione, di Testi delle Piramidi ancora più antichi, indica un luogo chiamato Nedit, dove Osiride sarebbe stato ucciso, il corpo fatto a pezzi e i pezzi sparpagliati per tutto il Paese.
Ma ecco accorrere Iside in aiuto dell'amato sposo ed insieme alla sorella Nefty, andare alla ricerca dei pezzi e ricomporli attraverso una prima forma di imbalsamazione, con l'aiuto di Anubi, il figlio che Osiride aveva avuto da Nefty.
E' la prima "mummia", ma non è ancora la "Rinascita... per questo bisognerà aspettare che il dramma si compia per intero.
                    "Benefica Iside che protesse il fratello e andò in cerca di lui
                       né volle prendere riposo finché non l'ebbe trovato..."

Alla ricerca dei pezzi del corpo di Osiride, attraverso le paludi e le rive del fiume, Iside si era recata assieme alla sorella Nefty; li recuperarono in varie località: a Philae, a Letopolis, ad Abidos, ecc.... eccetto il fallo, ingoiato da un pesce.
Iside, però, voleva dare un erede al suo sposo amatissino, affinché da grande potesse vendicarne la morte. Cosa che fece, prima di dargli sepoltura.
Ecco come recita l'Inno:
                        "Ella ravvivò la stanchezza dell'Inanimato
                        e ne prese il seme nel suo corpo, dandogli un erede.
                        Allattò il fanciullo in segreto,
                        il luogo ove egli stava essendo sconosciuto..."
Quel luogo segreto, quel nascondiglio, era il Chemmis o Cespugli-Sacro e si trovava nelle paludi del Delta, nei pressi della cittadina di Buto.

Con la morte di Osiride anche la vita di Iside e quella del figlioletto Horo erano in pericolo: Seth si sentiva minacciato da quel figlio che crescendo avrebbe sicuramente vendicato la morte del padre, poiché, il rapporto scambievole fra il Figlio-vivente e il Padre-morto, fu sempre  alla base del pensiero etico-filosofico-religioso dell'antico egizio.

Seth, infatti, racconta una tarda leggenda, catturata Iside, la rinchiuse  in una filanda con le sue ancelle, ma la Dea con l'aiuto di Thot riuscì a fuggire e raggiungere la Palude del Delta e il Chemmis, dove, per l'appunto, dette alla luce il figlio di Osiride.
Qui, però, il piccolo era  esposto ai molti pericoli della palude, come il veleno di serpenti e scorpioni, ma, soprattutto,  il rischio di cadere nelle mani del malvagio zio Seth.  Questi, infatti, assumendo la forma di serpente, strisciava nelle acque di quei pantani  ed un giorno attaccò     il piccolo Horo il quale, però, come recita l'Inno, riuscì a sconfiggerlo:
                       "... io ero un bimbetto lattante
                         e sebbene fossi ancora debole
                         abbattei Seth e lo intrappolai sulla riva..."

A vegliare sul pargolo divino, in verità, erano in tanti oltre al saggio, onnipresente ed innamorato Thot.  Tante Divinità minori, tutte impegnate a giocare con lui e distrarlo: Bes, il Deforme Dispensatore delle Sabbie del Sonno, che per tenerlo quieto improvvisava grotteschi passi di danza con le sue gambette sgraziate; le Divinità della Palude, Pehut, Sechet ed altre, che cantavano per coprire il suo pianto onde non arrivasse alle orecchie di Seth.
Iside infatti era costretta ad allontanarsi dal Cespuglio-Sacro per andare in giro a mendicare per provvedere a se stessa ed al piccolo.
Durante il suo peregrinare, racconta il mito, seguita da 7 Scorpioni che le facevano da scorta, la Dea capitò in un piccolo villaggio. Qui, nel vederla  da lontano,  una donna molto ricca ma  molto avara,  senza riconoscerla, le chiuse la porta in faccia. Fu, invece, una fanciulla molto povera, figlia di pescatori, ad aprile la porta della sua casa e lasciarla entrare.
La cosa dispiacque molto ai 7 Scorpioni che decisero di dare una bella lezione alla donna ricca e ingenerosa. I 7 raccolsero tutto il loro veleno e lo misero in Tefen, il più malvagio di loro e questi strisciò sotto la porta di casa della donna e punse il figlioletto  che  stava giocando, ma che cominciò ad urlare dal dolore.
Disperata, la donna uscì dalla casa con il bimbo in braccio,  correndo attraverso tutte le strade dl villaggio in cerca di soccorso; nessuno, però,  ma poteva aiutarla.
Fu la stessa Iside, mossa a pietà del piccolo innocente, ad intervenire e ad ordinare al veleno di lasciare il corpo del bambino.
Pentita della propria ingenerosità, la donna ricca  divise tutti i suoi averi con la fanciulla povera.

Di ritorno alle paludi ed al Chemmis, però, Iside trovò che anche il piccolo Horo era rimasto vittima del veleno di un serpente, opera del malvagio  Seth e le sue grida di dolore  l'accolsero insieme alle disperate invocazioni d'aiuto al Padre degli Dei, di Nefty, Selkhet e delle altre Divinità delle Paludi.
In quel momento la Barca di Ra stava transitando nel Cielo con a bordo l'intera Divina Compagnia e Nefty  la invitò a richiamare la loro attenzione. Cosa che Iside fece immediatamente levando al cielo alti lamenti.
Quando la arca di Ra   arrivò, spinta dal Vento Cosmico, ne discese Thot, Signore delle Scienze e della Magia, armato, dice il Mito
                    "... di potenza e di suprema autorità per mettere le cose a posto."
Dopo aver confortato e rassicurato sia Iside che la sorella Nefty e tutte le  Divinità della Plude, Il Grande Mago mise in atto il suo esorcismo e scacciò il veleno.
                      "Indietro, oh Veleno!
                        Tu sei esorcizzato dall'incantesimo delle stesso Ra.
                         E' la parola del più grande degli Dei che ti caccia via.
                        La Barca di Ra resterà ferma e il Sole resterà al posto di ieri
                        finché Horo guarirà, per la gioia di sua madre!"
E Thot continua, con il suo incantesimo enumerando tutte le sciagure che  avrebbero colpito  la Terra e l'umanità se Horo fosse morto:
                          "... le Tenebre coprirebbero ogni cosa
                            Non ci sarà più distinzione di tempo.
                            Le Sorgenti saranno chiuse e il grano appassirà
                            e non ci sarà più cibo..."
E termina così:
                           "Giù! A terra, oh Veleno!
                              Il Veleno è morto.
                              La febbre non tormenterà più il Figlio dell Signora...
                              Horus vive di nuovo, per la gioia di sua madre."

Horo, dunque, nacque, visse e crebbe fra i pantani del Delta e quando ebbe raggiunto la maggiore età si accinse a rispondere al richiamo di Osiride, sempre immobile ed impotente nel Mondo Sotterraneo ed ad affrontare il suo  nemico: Seth il Perturbatore.
Il Giovane-Horo calzò i "sandali baianchi" che sua madre iside gli aveva consegnato e si accinse ad attraversare la Terra per andare in soccorsdo del padre, Osiride.

 

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- Letteratura

LA TRIADE... o Sacra Famiglia Egizia

Il concetto di Triade o Trinità nella Teologia egizia fu presente prima ancora delle epoche Dinastiche.

Su tutto il territorio, conosciuto ancora con il nome: “Il Paese delle Due Terre” (La Valle e il Delta), il  Neter-Wa,  (Dio-Uno), che si manifestava attraverso l’astro solare, assumeva nomi diversi, nei diversi centri, ma era fatto della stessa sostanza ed esprimeva lo stesso
concetto.

Non a caso, il concetto del Divino si identificava nel Sole o nel Fiume: i due elementi fonte di Vita. E, non a caso, in Egitto non fu mai presente un Dio dei Fulmini (Zeus di Greci e Romani) oppure delle Tempeste Marine (Enlil dei Babilonesi). Questo perché la Religione, sempre associata alla Magia, aveva uno scopo utilitaristico più che trascendentale.

La Triade Egizia  (o Trinità), era  costituita non da:
    Padre – Figlio – Spirito Santo
come quella cristiana (che, peraltro, verrà assai dopo) ma da:
    Padre – Madre – Figlio
Una Sacra Famiglia!


Era raffigurata con un triangolo isoscele capovolto, con al centro un  Occhio Sacro (quello di Atum: Dio_Creatore). I due vertici superiori rappresentavano il Padre e la Madre e quello inferiore, invece, il Figlio.

Tutti i centri e le città più importanti dell’epoca avevano la propria Triade, che cambiava solo di nome, come dicevo prima, ma non di sostanza.
Le Triade erano diverse ed io ne cito solo alcune, le più conosciute:

A Memfi c’era quella composta da:
       Ptha – Sekmet e il figlio Nefertum

Ad Abidos troviamo:
      Osiride – Iside e il figlio Horo

A Tebe, invece, c’erano:
      Ammon – Mut e il figlio Konsu

Ed a Dendera:
      Hathor – Horo e il figlio Iny


La mitologia egizia assegna ad ognuna di queste Triade vicende in cui si ravvisano vicissitudini umane di quei luoghi di culto, ma anche eventi naturali.
Un esempio: il Diluvio Universale, che incontriamo associato alla Triade di Memfi  oppure il mito del sacrificio  divino: Il Dio morto e risorto, ossia il mito di Osiride, ecc…

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- Letteratura

IL CAMPO SCELLERATO... ovvero la tomba delle sepolte vive

Era un luogo lungo la strada selciata di Porta Collina dove le Vestali ree di inadempienza al proprio voto di castità venivavo sepolte vive. Si trattava di un seminterrato provvisto di un pagliericcio e di una porticina che veniva sprangata dall’esterno ed in cui la sventurata doveva vivere la sua angosciosa e lunga agonia, con solo un bricco di latte, una pagnotta ed una lampada ad olio .

La prima di queste sventurate, sotto re Tarquinio Prisco, accusata di aver attentato alla propria virtù, fu la nobile Pinaria, figlia di Publio. Seguì Minuzia, la quale attirò i sospetti su di sé per la cura eccessiva che dedicava alla propria persona. Ad accusarla fu uno schiavo e non le fu possibile dimostrare la propria innocenza.

Nella guerra di Roma repubblicana contro i Volsci, la sorte era decisamente sfovorevole a Roma e si disse che gli Dei erano insoddisfatti e corrucciati ed esigevano sacrifici.
Si pensò subito alla condotta delle sacerdotesse di Vesta: molte delle disgrazie che piovevano sulla città venivano loro attribuite. Qualcuno mise in giro la voce che la responsabilità era proprio di una delle Vestali: Oppia, colpevole di aver oltraggiato la sua virtù con due uomini. Sottoposta a giudizio e condannata, la ragazza fu sepolta viva e i due presunti colpevoli, uccisi a colpi di verghe.

Stessa sorte toccò ad un’altra Vestale, la giovane Urbinia, questa volta durante la guerra di Roma contro Veio. Poiché in città e nelle campagne  donne e bambini si ammalavano e morivano di morti sospette, la pubblica attenzione si concentrò una volta ancora sulla Casa di Vesta e sul comportamento delle sue Sante Figlie. Ad essere accusata di non aver rispettato il giuramento di verginità fu, questa volta, la povera Urbinia ed anche lei conobbe l’orribile sorte di essere sepolta viva in quella fossa infame.
Anche per i due presunti colpevoli non ci fu scampo: processo e condanna a morte.

 

Altre quattro Vestali furono riconosciute colpevoli e condannate, ma tutte preferirono darsi morte piuttosto che affrontare il ludibrio di un processo e una morte orribile: Lanuzia, accusata da Caracalla, che si gettò dal tetto della sua casa; Tuzia che, accusata di aver avuto rapporti con uno schiavo, si trafisse con un pugnale; Gapronia che si strangolò e Opimia che scelse il veleno; Florania, invece, non riuscì a sfuggire alla terribile sorte.

Non mancarono casi di Vestali condannate nonostante la comprovata innocenza, come nel caso della bella e giovane Clodia Leta e la nobile Aurelia, le quali preferirono affrontare il martirio piuttosto che cedere alle profferte libidinose del loro accusatore: l’imperatore Caracalla.

Innocente era anche la bella Cornelia, ai tempi di Domiziano il quale, respinto, l’aveva accusata di aver attentato alla propria virtù con un certo Celere. Non potendo sostenere le accuse in Senato, l’Imperatore l’accusò in un improvvisato tribunale allestito in una casa di campagna senza dare alla povera ragazza possibilità alcuna di discolparsi e difendersi.
Riconosciuta colpevole, l’infelice Cornelia fu condannata e condotta sul luogo del supplizio.
Qui, mentre scendeva i gradini che la portavano in fondo alla fossa, il mantello si impigliò. Il Littore fece l’atto di tendere una mano per aiutarla, ma Cornelia lo respinse per non contaminarsi e dimostrare di possedere ancora la propria virtù e purezza.
Non ancora soddisfatto da questa condanna, Domiziano fece uccidere con le verghe anche il povero Celere, del tutto estraneo a quei fatti.

Singolare é la storia di altre tre infelici: Marzia, Licinia ed Emilia, Vestali ai tempi della Repubblica.
Marzia aveva una relazione amorosa con un giovane di buona famiglia che durava già da qualche tempo quando fu accusata; Lucio Metello, il Pontefice Massimo, si lasciò impietosire dalla loro storia d’amore e graziò la ragazza.
Sempre sotto il suo Pontificato, altre due Vestali, Licinia ed Emilia, vennero meno ai loro voti di castità concedendosi l’una al fratello dell’altra. Scoperte e accusate da uno schiavo, un certo Manius, comparirono davanti al tribunale, ma solo Emilia fu condannata, perché accusata anche di aver intrattenuto relazione illecita con alcuni schiavi per evitare denuncia da parte di quelli.
Il popolo romano, però, assai “bigotto” avremmo detto oggi, riguardo la virtù delle proprie Vestali, si mostrò assai scontento di quelle assoluzioni e pretese un nuovo processo.
Questa volta le tre infelici ragazze vennero tutte condannate e con esse anche quelli che le avevano protette e in qualche modo sostenute.

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- Storia

s.p.q.r.

S P Q R


Quante volte abbiamo letto e sentito questa sigla?
SPQR,  ossia "Senatus Populus-que Romanus", che vuol dire "Senato e Popolo Romano".
Il Senato era quel che si dice un "Consiglio degli Anziani", costituito da un centinaio di persone, primogeniti di quelle famiglie di pionieri che con Romolo avevano fondato Roma.

Secondo la tradizione, Romolo aveva diviso la città in tre Tribù corrispondenti alle tre popolazioni principali che la componevano: i RAMSENSES o  Romani, i  TITIENSES o Sabini
e i LUCERES o Etruschi e tutti gli altri.  Le Tribù erano divise in 10 Curiae e  ogni Curia in dieci Centurie o Gens, ossia Famiglie, dal nome del fondatore: Giulia, Flavia, Livia, Manlia, Fabia, Claudia, ecc.
Come si giunse all'istituzione del Senato?
Le Curie si riunivano almeno due volte l'anno e tra le varie prerogative avevano anche quella di eleggere il  Re il quale eseguiva quanto deciso in quelle assemblee chiamate Comizi Curiazi.

Con il sempre maggior afflusso di gente in arrivo nella nuova città, però, crebbero problemi ed esigenze e il Re da solo non potè più supplire a tutte le necessità, così si ricorse ad un organismo burocratico: il primo Ministero, ossia il Consiglio degli Anziani;  ossia il Senato.
All'inizio il compito del Senato era solo quello di consigliare il Re, ma in seguito il suo potere e prestigio giunsero ad influenzarne le decisioni.

Questo il Senato... e il Popolo?
Il concetto di Popolo,  per l'epoca, non era certamente quello corrispondente al nostro!
Vediamo da vicino da chi era costituito questo Popolo.
Un bel giorno, neanche troppo lontano dalla sua fondazione, a Roma cominciarono ad afflluire gruppi più o meno nutriti di gente appartenente a popolazioni vicine: sabini, latini, ecc. i quali, con molta probabilità prima dovettero venire alle mani  con i residenti per conquistarsi un pur limitatissimo spazio, ma poi finirono per allearsi e lasciarsi inglobare nel tessuto romano, pur restando fuori dei "giochi politici" di questi.
Vennero a formarsi "classi sociali" ben precise e assai ben distinte: I PATRES (discendenti dei fondatori della città) e i PLEBEI...  tutti gli altri,  che  politicamente  non contavano nulla;  i
secondi sempre più  numerosi e i primi in numero sempre più esiguo, ma ben intenzionati a conservare ricchezze e privilegi.
Quale la migliore strategia, per questi ultimi, per poterlo fare? Permettere l'accesso  a quella fortezza costituita dal Senato in cui si difendevano quei privilegi, anche ad una parte della "controparte" e cioé ai Plebei.
Questa é vera Politica... quasi come la politica attuale. Ma, sarà proprio questa politica e cioé l'ascesa al potere di un nuovo tipo di cittadino, la  formula vincente del successo del modello romano.
Che cosa era accaduto?
 Già ai tempi di Tarquinio Prisco in seno alla società plebea s'era formata un classe a sé, borghese e soprattutto di larghi mezzi economici: commercianti, bottegai, industriali, finanzieri... tutti con il sogno di diventare un giorno Senatori ed entrare in quella roccaforte di privilegiati politici... come succede ancor oggi, d'altronde.
Riuscirvi non era così difficile, in realtà, se si disponeva di ingenti capitali per comprarsi il censo di EQUITES o Cavaliere e poter votare nei "Comizi Centuriati".
Riuscire a sedersi su uno scanno tanto ambito (quello del Senato) non annullava, però, la differenza sociale: i PATRES restavano sempre Patrizi e i nuovi arrivati, gli EQUITES o Cavalieri, doventavano Conscripti, o nuovi istìcritti, felici di dilapidare il fresco denaro al fianco dei neghittosi e spesso spiantati Patrizi.
SPQR: SENATO e POPOLO; quest'ultimo costituito da  Patrizi e Cavalieri da una parte e Plebei dall'altra.
Una non facile convivenza, si vedrà subito!

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- Storia

I matrimoni incestuosi dei Faraoni

I matrimoni incestuosi dei Faraoni

 


Perché i Faraoni sposavano figlie e sorelle, praticando, così, l’incesto?
La domanda è legittima e la risposta pare scontata:
“Per preservare la purezza del sangue.”
Un fondo di verità c’è, in questo, ma ci sono anche altre cause: tradizione, politica, religione…
Sappiamo che l’Egitto non era il solo Paese a seguire tale consuetudine: il babilonese Abramo aveva per Sposa Primaria la sorella Sarai e l’ittita Suppilulumia, di sorelle ne aveva sposate addirittura due.
In realtà, in Egitto l’incesto era considerato un reato e come tale punito, ma solo per la gente comune.
Perché, dunque, quella pratica contro natura nelle Famiglie Reali?
In Egitto ( e non solo in Egitto) il trono si ereditava per via femminile: durante il matriarcato prima e in retaggio di tale sistema, dopo.
Era nelle vene della Grande Consorte Reale che scorreva il “sangue divino” ed era lei ad essere, da sempre, considerata “Figlia di Dio”. (basta dare uno sguardo alle iscrizioni del Tempio di Deir El Bahary, il Complesso Funerario di Huthsepsut, la Regina-Faraone)

La Grande Consorte Reale trasmetteva alla principessa ereditaria il suo sangue divino assieme al diritto al trono:  questo, dunque, era “proprietà” della Grande Regina e passava in eredità alla figlia femmina e non al figlio maschio.
Il principe ereditario, designato dal Faraone in carica, lo riceveva dopo un complesso cerimoniale che possiamo riassumere in tre momenti:
- Le Nozze Divine:  tra la principessa ereditaria e il Dio Dinastico (Ammon, in questo caso), celebrate nel Tempio Dinastico di Karnak, a Tebe: uno dei misteri più impenetrabili dell’Antico Egitto.
- Le Nozze regali:  della principessa e futura Regina con il principe ereditario
- L’atto sessuale: e il conseguente mescolamento di sangue.

Attraverso tale cerimoniale lo spirito del Dio-Dinastico passava dal corpo della principessa in quello del principe: il futuro Faraone. (Per-oa, ossia Palazzo Divino:  il luogo in cui si incarnava la Divinità. Faraone, che vuol dire Incarnazione di Dio )

In teoria,  ogni uomo poteva, sposando la principessa ereditaria, diventare Faraone.
Il pericolo di guerre dinastiche tra principi era reale ed elevato; non esisteva diritto di primogenitura, ma solo quello di designazione da parte del Faraone, anche se di norma ad essere designato era, ma non sempre, il primogenito. (Ramseth II, ad es. era il quarto figlio di Seti e il fratello primogenito gli mosse guerra e Keope era il quinto figlio di Snefru e suo fratello primogenito fu tra i progettisti della Grande Piramide)
Reale ed elevato era anche quello costituito da guerre di conquista da parte di stranieri.
Il Faraone in carica, dunque, alla nascita della principessa ereditaria le assegnava un marito: uno dei principi ereditari. Accadeva, però, anche che la prendesse in sposa egli stesso, in assenza di fratelli.
Così fece il faraone Amenopeth IV (conosciuto anche come Akhenaton), che sposò tutte e sei le figlie; Sua Maestà Sety I, invece, fece sposare due sorelle al suo successore designato: Ramesse II (che pure era già sposato con la bellissima ma molto borghese Nefertari)
Lo stesso fece il faraone Thutmosis I con il figlio Thutmosis II, che diede come marito alla celeberrima Huthsepsut, Regina-Faraone.

nota: si suppone che sia stato per impedire una guerra dinastica che la principessa Maritammon, figlia di Akhenaton, e sorella di Anksenammon, moglie del celeberrimo Thut-ank-Ammon abbia finito per sposare il generale Haremhab diventato, in seguito a ciò, Faraone:  un Faraone usurpatore.
Come lo erano tutti i suoi discendenti: i Ramessidi.

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- Cultura

Agar

 

A G A R

 

Figura biblica femminile  fra le più controverse. Forse la più controversa.  Perfino nel significato del nome: amarezza, straniera, fuggitiva, nell'intrepazione egizia, ebraica o araba.
Sempre tracciata da mano maschile, mai femminile.
Eppure oggi questa figura, come disse in un'intervista la scrittrice pakistana  Thamina Durrani (autrice del libro Schiava di mio marito), è stata scelta come simbolo islamico per rappresentare l'impegno delle donne musulmane di uscire da una condizione di dipendenza ed immobilismo .
Ma non solamente delle donne   musulmane.
Agar è una donna che, rispetto ai costumi del tempo, si pone in una posizione critica mettendo in  discussione privilegi (maschili e femminili) ed offrendo spunto per riflettere sulla condizione femminile.
Ma chi é il personaggio Agar?
La tradizione ce la consegna quale schiava di Sarai, Sposa Primaria di Abramo, capo del popolo degli Ibrihim (figli di Abramo) rifugiati in Egitto durante una carestia.
Secondo il racconto biblico  durante la sua permanenza in Egitto Abramo  acquistò servi serve e qualcuno ipotizza che Agar fosse tra  queste.
La prima domanda che viene spontanea é: poteva una persona appartenente al popolo dominante essere schiava di una persona appartenente al popolo ospite e dominato?
Fra le tante leggende sorte intorno a questa figura (di cui non esistono tracce né prima né dopo questi fatti) una la vuole figlia del Faraone che si era invaghito di Sarai. La ragazza si sarebbe talmente affezionata a quella donna dai gusti raffinati (Sarai era di origine mitanne: una babilonese) assai diversa dalle donne egiziane, da averla voluto seguire quando Abramo lasciò l'Egitto... come andò a finire lo vedremo presto!
 
Agar: schiava o sposa?
Sposa, sorella, serva...  (solo madre, con ben altra funzione) erano termini che si attribuivano indipendentemente alla donna.
Nella cultura ebraica Agar é soltanto la schiava di Sarai, per quella islamica, invece, é la Sposa Secondaria del Patriarca.
Nella Genesi  Sarai dice al marito - verso 16:2
"Ecco, il Signore mi ha fatta sterile, ti prego vai dalla mia serva: forse avrò un figlio da lei."
La consuetudine glielo consentiva: in caso di sterilità il figlio nato dalla schiava, partorito sulle sue ginocchia come dal proprio grembo, le apparteneva. Era suo figlio!
Oggi un simile costume è considerato una violenza inaccettabile.  Per entrambe le donne: per il dolore e la mortificazione di Sara e per l'oltraggio su Agar.
La donna sterile all'epoca era  considerata una sciagura per la famiglia e Sarai era sterile.

Sarai non può adempiere alla promessa di Dio di fare di Abramo "Il Padre di una grande Nazione":  la sua sterilità compromette il Disegno Divino, che è il tema dominante di tutto il racconto.  Ed é proprio Sarai ad intervenire.
Abramo resta nell'ombra.  Egli "ascolta la voce di Sarai" quasi fosse un personaggio secondario del dramma.
Ma le due donne non sono alleate e quell'atto genera conflitti e rivalità. Ogni diritto viene calpestato: Agar diventa un oggetto, uno strumento da usare.
Anche i termini  "prendere"   "dare" ... utilizzati  quando si parla di  lei, sarebbero per una donna dei giorni nostri, oltremodo offensivi.  

Agar, riporta la tradizione biblica, si insuperbisce e si carica di arroganza quando resta incinta e Sarai si lagna con Abramo il quale, ancora una volta:
"E' la tua schiava ed é in tuo potere, fanne che cosa vuoi."  dice,  rientrando nuovamente fra le quinte e lasciando la scena del dramma alle due donne.
"Sarai la maltrattò tanto che quella se ne andò."  riporta testualmente la scrittura.
Sara é forte, ma Agar é ribelle. Scappa, ma poi ritorna; si umilia e restituisce il prestigio all'altra.

"Quanta sofferenza, quanta angoscia e desolazione ha causato Agar con la sua complicità nell'intento di dare un erede ad Abramo"  - Genesi  15 -4:5.
Quasi una aticipazione alla tribolazione che verrà: quella rivalità di Popoli che ha attraversato i secoli ed ha raggiunto i nostri giorni.  Rivalità di Popoli che ha avuto origine proprio dalla rivalità di quelle due donne: Sarai, gelosa e prepotente e  Agar, intollerante e ribelle.
La rottura finale giunge, però, con la rivalità dei figli: Ismaele, il figlio di Agar  e Isacco, il  figlio   di Sarai e  ancora una volta Abramo ascolta Sarai, che adesso é diventata Sara, cioé Signora-Regina:
"Scaccia quella schiava e suo figlio perché il figlio di quella schiava non sia erede con mio figlio."
Abramo scaccia Agar e Ismaele.

L'analisi finale del racconto può sembrare addirittura un gesto spietato e immorale: scacciare un figlio e votarlo a  morte quasi sicura.
"Abramo le dà del pane e un otre d'acqua."  -  Genesi  21 8:4
Ai nostri poveri occhi ciechi non pare vi sia della morale in questo gesto: un otre e del pane per affrontare da soli il deserto?
In realtà, per il credente, il disegno divino non si conclude con la  cacciata di Agar.  Agar e Ismaele non periranno nel deserto: in loro soccorso arriverà l'Angelo il cui intervento condurrà all'adempimento delle Promesse  Divine:
"Io farò diventare una grande nazione anche il figlio della tua schiava che é tua prole"
la stessa Promessa fatta per Isacco:
"Farò di lui il Padre di una grande nazione."

Ma qui un'altra domanda é d'obbligo: Chi... o Cosa é l'Angelo?
Chi ha soccorso veramente Agar e Ismaele? La Provvidenza Divina... Certo!
Lo dice la tradizione biblica, lo conferma quella islamica attraverso alcuni riti del pellegrinaggio alla Mecca, la corsa attraverso le collinette di Safa e Marwa,  che rievocano l'affannosa corsa di Agar alla ricerca di acqua per dissetare il figlio: Agar é forte. Agar é coraggiosa. Agar non si arrende.  Agar ha sempre dovuto conquistarsi ogni cosa.
Agar e Ismaele non sono più tornati alle querce di Mambre, ma sono rimasti nel deserto del Paron.   Nessuna notizia, nessun cenno su quel ritorno, solo che "sua madre gli (a Ismaele) prese una moglie del paese d'Egitto."
Questo potrebbe far supporre che siano tornati in Egitto o rimasti in terra di Sinai,  il cui territorio di frontiera era disseminato di avamposti militari egiziani...  questo, però,  conduce inevitabilmente ad altre supposizioni.

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- Mitologia

I giorni della merla - la leggenda




La Leggenda di  MERLA e TIBALDO


Da sempre chiamiamo “Giorni della merla” gli ultimi, rigidissi tre giorni del mese di gennaio.
Molte leggende sono sorte intorno a questo fenomeno atmosferico e in questa sede ne presento una: forse, la più romantica e triste insieme.
Viveva, nel ‘500, nella Rocca di Stradella, in provincia di Pavia, una nobile famiglia di gastaldi di nome Merli.
Tibaldo, un giovane della famiglia, fu inviato a Pavia a studiare. Terminati gli studi, il giovane  ritornò nel contado.
Qui incontrò una giovanissima ragazza di nome Merla e se ne innamorò; Merla era talmente bella, che in tutto il contado  si diceva: “Bella come la Merla”.
La ragazza ricambiò immediatamente il sentimento di Tibaldo, ma un grosso ostacolo separava i due innamorati: il grado di parentela.
Merla e Tibaldo, infatti, erano cugini stretti.
Per un po’ i due innamorati riuscirono a tenere segreta la loro relazione, infine, dovettero rendere pubblico quel loro amore senza speranza.
Sembrava, ai due giovani innamorati, che non ci fosse per loro altra soluzione che un romantico suicidio.
Quel sentimento, però, così forte, profondo e sincero, finì per attirare su di loro simpatia, benevolenza e comprensione.
Lo stesso vescovo di Pavia, parente dei due giovani, si mosse  a commozione e riuscì ad ottenere una dispensa papale che consentisse loro di sposarsi.
Le nozze furono celebrate in pompa magna e i festeggiamenti si protrassero per tre giorni: gli ultimi, tre gelidi giorni del mese di gennaio e tutto il paese vi partecipò.
Il festoso evento, però, finì in tragedia.
Per raggiungere Pavia, i due sposi attraversarono il Po gelato a bordo della loro carrozza.
Durante il viaggio, la superficie gelata del fiume si ruppe e i due giovani sposi finirono tragicamente annegati.

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- Antropologia

INDO-EUROPEI... Siamo tutti Semiti?

INDO-EUROPEI...   tutti semiti?
Diecimila anni fa gli uomini avevano praticamente occupato tutta la Terra, ma con una densità assai bassa ed una popolazione che non superava i sei milioni di unità.
Per l'evoluzione della specie umana, tre sono stati i fattori determinanti: il pensiero organizzato, la parola, la scrittura.
Spostiamoci nel diecimila a.C.  e cioè al periodo dell'ultima sglaciazione, corrispondente al Neolitico o all'Età del Bronzo.   
Il percorso dell'evoluzione, però, fu disuguale a causa della posizione o del mancato contatto tra popolazioni. Così, ad esempio, mentre nelle zone di mare (civiltà minoica) o di fiume (civiltà egizia o mesopotamica) è già l'età dei metalli, nelle zone interne (Europa,  Italia compresa), si vive ancora nelle capanne o addirittura nelle caverne, con un dislivello di 2000 o anche 3000 anni.
Chi erano queste popolazioni?  Quali sono le origini dell'attuale Europa e del bacino mediterraneo?
Sappiamo che  seimila anni fa la popolazione indigena d'Europa era costituita da contadini e pastori pacifici ed operosi che non conosceevano l'arte della guerra, lavoravano il rame  e vivevano in una società matriarcale in cui i compiti erano divisi fra maschi e femmine.
Successivamente, però, ad ondate migratorie quasi regolari ed attraverso una violenta colonizzazione, popoli di pastori-gerrieri calati dall'Est raggiunsero l'Asia centrale e meridionale e infine l'Europa e la sconvolsero totalmente.
Secondo la teoria più accreditata si trattava dei Kurgan, popolazione della regione di Urheimat, nelle pianure della Russia meridionale, la quale deve questo nome al termine russo con cui si indica un tumulo funerario utilizzato dai popoli neolitici delle steppe.
Al contrario dei pacifici e sedentari indigeni della "vecchia Europa", i Kurgan erano popoli nomadi-guerrieri, violenti e spietati conquistatori.
Dediti alla guerra ed alla conquista, sottomisero le popolazioni indigene  alle loro regole severe e patriarcali con le loro conoscenze circa la lavorazione dei metalli,  la strategia di guerra, la dotazione di armi come l'ascia da combattimento, ma soprattutto con l'addomesticamento del cavallo.
Erano gli Indo-europei, il cui nome abbiamo appreso dai libri scolastici. Da essi, si teorizza,  discendano tutte le popolazioni dell'Europa attuale e dell'Asia, fino all'India.
Calarono, come si è detto, ad ondate successive:
- prima ondata:  4000 - 3500   si spinsero fino ai Balcani e, lungo il Danubio, raggiunsero l'Ungheria settentrionale.
- seconda ondata:  3500 - 3000  proseguirono verso Ovest e sud Europa.
- terza ondata: 3000 - 2500 : raggiunsero Romania, Bulgaria e Ungeria meridionale.

I Kurgan si mescolarono alle popolazioni indigene imponendo il loro sistema di vita d'impronta patrarcale con regole dure e severe, con Diviità maschili ed intrasigenti e con un'organizzazione sociale gerarchica che vedeva a capo un Re.
Anche le lingue si mescolarono e da tale mescolanza derivano quelle che conosciamo: italiche, celtiche, germaniche, greco, armeno, indo-iranico, sanscrito, ecc.
Una vera babele di lingue!
I Kurgan, nel corso delle loro incursioni, non si limitarono a transitare attraverso i territori, ma  si  stanziarono  nei Balcani per secoli. Alcune tribù si spinsero fin nella penisola ellenica ed altre fino in quella anatolica. La fusione di quei gruppi con popolzioni indigene dette origine alla civiltà achea e ad una lingua greca primitiva e comune. Un altro gruppo si fermò in Macedonia, conservando la propria lingua, ma con intromissioni elleniche.
Nella seconda metà del secondo millennio a.C., altri gruppi ancora giunsero fino alla Dalmazia; secondo alcuni studiosi erano gli Illiri, fondatori di alcune colonie in Puglia  e Calabria.
A questo punto, forse, si rende necessaria una nota riguardo la fondamentale suddivisione delle lingue indo-europee in due gruppi: centum e satem.
Le prime, con la "c" e la "g"  di cane e gallo
Le seconde con la "c" e "g" di cesto e ginestra.
Ulteriori mescolanze avvennero con le conquiste romane prima e slave, poi.

Oltre alle lingue, si mescolarono, naturalmente, anche i geni che  dettero origine a quelle che, assai abusivamente, sono state definite "razze", quando invece, in realtà, l'uomo costituisce solo una "specie".
Per la cronaca, in Italia i "giochi" si sono fatti tutti  nell'età del bronzo, essendo la densità della popolazione così bassa da permettere ai conquistatori la possibilità di   produrre  grandi cambiamenti.

"Ex Oriente lux!"(dall'Oriente la Luce), recitavano, in tempi recenti,  Ricercatori e Studiosi di genetica. Alcuni di questi, però, spingendosi così oltre nella ricerca dei geni dei nostri avi,  finirono per gettare le basi dell'"arianesimo", causa del feroce  e devastante razzismo ed antisemitismo che conosciamo.
Come è nato l'equivoco?
Alcuni studiosi erano così soggiogati ed affascinati dalla scrittura sanscrita e dalla raccolta dei "Riy Veda", Testi Sacri induisti, in cui si parla di un popolo guerriero chiamato "aryos", ossia "signore" o "nobile", da ipotizzare che gli Indo-europei fossero i  "Signori" delle altre popolazioni.
Da ricerche e studi ulteriori si scoprì, invece, che la lingua sanscrita non solo non era affatto antecedente a quella indo-europea, ma che, al contrario, derivasse proprio da questa.  Si scoprì anche che lingue semite, come l'ugaritico, abbiano parole prestate all'indo-europeo e che,  dunque, il termine "ariano",  derivazione di "aryos",  è, in realtà,  un termine di origine semita,
Davvero un grossolano equivoco. Grossolano e devastante, come ben sappiamo, per le tragiche conseguenze che si trascinò con il Nazismo e il Fascismo.
Siamo tutti semiti, dunque?  Pare di sì!

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- Storia

CARACTATO.. il Re della Guerriglia

Caractato! Il "barbaro" che anche da sconfitto "conquistò" Roma.
Tacito ne parla nel Libro XII dei suoi "ANNALI"  con accenti di sincera ammirazione.
Siamo nel 51 a.C. - Galles Meridionale.
I Siluri, popolo ostile e bellicoso, sono per anni la spina nel fianco dei Romani. Comandati da re Caractato, tengono in scacco le Legioni Romane da ben nove anni, conseguendo più vittorie che sconfitte.

Fiero, ed irriducibile, non si riesce a sottometterlo né con la forza, né con le promesse. Perfettamente consapevole della inferiorità  numerca  del suo esercito,  questo barbaro ribelle riesce a sottrarre al servaggio la sua gente tenendo in scacco l'avversario con una tecnica assolutamente sconosciuta ai Romani..
La sua strategia militare è nuova ed insolita per i Romani, abituati a fronteggiare l'avversario. Ma Caractato ha inventato un nuovo modo di combattere: la guerriglia. Non affronta il nemico a viso aperto e con tutte le forze, ma lo coglie di sorpresa con un manipolo di uomini, favorito dalla impraticabilità del territorio su cui si muove.

Per la battaglia decisiva il grande guerrigliero sceglie un territorio assai impervio, uno spazio in cui l'accesso è difficile quanto l'uscita:  alle spalle ci sono ripide montagne e davanti un fiume con difficili guadi.
Dall'altra parte, i Romani spiegano la Legione di Publio Ostorio Scapola.
Dopo un combattimento violentissimo, che costerà ad Ostorio un vero massacro, i valorosi "guerriglieri"  sono costretti a  soccombere al valore dei Romani ed alla invincibile "Testuggine" romana.
Caractato riesce a fuggire, ma la moglie e la figlia sono fatte prigioniere.  Egli, allora, cerca rifugio e protezione presso il popolo dei Briganti, ma la regina Cartimandua, appena lo ha sotto la sua tenda, cerca di sedurlo; il grande guerrigliero la respinge e la donna  lo consegna ai Romani.

A Roma, il nome del principe dei Siluri é ben noto; le imprese  del ribelle invincibile ed invisibile sono già leggenda e tutti attendono impazienti l'arrivo dell'uomo che per quasi dieci anni si é beffato di Roma.
Lo stesso imperatore Claudio é impaziente di incontrarlo e, come ebbe a sottolineare Tacito, nei suoi " Annali",    "per esaltare la propria dignità, aumentò la gloria del vinto."
L'Imperatore organizza un vero spettacolo per il popolo di Roma durante il quale fa sfilare, legato al  carro, re Caractato e la sua famiglia.
E ancora una volta, il grande "guerrigliero" mostra il suo valore.   Invece di implorare clemenza, giunto sotto la tribuna imperiale, egli tiene un vibrante discorso:
".................. Se fossi trascinato davanti a te - dice all'Imperatore - senza opporre resistenza, né la mia sorte, né la tua gloria avrebbe acquistato splendore: al mio supplizio seguirebbe l'oblio, ma se mi lasci vivere, sarò per sempre un esempio della tua clemenza."
 Caractato ha salva la vita e con lui la sua famiglia e gli altri.
Bello, affascinante, la parola facile,  il principe dei Siluri non tarda  a conquistare   Roma ed a diventare l'ospite più desiderato dei "salotti" delle nobili matrone e   la  bellissima figlia,   con   il nome romanizzato di Claudia, viene fatta sposare ad uno dei figli del  nobile Pudente.

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- Antropologia

Indiani ’America - La Grande Visione

 

INDIANI Dì'AMERICA...   LA "GRANDE VISIONE"

 

A narrare la storia degli Indiani d'America  sono state la penna e la cinepresa del vincitore: l'uomo bianco. Prima descrivendoli come un'orda di selvaggi all'inseguimento dei carri dei coloni, astuti, infidi, crudeli, valorosi in battaglia, incuranti del dolore e poi, confezionando un mito nuovo e su misura: quello del nobile, perseguitato  e coraggioso cavaliere della prateria.

Un tentativo, quest'ultimo, che non assolve l'uomo bianco dalla colpa di aver portato quasi all'estinzione un popolo e non cancella certi eccessi dell'altra parte.

In realtà,  salvo pochi casi di ricerche e studi seri, lo si è fatto piuttosto per motivi folkloristici e per acquietare la coscienza

Farne un mito, dopo averli rinchiusi nelle riserve, non ha giovato, però,  ai "nativi"  d'America,   i quali,  è soltanto da poco che hanno visto riconosciuto (almeno sulla carta) i propri diritti.

Il merito di ciò va anche a quei pochi, studiosi e ricercatori seri,  che sono riusciti a riportare a dimensione umana la  loro Storia ed i molteplici e complessi aspetti della loro cultura.

 

Per gli Indiani d'America la Religione era una componente importante della vita;  la ricerca della "Grande Visione"  e la Comunione con gli Spiriti,  ne costituivano l'essenza più profonda.

Per raggiungere gli Spiriti i mezzi erano i Sogni e le Visioni. Sogni spontanei,  meno frequenti e più  apprezzati, ma anche Visioni indotte e procurate,  che una psicologia semplice ed elementare aiutava nell'interpretazione.

Erano soprattutto i più giovani e i guerrieri a procurarsi Visioni che li aiutassero nelle battaglie e nei riti iniziatici per entrare nell'età adulta.

Spesso bastava una sola Visione importante per condizionare una vita. Come quella  che si procurò prima della battaglia il  capo dei  Sioux, Toro Seduto, artefice della disfatta del 7° Cavalleria di Caster, nel corso della quale "vide" la disfatta dell'avversario.

Avere una Visione accresceva prestigio in seno alla tribù  e facilitava ogni tipo di attività all'interno della collettività.

Le prove a cui sottoporsi, dopo aver digiunato e pregato,  erano durissime e quasi masochiste: al limite della sopportazine.  Dovevano trascorrere  notti e notti all'addiaccio in zone impervie, pericolose e spaventevoli o calarsi in acque gelide durante l'inverno o anche trafiggersi le carni con le spine e altro ancora.

 

Ogni tribù aveva i suoi metodi per sollecitare sogni ed allucinazioni e una volta l'anno, a metà inverno, la tribù intera si riuniva per una "visione collettiva".

"Festa dei Sogni" era chiamata o anche "Danza degli Spiriti"

La più spettacolare e dolorosa era senza dubbio quella del popolo dei Sioux, conosciuta con il nome di "Danza del Sole" che guadagnò alla tribù il titolo di Cacciatori di Visioni.

Era una cerimonia suggestiva e complessa, oltre che assai dolorosa. Iniziava con una danza riservata alle sole donne, durante la quale veniva scelta la vergine che doveva tagliare l'albero che sarebbe serviro da Palo durante la Cerimonia.

Dopo giorni di digiuno, preghiere e purificazione, i guerrieri si sottoponevano alla tortura del Palo: lance dalla punta affilatissima conficcate nei muscoli del petto e assicurate con  conghie a pali distanti una ventina di piedi l'uno dall'altro.  Se il guerriero riusciva a liberarsi da solo da quella tortura, acquisiva grande prestigio non  soltanto in seno alla tribù, ma anche presso gli altri popoli.

Cinema e letteratura si sono serviti di questo rituale per aumentare il numero di lettori e spettatori senza però, riuscire a coglierne il significato più profondo.

 

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- Società

L’ Harem nella Cultura Cinese


 

L'harem nella cultura cinese

 L'harem nel mondo cinese

L'harem nel mondo cinese
Unico e inaccessibile, l'harem imperiale cinese era una vera "città proibita",  tale  e quale era stato battezzato: una città di donne, eunuchi e guardie. Costituiva una vera piramide con al vertice la Regina.  C'erano, poi, tre  Spose Primarie, più altre nove Spose Secondarie   a cui andavano aggiunte ulteriori ventisette Spose di Terzo Grado. Seguivano ottantuno Concubine ufficiali ed un numero imprecisato di concubine non ufficiali.
L'alcova imperiale era, dunque,  più che mai attiva e recava l'impronta di un numero impressionante di corpi femminili.
Le più assidue nel frequentarla, per quanto strano possa apparire, erano quelle che occupavano i gradini più bassi di quella particolare ed inconsueta piramide umana:  le Concubine, più che le Spose e le Spose, più che la Regina, la quale viveva appartata e   solo di rado e non più di una volta l'anno frequentava il talamo nuziale. Per l'intera notte,  se Spose Primarie,  per il tempo della "prestazione", per tutte le altre.
E' chiaro che l'organizzazione di uno "Stato" composto da un così gran numero di donne richiedesse ordine e regole ferree, soprattutto nei ranghi superiori e che l'osservanza   di  tali regole era  fondamentale  per rendere accettabile la convivenza.
Era tra le concubine, un esercito di donne annoiate, isteriche e  tristi, che si mettevano in atto le strategie più raffinate, sottili e  sleali, allo scopo di raggiungere quel talamo ed occuparlo il più a lungo possibile: l'imperatore era assai generoso con chi riusciva  a risvegliarne i turbamenti erotici e la posizione di  Favorita significava onori, potere e ricchezza. 

Concubine, oggi, in Cina?
La poligamia non esiste più.  Non di diritto, almeno! Esiste, però, una poligamia di fatto, condannata, ma tollerata: uno dei tanti contrasti di questo splendido ed affascinante Paese dalla millenaria cultura.
Nelle città più ricche ed industrializzate del Paese, si è posto in atto un costume socio-culturale assai particolare. Sono molti i maschi abbienti (molto abbienti) che si dividono fra due donne: la moglie ufficiale e quella non ufficiale. Esistono quartieri di lusso  che  ospitano la concubina-amante con  figli e  qualche volta, la moglie non ufficiale non è una soltanto... se questo non è harem!

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- Letteratura

Lungo il Rio delle Amazzoni

Lungo il Rio delle Amazzoni
Il battello si mosse, tra difficilissime manovre, per uscire dal porto e seguire la corrente, fendendo l'acqua con la chiglia e lasciandosi dietro una scia bianca ed azzurrina. Presto si staccò dalle altre imbarcazioni e prese il largo, andando incontro all'arcipelago dell'Anavilhanas  ed  allo spettacolo dello sposalizio del Rio Negro con il Rio Solimeos, dal cui amplesso   nasceva il Rio delle Amazzoni.
Sulla riva, palazzi, case, baracche e chiome di alberi, andarono  scomparendo, inghiottiti dalla nebbia e dalle ombre calanti.
Lasciata Manaus, il Rio delle Amazzoni continuava il suo cammino verso l'oceano; le luci del "Tucano" penetravano le acque raggrinzite dal vento e tutt'intorno si respirava un'atmosfera  indicibile e variegata di sensazioni, splendori ed effetti speciali della Natura. Nell'atmosfera primordiale che avvolgeva ogni cosa, lo sguardo si riempiva di stupore: piante rigogliose, felci gigantesche, mangrovie dalle forme insolite, liane intricate.

Le ombre della notte erano ancora estese, ma un pallido chiarore iniziò ad arrivare da lontano: l'Aurora sul Rio delle Amazzoni era uno spettacolo sconosciuto sotto altri cieli,  grandiosa e senza confini,  carica di impetuosa vitalià. Poi, il giorno si fece strada con prepotenza, tingendo il paesaggio con colori di fuoco.
Sul   "Tucano" non passavano alimenti, ma c'era uno spaccio dove si poteva acquistare cibo preparato a terra o cucinato a bordo e anche bevande come cahaca o succhi di ananas e avocado. E non mancavano freschi sorvetes al gusto di maracuya e cayus, che lasciarono deliziato il palato dei tre amici, ma soprattutto quello del piccolo carioca.
"E' tutto così immenso. - proruppe  Sharon  -Credi davvero che l'uomo sia capace di turbarne l'equilibrio? Sembra tutto così... così possente ed inespugnabile."
"Già!... Eppure questa gigantesca forza della natura - Richard le sfiorò la guancia con l'indice - sottoposta a fuoco e al taglio scriteriato, si trova in serio pericolo... Guarda quelle case in rovina... - il giovane indicò delle casupole in evidente stato di abbandono -Sono state abbandonate  da  contadini in disperata, incessante migrazione. Anche qui, come nelle immediate vicinanze della Transamazzonia, dove il Governo ha accantonato il progetto di colonizzazione agricola in favore di interventi industriali, i contadini vengono ricacciati sempre più lontano."
Richard ebbe una pausa, che riempì con una sorsata di maracuya, poi riprese, dopo essersi schiarito la gola:
"Questa foresta viene distrutta al ritmo di ottantamila chilometri l'anno; viene depredata e saccheggiata con notevole  danno per l'ambiente... senza contare le antiche culture sopravvissute e l'alto potenziale di risorse e conoscenze scientifiche in essa racchiuse... Lo sai che alla base di un gran numero di farmaci usati in tutto il mondo c'è la flora e la fauna delle foreste pluviali?"
"Sì! - assentì la ragazza, continuando a gustarsi il suo sorbetto - Lo sapevo."
"Vivono qui, in questa foresta, - continuò Richard - piante ed animali la  cui linfa e le  cui secrezioni  leniscono punture d'insetti, neutralizzano veleni e costituiscono potenziali anestetici o antiemorragici naturali. Molte società farmaceutiche americane ed europee collaborano, nelle loro ricerche, con la popolazione indigena che possiede un enorme patrimonio di conoscenze naturali ereditate dagli antenati... Tutto questo rischia di andare perduto."
"Perché stanno distruggendo la foresta?" domandò la ragazza; Richard scosse il capo:
"L'isolamento geografico finora ha protetto questo mondo meraviglioso ancora in parte da scoprire, ma la possibilità ch  venga irrimediabilmente danneggiato è un pericolo reale e concreto... Questa foresta provvede da sé al proprio nutrimento con il sole, l'anidride carbonica dell'aria, l'acqua e i sali minerali del terreno. La cosa più importante, però, è  la  grande  quantità di ossigeno che produce... Questa, è una foresta dall'estensione enorme... Sai quanti sono i fiumi che si gettano nel Rio delle Amazzoni?"
"Sono più di mille. " interloquì  Rodrigo, che aveva  ascoltato attento e voleva mostrare di conoscere la sua terra.
"Bravo Rodrigo! - Richard lo gratificò di un sorriso e con un buffetto sulla nuca  gli scompigliò i già contorti e ricci capelli nerissimi - Sono esattamente mille e cento, i  fiumi e gli affluenti   che sfociano nel Rio delle Amazzoni." spiegò.
"Rio delle Amazzoni... Chissà perché si chiama così!" interloquì Sharon e Rodrigo, prontamente:
"Io lo so! - disse - Fu l'esplorarore  spagnolo Francisco de Orellana, compagno di quel Pizarro.. . a dargli il nome."
"Hhhh! - Sharon ebbe un'esclamazione - Come fai a sapere tutte queste cose?" domandò.
"L'ho letto in un libro... Io so leggere, sapete."
"E che cosa sai di questo Francisca Orellana?" domandò la ragazza con un sorriso.
"La sua spedizione fu attaccata dagli indios della tribù dei Cumuris - spiegò il ragazzo,  tutto  lieto dell'interesse che i due amici gli riservavano - Dovete sapere che questi indios,   dall'aspetto sembravano donne e così gli uomini di Orellana li chiamaroni Amazzoni,  come un antico popolo di donne-guerriere."
"Certo! - assentì Richard - Le Amazzoni della mitologia greca."
"Quanti conquistadores  sono giunti qui alla ricerca di facili guadagni? -  osservò Sharon - Tutti, però, sono stati fermati e sconfitti, perché la Natura sa difendersi dalla violenza dell'uomo!"
"Sicuro! - assentì Richard - La Natura sa rigenerarsi e rimettere le cose a posto, anche se dovrà impiegare un po' di tempo per farlo. Occorrono decine di anni prima che una foresta tropicale si sviluppi su una piantagione abbandonata e questo perchè le zolle del terreno fertile sono soltanto di pochi centimetri: in una foresta di questo tipo, sono le stesse piante che provvedono a rigenerarle con i rami e le foglie morte."
"L'uomo va e il Fiume resta!"   sentenziò il piccolo carioca.
(continua)

brano tratto dal libro di Maria Pace

"S.O.S.  Pianeta TERRA"  edito da G. PRINCIPATO EDITORE

 

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- Letteratura

New York New York



New York è la città degli eccessi con i giganteschi grattacieli, le insegne abbaglianti, gli enormi cartelloni pubblicitari e Sharon era una ragazza assai curiosa: New York e Sharon si incontrarono nella tarda mattinata di un giorno di settembre.
All'angolo della Lenox Avenue trovò il vecchio Tom che arrostiva castagne e cercò in tasca una manciata di spiccioli; la musica di uno "spiritual" proveniente da una delle tante chiese-negozio le ricordò che era domenica mattina e che da quelle parti si potevano ascoltare "gospel", i suggestivi canti religiosi degli Americani di colore.
Diede al vecchio, un uomo di colore dai capelli spruzzati di neve, settantacinque cents e ricevette un sacchetto di caldarroste.
"Hhhhh!... - fece, gustandone una - Molto buona. Molto buona."
Tom sorrise compiaciuto e lei si immise nella Lenox Avenue.
Lenox Avenue.  - pensò - Martin Luther King Boulevard... in quel particolare e popoloso quartiere la gente amava ricordarsi dei suoi figli migliori, al contrario del resto della città  dove le vie avevano solo un numero: molto pratico, certo, ma assolutamente anonimo.
Molti particolari dei dintorni cominciavano a diventarle familiari: le chiese, le case di legno e quelle di pietra. Sharon possedeva una memoria fotografica che compensava lo scarso senso dell'orientamento.
Un mercatino, uno dei tanti del quartiere, l'attirò con le sue coloratisse sciarpe, le borse vistose, scarpe e cappelli, come il miele attira le api.  
Si tuffò in quella particolare atmosfera della città dove artisti del pennello, della musica, dell'estro e della fantasia, animavano le strade e dove gruppi di vagabondi, tutti di colore, stazionavano alla fermata dei bus; alcuni di loro la salutarono ed altri la seguirono con lo sguardo quando, salita a bordo dell'M 104, un bus grigio striato di blu, lasciò il quartiere.
Più tardi, raggiunta la 52° Street, all'altezza della Amsterdam Avenue, si trovò a due  isolati  dalla Quinta Strada.
Il richiamo della Quinta Strada, la più importante della città, era irresistibile e la ragazza si michiò alla folla come l'Alice del "Paese delle Meraviglie".
In quella strada elegante si aprivano chiese, musei, gallerie d'arte, alberghi di lusso, boutique e grandi magazzini e lei si lasciò condurre da un fiume di persone in frenetico movimento e straordinariamente abili nello schivarsi.
I rinntocchi elettronici dell'orologio della chiesa di San Patrizio ricordarono al suo stomaco che era l'ora giusta per un Hot-dog; lo consumò per strada, fianco a fianco con impiegati e barboni, al suono di una tromba solista negra che tentava di sovrastare con malinconiche note il frastuono dei clakson.
La tromba tacque; risuonò il tamburo di un vecchio indiano Lakota che vestiva all'occidentale, ma che non aveva rinunciato alla penna d'aquila sul cappello.
    "... cammina, indiano. Cammina. -  cantava
      E' la tua sola salvezza per gridare il tuo smarrimento.
      Non restare sul ciglio della strada
      che i bianchi hanno tracciato per te..."

Bianchi, neri, rossi. Europei, Cinesi, Indiani, Africani:  New York è un crogiuolo di razze. Tutte tolleranti, tutte indifferenti e tutte assorbite in un solo organismo.
Il vecchio indiano. dalla calvizie nascosta sotto un cappello a larga falda, le mani nodose, la persona curva e gli abiti smessi, non pareva, in verità, del tutto integrato in quel particolare tessuto umano che sono i newyorkesi e il suo canto sembrava un grido di dolore:
    "Sventura, sventura... Ascoltate
      Noi samo umiliati
      Sventura, sventura... Ascoltate
      La terra è un boschetto e i luoghi son deserti..."

"E' un canto irochese e tu vecchio, sei un Lakota. - Sharon si accostò all'indiano -Come mai un Lakota canta L'Ode commemorativa a Giacca Rossa, che era capo Irochese? Forse per  seguire gli insegnamenti di Hiatawa, che predicava la dottrina della Grande-Pace fra le Nazioni Indiane?"
" E tu, donna bianca, come sai di Capo Hiatawa?" domandò con accento stupito e compiaciuto insieme, il vecchio indiano
"Io amo i canti della tua gente e sono triste per la tua tristezza." rispose la ragazza.
"Non essere triste per Ala Spezzata. - sorrise quello  - Io ho ancora la Grande Visione."
Sharon fissò la faccia del vecchio, stanca e color ocra, venerabile avanzo di un antico mondo perduto e provò un profondo rispetto.
"Che cos'é la Grande Visione?" domandò e l'indiano, con l'espressione di chi sta per iniziare una filastrocca, cominciò:
"La Grande Visione!... Questa vita, o donna bianca, che all'uomo sembra reale, è soltanto l'Ombra della Grande visione che si può raggiungere in purezza e in digiuno, attraverso il Sogno... Capisci, donna bianca?"
"Sì!... No! -  la ragazza scosse il capo - No, Ala Spezzata. Non capisco."
"La Grande Visione... la visione della Danza dei Morti... Non capisci, donna bianca? - Sharon scose il capo; l'altro proseguì - Al popolo Lakota restava solo un mezzo per riannodare i viincoli con la Madre-Terra che che l'uomo bianco aveva spezzato quando lo aveva cacciato dentro le riserve... solo la Danza dei Morti..."
Sharon scosse nuovamente il capo.
"La danza riporterà i guerrieri morti e con essi i bisonti fuggiti con l'arrivo dell'uomo bianco o da lui sterminati... Ecco perché Ala Spezzata canta e danza da tempo, ma... - il vecchio ebbe un sospiro sconsolato -  ma i guerrieri non sono tornati e neppure i bisonti."
"Continua a cantare e a danzare, Ala Spezzata...-  la ragazza lo incoraggiò con un sorriso - Forse un giorno Toro Seduto, Cavallo Pazzo, Giacca Rossa e Hiawata torneranno."

Più tardi, lasciata la Quinta Strada, mentre si incamminava in direzione della Amsterdam Avenue, la ragazza pensava ancora ad Ala Spezzata ed alla sua illusione.
""Quante fra queste persone - si domandò osservando la folla variegata che la sfiorava senza accorgersi della sua presenza - possiedono ancora un'illusione?"
Le grandi metropoli, pensava, stavano trasformandosi in trappole per tanta gente attirata dal miraggio di facili guadagni o di una vita migliore, che finiva, invece,  ad ingrossare le file dei senza tetto, ammucchiati come spazzatura lungo i bordi delle strade.
Un gruppo di ragazzi attrasse la sua attenzione; indossavano  jeans strappati o rattoppati.
Avevano tutti la stessa camminata, ondeggiante di qua e di là, come se avessero una spina conficcata nel di dietro e erano sepolti in giacconi dalle imbottiture eccessive; per evitarli la ragazza svolto l'angolo.
(continua)

brano tratto da:   "S.O.S.  Pianeta Terra"  edito da G.PRINCIPATO EDITORE
di Maria Pace

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- Società

L’ Harem

NELL'HAREM

 

L'harem nella cultura araba

 

 Fu  l'istituto della poligamia a favorire l'uso dell'harem, nel mondo arabo.
L'harem, il cui significato letterale è: "luogo sacro e proibito", era la parte della casa destinata alle donne.
L'usanza di relegare le donne in un appartamento della casa è antichissima ed in alcuni Paesi viene ancora oggi praticata. Un’usanza che trasformava la donna in un oggetto e la defraudava della dignità e della individualità di persona.
Se il Cristianesimo riconobbe la sessualità nel matrimonio soprattutto come mezzo di procreazione, senza troppi coinvolgimenti erotici, l'Islamismo, invece, concedette all'uomo il diritto al piacere ed alla soddisfazione fisica e la donna diventò, inevitabilmente "oggetto del desiderio".
Prigioniere senza sbarre, le donne dell'harem, di natura pigre ed indolenti, conducevano un'esistenza inoperosa; al contrario della donna beduina, ad esempio, sulle cui spalle gravava il peso della famiglia ed al contrario anche della popolana cittadina, attiva e lavoratrice.
Analfabeta, ignorante, fuori del tempo e del mondo, la donna dell'harem viveva esclusivamente per il piacere dell'uomo, perciò, ogni azione, ogni pensiero, ogni cura, erano rivolte a tale, unico scopo. Usciva poco di casa ed aveva molto tempo da dedicare alla cura  di sé: la bellezza era essenziale per conquistare, soddisfare e mantenersi lo sposo e signore. Perciò, la donna dell'harem dedicava molto tempo alla cura del corpo, della pelle e dei capelli. Sia per compiacere il marito che per competere con le altre mogli.
Le sue armi erano lunghe abluzioni, rilassanti massaggi, depilazioni totali,  profumi afrodisiaci, trucco accurato ed elaborato di volto e occhi, abiti sfarzosi e gioielli vistosi.
L'uomo, dal canto suo, rispondeva a questa totale dedizione, appagando ogni suo capriccio, naturalmente secondo i propri mezzi; spesso, infatti, queste donne disponevano di appartamenti propri e di proprie schiave.

Arrivavano numerose, negli harem, vendute dalle famiglie o frutto di quella dolorosa piaga che l'Europa conosceva come la: "Tratta delle bianche".
Tra questo elevato numero di donne, il Sultano sceglieva le sue Kadin, le concubine. Generalmente quattro.
Rispetto alle altre donne, queste godevano di particolare considerazione, ma dovevano obbedienza alla padrona, cioè alla moglie: la Valde Sultan, ossia la Sultana-Madre, donna libera, cui tutti, lo stesso marito, dovevano rispetto.  

Il problema più assillante di un harem era quello di vincere la noia di interminabili giornate oziose. Non potendo uscire di casa, se non in rare occasioni, quando ciò accadeva, queste donne finivano sempre per vagabondare nei bazar, mettendo a dura prova la pazienza dei venditori.  Entrare ed uscire dai negozi, tra estenuanti contrattazioni e senza comprare niente, era il loro divertimento preferito.
Un altro passatempo era quello di recarsi ai bagni pubblici.  
In quelle scorribande, però, non erano mai sole;  c'era sempre qualcuno a sorvegliarle: una donna anziana oppure un eunuco, un uomo, cioè, privato della propria virilità a tale, unico scopo. L'uso di affidare le donne ad un eunuco era passata al mondo musulmano dalla civiltà bizantina.

Quando mancavano le occasioni per uscire di casa,  queste impareggiabili, oziose creature, organizzavano feste e visite di cortesia all'interno del palazzo: nell'arte di intrattenersi a vicenda, quelle oziose e lussuriose donne, erano vere maestre.
Su splendidi terrazzi affacciati sul mare, potevano passeggiare, danzare, bere the, mangiare focaccine di farina di datteri e sfoggiare gioielli: orecchini, collane e bracciali di preziosissima e finissima filigrana, nella cui arte gli orafi arabi sono sempre stati grandi maestri. I divertimenti erano quasi sempre sciocchi ed infantili; andavano dalla “moscacieca” al “nascondino”,  dal “gioco dei perché” a “gioco della verità”.
La loro preferenza, però, andava agli scherzi ai danni di ancelle, ma soprattutto di eunuchi. Donne ed eunuchi si odiavano profondamente: le prime, con sentimento di rivalsa contro l'uomo, i secondi per tutte le vessazioni che erano costretti a subire.
In alcuni Paesi oggi la poligamia è stata, teoricamente, abolita. Là dove continua ad essere praticata, poco è cambiato. Un uomo può avere quattro mogli, ognuna delle quali competerà con le altre per mantenere desto l'interesse dello sposo e compiacerlo. Lo farà esclusivamente all'interno delle mura di casa:  gioielli, profumi, vestiti sfarzosi e colorati sono riservati all'intimità della casa.
L'harem di ieri, come la casa di oggi,  rappresentano il luogo sicuro per una donna; a difenderla, quando è fuori, invece,  da insidie e violenze,  c'è un altro mezzo di segregazione:  il velo che, nei casi estremi (ma purtroppo frequenti) diventa il famigerato burka.
L'idea, però, che l'emancipata donna occidentale sia uguale all'uomo, mentre la sottomessa donna orientale non lo sia per niente,  non corrisponde alla realtà.
Molte donne musulmane, pur col capo velato, occupano posti di prestigio nell'industria, nella politica, nella cultura, nella moda e molte donne occidentali, invece, si spogliano al solo scopo di compiacere il maschio... ma questo è un altro argomento.

 

*

- Letteratura

Libro dei Morti Testi delle Piramidi e Sarcofagi

TESTI delle PIRAMIDI
Sono conosciuti e convenzionalmente chiamati Testi delle Piramidi, quegli scritti geroglifici incisi sulle pareti di camere sepolcrali di alcune Piramidi risalenti alla V° ed alla VI° Dinastia. Precisamente a quella di Unas, (V° Dinastia) e dei Sovrani Pepi I°, Merenra e Pepi II° (VI° Dinastia).
Si tratta di Formule ed Incantesimi, (Rew ed he-kau), le cui concezioni, a volte anche primitive e discordanti tra loro, venivano redatte ad esclusivo beneficio del Sovrano defunto: un lasciapassare che gli permetteva di raggiungere il Sole-Ra, nel Cielo.
Secondo l’opinione di molti studiosi, tale concezione sarebbe nata dalla filosofia religiosa dei preti di Eliopoli, che fecero dell’Aldilà un Paradiso Celeste a cui il Sovrano ascendeva  assumendo la forma di uccello, aspirando il fumo dell’incenso o facendosi sollevare dai venti.
In questi Testi, infatti, vi sono descritti i Sekhet-Hotep (Campi delle Offerte) e gli Hotep-Jaru (Paradiso Celeste).

Verso la fine della VI Dinastia, una rivoluzione democratica, però, riconobbe anche al defunto comune il beneficio di tale “Paradiso”.
Alle raccolte filosofiche-religiose già presenti nei Testi delle Piramidi, se ne aggiunsero molte altre: nuove formule e nuovi incantesimi che, a partire dal Primo periodo Intermedio, furono messe a punto e perfezionate.
Fino al Medio Impero, quando alla raccolta fu dato, (sempre convenzionalmente), il nome di  “Testi dei sarcofagi”.

 

TESTI dei SARCOFAGI

 


Si trattava, infatti, di  testi redatti in geroglifici (ieratici e demotici) e di scene illustrative presenti sui sarcofagi oppure scritti su rotoli di papiro e posti all’interno di questi.

I “Testi dei Sarcofagi” conobbero varie  evoluzioni rispetto ai “Testi delle Piramidi”.
Innanzitutto, in questi ultimi erano totalmente assenti le scene illustrate e in seconda analisi,
con i sarcofagi fanno la comparsa  testi nuovi ed inediti, come quelli che vanno sotto il nome di:
- Libro dei Due-Cammini
- Libro della Am-Duat (l’Aldilà egizio)
- Libro delle Porte
- Libro delle Caverne
- ecc… la cui evoluzione parte dal Primo Periodo Intermedio e continuerà fino al periodo conosciuto come Epoca Tarda.

Il “Libro delle Porte”, ad esempio, risale addirittura alla XVIII Dinastia.

I “Testi dei Sarcofagi” (contenenti incantesimi e formule magiche) e il “Libro dei Due-Cammini”, (contenente un insieme di formule che aiutano il defunto a muoversi nell’Aldilà), costituiscono la fase di transizione con il “LIBRO DEI MORTI”, il più importante Testo Funerario della civiltà egizia.

 

 

LIBRO DEI  MORTI 

 

Così come convenzionalmente si era data una denominazione alle incisioni ed ai testi trovati nelle Piramidi e sui Sarcofagi, anche per queste nuove raccolte fu usato un nome convenzionale: “Libro dei Morti”
Un nome, forse, addirittura arbitrario: gli antichi Egizi, infatti, non avrebbero mai qualificato con il termine “morto” una persona umana…
Non secondo il nostro concetto: “morire” era, per quel popolo dalla complessa, straordinaria concezione filosofica, solo un “momento di transizione”. (vedere post: La complessa religiosità degli Antichi Egizi)
Per comodità, dunque, si è convenuto di dare all’insieme di questi nuovi scritti ed illustrazioni, il nome di “Libro dei Morti” e così faremo anche noi.
E’ utile, però, sapere da chi e quando, quei testi presero questa denominazione.
Fu l’egittologo tedesco Karl Richard Lepsius, quando fece una seconda traduzione del famoso papiro conosciuto come “Il Papiro di Torino”, dando alla raccolta il nome di Todtenbuch, ossia Libro dei Morti e così è rimasto fino ad oggi.

Il “Libro dei Morti” si sviluppò solo a partire dal Nuovo Impero.
Bisogna, però, fare una precisazione: non si tratta di un “Libro” e tanto meno di un “Libro Sacro”, paragonabile, ad esempio, alla Bibbia, al Corano o al Vangelo o a qualunque altro Libro Sacro. Si tratta, invece, di una Raccolta di Testi Magici e Incantesimi Funerari  con inseriti Inni a Ra e ad Osiride, con la quale si voleva proteggere il defunto nel viaggio attraverso l’Aldilà.
Quelle formule, redatte su papiri, venivano pronunciate durante il rito funerario da sacerdoti funerari e i papiri, accuratamente arrotolati, venivano riposti nelle tombe in appositi cofanetti.

Il “Libro dei Morti” era anche una mappa per orientarsi nel percorso dell’Aldilà e neutralizzarne i pericoli, prima di raggiungere il Tribunale di Osiride per sottoporsi al Giudizio Finale.

Prima di parlare del più famoso “libro dei morti” degli Antichi Egizi, conosciuto, come si è detto, “Il papiro di Torino”, diamo un’occhiata alla DUAT o AMENTI: l’ALDILA’ egizio.

LA DUAT ci è presentata come un luogo di insidie e pericoli attraversata da spiriti inquieti incalzati da presenze demoniache.
Vi si accedeva attraverso il RO-Stsu, grande porta d’ingresso guardata a vista da tre demoni: Il Portiere, l’Araldo e il Guardiano, il cui compito era quello di impedirne l’accesso al Ka (spirito) del defunto. 
A meno che non si conoscesse il nome di ognuno dei tre Demoni e li si pronunciasse nel modo più corretto e con la giusta intonazione di voce… dopo avere, naturalmente, riferito il proprio e il proprio ren, ossia  il nome segreto..
Non bisogna meravigliarsi di questo. Ancora oggi la “giusta” intonazione della voce è necessaria nelle cerimonie religiose: vedi il  muezzin islamico nella guida della preghiera corale o il rabbino ebreo nelle cerimonie religiose o il prete cristiano nella celebrazione della Messa (soprattutto Messa-cantata)

Attraversato il Ro-Stau, cominciavano le difficoltà… difficoltà di ogni genere.
Per cominciare, bisognava  affrontare le Porte, almeno sette ed a volte anche dodici, sempre sorvegliate da tre demoni dall’aspetto inquietante e armati di mannaie e pugnali, prima di arrivare al Tribunale di Osiride.
Tra una Porta e l’altra, infine, vi erano insidie di ogni genere: Laghi di Fuoco, Paludi, Labirinti, Caverne, ecc… e poi: Coccodrilli, Leoni e Serpenti infernali.
Per ognuno di tali ostacoli, in verità, oltre a Divinità e Spiriti protettori, sempre pronti ad intervenire in soccorso, c’era il supporto della Magia: formule magiche da recitare sempre con la “giusta” intonazione di voce: necessaria e  fondamentale se si voleva produrre l’incantesimo.

A questo servivano gli Scarabei, (di pietra o ceramica) depositati nelle tombe: ad incidervi sulle superfici formule magiche. Lo stesso scopo, naturalmente, avevano le formule incise sui rotoli di papiro.
Qui, di seguito, riportiamo alcune di quelle formule magiche:
 

- Formula per affrontare il serpente Apep (meglio conosciuto come Apofi):
“O Uno, che incateni ed afferri con violenza e vivi di coloro che sono indeboliti. Che io non sia immobile per te, che non penetri il tuo veleno nelle mie membra. Come tu non vuoi essere paralizzato, così non sia io paralizzato. Io sono l’Uno che presiede l’Abisso Primordiale e i miei poteri sono i poteri degli Dei. Io provengo da Atum. Io ho conoscenza.”

- Formula per non morire di sete:
“Che le Porte del Cielo siano schiuse a me e siano spalancate le Porte della Terra della Libazione di Thot e di Hapy…. Fate che io abbia potere sulle acque come Seth ebbe il comando sui seguaci il giorno del Disastro della Terra…”

- Formula per tornare tra i vivi dopo la morte
“O Unico (Osiride), splendente dalla Luna, possa io uscire tra la moltitudine tua. Possa io manifestarmi tra i Glorificati,che la Duat sia schiusa a me per compiere quel che mi piace sulla Terra tra i viventi.”

Il “Libro dei Morti”, dunque, è il termine con cui venne designato ognuno dei rotoli di papiro rinvenuti nelle tombe. Quei testi e quelle formule, però, non erano utili solo ai morti; lo erano anche ai vivi, poiché procuravano gli stessi benefici: contro le morsicature dei veleni, contro l’arsura della sete, ecc..
La formula introduttiva dell’intera raccolta, però, specifica quanto segue:
   “… formule da pronunciare il giorno del funerale, giungendo alla tomba e prima di andar via…”
Spiega anche che le formule recitate sono: “… Parole Divine che sono scritte nel Libro di Thot…”

Era a Thot, inftti, Signore dei Geroglifici, della Sapienza e della Conoscenza, che gli antichi egizi attribuivano la scrittura dei testi.
Parole Divine: Medw Neter.
Parola, ossia Bastone: bastone per sostenersi.
Le Parole Divine erano Bastoni Divini da usare come sostegno, appoggio e mezzo di salvezza.
Attraverso, però, un linguaggio ed un uso della “Parola”, spesse del tutto incomprensibile per noi gente moderna.
Incomprensibile, infatti, per l’uomo moderno, che il defunto attraverso l’utilizzo di tali “Bastoni Divini”, possa “glorificarsi” e “diventare” simile a Divinità come Ra, Ptha, Osiride e perfino Sth, Signore del Male.

Il linguaggio è tanto più incomprensibile perché raramente si tratta di testi di preghiera o invocazione agli Dei, ma piuttosto di minaccia ed intimidazione. (vedi post…)
Tutto ciò, però, è possibile grazie  alla Magia che, della Religione, era parte integramte e non certo subordinata.

Tutti quei testi, però, all’osservatore attento appaiono spesso alterati e corrotti. Ciò è dovuto al fatto che attraverso i secoli essi hanno subito variazioni, aggiunte, correzioni, ecc.. a causa dell’incompetenza o negligenza degli scribi copisti.
Questi, infatti, li copiavano e ricopiavano, trasferendoli dalle pareti ai papiri e viceversa, facendo spesso errori od omissioni.

Questi testi, (rotoli di papiri) generalmente erano redatti presso Templi (di Thot o di Ammon), ma spesso anche presso piccoli laboratori (a volte abusivi) con scribi-copisti non sempre all’altezza del compito.
E non si tratta, come si è già detto, di un’unica produzione, ma di raccolte varie e progressive nel tempo, provenienti da più parti e da varie epoche.
I primi esemplari furono scritti in geroglifici puri, successivamente subentrò la scrittura ieratica e infine quella demotica.

L’esempio di Libro dei Morti più conosciuto e meglio conservato è quello che va sotto il nome di” Papiro doi Torino”.
Si tratta  di un esemplare perfetto sotto ogni punto di vista: grammaticale, ortografico; perfino nell’uso dei determinativi e dei colori.
E’ stato proprio su questo esemplare che gli studiosi di tutte le epoche e di tutto il mondo hanno condotto i loro studi e le loro ricerche.

*

- Storia

Libro dei Morti Testi delle Piramidi e Sarcofagi

 

TESTI delle PIRAMIDI

 

Sono conosciuti e convenzionalmente chiamati Testi delle Piramidi, quegli scritti geroglifici incisi sulle pareti di camere sepolcrali di alcune Piramidi risalenti alla V° ed alla VI° Dinastia. Precisamente a quella di Unas, (V° Dinastia) e dei Sovrani Pepi I°, Merenra e Pepi II° (VI° Dinastia).
Si tratta di Formule ed Incantesimi, (Rew ed he-kau), le cui concezioni, a volte anche primitive e discordanti tra loro, venivano redatte ad esclusivo beneficio del Sovrano defunto: un lasciapassare che gli permetteva di raggiungere il Sole-Ra, nel Cielo.
Secondo l’opinione di molti studiosi, tale concezione sarebbe nata dalla filosofia religiosa dei preti di Eliopoli, che fecero dell’Aldilà un Paradiso Celeste a cui il Sovrano ascendeva  assumendo la forma di uccello, aspirando il fumo dell’incenso o facendosi sollevare dai venti.
In questi Testi, infatti, vi sono descritti i Sekhet-Hotep (Campi delle Offerte) e gli Hotep-Jaru (Paradiso Celeste).

Verso la fine della VI Dinastia, una rivoluzione democratica, però, riconobbe anche al defunto comune il beneficio di tale “Paradiso”.
Alle raccolte filosofiche-religiose già presenti nei Testi delle Piramidi, se ne aggiunsero molte altre: nuove formule e nuovi incantesimi che, a partire dal Primo periodo Intermedio, furono messe a punto e perfezionate.
Fino al Medio Impero, quando alla raccolta fu dato, (sempre convenzionalmente), il nome di  “Testi dei sarcofagi”.

 

TESTI dei SARCOFAGI


Si trattava, invero, di  testi redatti in geroglifici (ieratici e demotici) e di scene illustrative presenti sui sarcofagi oppure scritti su rotoli di papiro e posti all’interno di questi.

I “Testi dei Sarcofagi” conobbero varie  evoluzioni rispetto ai “Testi delle Piramidi”.
Innanzitutto, in questi ultimi erano totalmente assenti le scene illustrate e in seconda analisi,
con i sarcofagi fanno la comparsa  testi nuovi ed inediti, come quelli che vanno sotto il nome di:
- Libro dei Due-Cammini
- Libro della Am-Duat (l’Aldilà egizio)
- Libro delle Porte
- Libro delle Caverne
- ecc… la cui evoluzione parte dal Primo Periodo Intermedio e continuerà fino al periodo conosciuto come Epoca Tarda.

Il “Libro delle Porte”, ad esempio, risale addirittura alla XVIII Dinastia.

I “Testi dei Sarcofagi” (contenenti incantesimi e formule magiche) e il “Libro dei Due-Cammini”, (contenente un insieme di formule che aiutano il defunto a muoversi nell’Aldilà), costituiscono la fase di transizione con il “LIBRO DEI MORTI”, il più importante Testo Funerario della civiltà egizia.

 

 

 

LIBRO DEI  MORTI 

 

Così come convenzionalmente si era data una denominazione alle incisioni ed ai testi trovati nelle Piramidi e sui Sarcofagi, anche per queste nuove raccolte fu usato un nome convenzionale: “Libro dei Morti”
Un nome, forse, addirittura arbitrario: gli antichi Egizi, infatti, non avrebbero mai qualificato con il termine “morto” una persona umana…
Non secondo il nostro concetto: “morire” era, per quel popolo dalla complessa, straordinaria concezione filosofica, solo un “momento di transizione”. (vedere post: La complessa religiosità degli Antichi Egizi)
Per comodità, dunque, si è convenuto di dare all’insieme di questi nuovi scritti ed illustrazioni, il nome di “Libro dei Morti” e così faremo anche noi.
E’ utile, però, sapere da chi e quando, quei testi presero questa denominazione.
Fu l’egittologo tedesco Karl Richard Lepsius, quando fece una seconda traduzione del famoso papiro conosciuto come “Il Papiro di Torino”, dando alla raccolta il nome di Todtenbuch, ossia Libro dei Morti e così è rimasto fino ad oggi.

Il “Libro dei Morti” si sviluppò solo a partire dal Nuovo Impero.
Bisogna, però, fare una precisazione: non si tratta di un “Libro” e tanto meno di un “Libro Sacro”, paragonabile, ad esempio, alla Bibbia, al Corano o al Vangelo o a qualunque altro Libro Sacro. Si tratta, invece, di una Raccolta di Testi Magici e Incantesimi Funerari  con inseriti Inni a Ra e ad Osiride, con la quale si voleva proteggere il defunto nel viaggio attraverso l’Aldilà.
Quelle formule, redatte su papiri, venivano pronunciate durante il rito funerario da sacerdoti funerari e i papiri, accuratamente arrotolati, venivano riposti nelle tombe in appositi cofanetti.

Il “Libro dei Morti” era anche una mappa per orientarsi nel percorso dell’Aldilà e neutralizzarne i pericoli, prima di raggiungere il Tribunale di Osiride per sottoporsi al Giudizio Finale.

Prima di parlare del più famoso “libro dei morti” degli Antichi Egizi, conosciuto, come si è detto, “Il papiro di Torino”, diamo un’occhiata alla DUAT o AMENTI: l’ALDILA’ egizio.

LA DUAT ci è presentata come un luogo di insidie e pericoli attraversata da spiriti inquieti incalzati da presenze demoniache.
Vi si accedeva attraverso il RO-Stsu, grande porta d’ingresso guardata a vista da tre demoni: Il Portiere, l’Araldo e il Guardiano, il cui compito era quello di impedirne l’accesso al Ka (spirito) del defunto. 
A meno che non si conoscesse il nome di ognuno dei tre Demoni e li si pronunciasse nel modo più corretto e con la giusta intonazione di voce… dopo avere, naturalmente, riferito il proprio e il proprio ren, ossia  il nome segreto..
Non bisogna meravigliarsi di questo. Ancora oggi la “giusta” intonazione della voce è necessaria nelle cerimonie religiose: vedi il  muezzin islamico nella guida della preghiera corale o il rabbino ebreo nelle cerimonie religiose o il prete cristiano nella celebrazione della Messa (soprattutto Messa-cantata)

Attraversato il Ro-Stau, cominciavano le difficoltà… difficoltà di ogni genere.
Per cominciare, bisognava  affrontare le Porte, almeno sette ed a volte anche dodici, sempre sorvegliate da tre demoni dall’aspetto inquietante e armati di mannaie e pugnali, prima di arrivare al Tribunale di Osiride.
Tra una Porta e l’altra, infine, vi erano insidie di ogni genere: Laghi di Fuoco, Paludi, Labirinti, Caverne, ecc… e poi: Coccodrilli, Leoni e Serpenti infernali.
Per ognuno di tali ostacoli, in verità, oltre a Divinità e Spiriti protettori, sempre pronti ad intervenire in soccorso, c’era il supporto della Magia: formule magiche da recitare sempre con la “giusta” intonazione di voce: necessaria e  fondamentale se si voleva produrre l’incantesimo.

A questo servivano gli Scarabei, (di pietra o ceramica) depositati nelle tombe: ad incidervi sulle superfici formule magiche. Lo stesso scopo, naturalmente, avevano le formule incise sui rotoli di papiro.
Qui, di seguito, riportiamo alcune di quelle formule magiche:
 

- Formula per affrontare il serpente Apep (meglio conosciuto come Apofi):
“O Uno, che incateni ed afferri con violenza e vivi di coloro che sono indeboliti. Che io non sia immobile per te, che non penetri il tuo veleno nelle mie membra. Come tu non vuoi essere paralizzato, così non sia io paralizzato. Io sono l’Uno che presiede l’Abisso Primordiale e i miei poteri sono i poteri degli Dei. Io provengo da Atum. Io ho conoscenza.”

- Formula per non morire di sete:
“Che le Porte del Cielo siano schiuse a me e siano spalancate le Porte della Terra della Libazione di Thot e di Hapy…. Fate che io abbia potere sulle acque come Seth ebbe il comando sui seguaci il giorno del Disastro della Terra…”

- Formula per tornare tra i vivi dopo la morte
“O Unico (Osiride), splendente dalla Luna, possa io uscire tra la moltitudine tua. Possa io manifestarmi tra i Glorificati,che la Duat sia schiusa a me per compiere quel che mi piace sulla Terra tra i viventi.”

Il “Libro dei Morti”, dunque, è il termine con cui venne designato ognuno dei rotoli di papiro rinvenuti nelle tombe. Quei testi e quelle formule, però, non erano utili solo ai morti; lo erano anche ai vivi, poiché procuravano gli stessi benefici: contro le morsicature dei veleni, contro l’arsura della sete, ecc..
La formula introduttiva dell’intera raccolta, però, specifica quanto segue:
   “… formule da pronunciare il giorno del funerale, giungendo alla tomba e prima di andar via…”
Spiega anche che le formule recitate sono: “… Parole Divine che sono scritte nel Libro di Thot…”

Era a Thot, inftti, Signore dei Geroglifici, della Sapienza e della Conoscenza, che gli antichi egizi attribuivano la scrittura dei testi.
Parole Divine: Medw Neter.
Parola, ossia Bastone: bastone per sostenersi.
Le Parole Divine erano Bastoni Divini da usare come sostegno, appoggio e mezzo di salvezza.
Attraverso, però, un linguaggio ed un uso della “Parola”, spesse del tutto incomprensibile per noi gente moderna.
Incomprensibile, infatti, per l’uomo moderno, che il defunto attraverso l’utilizzo di tali “Bastoni Divini”, possa “glorificarsi” e “diventare” simile a Divinità come Ra, Ptha, Osiride e perfino Sth, Signore del Male.

Il linguaggio è tanto più incomprensibile perché raramente si tratta di testi di preghiera o invocazione agli Dei, ma piuttosto di minaccia ed intimidazione. (vedi post…)
Tutto ciò, però, è possibile grazie  alla Magia che, della Religione, era parte integramte e non certo subordinata.

Tutti quei testi, però, all’osservatore attento appaiono spesso alterati e corrotti. Ciò è dovuto al fatto che attraverso i secoli essi hanno subito variazioni, aggiunte, correzioni, ecc.. a causa dell’incompetenza o negligenza degli scribi copisti.
Questi, infatti, li copiavano e ricopiavano, trasferendoli dalle pareti ai papiri e viceversa, facendo spesso errori od omissioni.

Questi testi, (rotoli di papiri) generalmente erano redatti presso Templi (di Thot o di Ammon), ma spesso anche presso piccoli laboratori (a volte abusivi) con scribi-copisti non sempre all’altezza del compito.
E non si tratta, come si è già detto, di un’unica produzione, ma di raccolte varie e progressive nel tempo, provenienti da più parti e da varie epoche.
I primi esemplari furono scritti in geroglifici puri, successivamente subentrò la scrittura ieratica e infine quella demotica.

L’esempio di Libro dei Morti più conosciuto e meglio conservato è quello che va sotto il nome di” Papiro doi Torino”.
Si tratta  di un esemplare perfetto sotto ogni punto di vista: grammaticale, ortografico; perfino nell’uso dei determinativi e dei colori.
E’ stato proprio su questo esemplare che gli studiosi di tutte le epoche e di tutto il mondo hanno condotto i loro studi e le loro ricerche.

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- Storia

A. Egitto- Carattere magico-rituale della Scrittur

 

CARATTERE MAGICO-RITUALE DELLA SCRITTURA


Un vecchio si aggirava tra le grandiose rovine di Karnak, a Tebe.
Germanico, proconsole romano in Egitto, si aggirava anch’egli  fra quelle spettacolari testimonianze di un grandioso passato e ammirava, attonito e stupito, i misteriosi segni incisi su quelle pietre che raccontavano, in un linguaggio misterioso, qualche meraviglia.
Il vecchio gli spiegò che quegli splendidi e misteriosi “segni” narravano la gloriosa storia di Tebe e che poteva ritenersi un uomo fortunato, poiché egli era il solo in grado di saperli leggere.
Purtroppo, soltanto da lì a poco, quel vecchio rimase ucciso da un soldato. Forse per errore. Forse no! E nessuno poté più “leggere” quei “segni”
Quel vecchio era l’ultimo dei sacerdoti del Tempio in rovina e l’ultimo uomo ancora in grado di leggere l’antica scrittura egizia.
Questo accadeva circa due mila anni or sono.

In realtà, già qualche migliaio di anni prima, a conoscere quegli straordinari “segni” erano davvero in pochi, poiché il privilegio di “maneggiare” quei “segni era appannaggio di poche, pochissime persone. Persone così gelose di quel privilegio, da indurre il popolo ignorante a starne lontano, convincendolo di una  loro grande pericolosità.
Era il mistero della scrittura: il suono che si trasformava in segno e il segno che prendeva vita e vigore.
Era uno dei misteri più profondi, per l’antico abitante del Nilo: era il mistero della Scrittura! Un mistero a cui accostarsi con cautela e solo con le dovute precauzioni.
Era un “mistero divino”
Medu Neter! Così erano chiamati: Bastoni divini. Accostarsi al divino era proibito, perché pericoloso per la propria sicurezza fisica e spirituale.

C’è da stupirsi? Direi proprio di no!
Il sapere e la conoscenza sono spesso stati appannaggio di pochi. In qualunque epoca e in qualunque civiltà. Questo perché, sapere e conoscenza costituivano un mezzo di potere. Lasciare il popolo nell’ignoranza ha costituito sempre la forza dei potenti… almeno fino a quando è stato possibile!
Proprio come accadde in Egitto.
All’inizio quei “segni”, tanto pericolosi, erano usati solo in campo magico-rituale: Testi delle Piramidi, pitture parietali di tombe,…
Al popolo si lasciava credere che il segno (bisogna tener presente che si era ancora allo stadio della scrittura ideografica), senza le dovute precauzioni, prendeva vita nello stesso momento in cui veniva tracciato.
Così, ad esempio, a riprodurre nella scrittura la sagoma di un coccodrillo o di un pugnale, si correva il rischio di un assalto o di una ferita.
Poi, qualcuno cominciò a porsi qualche domanda: cosa poteva accadere al Ka (spirito) del povero defunto che occupava quelle tombe ricoperte di “segni”?
Ed ecco nascere la figura del chery webb, il “Puro di voce”, sacerdote esorcista, che con Rew  ed he-kau, Incantesimi e Formule magiche, neutralizzava il potere di quei “segni”.
Insieme a lui c’era il  sem, che con l’ Urreka, strumento magico, toccava figure e segni, neutralizzondoli e rendendoli innocui.

A volta capita di incontrare sulle pareti, in mezzo alla scrittura, strani geroglifici: sembrano spezzati a metà. E lo sono! Un’arma, un oggetto, un animale pericoloso… Lo scopo era di renderli inoffensivo dividendoli in due.

Fino a quando durò tutto questo?
Fino a quando la scrittura ebbe carattere esclusivamente magico, come per i Libri dei Morti o per le Stele magiche o anche per i vasi ridotti in cocci per rituali magici. (vedere la Maledizione dei Faraoni)
Sarà così fino alla fine del II millennio, quando la Scrittura riuscì finalmente a liberarsi di tale condizionamento. E sarà soltanto alla fine dell’Antico Regno, durante il quale era stata solo d’uso regale e templare, che la Scrittura verrà estesa alla società con cambiamenti grafici che la renderanno più semplice e scorrevole.
Con questa svolta, farà la sua comparsa la figura dello SCRIBA.

 

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- Storia

Antico Egitto - Documenti della Scrittura

 

La Stele

E’ uno dei documenti scritti più diffusi dell’Antico Egitto. Monumento di pietra di modeste dimensioni, su di essa si condensa la decorazione delle pareti di un’intera cappella.
Proprio per questa caratteristica è largamente diffusa, a partire dall’Antico Regno.

Le Stele dapprima hanno forma rettangolare, ma a partire dalla XII Dinastia sono arrotondate; al di sotto, lo spazio si divide in riquadri o registri, dove si alternano scene di offerte, raffigurazioni dei defunti, preghiere agli Dei. (Osiride, Anubi ed Horo, in particolare)

Oltre ad essere monumento di famiglia nelle cappelle, la Stele potevano essere anche:
- Stele Religiose: poste in luoghi sacri come Santuari e Templi; la decorazione presenta persone nell’atto di preghiera o offerta e Riporta Inni Sacri, come quelle poste nel Piramidion (cuspide di piramide), che sormontava le cappelle del Nuovo Regno.
- Stele Regali: contenenti documenti vari legati al Faraone ed alla sua funzione.
- Tavole d’offerta: riportanti anche sui lati, iscrizioni riguardanti offerte.
- Stele Magiche: appartenenti soprattutto al primo millennio a.C. e costituenti, praticamente, degli amuleti. Vi è raffigurato il defunto che reca in mano una stele. La figura dominante è quella di Horo-Bambino, posto su un coccodrillo e con in mano serpenti e scorpioni.
Simboleggia le proprietà terapeutiche del Dio e tutt’intorno vi sono fittissime iscrizioni e formule.
Stele Commemorative: riportanti eventi importanti come imprese, battaglie,ecc.. Famose, tra le altre, sono quella  di Thutmosis III, che celebra la vittoria della battaglia di Kerkemish e di Kamose che celebra la cacciata degli Iksos dall’Egitto.
- Stele di confine: celebre è quella del faraone Akhenaton per stabilire i confini della città di Aketaton.

Le più numerose, però, sono quelle funerarie. Appartengono ad epoche diverse e sono dissimili fra loro sia per forma che per contenuto e fanno la loro comparsa già con la I° Dinastia.

Stele dell’Antico Regno

E’ una edicola ricavata nella parete occidentale della cappella, dove si svolgono i riti celebrativi per il defunto, che è quasi sempre un nobile o dignitario di corte.
E’ chiamata convenzionalmente “Falsa Porta” per la sua struttura a forma di porta, con architrave, stipiti, ecc.
E’ un monoblocco di grande dimensione, quadrangolare, ma più spesso rettangolare ed è monocromatico e completamente rivestito di figure ed incisioni distribuite sui registri.
Nella parte superiore è raffigurato il defunto davanti alla mensa e sull’architrave sono riportati il nome ed i titoli del defunto; lungo gli stipiti compaiono le figure dipinte o incise dei membri della famiglia e dei servitori, nell’atto di porgere offerte.
Lo scopo è quello di assicurare la sopravvivenza al defunto attraverso un cerimoniale magico-rituale e per questo è necessario pronunciare il nome del defunto e recitare la “formula dell’offerta”. (vedi post: “La complessa religiosità degli Antichi Egizi”)

Stele del Medio Regno

Nel Medio Regno la stele funeraria conosce una profonda evoluzione, anche se lo scopo resta sempre lo stesso.
Le stele hanno dimensioni minori rispetto a quelle dell’Antico Regno.
Anche la forma muta: sono arcuate, a simboleggiare il firmamento e la via solare che il defunto deve percorrere.
Sono policromatiche e i colori sono assai vivaci, che siano dipinte oppure a rilievo.
I registri sono due o anche più e mostrano varie scene:
- la figura del defunto, che può essere da solo oppure con altre figure minori.
- scena con la “formula dell’offerta”
- scena di preghiera, esortazione o autoglorificazione. Come la stele di Meru, risalente alla XI Dinastia. Di grande importanza poiché riporta la data: 46° anno di regno del faraone Metuhotep II.
Meru è il Tesoriere del Faraone e i colori predominanti della stele sono:
- il rosso (per la pelle degli uomini)
- il giallo (per la pelle delle donne)
- - il verde (per i vegetali)
- - bianco (per gli abiti di lino)
Altro esempio eccellente è quello della Stele di Abkau, della XII Dinastia.
Nel registro superiore c’è una lunga iscrizione   in cui egli dice di aver raggiunto Abidos,     “scala del Dio Augusto). Poiché questa “scala”, nominata in più stele, corrisponde alla cintura muraria del Tempio di Osiride ad Abidos, forse la stele proviene proprio da lì.
Ne registro inferiore è riportata la scena del defunto assieme alla moglie, Mentutepank, (in atteggiamento affettuoso) davanti alla mensa. Compare anche la figura della figlia Neferut, seduta ai suoi piedi, che si appoggia con gesto affettuoso alle sue gambe.
Sotto, infine, c’è il suo “diletto amico” Ib, il quale, in veste di chery-webb, sacerdote-lettore, dedica le offerte.

nota: il verde dei geroglifici non è originale: di solito si usava l’azzurro, che era il colore del cielo di Horo.
Altra nota: si tratta di persone di ceto meno elevato di quelle dell’Antico Regno e questo significa che c’è una più larga coscienza e consapevolezza di sé, nel popolo, soprattutto se di ceto medio.
Nell’Antico Regno erano principi e dignitari, qui ci sono anche architetti, tesorieri e “nobildonne”, come si è definita una donna nel registro della sua stele.
 

La stele nel Nuovo Regno

Sono le più interessanti e numerose e si assomigliano tutte: arcuate e coloratissime.
Hanno dimensioni ridotte, ma sono molto decorate; in legno dorato, recano iscrizioni votive, propiziatorie e di ringraziamento.
I registri sono diversi e presentano:
- il defunto
- Divinità varie (soprattutto Osiride, Anubi, Horo)
- Testo scritto: con preghiere, ma anche scene del rito della pesatura del cuore o del viaggio del defunto nell’Aldilà.

La principale caratteristica di queste stele sta nel fatto che il defunto non si limita a menzionare i propri titoli (come in epoca Antico Regno), ma vi aggiunge le qualità morali; a questi elementi etici, inoltre, se ne aggiungono altri di carattere religioso: gli Dei, che non compaiono nell’Antico Regno, qui, invece, sono menzionati ed invocati o, addirittura, pronti a ricevere ed accogliere il defunto.
Come nella stele di Nanai, che rende omaggio ad Osiride ed Anubi.
Oppure quella di Kamose, Scriba reale dal 5° al 38° anno di regno del faraone Ramesse II.

Nota: le stele degli operai di Dei-el-Medina, infine, sono tipiche e particolari poiché riportano preghiere rivolte a Meertseger, Dea-Serpente, Protettrice della necropoli; molte di queste stele erano sparse nei luoghi frequentati da serpenti.


Le stele in Eta’ Tarda

Sono presenti un po’ tutti gli stili; ricompaiono perfino le False-porte.
Policrome e molto arcuate, nei registri si scrive un po’ di tutto: dal viaggio del defunto attraverso la DUAT, l’Aldilà egizio, alle scene di adorazioni agli Dei; dalle iscrizioni riguardanti la vita del defunto a  quelle riguardante la storia degli Dei.
Al Museo egizio di Torino vi è una serie numerosa di queste stele, con le seguenti caratteristiche:
- l’Arco, sotto cui il Sole in forma di Disco Solare occupa la parte più significativa della stele
- scene varie, raffiguranti il viaggio della Barca Solare, del Tribunale di Osiride, adorazione agli Dei, ecc..
- iscrizioni varie, come quelle che seguono:
“… chiunque agisca contro questa stele sarà giudicato da Dio, Signore del Cielo”
oppure:
“… io sono stato molto amato dagli uomini…”

Una nota tutta particolare, naturalmente, merita la Stele di Rosetta, la quale ha permesso la decifrazione della scrittura egizia, di cui si rimanda la lettura all’articolo in questione.

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- Filosofia

KA-BA La complessa religiosità degli Antichi Egizi

 

 
 

 

                                
 
 
Ka  e Ba... la complessa religiosità degli Antichi Egizi
 
 
 
                                 

Era convinzione di questo straordinario popolo, che l’esistenza umana attraversasse tre momenti, tutti e tre fondamentali, misteriosi e complessi: - la vita terrena - la morte - la vita ultraterrena

Già cinque secoli prima di Cristo, lo storico Erodoto scriveva:

“Gli Antichi Egizi erano un popolo che praticava il Culto dei Morti, ma amava intensamente la vita.” Sembra una contraddizione,  ma non lo è!

- La Vita terrena, dicevano gli Antichi Egizi, era un dono che gli Dei facevano alla creatura umana per consentirle di prepararsi alla vita ultraterrena: l’Eternità e l’Immortalità. Questo popolo fu ossessionato dall’idea di Immortalità: per essa, eresse opere colossali come La Sfinge e le Piramidi, innalzò Templi e Santuari che  sfidano ancora oggi il Tempo.

- La Morte, per il popolo nilotico, costituiva un passaggio tra la prima fase e la seconda e non era vissuta  con l’ossessione dei giorni nostri. Poteva essere traumatica, certo, e certamente era rifuggita, ma, al contempo, accettata con fatalità e pragmatismo.

- La vita ultraterrena, ossia la Vita Eterna, desiderata ed agognata da tutti, non era, però, appannaggio dell’intera umanità, poiché bisognava meritarsela. Per comprendere appieno la profondità di questo pensiero filosofico, basta leggere qualcuna di quelle Massime Sapienziali che invitavano a vivere una vita terrena onesta e operosa e generosa:

“L’uomo litigioso causa disordini.”

“Non essere malvagio: la bontà genera simpatia.” oppure:

“Onora una vita di lavoro: l’uomo che non ha nulla diviene desideroso dell’altrui proprietà.”

“Agisci rettamente durante il tuo soggiorno terreno.” E ancora:

“Aiuta le vedove e coloro che sono in lacrime.”

Per consentire tutto questo, dicevano gli Antichi Egizi, Dio aveva dotato la creatura umana di una complessa natura e di un certo numero di… per comodità le chiameremo entità, termine da cui esoterici e pseudo-studiosi, hanno sempre attinto a piene mani per le loro bizzarre dottrine, teorie e affermazioni.

Sette. Erano sette, queste entità, ognuna con un compito ben specifico.

- Djet: il corpo, deputato ad operare durante la vita terrena. Viveva fisicamente le esperienze di vita, come amare, lavorare, essere in salute o sopportare la malattia,  ecc.

- Ka: chiamato anche “Doppio”. Copia esatta del djet, era fisicamente inconsistente, trasparente ed evanescente; corrispondeva a quello che noi, gente moderna, chiamiamo Spirito o Fantasma. Era raffigurato con due braccia sollevate verso l’alto ed era quella, fra tutte le entità del defunto, che aveva il compito di intraprendere il viaggio nell’Oltretomba per sottoporsi al Giudizio di Osiride.

- Ba: un po’ difficile, definire questa entità. Di sicuro era qualcosa di speciale, che solo la creatura umana possedeva e che la differenziava dall’animale (senza anima). Alla sottoscritta piace definirla la parte divina che è in ogni essere umano: l’Anima, che Dio trasfuse all’uomo quando lo creò, soffiandogli attraverso le narici. (concetto ripreso successivamente dalla cultura ebraica: basta leggere la Bibbia e la Creazione dell’uomo) Il Ba è raffigurato come un uccello (quasi sempre un airone) con testa umana, forse a causa della presenza dei numerosi stormi d’uccelli che stazionavano sulle cime dei monti delle necropoli.

- Ib: il cuore, sede della coscienza e del carattere di ogni individuo.

- Shut: l’Ombra. Copia in negativo del djet; alla morte dell’individuo, l’Ombra si staccava dal corpo e vagava inquieta nell’attesa del Giudizio di Osiride. Accadeva anche che lo seguisse nell’Aldilà.

- Ren: il Nome. Era così importante, questa entità, da negare l’esistenza a chi non lo possedeva o non lo possedeva più. Basti pensare al deplorevole uso di cancellare da Templi e Monumenti, il nome di alcuni Faraoni scomodi, come il celeberrimo Akhenaton, al solo scopo di cancellarne la memoria.

- Akh: chiamato anche il Glorioso o il Luminoso.

 

Cosa accadeva ad una persona appena defunta? Ecco il rituale cui era sottoposta e il mito, a cui il popolo egizio si aggrappava.

Convinto?... Immagino di sì!... Almeno quella parte del popolo tenuto nell’ignoranza!

Subito dopo il decesso, i Sacerdoti funerari prelevavano il cadavere e lo trasportavano alla Casa dell’Imbalsamazione per prepararlo “fisicamente” all’Immortalità.

Settanta o anche ottanta giorni, durava il processo di conservazione del corpo, ma qui, bisogna fare una distinzione fra Imbalsamazione e Mummificazione.

La seconda era un “processo naturale” di conservazione del corpo e lo si praticò, all’incirca, fino alla IV o V Dinastia (epoca di Giza, Sakkara, ecc).

Non occorreva intervenire sul corpo, poiché bastavano clima secco e temperature elevate. La prima era, invece, un “processo artificiale”.

Il  corpo veniva svuotato degli organi molli (fegato, stomaco, intestino e polmone, i quali venivano conservati in appositi contenitori,  conosciuti con il nome di vasi canopi) e il vuoto era riempito con paglia, resine, balsami; poiché non si praticava ancora la sutura delle ferite,  queste tendevano ad aprirsi.

Per ovviare all’inconveniente, il cadavere veniva avvolto in bende tenute insieme da una colla, scura e densa. Ancora oggi non se ne conosce bene il composto, che  qualcuno chiamò (in egiziano): mummif (bitume), da cui la parola mummia. 

                                                 

 

Seguiva una cerimonia funebre officiata, alla presenza di amici e parenti, da Sacerdoti funerari, tra cui

- il sacerdote-sem, riconoscibile (in pitture parietali o papiri) dalla pelle di leopardo sulle spalle e

- sacerdote-chery-webb o Sacerdote–lettore,riconoscibile dalla lunga stola bianca adagiata su una spalle.

Prima di calare il sarcofago nella tomba,  si metteva in atto un complesso rituale conosciuto come “Il rito dell’apertura della Bocca”, che avrebbe restituito i sensi al defunto e gli avrebbe consentito una vita  “normale”..

 

Cosa accadeva, nel frattempo alle altre entità?

Il Ba, l’Anima, usciva dalle narici e con forma di uccello con testa umana, volava sulle montagne della necropoli. Qui restava in attesa di congiungersi alle altre entità, dopo il Giudizio di Osiride. 

Anche la Shut, separata dal corpo, restava in attesa e in caso di Giudizio sfavorevole, si aggirava di notte, arrecando ovunque terrore e danno. Qualche volta riusciva a seguire il Ka nel suo peregrinare lungo le vie dell’Oltretomba e, se il Giudizio di Osiride fosse stato sfavorevole, non c’era scampo neppure per essa. L’Ib, il Cuore, doveva raggiungere il Tribunale di Osiride per essere giudicato. Messo su uno dei piattelli della Sacra Bilancia di Maat, Dea della Verità e della Giustizia, doveva pesare non più della Sacra Piuma, che la Dea si staccava dal capo e poneva sull’altro piattello.

 

 

                                     

Ma… torniamo al Ka, lo Spirito. Era il solo (a parte il Cuore) fra tutte le entità del defunto, a mettersi in viaggio attraverso le oscure ed insidiose vie della Duat, l’Oltretomba egizia.

Doveva affrontare creature spaventose come il serpente Apep,(meglio conosciuto con il nome di Apofi), il leone Akhet, il coccodrillo Shui e molte altre ancora; doveva percorrere fiumi dalle acque impetuose, laghi di fuoco, montagne di ghiaccio e… (chi più ne ha, più ne metta).

In questa impresa, però, non era né solo né sprovveduto:  Divinità funerarie erano pronte ad aiutarlo e, naturalmente, la  Magia... la magia, ancella della Religione o, più esattamente, sua comprimaria: il defunto, infatti, aveva a sua disposizione He-kau, formule magiche, per affrontare pericoli e annientare nemici.

Erano, per lo più, scritte su scarabei di pietra turchese; in alcune tombe ne sono stati trovati fino a novanta esemplari.

Giunto alla Sala del Tribunale, lo aspettavano Osiride e la Corte dei Quarantadue Spiriti, ognuno dei quali rappresentava un peccato: invidia, inganno, appropriazione indebita, ecc.)

Formule magiche, naturalmente, lo aiutavano a superare le difficoltà… D’altronde, bastava essere innocente di almeno Sette dei Quarantadue Peccati per scongiurare la fine. Una fine davvero orrenda, quella riservata ai peccatori: le fauci di Ammit la Bestia, un ibrido con testa di ippopotamo, corpo di leone e coda di coccodrillo.

 

Il Ka che fosse riuscito a superare il Giudizio, poteva fare due cose (e di solito le faceva entrambe): restare nell’Oltretomba e soggiornare negli Hotep Jaru, il Paradiso Celeste, come  Spirito, oppure tornare nella hut-ka, la tomba, dove lo aspettava il corpo imbalsamato e dove poteva congiungersi alle altre entità e vivere fisicamente in quella dimora.

Era quello, infatti, lo scopo della preservazione del corpo fisico: dare un supporto allo Spirito e permettere al defunto la sua Vita Eterna.

 

E l’Akh, il Luminoso? All’interno della tomba poteva accadere uno strano fenomeno: dopo un po’, il corpo di un defunto innocente e virtuoso cominciava ad emanare luce. Meno erano i peccati, più intensa si faceva la luce: un modo poetico, forse, degli Antichi Egizi, di spiegarsi il fenomeno dei fuochi  fatui.

 

 

 

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- Storia

Antico Egittto - La GENESI e la FENICE

 

 

La  Genesi

IL  NUN -  Caos o Acque Primordiali

 
                                

I  “Testi delle Piramidi”, una sorta di raccolta di scritti di carattere religioso, così riportano:     

                             “Salute a Te, Atum, Salute a te.       

                               Salute a Te, il Divenente, che avesti origine da te stesso…”

Atum  vive nel NUN,  Acque Primordiali e Abisso sconfinato che si stende all’infinito e in ogni direzione. Tutto è Tenebra informe, senza aria né luce. Il NUN,  però, non è il Nulla, poiché esiste ed è la materia che successivamente darà la vita al Cosmo o Universo: è la bolla creata da Atum in mezzo al NUN.

Atum vive in completa inerzia in mezzo a tanto tenebrore e si sa che ozio e solitudine, prima o poi, finiscono per fiaccare lo spirito… anche quello di un Padre Eterno. Così, un bel giorno, Atum decide di porre fine alla propria solitudine e procurarsi compagnia.  Lo fa autoprocreando, poiché Egli è il “Grande Lui-Lei, un Essere bisessuale: un maschio ed una femmina.

Ma come andò la cosa? Ci sono due versioni del fatto: lo fece attraverso la masturbazione o il Verbo, la Parola-Divina. La prima è una visione primitiva e fisica della Creazione e la seconda, invece, è una concezione più intellettuale o spirituale. In realtà, i due aspetti sano complementari, poiché la masturbazione spiega l’aspetto riproduttivo della Vita mentre il Verbo, ossia il “Soffio Divino” alitato attraverso le narici, ne spiega l’aspetto spirituale . La prima si trova alla base della Dottrina Eliopolitana e la seconda, invece, della Teologia Memfitica.

Ed eccoci giunti  al mito della “Creazione della Luce e della Prima Alba”.

Shu e Tefnut,  sono i Figli Divini così concepiti.

Shu è lo “Spazio” in mezzo alla “Tenebra Primordiale”, è Luce e Aria.

Tefnut è Umidità e Vapore. Insieme i due costituiscono la “Prima Coppia” in grado di procreare sessualmente. ATUM è stanco della propria inerzia; vuole mettervi fine. Allora chiede al NUN come procurarsi un luogo su cui posare e l’ABISSO gli dice di baciare sua figlia Tefnut : la collocazione dell’Universo o Mondo-Creato all’interno del Nun è, dunque,  un atto d’amore di ATUM,  Il Supremo.

 

Creato l’Universo non resta che creare l’Ank, la VITA.

SHU e TEFNUT  accontentano subito ATUM  e procreano due figli: NUT e GEB, i quali costituiscono la Prima Coppia creata sessualmente. I due all’origine sono una sola cosa: due divine   entità sessualmente avvinte.

Ma SHU è geloso di NUT e la separa con forza dallo Sposo, sollevandola in alto e sorreggendola con le braccia: i Pilastri che sorreggono il Cielo.

Quell’atto del dramma della Creazione Cosmica, però, sarà anche causa e origine della Creazione della Vita: GEB e NUT potranno generare i loro quattro figli.

I loro nomi sono: Iside, Osiride, Seth e Nefty...

Dove andranno a vivere?

Ecco come è descritta nei “Testi di Shu” la comparsa della Luce e della Vita fuori del CAOS:

            “quel soffio di vita che sgorgò dalla gola dell’uccello BENU,               

             in cui ATUM apparve nel Nulla: l’Infinito e la Tenebra               

             e il Mistero Premevo…”

Possiamo, dunque, immaginare una Terra emersa dall’Abisso (fu un monte a forma di piramide ad ON, nome egizio di Eliopoli), su cui andò a posarsi la Fenice, l’Uccello-BENU, Araldo della Vita.

Possiamo immaginarlo nell’atto di aprire il becco e rompere il “Silenzio”  per annunciare la Vita.

Il BENU, La Fenice, dall’aspetto di un grande airone grigio, è  la incarnazione del LOGOS, ossia il Verbo,   che annuncia la Vita.

Il BENU, la Fenice, è  Simbolo e  Principio della Vita: è l’Angelo dell’Annunciazione.

 

La  Fenice

                                      

IL  BENU   o   LA FENICE

 

BENU o BENEV, meglio conosciuto come FENICE, Uccello dell’Annunciazione e Ambasciatrice della Vita e della Luce, è sicuramente il simbolo più affascinante della mitologia egizia. 

I Greci ne tradussero il termine in Phoi-nix, da cui Fenice.

Già Erodoto e Tacito ne parlano, ma nessuno dei due riesce a cogliere il profondo simbolismo del “Principio della Via” racchiuso in questa che è una “Epifania” o Apparizione di Dio.

 

I due autori, infatti, riducono questo simbolo  straordinario AD una splendida, ma semplice favola. Erodono racconta:

“Questo uccello, dall’aspetto di aquila e dal piumaggio d’oro rosso-fiammeggiante, ogni cinquecento anni volava dall’Arabia ad Eliopoli trasportando in un uovo la salma del padre per seppellirla nel Tempio di Ra, il Dio-Sole.”

Si tratta, dunque, di una delle tante leggende sorte intorno a questo mitico uccello, ma che si distaccano notevolmente dal suo vero simbolismo originale.

E Tacito se ne allontana ancora di più con il suo racconto. Egli ci narra che la Fenice si costruisse un nido in Arabia, dal cui interno, dopo cinquecento anni, usciva una nuova Fenice che uccideva il padre e lo bruciava per poi andare a costruirsi un nuovo nido.

 

La leggenda più suggestiva, ma ancor più lontana dal mito originale egizio, è certamente quella che vede la Fenice, sempre dopo cinquecento anni, salire sul rogo di un pira di legni odorosi di resine e risorgere dalle sue ceneri.

                                  

Ma qual è il mito originale nato in Egitto e facente parte della Dottrina Eliopolitana?

Qui, la Fenice non è simbolo di morte, ma Principio di vita e la fiaba greca è lontana anni luce dal simbolismo ieratico egizio.

Nella  mitologia egizia il Benu era una delle forme primordiali assunte da Atum, il Dio Supremo, per annunciare  l’avvento della Vita e della Luce all’interno del NUN, le Acque Primordiali.

Assunto l’aspetto di un airone grigio (al contrario della fiammeggiante aquila del mito greco rubacchiato agli egizi), Atum sale sul Ben-Ben, la prima terra emersa e “aprendo il becco ed emanando il suono” rompe il silenzio della “Notte Primordiale”.

Il Benu o Fenice, è dunque, l’Incarnazione della Parola Divina: il Logos dei greci.

L’aspetto dell’incarnazione in airone non va presa alla lettera (come ha fatto Erodoto) ma come simbolo: si tratta della prima apparizione del Dio Supremo per annunciare la comparsa della Vita e della Luce.

Benu, dunque, è l’Anima di Atum, così come, più tardi, il Ba, sarà l’anima dell’uomo (uccello con testa umana).

Un brano dei “Testi dei Sarcofagi” mette queste parole sulla bocca dell’anima di un defunto:    

                               “Io vengo dall’Isola-del-Fuoco,     

                                dopo aver riempito il mio corpo di Heka.     

                                Vengo come l’Uccello che riempì il mondo     

                                di quello che il mondo ancora non sapeva..”

 

L’Isola-del-Fuoco (O dell’Avvampamento) per molti è stata identificata con Eliopoli, la citta del Sole e l’Heka è l’”essenza della Vita”; l’Uccello, infine,  è il Benu che “riempì il mondo di quello che non sapeva”. E’, cioè, l’Uccello che attraversò l’Universo ancora immerso nella “Notte Primordiale” e giunse ad Eliopoli, la prima terra emersa, per annunciare l’Avvento della Vita e del Tempo, con tutti i suoi cicli ricorrenti: il giorno, la decade, il mese, l’anno e il tempo infinito.

 

          

 

 

 

 

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- Religione

ANTICO EGITTO - Cosmologia e Dottrina del LOGOS

Cosmologia e "Dottrina del Logos"

                                         
 

ANTICO EGITTO – COSMOLOGIA e “Dottrina del Logos”

 

Per Genesi, in ogni cultura, si intende il complesso dei miti sulle origini dell’Universo e il tentativo di spiegare come LUCE e FORMA siano scaturite o emerse dal Liquido Caos, che gli Antichi Egizi chiamavano NUN.

Caos Liquido, Acque Primeve, Abisso, Caos Primordiale…. o come lo si vuol chiamare, il NUN  era sconfinato e senza forma, privo di dimensione e di direzione. “Era” e basta. Il NUN, però, non era il Nulla, poiché sarà da esso che l’Universo avrà origine.

In verità, gli Antichi Egizi consideravano troppo misteriosa la Cosmogonia, ossia “l’inizio delle cose”, per attribuirle un canone fisso o un unico mito, come avverrà  assai dopo per la Genesi  ebraica e ancora più tardi per quella greco-romana.

Gli Antichi Egizi non fissarono mai un unico mito; così, se ad Eliopoli era RA il Dio-Creatore, ad Hermopoli era THOT ed a Memfi era PTHA.

 

Gli elementi necessari alla Creazione per emergere dal NUN sono: Luce – Vita – Terra – Intelletto e i miti della cosmologia cambieranno ogni volta che sarà messo in rilievo uno di questi elementi, secondo le varie culture locali. I miti riguardano: - la comparsa della LUCE, che coincide con l’Alba Primeva e il primo sorgere del Sole.   - la creazione della VITA - l’emersione della prima TERRA, (Tumulo Primevo) - l’istituzione dell’INTELLETTO

Mentre alla base della Teologia Eliopolitana (di cui ci occuperemo a breve), ci sono soprattutto i primi tre elementi, l’ultimo costituisce il fondamento della Teologia Memfitica, conosciuta anche come “Dottrina del Logos”.

Ad Eliopoli il mito fondamentale è quello di Atum-Ra, Dio-Autocreatore, che all’interno del NUN procrea (masturbandosi) la prima coppia, che a sua volta genererà (sessualmente) una seconda coppia.

A Memfi, all’interno del NUN troviamo Ptha-Taten Dio-Autocreatore che crea  la VITA attraverso :

- la LINGUA  (PAROLA o LOGOS) - il CUORE  (INTELLETTO)

(nota: per gli Antichi Egizi il Cuore-IB era la sede dell’Intelletto, della Rettitudine, delle Emozioni…)

PTHA è anche HE_KA, cioè Parola-Divina, perché la LINGUA o PAROLA o LOGOS, fa parte di Dio ed è Dio stesso: la LINGUA o PAROLA o LOGOS, dunque, è DIO-CREATORE. Ma non è tutto: quello della Creazione, secondo la Dottrina Menfitica, non è un ATTO casuale, ma è un”Progetto”, poiché implica il coinvolgimento di  MENTE (Pensiero Divino) e VOLONTA’ (Comando Divino), che la HE-KA, Parola-Divina o Lingua o Logos, come diranno i greci di Alessandria d’Egitto, ha concretizzato.

Questi concetti astratti: Pensiero, Comando, Ordine, Intelletto, perché siano comprensibili, vengono personificati, per permettere loro di agire. Diventano “funzioni” del DIO-Creatore e vengono dati loro dei nomi: Maat, sarà l’Ordine Cosmico, Thot, l’Intelletto e la Conoscenza, ecc…

Si legge nei Testi delle Piramidi: “E così furono fatti tutti gli Dei. E così ogni HE-KA, Parola di Dio viene da quello che il Cuore ha pensato e la Lingua ha comandato. Come tutti gli Dei furono fatti e l’intera Compagnia Divina fu creata, così ogni He-Ka, Parola di Dio, viene da quello che il Cuore ha pensato e che la Lingua ha comandato. Così furono fatti i Kau (spiriti) e gli Hemsut (Geni) che producono tutto il cibo e il nutrimento mediante quella stessa He-Ka, Parola Divina, la quale dichiara anche ciò che deve essere amato e ciò che deve essere odiato…”

Quelli che sembrano, dunque, momenti diversi della Creazione e cioè, Comparsa della Luce, Emersione della prima Terra, creazione della Vita, espressione dell’Intelletto, non sono atti consecutivi, ma aspetti diversi di un solo evento che si concretizza attraverso la He-Ka, cioè la Parola-Divina, la Lingua, il Logos.

                               

 

 

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- Cultura

Antico Egitto - Come e quando nacque la Scrittura

Introduzione

                                     

INTRODUZIONE

La tradizione antica ne attribuisce l’invenzione a Thot, Dio della Scienza, che si sarebbe servito di “segni” per comunicare agli uomini, attraverso i suoi sacerdoti, le idee di cui era depositario, La scrittura, sappiamo, è il veicolo trainante di idee. I popoli hanno cominciato a scrivere mediante disegni che miravano ad esprimere i pensieri e molti di essi non hanno superato tale stadio, ma gli egizi vi si staccarono presto. I loro “segni”, già nel terzo millennio a.C., 

Come, quando e dove è nata la Scrittura

 
 

 

Dopo la gestualità, il segno stato il sistema di comunicazione più importane per esprimersi e farsi intendere. Linguaggio e Scrittura!

La Scrittura, però, non è nata in Egitto, come spesso si pensa. La parola geroglifico non è neppure egizia.

Gero   - Glifico    = sacro – segno : in italiano

hieros – gliphein   =                       : in greco

neter  - medu        =                      : in egizio

I primi segni della Scrittura erano ideografici: esprimevano, cioè, un’idea, un concetto, un pensiero. Comparvero per primi in Mesopotamia e precisamente ad Uruk, città sumerica.
Immagini (non semplicemente segni) che volevano esprimere qualcosa o, più precisamente, propiziarsi atti ed eventi sono comparsi già 15.000 anni a.C.

La Scrittura, invece, compare e muove i primi intorno solo al 3000 a.C. in Mesopotamia e successivamente in Egitto, caratterizzandosi come una serie di disegni che riproducono oggetti. Quegli stessi disegni, successivamente, prenderanno una forma che indicherà dei concetti o delle idee: prima oggetti, poi concetti o, addirittura, oggetti e concetti insieme. Tali concetti, però, sono migliaia, perciò la Scrittura è qualcosa di molto complicato e laborioso. Solo più tardi si passerà a disegni che indicheranno suoni (disegni fonetici), i quali verranno, in seguito, sintetizzati in sillabe.

Facciamo un esempio:
il disegno di un volto rappresenta il volto stesso e si pronuncia her tale segno è: monosillabico - ideografico - fonetico

Indica il suono della “r”.

Accostato con le vocali, che ancora non ci sono, darà luogo a varie interpretazioni e problemi. Esempio:

-Her  vuol dire viso

-hor  vuol dire tenda, ma anche recinto

-hir  vuol dire sopra, ma anche occhio

 

Si dovrà arrivare al 1000 a.C. ed aspettare i Fenici per restringere prima le sillabe ad una ventina di segni  e formare cioè, le consonanti ed poi aggiungervi le vocali

In Egitto, però, le figure accostate alle sillabe continueranno a costituire a lungo un rebus, poiché la Scrittura egizia continuerà ad essere formata da:

- segni ideografici - segni fonetici - segni alfabetici

 

La confusione è creata dal fatto che spesso lo stesso suono ha significato e segno diverso: Esempio: con la pronuncia KA  si indicava:

- toro (con figura di toro)

- spirito (con figura di due braccia alzate)

 

o anche: pronunciando RA si indicava:            

-  sole  (con la figura del sole)            

-  bocca (con la figura di una bocca aperta)

La Scrittura egizia si può così sintetizzare:

- Ideografica

- Geroglifica: - Ieratica               

                     - Demotica

- Copta

e si può così dividere:

- Fonogrammi : segni fonetici (suoni)               

                         segni sillabici

- Alfabeto        : solo consonanti

                                 

 

COME SI LEGGONO I GEROGLIFICI

- Scrittura sacra: da destra verso sinistra

- Altri tipi di scrittura: da destra a sinistra                           

                                  da sinistra a destra                           

                                  dall’alto in basso

 

- I determinativi: sono figure che servono a rafforzare il significato della frase e si trovano all’inizio o alla fine di essa.

Esempio: la figura di un coccodrillo indica aggressività la figura di un uomo, una donna o di un fanciullo indica che quella frase si riferisce ad un uomo, una donna o un fanciullo…

 

Posizione del corpo nella Scrittura

- Corpo seduto: indica semplicemente la persona  (uomo, donna, fanciullo…)

- corpo seduto con carico: significa lavorare

- corpo seduto con sedia: indica nobiltà-dignità - corpo in piedi col braccio alzato: significa chiamare.

- corpo in piedi con entrambe le braccia alzate: significa pregare

- corpo in piedi con bastone: indica uomo oppure  azione violenta

- corpo in piedi appoggiato a bastone: indica la  vecchiaia

- corpo capovolto: indica peccatore o cattiveria

- corpo con mani legate dietro la schiena: indica un nemico

 

Posizione delle Mani nella Scrittura

- mani unite e tese: indica negazione

- mani alzate e unite: indica energia

- mani a semicerchio: amicizia

- mani a pugno teso: generosità            

-  ecc…

 

Posizione delle Gambe nella Scrittura

- gamba ben diritta: indica la gamba stessa

- due gambe in movimento: indicano l’azione del camminare

- gamba piegata: significa avere fretta.

- gamba che regge un vaso da cui cade acqua: indica l’atto della purificazione

- ecc..

 

 

                                      

I SUPPORTI DELLA SCRITTURA

 

I supporti principali della Scrittura furono due: la pietra e il papiro.

- La pietra: era abbondante lungo tutto il Nilo. Già ai tempi di Zoser troviamo inscrizioni sulla parete di una cappella: si tratta di figure e geroglifici colorati ed in bassorilievo, che la luce doveva far risaltare.

- Il Papiro: i più antichi sono stati rinvenuti   a Gebelein. (di questa pianta si rimanda ad un approfondimento)

 

Altri materiali, utilizzati soprattutto a scuola:                       

                                         legno laccato                 

                                         ostraka      

                                         calcare

materiali pregiati nell’uso rituale, ecc..                 

                                         cuoio                                                                 

                                          Legno: piuttosto raro, a causa  della sua                                              scarsità 

                                          Lino:     come quello rinvenuto  a Gebelein e risalente a

                                           circa 9000 anni fa

Intorno al 2000 a.C. comparvero i primi sarcofagi i quali recavano scritte e figure all’interno ed all’esterno. Nota: benché fossero trascritti e copiati da Testi dei Papiri, presero il nome di “Testi dei Sarcofagi”

Seguirono i “Libri dei Morti” in papiro Di solito le iscrizioni erano limitate; abbondavano, invece, le pitture della Dea del Cielo o dell’Aldilà. Vi sono, sempre al Museo egizio di Torino, due esemplari completamente coperti di iscrizioni.

I Documenti di Scrittura

LA STELE
                                           

E’ uno dei documenti scritti più diffusi dell’Antico Egitto. Monumento di pietra di modeste dimensioni, su di essa si condensa la decorazione delle pareti di un’intera cappella. Proprio per questa caratteristica è largamente diffusa, a partire dall’Antico Regno.

Le Stele dapprima hanno forma rettangolare, ma a partire dalla XII Dinastia sono arrotondate; al di sotto, lo spazio si divide in riquadri o registri, dove si alternano scene di offerte, raffigurazioni dei defunti, preghiere agli Dei. (Osiride, Anubi ed Horo, in particolare)

Oltre ad essere monumento di famiglia nelle cappelle, la Stele potevano essere anche: - Stele Religiose: poste in luoghi sacri come Santuari e Templi; la decorazione presenta persone nell’atto di preghiera o offerta e Riporta Inni Sacri, come quelle poste nel Piramidion (cuspide di piramide), che sormontava le cappelle del Nuovo Regno. - Stele Regali: contenenti documenti vari legati al Faraone ed alla sua funzione. - Tavole d’offerta: riportanti anche sui lati, iscrizioni riguardanti offerte. - Stele Magiche: appartenenti soprattutto al primo millennio a.C. e costituenti, praticamente, degli amuleti. Vi è raffigurato il defunto che reca in mano una stele. La figura dominante è quella di Horo-Bambino, posto su un coccodrillo e con in mano serpenti e scorpioni. Simboleggia le proprietà terapeutiche del Dio e tutt’intorno vi sono fittissime iscrizioni e formule. Stele Commemorative: riportanti eventi importanti come imprese, battaglie,ecc.. Famose, tra le altre, sono quella  di Thutmosis III, che celebra la vittoria della battaglia di Kerkemish e di Kamose che celebra la cacciata degli Iksos dall’Egitto. - Stele di confine: celebre è quella del faraone Akhenaton per stabilire i confini della città di Aketaton.

Le più numerose, però, sono quelle funerarie. Appartengono ad epoche diverse e sono dissimili fra loro sia per forma che per contenuto e fanno la loro comparsa già con la I° Dinastia.

                                               

Stele dell’Antico Regno

E’ una edicola ricavata nella parete occidentale della cappella, dove si svolgono i riti celebrativi per il defunto, che è quasi sempre un nobile o dignitario di corte. E’ chiamata convenzionalmente “Falsa Porta” per la sua struttura a forma di porta, con architrave, stipiti, ecc. E’ un monoblocco di grande dimensione, quadrangolare, ma più spesso rettangolare ed è monocromatico e completamente rivestito di figure ed incisioni distribuite sui registri. Nella parte superiore è raffigurato il defunto davanti alla mensa e sull’architrave sono riportati il nome ed i titoli del defunto; lungo gli stipiti compaiono le figure dipinte o incise dei membri della famiglia e dei servitori, nell’atto di porgere offerte. Lo scopo è quello di assicurare la sopravvivenza al defunto attraverso un cerimoniale magico-rituale e per questo è necessario pronunciare il nome del defunto e recitare la “formula dell’offerta”. (vedi post: “La complessa religiosità degli Antichi Egizi”)

                                           

Stele del Medio Regno

Nel Medio Regno la stele funeraria conosce una profonda evoluzione, anche se lo scopo resta sempre lo stesso. Le stele hanno dimensioni minori rispetto a quelle dell’Antico Regno. Anche la forma muta: sono arcuate, a simboleggiare il firmamento e la via solare che il defunto deve percorrere. Sono policromatiche e i colori sono assai vivaci, che siano dipinte oppure a rilievo. I registri sono due o anche più e mostrano varie scene: - la figura del defunto, che può essere da solo oppure con altre figure minori. - scena con la “formula dell’offerta” - scena di preghiera, esortazione o autoglorificazione. Come la stele di Meru, risalente alla XI Dinastia. Di grande importanza poiché riporta la data: 46° anno di regno del faraone Metuhotep II. Meru è il Tesoriere del Faraone e i colori predominanti della stele sono: - il rosso (per la pelle degli uomini) - il giallo (per la pelle delle donne) - - il verde (per i vegetali) - - bianco (per gli abiti di lino) Altro esempio eccellente è quello della Stele di Abkau, della XII Dinastia. Nel registro superiore c’è una lunga iscrizione   in cui egli dice di aver raggiunto Abidos,     “scala del Dio Augusto). Poiché questa “scala”, nominata in più stele, corrisponde alla cintura muraria del Tempio di Osiride ad Abidos, forse la stele proviene proprio da lì. Ne registro inferiore è riportata la scena del defunto assieme alla moglie, Mentutepank, (in atteggiamento affettuoso) davanti alla mensa. Compare anche la figura della figlia Neferut, seduta ai suoi piedi, che si appoggia con gesto affettuoso alle sue gambe. Sotto, infine, c’è il suo “diletto amico” Ib, il quale, in veste di chery-webb, sacerdote-lettore, dedica le offerte.

nota: il verde dei geroglifici non è originale: di solito si usava l’azzurro, che era il colore del cielo di Horo. Altra nota: si tratta di persone di ceto meno elevato di quelle dell’Antico Regno e questo significa che c’è una più larga coscienza e consapevolezza di sé, nel popolo, soprattutto se di ceto medio. Nell’Antico Regno erano principi e dignitari, qui ci sono anche architetti, tesorieri e “nobildonne”, come si è definita una donna nel registro della sua stele.

                                   

La stele nel Nuovo Regno

Sono le più interessanti e numerose e si assomigliano tutte: arcuate e coloratissime. Hanno dimensioni ridotte, ma sono molto decorate; in legno dorato, recano iscrizioni votive, propiziatorie e di ringraziamento. I registri sono diversi e presentano: - il defunto - Divinità varie (soprattutto Osiride, Anubi, Horo) - Testo scritto: con preghiere, ma anche scene del rito della pesatura del cuore o del viaggio del defunto nell’Aldilà.

La principale caratteristica di queste stele sta nel fatto che il defunto non si limita a menzionare i propri titoli (come in epoca Antico Regno), ma vi aggiunge le qualità morali; a questi elementi etici, inoltre, se ne aggiungono altri di carattere religioso: gli Dei, che non compaiono nell’Antico Regno, qui, invece, sono menzionati ed invocati o, addirittura, pronti a ricevere ed accogliere il defunto. Come nella stele di Nanai, che rende omaggio ad Osiride ed Anubi. Oppure quella di Kamose, Scriba reale dal 5° al 38° anno di regno del faraone Ramesse II.

Nota: le stele degli operai di Dei-el-Medina, infine, sono tipiche e particolari poiché riportano preghiere rivolte a Meertseger, Dea-Serpente, Protettrice della necropoli; molte di queste stele erano sparse nei luoghi frequentati da serpenti.

                                              

Le stele in Eta’ Tarda

Sono presenti un po’ tutti gli stili; ricompaiono perfino le False-porte. Policrome e molto arcuate, nei registri si scrive un po’ di tutto: dal viaggio del defunto attraverso la DUAT, l’Aldilà egizio, alle scene di adorazioni agli Dei; dalle iscrizioni riguardanti la vita del defunto a  quelle riguardante la storia degli Dei. Al Museo egizio di Torino vi è una serie numerosa di queste stele, con le seguenti caratteristiche: - l’Arco, sotto cui il Sole in forma di Disco Solare occupa la parte più significativa della stele - scene varie, raffiguranti il viaggio della Barca Solare, del Tribunale di Osiride, adorazione agli Dei, ecc.. - iscrizioni varie, come quelle che seguono: “… chiunque agisca contro questa stele sarà giudicato da Dio, Signore del Cielo” oppure: “… io sono stato molto amato dagli uomini…”

Una nota tutta particolare, naturalmente, merita la Stele di Rosetta, la quale ha permesso la decifrazione della scrittura egizia, di cui si rimanda la lettura all’articolo in questione.

 

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- Storia

Mitiche Regine - Teodora la Basilissa

MITICHE REGINE: Teodora la Basilissa

                                                   

Sulla sua nascita non si sa nulla di preciso, neppure il luogo: la data, fissata nell’anno 500, è del tutto arbitraria. Qualche storico le ha assegnato come patria l’isola di Cipro, qualcun altro la Siria; di sicuro si sa soltanto che è nata tra i carrozzoni di un circo: il padre, guardiano di orsi e la madre, figurante di circo. Era la secondogenita di tre sorelle. Una figura leggendaria, questa donna, che ha avuto estimatori e denigratori fra quanti, soprattutto storici e biografi, hanno voluto stendere su di lei una favolosa quanto fantasiosa biografia. L’essere nata sotto la tenda di un circo, ritenuto a quei tempi luogo di corruzione e vizio, ha finito per marchiarla frettolosamente e senza possibilità di appello, come donna viziosa e lussuriosa. Teodora non era certo una donna virtuosa, ma un più attento studio sulla sua personalità e attitudine, ci restituiscono un ritratto  po’ meno severo. Suo maggior denigratore fu senza dubbio lo storico Procopio che, nella sua “Storia Segreta”,  le attribuisce ogni sorta di vizio, perversione e delitto ed è proprio con questo marchio che il ritratto di Teodora è arrivato fino a noi. Soltanto oggi, dopo attenta riflessione ed approfondito studio degli eventi storici in cui è vissuta, si è scoperto  quanta influenza, quasi sempre positiva,  questa donna abbia avuto sulle sorti dell’Impero d’Oriente.

Di una cosa si è certi: danzatrice o imperatrice, Teodora non fu mai una semplice comparsa. Perfino nell’esordio, le due “carriere”, furono ugualmente folgoranti. Morto il padre, la madre la “scaraventò” nella pista di un circo assieme alle sorelle, Comito ed Anastasia, a suscitare la pietà del pubblico; un pubblico diviso in due fazioni: i Verdi e gli Azzurri. Sostenuta dagli Azzurri e osteggiata dai Verdi, appena ne ebbe l’occasione, Teodora mostrò, nei confronti di costoro, quanto vendicativo fosse il suo carattere.

Cominciò proprio in quella pista la carriera di colei che di lì a pochi anni sarebbe diventata la più celebrata stella dello spettacolo. (una Madonna dei nostri giorni.) A diciotto anni era la Regina indiscussa dell’ Ippodromo di Bisanzio, (l’equivalente del  Colosseo di Roma): uno dei due strumenti che gli Imperatori usavano per soddisfare il popolo; l’altro era il grano. Pane e Circo: Panem et Circenses. Teodora ne era l’attrazione principale: bellissima, conturbante, intrigante, intelligente ed assolutamente priva di pudore. La sua fama era quella di donna dissoluta e libertina (anche per i suoi tempi) e non deve stupire che le cosiddette persone per bene evitassero perfino di incontrarla per strada. Nonostante questo, Teodora si sposò per ben due volte, prima ancora di compiere venti anni. Il secondo matrimonio  la portò ad Alessandria d’Egitto ed alla scoperta di una Cultura ed una Filosofia che ebbero su di lei una incredibile e straordinaria influenza, tanto da accendere in lei un grande mistico fervore. Se lo storico Procopio aveva fatto di lei il simbolo del vizio e della perversione, qualcun altro pensò non solo a riabilitarla, ma addirittura ad elevarla spiritualmente: Diehl che parla di lei come di una donna diventata casta e morigerata. Questo anelito di misticismo, però, non durò a lungo. Teodora era una donna innamorata della vita e dell’amore. Si era sempre presa cura della propria bellezza, che l’aveva resa musa ispiratrice della sessualità maschile e desiderava continuare a farlo. Non tardò, dunque, ad avvertire un certo disagio religioso: non poteva esserci molto in comune tra una come lei ed una Religione che tuonava contro i piaceri della carne e ne mortificava gli slanci naturali con rinunce e penitenze. Teodora lasciò Alessandria per Antiochia e strada facendo finì per riprendere (per voglia o per necessità) la vecchia attività.

Fu in quel periodo che avvenne l’incontro con Giustiniano, che all’epoca non era ancora Imperatore. A presentare i due fu Macedonia, una famosa danzatrice amica di Teodora. Fu il classico colpo di fulmine. Il giovane Giustiniano manifestò subito l’ntenzione di impalmarla, ma la conturbante Teodora trovò nell’imperatrice Eufemia la più grande oppositrice a quelle nozze. Eufemia, assai gelosa del suo fascino e della sua bellezza, era anche una donna meschina e non tollerava che la grande fortuna capitata a lei, potesse arridere anche ad un’altra donna. Sì, perché Eufemia proveniva dal più infimo strato sociale: era solamente una schiava. Era la schiava prediletta di Giustino, l’Imperatore, che aveva finito per invaghirsene e sposarla, elevandola al rango di Imperatrice.

Teodora, però, oltre che bella, intelligente ed intrignte, si rivelò essere anche fortunata: Eufemia morì l’anno successivo. Correva l’anno 523 dell’era cristiana. Aggirato ogni ostacolo burocratico con emanazione di Leggi nuove o abrogazione di quelle vecchie, Teodora e Giustiniano riuscirono finalmente a sposarsi. Associato al trono allo zio Giustino, Giustiniano divenne Imperatore d’Oriente e Teodora, la sua  Imperatrice.  Le nozze  furono celebrate in pompa magna nella cattedrale di Bisanzio alla presenza di un popolo festante che tributò all’Imperatrice lo stesso entusiasmo riconosciuto alla danzatrice. Un trionfo totale per Teodora e ancora di  più! Era la rivincita della donna: Giustiniano, infatti, seguì sempre e comunque i consigli dell’Imperatrice, a cominciare dalle Leggi a favore delle donne: donne maltrattate in famiglia, malate e con pochi mezzi di sussistenza, ma soprattutto, donne dei bassifondi. Nessuno, meglio dell’Imperatrice di Bisanzio, poteva conoscere le miserevoli condizioni di vita delle donne rinchiuse nelle “case di tolleranza” che, naturalmente, furono tutte chiuse.

Politiche sociali, intrighi di corte (assai numerosi), finissimo acume, Teodora mancò solo in una “missione”: dare un erede all’Imperatore. Di figli ne aveva avuti. Due o forse tre, ma non era di certo un bastardo che Giustiniano voleva far sedere sul trono dell’Impero d’Oriente come suo successore. Teodora era diventata sterile; forse la vita vissuta nel vizio, forse i numerosi aborti cui si era sottoposta, forse l’età. Medici ed ostetrici fatti arrivare da ogni angolo dell’Impero e anche da più lontano, non riuscirono ad esserle d’aiuto. Ricorse, a quel punto, alla magia. Sperimentò le più stravaganti quanto inutili pratiche magiche, fece arricchire fattucchiere e maghi, ma non raggiunse lo scopo. C’era ancora una via. L’ultima. Ed era la Fede: voti e preghiere. Allo scopo fece innalzare cattedrali, chiese e conventi, ma il Cielo continuò a tacere e restare indifferente. Il 29 giugno del 548, Teodora la Basilissa moriva con questo unico, grande rimpianto e con un interrogativo per i posteri: fu fedele all’innamoratissimo marito? Tutti gli storici concordano nel ritenere che prima di diventare Imperatrice, la vita di Teodora sia stata dissoluta e viziosa, ma si dividono sulla sua condotta dopo che ebbe indossato la porpora imperiale. Possiamo affermare, però, senza dubbio di smentita, che il ritratto di donna dal sesso insaziabile, peccatrice e dissoluta, che ne fece il drammaturgo Sardon, non le rende giustizia.

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- Letteratura

MITICHE REGINE -- Huthsepsut la Regina-Faraone

 

 

LA REGINA HUTHSEPSUT

Huthsepsut –  la Regina-Faraone

 

 

Questa figura di Regina ha sempre affascinato studiosi e scrittori  e di lei si è molto discusso e si continua a farlo. Dei fatti che la riguardano, la versione più attendibile ed universalmente  accettata da studiosi ed egittologi è, forse, quella che segue. Figlia del faraone Thutmosis III, della XVIII Dinastia, sposò, come consuetudine, il fratello Thumosis II. Alla morte di questi, essendo l’erede, il futuro, grande faraone Tutmosis III, ancora troppo giovane per governare il Paese, la Regina ne assunse la Reggenza. Huthsepsut, però, non si accontentò di questo ruolo e quel che seguì fu uno degli esempi di intrighi di corte più clamorosi della storia. Attraverso una messa in scena assai teatrale, occupò il trono senza colpo ferire e vi regnò per più di 20 anni come Regina-Faraone. Un mattino, mentre officiava in onore del dio Ammon, questi le apparve e, fra tuoni, fulmini e saette, così proclamò (pressappoco): “In Te voglio compiacermi, figlia mia. Da oggi il tuo nuovo nome sarà Kem-hut-Ra: Colei che regna su Kem (Egitto) con il favore di Ra.” Donna bella, colta e ambiziosa, era dotata anche di una acutezza politica e molte furono le riforme sociali da lei introdotte nel Paese. Era anche molto coraggiosa. Si narra che da bambina il padre la portasse spesso a caccia con sé. Nell’assumere il potere, (si dice) si attaccò alla schiena la coda del leone da lei stessa cacciato e si pose al mento la “barba rituale”, per mostrare di essere coraggiosa e capace non meno di un uomo.

A sostenerla in questo progetto c’era, naturalmente, una corte di fedelissimi, sia a Palazzo Reale che al Tempio di Ammon. Primo fra tutti, fu Senenmut, architetto e Gran Dignitario, da cui ebbe anche una figlia: Nefrure, che in seguito fece sposare all’erede, Thutmosis III. Per la sua tomba non scelse la Set-Maaty (Sede della Giustizia), oggi meglio conosciuta con il nome di “Valle dei Re”, dove erano sepolti tutti i Sovrani, ma non volle neppure la Set-Nefrure,(Sede della Bellezza) dove erano sepolte le Regine. Lei scelse un sito diverso, l’attuale Deir-el-Bahari, dove si fece costruire uno dei più straordinari Complessi Funerari: il Sublime dei Sublimi. Sulle pareti e sulle colonne fece trascrivere la sua storia, quelle delle sue conquiste militari e, soprattutto, l’accoglienza, alla nascita, da parte del dio Ammon, Patrono di Tebe, che la riconosceva come  “Sua Figlia” e ne legittimava il diritto ad occupare il trono d’Egitto. Morì all’età di 60 anni circa, dopo quasi 22 anni di regno. La tradizione vuole che il successore, dopo la sua morte, si sia accanito nel voler cancellare di lei perfino la memoria, per vendicarsi di averlo per così tanto tempo tenuto lontano dal trono. In realtà, il faraone Thutmosis III, fece vaghi cenni, in alcune iscrizioni, ad un “periodo di disaccordo” con la Regina. Certo è che non era facile far cancellare tutte le iscrizioni dai colossali monumenti fatti erigere dalla Regina; più devastante fu l’intervento del faraone Akhenaton, che ordinò di cancellare il nome di Ammon da tutti gli edifici del Paese, compresi quelli della Regina-Faraone.

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- Storia

ZENOBIA-La donna che tenne in scacco un Impero

Mitiche Regine

ZENOBIA  - Regina di Palmira

 

ZENOBIA - Regina di Palmira

Figura di spicco nella storia dell’Impero Romano in Oriente. Bellezza leggendaria, occhi neri e profondi, pelle levigata, capelli raccolti in treccine secondo l’uso del tempo, Zenobia era una donna di grande fascino. Ambiziosa, intelligente e colta, parlava diverse lingue, tra cui il latino, possedeva anche qualità di moralità, prudenza e generosità. Figlia di Giulio Aurelio Zenobio, andò sposa ad Odenato, brillante uomo politico e militare il quale, dopo una folgorante carriera fu nominato dall’imperatore Gallieno “Re dei Re” d’Oriente, con il compito di proteggere le frontiere dell’Impero dalle pressioni persiane.

Col marito Zenobia divise ogni cosa, dai fasti della corte alle fatiche militari. Lo seguì sui campi di battaglia nelle campagne militari contro i Persiani, lo sostenne nei Consigli di Guerra e lo accompagnò nelle battute di  caccia al leone. Femminile e seducente a corte, non disdegnava di indossare abiti militari ed elmo in testa, così come amava farsi raffigurare in statue e dipinti. Curò personalmente l’educazione dei tre figli (di cui due di primo letto del marito) chiamando a corte i migliori maestri d’arme e di lettere.

Alla morte di Odenato, ucciso insieme al figlio Hairan a seguito di una congiura tesagli da un nipote, Zenobia assunse la Reggenza del Regno in nome del figlio Vaballato. All’ambiziosa donna, però, il titolo di Reggente andava assai stretto: il suo sogno era quello creare un Impero d’Oriente e, di conseguenza, sottrarsi al giogo romano. Primo atto, fu quello di  dichiararsi apertamente discendente della regina Cleopatra e proclamarsi Regina di Palmira.

A Roma, naturalmente, non la presero molto bene. L’imperatore Aureliano, succeduto a Gallieno, avrebbe voluto regolare subito i conti con l’ambiziosa Regina, ma glielo impedirono le invasioni dei Goti e degli Eruli. In verità, pur avendo fatto scalpore, l’ascesa al trono di Zenobia, in principio non era stata osteggiata, confidando nella lealtà che il marito aveva sempre dimostrato nei confronti di Roma. La stessa Zenobia all’inizio aveva cercato di mantenere buoni i  rapporti con Roma e fu solo più tardi che cominciò a tramare apertamente ed a non nascondere i suoi progetti di grandezza. Per ragioni di opportunità politica e per la necessità di temporeggiare, l’imperatore Aureliano aveva perfino accordato al figlio di Zenobia il titolo di Dux Romanorum. Appena sistemata la situazione in casa,l’imperatore si accinse a risolvere la faccenda.

L’esercito di Palmira e quello romano si scontrarono sulle rive dell’Oronte, dove Aureliano, grande stratega militare e generale di cavalleria, ottenne una strepitosa vittoria. Zenobia e il suo generale, Zabdos, furono costretti a riparare ad Antiochia e poi a Emesa. La vittoria decisiva di Aureliano avvenne proprio ad Emesa, ma Zenobia pur pesantemente sconfitta, non si arrese. Si ritirò a Palmira e qui si preparò a sostenere un inevitabile assedio. Aureliano le offrì una resa onorevole, ma la Regina fece l’errore di non accettare, fidando nell’aiuto delle tribù del deserto. L’aiuto non arrivò mai: Roma aveva sottomesso o comprato tutte quelle popolazioni ed a Zenobia non restò che cercare la salvezza nella fuga assieme al figlio. Fuggirono a dorso di dromedario, con l’aiuto di fedeli nomadi del deserto, ma furono riconosciuti e catturati e in seguito condotti a Roma; il figlio morì durante il viaggio. Giunta a Roma, la bellissima prigioniera fu fatta sfilare come il più prezioso dei trofei, legata al carro dell’imperatore con catene d’oro. Roma restò soggiogata dal suo fascino. L’imperatore non solamente le risparmiò la vita, ma la sistemò in una lussuosa villa a Tivoli, dove Zenobia visse come una Regina, animando le notti romane.

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- Storia

DIDONE-ELISSA: Regina di Cartagine

 

DIDONE     Regina di Cartagine

 

Di questo personaggio, che ondeggia tra storia e leggenda, si sarebbe persa ogni traccia o ricordo, se non avesse avuto un cantore d’eccezione come Virgilio.

Grazie a lui, poeti e scrittori, pittori e musicisti l’hanno resa immortale.

Didone, la mitica fondatrice di Cartagine, che il mito più antico chiama Elissa, è un personaggio epico e quasi virile, nel vigore dello spirito e nella risolutezza delle opere.  E’ una donna energica, intelligente ed  astuta.

Virgilio, però, fa di lei l’eroina di un dramma amoroso orchestrato e diretto dal Fato.

Chi era veramente la nostra eroina? La Elissa, cioè  Allizah la Consacrata del mito più antico oppure la Didone, cioè la Virago del mito virgiliano?

 

Sia Storia oppure Leggenda, la Elissa-Didone dell’antico mito era una donna dignitosa, forte e astuta.

Primogenita di Belo, re di Tiro, alla morte del padre ne ereditò il trono assieme al fratello Pigmalione.

Per nulla disposto a dividere il trono con la sorella, Pigmalione fece uccidere Sicheo, il ricchissimo ed amatissimo sposo di lei e prese il potere da solo.

Per evitare una guerra civile la Regina decise di  lasciare Tiro ed iniziare il suo peregrinare nel Mediterraneo in cerca di una nuova patria.

 

La necessità aguzza l’ingegno, recita un adagio e la bella Elissa dette subito prova di quanto ingegno fosse dotata.

Per lasciare Tiro aveva bisogno di navi e lei non ne disponeva. Allora montò un’efficace quanto astuta messinscena per raggirare il fratello. Gli chiese un incontro per discutere e trovare un accordo e Pigmalione precipitò nella rete con l’intelletto offuscato dalla cupidigia per le di lei ricchezze.

Egli inviò immediatamente uomini e navi a prelevarla, ma la notte stessa in cui le navi approdarono nel porto, Elissa-Didone fece caricare di nascosto a bordo tutte le sue ricchezze, lasciando in bella mostra sul ponte una gran quantità di sacchi contenenti sabbia, facendo credere che l’oro fosse là dentro.

Appena le navi ebbero raggiunto il mare aperto, la Regina ordinò ai suoi uomini di gettare nelle acque quell’ipotetica, ingente ricchezza gridando

“… meglio in mare che nelle mani infide ed indegne di Pigmalione.”

In realtà si trattava solo dei sacchi pieni di sabbia.

Timorosi della reazione del loro Re, gli uomini di Pigmalione preferirono mettersi al servizio della Regina piuttosto che tornare al cospetto del Re e puntarono la prua delle navi in direzione della prima isola.

Dopo lungo (o breve) peregrinare, le navi raggiunsero le coste della Libia ed ancora una volta la bella ed astuta Regina pose in atto un piano assai ingegnoso.

Ottenne da Jarba, un principe locale, un terreno su cui edificare la sua casa: “… grande quanto ne può contenere una pelle di bue” disse.

Jarba accettò ed Elissa lo mise elegantemente “nel sacco”.

Fece tagliare in striscioline finissime una pelle di bue e con esse tracciò un perimetro che conteneva tutta la collina e la campagna circostante.

Su quel terreno la Regina edificò la sua città: Cartagine o  Birse, che in greco significa “Pelle di bue” e in fenicio vuol dire “Collina”.

 

Bella, affascinante, ricca e potente, la Regina di Cartagine attirò immediatamente le mire di molti pretendenti. Primo fra tutti, quelle dello stesso principe Jarba il quale giunse a minacciarla di muoverle guerra se non l’avesse accettato come sposo.

Elissa-Didone finse di accondiscendere alle richieste e chiese ed ottenne di aspettare la fine del periodo di vedovanza. Quando giunse il giorno della scelta di uno sposo, la Regina, ancora innamorata del marito e fedele al giuramento di non sostituirlo con un altro uomo (nulla da stupirsi: si era nel periodo Matriarcale ed era la donna a scegliersi lo sposo) si trafisse con una spada.

Come un grande Sovrano, aveva già compiuto la sua impresa e non desiderava altro.

 

Il tardo mito, però, la vuole identificata con la donna che seguì Enea profugo a Cartagine dopo la fuga da Troia e che, abbandonata, si uccise e si gettò sul rogo lanciando imprecazioni.

Plutarco per primo respinse questa versione dei fatti resi da Virgilio, insostenibile sia per il carattere della donna che per  inesattezza cronologica.

Non si tratta più del personaggio Elissa-Didone, ma piuttosto di Didone-Elissa.

Non solo Virgilio, ma anche Ovidio ne fa un personaggio da tragica-commedia.

La Didone-Elissa di Ovidio non è né epica, né mitica e tantomeno regale.

E’ una “relicta”. E’ una  donna che piange e si dispera; chiede ed implora.

La Didone-Elissa di Ovidio non è l’astuta, battagliera conduttrice, fondatrice di città, che tiene a bada popolazioni avversarie, ma una donna che per amore perde ragione e dignità.

Il personaggio non ci appare eroico come nell’antico mito, ma vinto e un po’ patetico: non è più quello di una Regina gloriosa, ma di una donna fragile sopraffatta dalla passione ed accecata da un dolore senza tregua né espedienti: neppure quello abile, ma inutile, di un presunto figlio in arrivo per trattenere l’amato.

Proprio un piccolo espediente da piccola donna!

Didone-Elissa è, dunque, una donna appassionata, fragilmente femminile e in preda alla passione, che alla fine fa dire al suo poeta:

  “il motivo della morte e la spada fornì Enea

   ma con la sua stessa mano si tolse la vita Didone.”

Didone-Elissa, infatti, si uccide con la spada che lo stesso Enea le aveva donato.

 

“Per te solo ho distrutto il pudore e la fama di prima

per la quale solo io salivo al cielo” dirà Virgilio, donandole l’immortalità.

Didone, dunque, diventa immortale solo per essere una donna e soprattutto una donna  fragile, dopo essere  stata una Regina gloriosa.

Didone, dunque, è un personaggio che diventa immortale grazie alla propria sconfitta. Ma perché?

Perché Vigilio era romano e Didone, invece,  cartaginese. E perché Roma e Cartagine erano eterne nemiche.

Ma anche perché la morte di questa Regina doveva essere il primo segno della vittoria dei romani sui cartaginesi. E non doveva essere la “storia” dello scontro fra le due Potenze, bensì la “leggenda d’amore” fra due personaggi mitici finita in dramma.

Doveva essere così, perché  l’EPILOGO della “Leggenda” di Didone, doveva costituire il PROLOGO della “Storia” di Roma.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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- Storia

MITICHE REGINE -- Boudicca Regina-Guerriera

BOUDICCA – Regina-Guerriera

 

 

 

Boudicca: dal celtico “Bouda” che significa Vittoria.

Di questa straordinaria figura di donna, elevata in Inghilterra a simbolo dell’ardimento femminile, fu Tacito a parlare per primo nei suoi “Annali”.

Riportando i costumi delle popolazioni barbariche che i romani avevano assoggettato, il grande storico, che non nascondeva una certa ammirazione per la morigeratezza di quei costumi, ebbe ad esprimersi così:

“… sanno scegliersi i capi migliori e obbediscono al loro Comandante… hanno fiducia nel Comandante più che nella massa dell’esercito.”

 

Questo, forse, spiega l’ascendente di questa straordinaria donna, eletta Comandante, sulla propria gente.

 

Boudicca era la Regina degli Iceni, una popolazione della Britannia e il suo nome non avrebbe ispirato poeti e scrittori, pittori e cineasti, se quanto segue non fosse avvenuto.

Prosutago, re degli Iceni, uomo avveduto e lungimirante, viveva in pace con Roma.

Unico difetto agli occhi dei  conquistatori romani, la sua ingente ricchezza.

Presago di quanto poteva accadere (e sarebbe accaduto) e nella speranza di allontanare mire e sciagure dal Regno e dalla sua famiglia, il Re compì un atto che ne decretò, invece, la rovina: nominò erede delle sue ricchezze le due giovanissime figlie e la persona di Cesare.

 

Alla  sua morte il Regno fu annesso all’Impero e ridotto a Provincia di Roma; i beni furono confiscati e gli schiavi portati via.

Centurioni e soldati piombarono sulla casa del Sovrano come famelici avvoltoi, depredandola e devastandola come se fosse una preda di guerra.

Boudicca, donna energica e coraggiosa, dal carattere fiero e battagliero, si oppose a tanta devastazione, prese le armi e si scagliò contro gli aggressori.

La reazione dei legionari fu violentissima. Sopraffatta e disarmata, la Regina degli Iceni fu sottoposta ad inaudita umiliazione davanti alla sua gente: denudata, fu selvaggiamente frustata, mentre le due giovanissime figlie venivano stuprate.

 

Non solo Boudicca e le sue figlie subirono oltraggio, ma molte delle famiglie dei notabili iceni, i quali si unirono tutti intorno alla Regina e prepararono una rivolta in cui trascinarono  altre popolazioni.

Tra queste, vi era la tribù dei Trinovanti, scacciati dalle loro terre, a Camulodunum, per far posto ai legionari veterani ivi sistemati dall’imperatore.

Qui, l’imperatore Claudio aveva fatto perfino innalzare un Tempio per il proprio culto.

La rivolta ebbe inizio proprio a seguito di un evento accaduto nel Tempio: la statua della Vittoria era caduta all’indietro.

Il fatto fu considerato un evento prodigioso sia dalle popolazioni indigene che dai romani, soprattutto le donne. Non dai soldati, né dal Procuratore il quale, alle richieste d’aiuto, si limitò ad inviare pochi soldati e male armati.

Alla guida dei rivoltosi, Boudicca sferrò un primo attacco al presidio, arrecando morte e distruzione; in un secondo attacco, il Tempio, in cui si erano rifugiati gli ultimi superstiti, cadde dopo due soli giorni di resistenza.

 

Ebbe inizio la leggenda di Boudicca, regina-guerriera.

Alta, statuaria, i lunghissimi capelli rossi e sciolti sulle spalle, gli occhi fiammeggianti di furore, Boudicca incuteva davvero terrore. Indossava sempre una tunica ed un mantello trattenuto da una borchia ed una spessa catena d’oro al collo; in mano reggeva l’inseparabile ed infallibile lancia.

Seguirono epiche battaglie che la videro sempre vincitrice: a Londinium (l’odierna Londra), a Verulanio e ad altre località, dove apportò sempre massacri e devastazioni ed in cui perirono, si disse, almeno settantamila persone, poiché l’ordine era di non fare prigionieri.

 

Il Legato, Paolino Svetonio, riuscì finalmente ad organizzare l’offensiva.

I due schieramenti si trovarono di fronte in una zona impervia della Britannia: i Romani, compatti e forti di fanteria e cavalleria e i Britanni, un po’ sparpagliati e con le famiglie che si erano portati dietro. Sui carri, dal bordo del campo, le donne assistevano alla battaglia; tra loro c’erano anche le due giovanissime figlie della Regina.

La battaglia fu violenta, ma l’esito scontato: a contrastare la rivolta, era stata inviata la XIV Legione Romana, la più forte e agguerrita. L’affiancavano i migliori combattenti dell’Impero, i quali non si astennero dal massacrare neppure le donne.

I morti furono più di ottantamila.

Sopraffatta così pesantemente, la regina Boudicca si suicidò con il veleno.

 

 

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- Religione

Angeli e Demoni - seconda parte

 

DEMONI

 

Diavolo, Demone, Belzebù, Belfagor… tutti nomi dello Spirito Maligno che perseguita l’uomo o lo conduce alla perdizione.

Demone è la personificazione del male.

E il male è sempre un serpente: è Apep, il dragone cosmico degli Egizi, è il serpente dell’Eden degli Ebrei, è il drago dell’Apocalisse dei Cristiani, ecc…

 

Per gli Egizi erano il simbolo delle tenebre e del male; indistruttibili ed eterni: Seth ed Apep. Con una sostanziale differenza fra i due, però: il primo era soltanto il Perturbatore dell’Universo e delle sue creature, ma il secondo mirava alla sua distruzione.

Apep (meglio conosciuto come Apofi) ne era il Distruttore e l’Annichilatore.

E se ciò non fosse bastato, a disturbare la vita degli egizi vi era tutta una serie di demoni di secondo grado, i quali costituivano la “corte” di divinità superiori come Sekhmet, Dea della Distruzione e della Malattia. Questi avevano la capacità di entrare nel corpo dell’uomo ed apportarvi tormenti e malattie.

 

Possessione demoniaca la chiamavano i Cristiani, (e qualcuno, poco pratico di medicina, la chiama ancora oggi); per liberare il malcapitato usavano ed usano, come unico rimedio, l’esorcismo: un rituale praticato anche in passato da altre culture

Ma che cos’è, ancor oggi, il Diavolo o il Demonio per i cristiani?

E’ l’Angelo che si è ribellato al Signore ed ha tentato Eva, la prima donna, che con il suo comportamento ha condotto alla rovina l’umanità appena creata.

(… la donna! Sempre origine e causa di ogni calamità!…)

Per punizione Dio scacciò dal Paradiso Terrestre sia Eva che Adamo.    

Il Diavolo… che da Angelo aveva un bel nome, Lucifero, fu anch’egli buttato fuori dall’Eden, ma continuò e continuerà a far guerra all’uomo spinto da nessun’altra ragione che la propria natura malvagia.

 

L’Apocalisse (scritta duemila anni fa) ci dice che passati mille anni (e cioè mille anni fa) il Diavolo sarebbe stato liberato dall’abisso in cui era stato scaraventato dopo la tentazione ad Eva e rimesso in libertà assieme alla sua “corte” di Demoni, ossia quegli Angeli che lo avevano sostenuto della ribellione. Aggiunge anche che alla sua sconfitta definitiva, seguirà il Giudizio Finale.

 

Satana, che in ebraico vuol dire “nemico”, in realtà, rimase sconosciuto agli Ebrei fino al periodo dell’esilio babilonese.

Cielo e terra, dicevano i Babilonesi e prima ancora i Sumeri, erano popolati di demoni che definivano: principio attentatore della vita e responsabili di tutti i mali che affliggono l’uomo.

All’origine, asserivano, erano soltanto spiriti di defunti ed abitavano nelle tombe e nei luoghi isolati e deserti.

Avevano nomi assai appropriati: Distruzione, Destino di Morte, Spirito Rapace, Spirito Maligno ed altro ancora, tutti d’aspetto spaventevole.

Non meno spaventevoli, erano anche  gli Spiriti malvagi dei Romani e non meno appropriati i loro nomi: Libitina (Morte), Larvae (Demoni) Lèmures (fantasmi).

 

Ancora più spaventevoli, forse, erano quelli che popolavano l’Inferno etrusco: mostri alati a tre teste, creature ibridi con quattro e più zampe. Tutti provvisti di lunghe zanne, corna notevoli, zampe di capro e tutti armati di forconi e bastoni: esseri infernali di second’ordine e per quesro assai gelosi della posizione dell’uomo nella gerarchia delle “creature”.

Geloso dell’uomo è, infatti, l’Iblis (diavolo) o Saytan Satana), capo degli Angeli della Bibbia, che si rifiutò di inchinarsi davanti ad Adamo e che per ripicca ne sedusse la compagna (come abbiamo già detto). 

 

Il sesso del Diavolo? Maschile e anche femminile!

La diavolessa più famosa era certamente Lilit, il cui passatempo preferito era adescare l’uomo: nemmeno Adamo sfuggì alle sue pericolose lusinghe amorose.

Meno note, ma non meno letali erano l’alata Vanth, demonessa etrusca dell’Agonia e le Strangolatrici, Forze Maligne della Notte dei Fenici. (di queste creature così particolari parleremo ancora e più approfonditamente nella pagina: FATE e STREGHE)

 

 

Più noti i nomi di Demoni di sesso maschile (per meriti letterari e cinematografici): Belfagor, Belzebù, ecc… non sempre dall’aspetto spaventoso e talvolta perfino avvenente.(anche di queste creture parleremo più approfonditamente nelle pagine: MAGHI e STREGONI)

Non così può dirsi per Charun, il Demone della Morte, nella cultura degli Etruschi. E’ quello che, d’altronde, si avvicina di più al Caronte di Virgilio.

Charun è d’aspetto animalesco: occhi di brace, piedi ungulati, zanne digrignanti.

 

Una domanda è d’uopo. L’uomo ha qualche possibilità di sfuggire alle mire di così tanti diavoli e diavolesse?

Direi proprio di sì!

O, più precisamente, lo pensa chi afferma di credere nella loro esistenza!

L’uomo dispone, dicono costoro, di uno strumento potentissimo con cui riuscire a dominare le forze infernali: Magia e Stregoneria.

Magia e Stregoneria, ancelle della Superstizione e della Religione, che da sempre hanno permeato la vita dell’uomo.

Amuleti ed incantesimi, dicono, se opportunamente adoprati, possono perfino volgere a proprio favore le forze malefiche, ma il successo è subordinato all’abilità di Maghi e Stregoni, Ministri del Culto di Satana che… ma questo è un altro discorso, di cui ci occuperemo ancora.

 

 

 

 

 

 

ANGELI  E  DEMONI

 

 

ANGELI

 

Dal greco angelos, che vuol dire “messaggero”, gli Angeli sono presenti in tutte le culture e tradizioni fin da epoche assai remote.

E ancora oggi!

In molti, infatti, ancor oggi credono nell’esistenza degli Angeli, anche se nessuno può affermare di averne visto uno.

Creature piene di fascino e di splendore, circondati di mistero e suggestione, gli Angeli appartengono ad un mondo evanescente e fantastico, ai confini tra materia e spiritualità. E tale è anche il loro aspetto: luminoso ed evanescente ed al contempo composto di materia.

 

Caratteristica principale, oltre alla “sostanza”? Le ali, di cui sono provvisti.

Nella Bibbia, però, non sempre hanno ali, ma utilizzano le Scale celesti per salire in cielo ed assumono forma umana per portare messaggi divini agli uomini.

Forma umana, infatti, hanno gli Angeli che si presentano ad Abramo per annunciargli il concepimento di Isacco o per impedirgli il suo sacrificio. Così è anche quando, con il nome di Azaria, l’arcangelo Raffaele accompagna e protegge Tobia nel suo viaggio.

Ed è sempre un messaggero di Dio, anche se Dio ha cambiato nome e non si chiama più Jeowa, ma Allah, quello da cui Maometto riceverà la Rivelazione: Jabrà, ossia Gabriele.

Gli altri due sono: Israfil, cioè Raffaele, l’Arcangelo che suonerà le Trombe della Resurrezione e Mikail o Michele, colui che è alla guida delle azioni dell’uomo.

 

Li troviamo attivamente all’opera anche nel Cristianesimo: nell’Annunciazione alla Vergine Maria, in quella ai pastori di Betlemme… E ancora: fu un Angelo a confortare Cristo sull’alto del Monte degli Ulivi quando andò a pregare prima della Passione.

Fu ancora un angelo ad aprire la porta della prigione a Pietro e l’elenco sarebbe davvero lungo.

Una caratteristica dell’Apocalisse, infine, è proprio la mediazione degli Angeli i quali saranno chiamati a recare il messaggio divino alle 7 Chiese, quando arriverà il momento del Giudizio.

 

E gli Angeli Custodi?

E’ radicata la convinzione che ognuno di noi abbia un Angelo Protettore o Custode che ci guida nel nostro cammino ed agisce a livello umano.

 

Già nelle società primitive si credeva all’esistenza di uno Spirito Protettore.

Nella cultura ebraica si parla di Angeli Protettori non solo degli uomini, ma anche della Natura: Angeli del mare, Angeli dell’aria, angeli del fuoco, ecc.

In Mesopotamia, Spiriti benigni dall’aspetto di grifoni alati anticipano le figure di Angeli ed Arcangeli di qualche millennio.

Nella mitologia greca i messaggeri degli Dei erano raffigurati con le ali proprio come gli Angeli.

Ali d’oro e caduceo, che era l’insegna del messaggero.

Il caduceo era un’asta con due serpenti attorcigliati e terminanti con due ali.

Messaggeri delle Divinità greche e romane erano Iride, personificazione dell’arcobaleno, che congiunge cielo e terra ed Ermes o Mercurio, simbolo del mistero e dell’arcano.

 

Angeli custodi si trovano anche in Persia: i fravashi, copia perfetta ma evanescente di ogni individuo. Un po’ come il Ba degli egizi, detto anche il “Doppio”, essendo la copia esatta di ogni essere umano, ma trasparente e di puro spirito.

Sempre in Persia, Zoroastro, profeta di Ahura, riferì che il mondo era stato creato proprio con l’aiuto di Spiriti benigni: sette angeli.

 

Esiste una gerarchia nella società angelica?

Pare di sì!

Gli Ordini Angelici sarebbero nove, divisi in ulteriori tre Ordini.

Al primo Ordine apparterrebbero:

Cherubini  -  Serafini  -  Troni

Al secondo ordine:

Dominazioni  -  Virtù  - Potenza

al terzo ordine

Principati  -  Angeli  - Arcangeli.

 

Gli Angeli sarebbero tanti mentre gli Arcangeli, di grado superiore, sarebbero quattro, ma noi ne conosciamo il nome solamente di tre di loro:

Gabriele - Raffaele  -  Michele.

Per alcuni il quarto arcangelo sarebbe Emanuele.

 

E il sesso degli Angeli?

Se ne discute da secoli, ma secondo l’opinione dei più, gli Angeli sarebbero asessuati, anche se possono apparire con aspetto umano maschile quanto femminile.

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- Storia

Perché gli Egizi si facevano ritrarre di lato?

Le teorie più strampalate sono state formulate al riguardo: tecniche di pittura, stile… perfino una forma di danza.

Molti cineasti, infatti, si sono sbizzarriti a mettere una a fianco dell’altra, ballerine con braccia per aria, una tesa in avanti e l’altra all’indietro.

In realtà, la spiegazione è assai più profonda.

Intanto, si fa notare che, a ben osservare, le pitture ritraggono le persone in ogni angolazione del corpo: fianco, gambe e braccia tese in avanti e indietro, testa e busto con rotazione di 45° circa…

Perché, dunque, quella particolare posa?

Durante le Cerimonie Funebri si celebravano Rituali Magici per consentire al defunto di “risorgere” e tornare in vita, rituali che venivano officiati dal sacerdote sem (riconoscibile per la pelle di leopardo in spalla) e dal sacerdote chery-webb (riconoscibile per la stola bianca).

Il primo si serviva di strumenti magici, come l’ur-reka, con cui toccava ogni singola parte del corpo e il secondo accompagnava quei gesti con formule magiche, le He-Kau.

Si praticava il rito direttamente sulla mummia del defunto o sulla statua che lo rappresentava, ma anche sulle pitture parietali della tomba.

Nei primi due casi era facile toccare il corpo in ogni sua parte: braccia, gambe, testa, busto… Più difficile, invece, con le pitture, in cui, non tutte le parti del corpo erano visibili.

Per poterle raggiungere, bisognava esporre quelle nascoste: la parte interna di gambe e braccia, ad esempio, ed ecco la necessità di tenderle in avanti o indietro. Per mostrare sia il petto che le spalle, bisognava fare una piccola torsione del busto, così come per la testa, se si voleva evidenziare sia la faccia che la nuca.

Niente danze, dunque, ma solo la necessità di rendere visibili le varie parti del corpo per procedere al Rito.

Interessante, vero?

 

 

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- Filosofia

ANTICO EGITTO - Fior di Loto

 

Proprio all’ingresso della prima delle grandi Sale della Statuaria, al Museo Egizio di Torino, c’è una splendida colonna papiriforme ornata alla base da un fior di loto chiuso e in alto da un fior di loto aperto.

Osservandola, ogni volta mi viene in mente un episodio riportato da:  “Le Istruzioni di Amenemeth”

(Libri dellaSapienza).

 

Amenemhet era unSovrano con qualità di scriba e teneva una lezione a suo figlio sulla misericordia del  NETHER-WA,  Dio-Unico, verso gli uomini.

Dopo un po’, il ragazzo, piuttosto scettico, gli fece una domanda:

“Signore, – disse-  Come può Dio occuparsi di tutti gli uomini che sono tanti, tanti e poi tanti ancora ed ancora di più?”

Dopo un attimo di riflessione, Amenemhet chiese:

“Figlio, hai mai contemplato un fior di loto?”

“L’ho fatto, sì.” rispose l’altro con accento un po’ stupito.

“Lo sai, figlio, che ogni sera il LunareThot provvede a chiudere ognuno dei petali del calice del fior di loto, affinché né insetti, né animali, né vento o acqua lo danneggino? E lo sai che ogni mattino il Solare Horo provvede a riaprire quei petali per ridare al fiore vita e bellezza?… Se due Divinità importanti come Thot ed Horo si occupano di un umile fiore, come puoi dubitare dell’interessamento di Dio verso l’uomo, la più importante ed amata delle sue creature?”

 

Cosa dire di insegnamenti come questo!… E’ così attuale, che sembra uscito dalle labbra di un Pontefice.

 

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- Storia

Sette e Confraternite-Setta degli Hashashin

La setta degliHashashin (o degli Assassini)

 

Hashashin! Conquesto termine era indicata la famosa Setta che tanto fascino perverso suscitò sull’Occidente.

Il termine  “Assassino” deriva proprio da Hashashin, che significa: consumatore di hashish, una droga ottenuta dalla canapa indiana.

Il nome originaledella setta era Isma’iliti,  dal nome del suo fondatore, l’emiro Isma’il ibu Gia’ far.

 

Isma’iliti… da nonconfondere con Ismaelita.

Isma’iliti erano iseguaci della Setta mentre, invece, Ismaeliti erano (e sono) i discendenti di Ismaele, figlio di Abramo e dell’egiziana Agar. (le cui vicende sono narrate nel libro: "A G A R", di Pace Maria - www.lulu.com)

 

Come in ogni setta, anche in quella degli Isma’iliti esisteva una gerarchia con a capo il Djebal, oGran Maestro, meglio conosciuto come “Il Veglio della Montagna” e con prerogative di Monarca assoluto.

 

Del “Veglio della Montagna” si tanto favoleggiato, in Occidente: fiumi d’inchiostro e chilometri di pellicola.

E non sempre aproposito.

Si è sempre parlato della crudeltà della Setta, ma non si è mai… o quasi mai, fatto cenno alle ragioni delle sue origini.

Nacque durante le Crociate e lo scopo era lo stesso degli Ordini dei Cavalieri occidentali:difendere i luoghi della loro fede.

Dai Cristiani, però.

Gli Isma’iliti erano gli avversari  dei Templari e dei Teutonici, dunque. Tra questi opposti Ordini di combattenti, però, c’era una sorta di cavalleresca intesa.

Soprattutto con i Cavalieri Teutonici.

Interessante notare anche quanto l’organizzazione dei due Ordini fosse simile sia gerarchicamente, che nel comportamento, duro ed intransigente fino alla crudeltà.

Gerarchicamente i Teutonici si presentavano con una piramide così composta: Gran Maestro, GrandePriore, Priore, frate, scudiero; l’Ordine islamico invece era così costituito: Djebal, Sheik, Daiikebir,dais, ecc…

Sia i Templari che i Teutonici, dunque, tennero con questa Setta ogni genere di rapporto e stipularono Trattati  spesso senza tener conto delle disposizioni papali.

Vale per tutti l’esempio di Federico II di Germania.

L’imperatore tedesco, per una dozzina e più di anni, era riuscito a continuare a rimandare la sua Crociata (ogni Sovrano europeo aveva la sua bella Crociata), finendo per attirare sul suo capo la Scomunica Papale.

Finalmente, il Sovrano si decise a partire per la Terrasanta. Assistito dalla fortuna e soprattutto dalla sua capacità di guerriero e stratega, l’imperatore conseguì una straordinaria vittoria  e non esitò a  proclamarsi Re di Gerusalemme e ad auto-incoronarsi.

Amante dei fasti orientali (Federico possedeva perfino un harem), egli intrattenne rapporti cordiali con il “Veglio della Montagna”,  l’emiroAl-Djebal, che invitò perfino alla sua tavola.

Si trattava di rapporti diplomatici, naturalmente, e il punto principale era il permesso ai Musulmani di praticare il proprio culto nella città santa di Gerusalemme, mal’atmosfera era di reciproco rispetto.

 

 

La setta degli Isma’iliti, come ogni altra setta, era selettiva nella scelta dei propri adepti: giovani coraggiosi, atletici e con la vocazione all’obbedienza ed alla fedeltà più cieca ed assoluta; una volta entrati a farne parte, non era più possibile uscirne.

Si è sempre pensato( e forse è anche vero) che alla base di tanta fedeltà al “Veglio”, ci  fosse l’uso e l’abuso di sostanze come l’hashish, che schiavizzava i seguaci, rendendoli sempre più dipendenti delGran Maestro, come accadeva (sia pur con altri mezzi, ai Teutonici).

Il caso, però, che li ha resi famosi, è legato soprattutto al sultano Aloylin, (nel Libano, dove la Setta fu costretta a riparare dopo una disfatta) una figura inquietante, dispotica, sadica e crudele.

Di lui si raccontava che, per legare sempre più a sé i giovani adepti, egli ricorresse ad un espediente profondamente ingannevole. Li drogava con hashish e li faceva vivere per qualche giorno in un luogo di delizie ed incanti, serviti e riveriti da belle fanciulle pronte ad assecondarli in ogni richiesta. Passato l’effetto della droga, i giovani credevano davvero di essere stati in Paradiso, finendo in tal modo di cadere completamente in balia dell’infido Gran Maestro.

Annullata ogni loro volontà e personalità, i giovani erano pronti ad eseguire qualunque ordine del Sultano, per tornare in quel  “Paradiso”.

Perfino uccidere o uccidersi.

Sempre a voler dar fede a questi racconti, il sultano, per dimostrare ai suoi ospiti occidentali la fedeltà dei suoi guerrieri, offriva loro uno spettacolo agghiacciante: ordinava ad alcuni di loro di gettarsi giù dall’alto della fortezza  e sfracellarsi sulle rocce sottostanti.

Ordine che i giovani eseguivano con grida di gioia, convinti di “tornare” in Paradiso.

 

 

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- Storia

Sette e Confraternite - I Cavalieri Teutonici

Per cominciare, una nota è doverosa: troppe “crociate” in seno al Regno Crociato e non tutte combattute in Terrasanta.

Ci furono “crociate”contro i mori in Spagna e quelle contro i pagani nel Baltico; queste ultime, combattute proprio dai Cavalieri Teutonici.

 

Il nome completo dell’Ordine di questi Cavalieri era: “Fratelli della Casa Teutonica di Santa Maria di Gerusalemme” ed è l’unico, fra tutti gli Ordini Cavallereschi, esistente ancora oggi. La sua sede si trova a Vienna ed è una benefica istituzione di volontariato.

 

Come ogni altroOrdine di Cavalieri, la sua origine è circondata da segreti e misteri.

Secondo la leggenda, fu un mercante tedesco, in pellegrinaggio in Terrasanta, che, viste le  precarie condizioni in cui versavano i suoi connazionali, decise di costruire una struttura ospedaliera, per soli tedeschi,  dedicandola alla Vergine Maria.

Dopo varie vicissitudini, quasi tutte disperate e sfavorevoli alla causa, finalmente alcuni principi tedeschi si decisero ad intervenire, trasformando la struttura in un Ordine Cavalleresco: dotandolo, cioè, anche di una forza armata.

La Cerimonia di inaugurazione avvenne alla presenza dei capi degli altri Ordini dei Cavalieri, oltre che di principi tedeschi.

Questa investitura, però, condusse l’ospedale, pian piano, ma inesorabilmente , verso una radicale trasformazione: da Ente assistenziale si trasformò in struttura para-militare.

Si continuò  ad assistere malati e feriti, naturalmente, ma sempre di più, si finì per  occuparsidi faccende guerresche che contribuirono a cambiare sia lo spirito che la natura della Confraternita.

Se prima era facile entrare nell’Ordine, essendo la sua natura di carattere umanitario, dal momento in cui diventava Ordine Cavalleresco, l’adesione diventava faccenda assai più selettiva, aperta soprattutto a principi, baroni, duchi, militari, ricchi mercanti, banchieri… tutti, rigorosamente di nazionalità tedesca. Solo più tardi, ma molto più tardi, vi furono ammessi anche italiani,inglesi, ungheresi, ecc.. sempre di nobile estrazione.

Con affiliati di tale calibro, l’Ordine non tardò a diventare un organismo potente, prepotente econ non pochi episodi di violenza e crudeltà.

Gente dura ed inflessibile con se stessi e con gli altri, e pronta a sacrificare alla Causa, per l’appunto, se stessi e gli altri.

Gente dura e fiera di appartenere alla razza teutonica: composto quasi esclusivamente di nobili tedeschi, l’Ordine finì  per trasformarsi in un vero esercito potente ed agguerrito.

 

Proprio questo aspetto, però, finì per attirare su di loro l’accusa di nazionalismo (estraneo, fino aquel momento, alla Causa) e perfino di razzismo: una ambiguità che affascinò il 3° Right, durante la seconda guerra mondiale, fino a punto da volerlo prendere come esempio di modello da seguire.

A causa, infine,della forza e del carattere dei suoi seguaci, l’Ordine divenne sempre più riccoe potente, palesemente insofferente verso la sovranità papale, ma con il grande merito, grazie alle figure carismatiche di alcuni Grandi Maestri, di farsi “Mediatore” tra Stato e Santa Sede.

 Un esempio di tale “virtù” si ebbe ai tempi delle grandi tensioni fra l’imperatore Federico II di Germania  con la Santa Sede.

L’Ordine fece da intermediario fra il Papa e l’Imperatore tedesco che per più di una dozzina dianni aveva continuamente rimandato la partenza della sua Crociata (ogni Sovrano ne aveva una propria, indipendente dalle altre), adducendo sempre qualche scusa, tanto da attirarsi addosso una scomunica papale… ma questa è un’altra storia.

 

Ambigua e circondata dal più profondo mistero, era anche la Cerimonia di Iniziazione dei Templari, ispirata ai rituali dei Misteri Eleusini ed al culto di Mitra.

Ciò non deve stupire: il Culto di Mitra era praticato dai legionari romani, considerati i guerrieri per eccellenza e i Cavalieri Teutonici li avevano presi come esempio di condotta militare.

Cavalieri duri, dunque, a tratti anche spietati, ma ligi alle regole dell’Ordine, soprattutto aquella della più cieca obbedienza, che fece di loro un organismo compatto e consempre maggior desiderio di espansione territoriale.

 

L’occasione arrivò quando, invece di combattere in Terrasanta, i Cavalieri Nero-Crociati, furono inviati in Occidente  a difendere i luoghi di transito dei pellegrini tedeschi verso Gerusalemme ed a combattere popolazioni eretiche ed idolatre come i Prussiani.

La conquista del territorio fu un gioco per gli spietati Cavalieri dalla Croce Nera sul bianco mantello.

Come ogni altro conquistare, l’Ordine si affrettò ad edificare

castelli, cattedralie, soprattutto, la città di Konigsberd , la sua Capitale.

 

La domanda che molti studiosi si pongono, riguardo quelle azioni belliche è: I Cavalieri Teutonici, si macchiarono oppure no di genocidio per conquistare quel territorio e fissarvila loro capitale?

Certo è che,  l’Unico Ordine Cavalleresco a  fondare uno Stato, fu proprio quelloTeutonico.

Alcuni studiosi suggeriscono che vi siano stati battesimi di massa, con  la volontà della gente oppure contro diessa, altri, invece, parlano di vero genocidio documentato.

L’Ordine dei Teutonici, secondo questi ultimi, s’era trasformato in uno strumento d’espansione territoriale a danno delle altre popolazioni: estoni,lettoni, lituani…

Si racconta che al castello di Marienburg, quando giungeva un ospite di riguardo, i Cavalieri organizzassero battute di caccia all’uomo: uomini, donne e perfino bambini, venivano rincorsi  attraverso le foreste e uccisi come prede.

 

Comunque sia andata, i Cavalieri hanno ubbidito ad un ordine, legati com’erano da cieca ubbidienza al Gran Maestro, il cui potere eguagliava quellodi un Sovrano assoluto.

Ci si è  chiesti anche quale  non fosse la causa di una ubbidienza così totale, cieca e assoluta nei confronti della Causa e soprattutto del Gran Maestro. 

Solamente la condivisione di segreti e misteri, è la prima risposta che, all’interno di un universo così esclusivo e chiuso agli estranei, doveva esserne il precetto primario .

Quali erano questi segreti e misteri? Di natura esoterica, dice qualcuno; scientifica, affermano altri… certamente, Conoscenze ignote ai più!

Prestare Giuramento era un atto irrevocabile, ma non bastava a fare dell’adepto un Cavaliere; doveva seguire un secondo Giuramento per rendere indissolubile il legame con il Gran Maestro .

Durante questa seconda Cerimonia, detta “Appannaggio”, al futuro Cavaliere  veniva consegnato il bagaglio militare : spada, lancia, elmo, scudo, speroni e cintura per la spada.

Il tutto avveniva durante la celebrazione di una Messa Solenne e si concludeva con il Bacio dellaFratellanza e con grandi festeggiamenti.

Tutto questo, però, non prima che il futuro Cavaliere non avesse messo per iscritto il suo giuramento di fedeltà all’Ordine e al Gran Maestro, fino alla morte e con l’annullamento totale del proprio individualismo.

 

Eletto a vita come un vero e proprio Monarca, il Gran Maestro possedeva le stesse prerogative diun Sovrano Assoluto, compreso quello di con potere di vita e di morte sui “sudditi”.

D’altra parte, le punizioni erano assai dure, essendo il perdono considerato una forma di debolezza.

Scrive lo storico L.Daillier:

“I Teutonici erano germanici e il Gran Maestro non era il rappresentante dell’Ordine, ma l’incarnazione, nella sua veste di capo spirituale-temporale, della potenza della morte, comunione perfetta del ferro, del fuoco e del sangue, sotto il simbolo della Croce.”

 

Oggi, per fortuna, dopo avere per secoli ispirato Sette, Istituzioni e Società Segrete  (non sempre lecite), l’Ordine Teutonico sopravvive in una Istituzione religiosa e benefica con sede a Vienna, come si è già detto.

Le procedure di Investitura sono immutate dai tempi delle Crociate, e negli atti e nelle parole e perfino nell’  ”Appannaggio”, la consegna, cioè, della spada simbolica e, certamente, immutati sono anche isegreti che accomunano questi Cavalieri moderni, sia pure per altre ragioni che si sperano lecite e benefiche, così come affermano.

 

 

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- Scienza e fede

FALSI della STORIA: Pergamene di Rennes-le-Chateau

 

Non c’è mistero che si rispetti senza la propria pergamena,

rotolo di papiro o lastra di pietra o bronzo.

Famose sono diventate quelle di Rennes-le-Chateau, in Francia.

Dove e quando, sono spuntate fuori?

Nel 1.887, nella chiesa del paese, durante i lavori di restauro dell’altare, promossi dal parroco, Berenger Saunière.

Le offerte dei fedeli furono piuttosto generose (lasciti, messe, indulgenze ed altro) e il buon parroco si trovò a maneggiare parecchi quattrini. Circostanza, questa, che scatenò l’estro creativo dello scrittore francese G. De Sède, autore delleimprobabili e fantasiose vicende di un romanzo intitolato “Le tresor maudit”(Il tesoro maledetto).

All’interno di una colonna che sosteneva l’altare, si disse,

il parroco aveva  trovato delle pergamene dai contenuti enigmatici e alquanto misteriosi. Tali da convincerlo a recarsi fino a Parigi per sottoporli a “lettura” da parte di esperti di messaggi criptati.

Ed è a questo punto che cessa il buon senso e ci si tuffa in un mare di congetture, supposizioni e perfino mistificazioni.

L’esperto parigino (o parigina… non si sa con precisione) così traduce ed interpreta due delle pergamene:

 

La prima iscrizione: 

“A re Dagoberto II  ed a Sion appartiene questo tesoro. Egli è morto lì.”

Che cosa significa? Che quella pergamena era la mappa di un tesoro? Un tesoro a cui il buon parroco avrebbe attinto a piene mani ed, in parte, generosamente distribuito, contribuendo personalmente ai lavori di restauro?

E quei due nomi: re Dagoberto II e Sion (che sta per Priorato di Sion)?

Dagoberto era unSovrano della stirpe dei Merovingi.

I Merovingi erano Franchi, lo si sa. Quello che non si sa, è il legame di questo Sovrano con i fatti di Rennes-le-Chateau e la famiglia del Cristo che, secondo certe teorie, avrebbe finito proprio lì i suoi giorni e vi sia stato sepolto.

Leggenda nella leggenda: re Dagoberto era un discendente di Gesù, come questi lo era di re Davide?

E il Priorato di Sion?

Sarebbe una setta e di essa ci occuperemo a breve.

La seconda parte dell’iscrizione, quel “Egli è morto lì”, indicherebbe il luogo di sepoltura del corpo del Cristo (di cui ci siamo già occupati)

 

 

La seconda iscrizione:

“Pastora. NessunaTentazione. Che Poussin, Teniers detengono la chiave: Pace 681. Per la Croce eper questo Cavallo di Dio, io compio “anniento” questo demone di guardiano a mezzogiorno. Mele Azzurre.”

Che cosa significherebbe?

Chiave 681 sarebbel’anno in cui sono avvenuti i… chiamiamoli così, mescolamenti genealogici (che tradotto vuol dire: matrimonio) fra un discendente del Cristo e un membro della famiglia reale della Dinastia Merovingia?

I Merovingi,  discendenti di Cristo?

Affascinante, è stata definita questa teoria: stravagante, direi io. Inquietante e perfino mortificante per l’umano intelletto.

Per decine disecoli, dunque, una “genia divina” (il Cristo sarebbe oppure no, Figlio diDio?) avrebbe vissuto in mezzo a poveri mortali senza mai intervenire inguerre, genocidi, pestilenze, e altro? Uomini e donne, dal sangue divino, avrebbero condotto la propria esistenza come qualsiasi mortale su questa Terra?

Tutto questo, fino a quando qualcuno non li ha “scovati”: un pretino che in punto di morte ha rivelato il suo “segreto”… un pretino che, tra le altre vicissitudini, era stato perfino scomunicato per attività simoniaca.

Sotto la chiesa, infatti, si trova una cripta ed è probabile che al suo interno vi fossero reperti antichi con il cui traffico clandestino, il bravo pretino si sia è arricchito: era quello il  ”tesoro”.

 

A questo punto la domanda è d’obbligo: i messaggi delle

Pergamene sono autentici oppure no?

La sottoscritta dubita perfino della loro esistenza! Chi ha potuto dare un’occhiata al famoso pilastro che regge l’altare,  ha potuto anche costatare che il nascondiglio ( un minuscolo foro) è talmente piccolo da non poter contenere assolutamente nulla e tanto meno quattro pergamene.

 

Oltre alle Pergamene, però, replicano gli irriducibili di tale teoria, ci sono varie iscrizioni e rebus, distribuiti qua e là, all’interno ed all’esterno della chiesa.

Quello che per molti costituisce un affascinante rompicapo si trova inciso sul portale. Breve e lapidario, recita così:

“Terribilis est locus iste”

Una scritta latinache per molti significherebbe :

«Questo luogo è terribile »

Un vero latinista, però, come la tradurrebbe?

Ricordo ancora lafamosa frase risalente ai miei primi approcci con questa “morta” ma sempre viva lingua: “mus farinam est”. Io credevo che il topo fosse fatto di farina, anziché mangiarsela, la farina.

La spiegazione più semplice e plausibile dovrebbe essere ricercata nella personalità di colui che ha tracciato tale iscrizione e cioè il bravo, simoniaco pretino, il buon Sauniére il quale l’haestrapolata da un versetto biblico:

“Terribile è questo luogo, che è la Casa del Signore e la Porta del Cielo” (Genesi, 28 – 17)  e terribile sta per mirabile

e non certo, spaventevole o, se vogliamo: rispetto e timore reverenziale.

Quale credente definirebbe terribile e spaventevole una Chiesa, ossia la Casa del Signore?

 

C’è, poi, la sibillina iscrizione: “Christus A.O.M.P.S. DEFENDIT”  tradotta in:

“Cristo difendel’Antico Ordine Mistico del Priorato di Sion”… ma, del Priorato di Sion ci occuperemo prossimamente.

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- Scienza e fede

FALSI della STORIA: la tomba del Cristo in Francia

 

E’ sicuramente il falso d’autore più intrigante della Storia. Ma a cosa si riferisce?

Ad una ipotetica tomba di Cristo che si troverebbe nei pressi del villaggio di Rennes-le-Chateau, in  Francia.

Chi ne è statol’artefice?

Come prima risposta verrebbe da fare il nome di Dan Brown, autore del  libro: “Il Codice da Vinci”. In realtà, questo libro, che ha reso multi miliardario il suo autore, èlo sviluppo, fantasioso e romanzato, di un’altrettanta fantasiosa ricerca condotta nel 1.980 dai giornalisti Lincoln, Leigh e Baigent: “Il Santo Graal”

Secondo le ricerche e gli studi condotti dai tre giornalisti, il Cristo non sarebbe morto sulla croce, ma soccorso e sanato, appena dopo esservi stato deposto.

In verità, questa teoria ha attraversato i secoli prima di arrivare a Brown, trovando sostenitori ed oppositore.

Anche la sottoscritta ne fa cenno nel suo ultimo libro “La Decima Legione” nel brano: Lo sgabello del dolore.

Secondo questa fantasiosa teoria, (che, come spesso succede, ha affascinato coloro che sono attratti da tutto ciò che è enigmatico ed oscuro) il Cristo avrebbe sposato Maria Maddalena, la quale gli avrebbe dato due figli: Tamar e Gesù il giovane.

Con la famiglia si sarebbe trasferito in Francia, nei pressi di Les Pontils, dove avrebbe avuto un terzo figlio, Joseph, e dove

sarebbe morto intarda età.

A sostegno di questa loro teoria, i tre giornalisti (e qualche anno dopo Brown), chiamano in campo il famoso quadro del pittore secentista Nicolas Poussin: “I Pastori in Arcadia”, del 1.640.

In questa splendida tela  è ritratto un gruppo di pastori  che stanno osservando una costruzione a forma di parallelepipedo, la quale potrebbe anche essere una tomba. ( in zona, a Les Pontils, ve ne sono di diverse).

Secondo le indagini e le ricerche di Lincoln e degli altri due giornalisti, quella sarebbe la tomba in cui fu sepolto il corpo di Cristo.

 

La domanda che molti si pongono ancora oggi è: il Cristo è morto sulla Croce oppure no?

Per i veri credenti, la domanda neanche si pone, ma per gli altri il dubbio permane ed è astutamente e intrigantemente condotto avanti.

In realtà, con un po’ di ragionamento e qualche calcolo, i dubbi sono destinati a sparire rapidamente.

Cominciamo dal pittore.

Quando Poussin dipinse la tela, nel paesaggio scelto come sfondo non esisteva nessuna costruzione a forma di parallelepipedo o tomba che fosse.  Gli autori dei due libri, però, insistono nell’affermare il contrario.

In realtà, proprio in zona, a Rennes-le-Chateau, c’era davvero un piccolo mausoleo,  ma non era opera risalente al ‘600, bensì al ‘900. L’aveva voluto il proprietario del terreno il quale, però, dopo il successo dei due libri  e la continua invadenza di curiosi, turisti ed avventurieri in cerca di tesori (ci sono altre leggende legate a quel posto), fini per farlo demolire.

Oggi, dunque, non c’è alcuna costruzione.

Al contrario,  c’è un cartello che vieta ai curiosi di avvicinarsi e, soprattutto, vieta gliscavi.

Recita così: “ Les fouilles sont interdites” 

(Gli scavi sono proibiti)

Suggestivo ed intrigante, dunque, il lavoro di Lincoln e di Brown, ma assolutamente un falso, sia pur assai ben congegnato.

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- Filosofia

LA DONNA NELLA STORIA: Vizi e Virtù - La Fedeltà

 

Basta un solo nome per riempire un volume sulla fedeltà della donna:

 

 

Penelope

 

La figura di Penelope, casta e fedele, che aspetta trepidante il ritorno dello sposo vagabondo per il mondo con la scusa della guerra, che imbroglia i pretendenti con una tela interminabile, piace molto agli uomini.

Li rassicura.

Piace molto questa figura didonna in eterna attesa: è rassicurante. Viene presa come esempio anche in culture assai, ma proprio assai, posteriori.

Perfino oggi.

Ma era davvero così casta e fedele, la cara Penelope?

L’epoca in cui visse era quella di un Matriarcato in declino e un nascente Patriarcato. Lo testimoniano le vicende legate alle sue nozze con Odisseo, meglio conosciuto come Ulisse.

Questi conquistò la sua mano all’antica maniera matriarcale, vincendo, cioè, una gara di corsa.

(secondo altre versioni, di tiro con l’arco)

Penelope era figlia di Icario, re di Sparta, e della ninfa Peribea e, secondo le antiche usanze, era la sposa che accoglieva lo sposo nella sua casa e non il contrario. (Menelao era diventato Re di Sparta per averne sposato la principessa ereditaria, Elena).

Ulisse, invece, infranse le regole e si portò via la sposa contro la volontà del padre di lei.

Re Icario, infatti, li fece subito inseguire e Ulisse costrinse Penelope a scegliere fra lui e suo padre.

Penelope scelse Odisseo: senza una parola si calò il velo nuziale sul volto e lo seguì ad Itaca, lasciando la casa paterna e la terra di Sparta.

La figura di Penelope, in realtà, non è solamente emblematica, ma anche un po’ enigmatica, per quello che fu inseguito il suo comportamento.

Omero (ma sarà stato proprio Omero a scrivere l’Odissea? Ormai sono in molti a nutrire dei dubbi) ci parla di lei in tono brillante, bucolico ed un po’ ingenuo. Ben diverso dal tono ruvido e tagliente che si riscontra nell’Iliade, la cui paternità di Omero è indiscutibilmente accettata.

Omero ci lascia con Penelope ed Ulisse riuniti dopo venti anni di separazione: dieci di guerra a Troia e dieci di peripezie attraverso il Mediterraneo.

Penelope, però, si rivela donna prudente e diffidente, oltre che paziente e fedele: prima di concedersi al marito, vuole certezze e per questo lo sottopone alla prova del talamo nuziale e della sua posizione nella loro casa. Dopo, lo premierà generandogli un altro figlio: Polipartide; il primo era Telemaco, poco più che ventenne al ritorno acasa del padre.

Penelope è anche una donna forte e di infinite risorse. Lo ha dimostrato tenendo a freno i suoi pretendenti con vari espedienti prima del ritorno di Ulisse e lo dimostrerà pure dopo la morte di questi.

Sia Ulisse che suo figlio Telemaco, infatti, subito dopo la strage dei Proci (i pretendenti) erano stati esiliati.

Ulisse partì per la Tesprozia, per espiare la sua colpa; qui, però, sposò la regina Callidice che gli diede un altro figlio, Polirete.

Telemaco, invece, raggiunse Cefallenia, poiché, secondo un oracolo, Ulisse sarebbe morto per mano di suo figlio.

Così fu!

L’eroe fu ucciso proprio da uno dei suoi figli, ma non era Telemaco, bensì Telegono, il figlio avuto dalla maga Circe durante il viaggio di ritorno da Troia.

Telegono, che dal padre aveva ereditato lo spirito d’avventura, andava scorrazzando per i mari e finì per raggiungere Itaca.

Ulisse si preparò a respingerel’attacco, ma Telegono lo uccise.

Proprio come aveva predetto l’oracolo: in riva al mare e con l’aculeo di una razza, un aculeo di razza infilato sulla punta della lancia di Telegono.

E ancora una volta Penelope ci sorprende: trascorso l’anno di lutto previsto dalla tradizione, la Regina diItaca sposa Telegono… proprio così! Sposa l’uccisore di suo marito, figlio della rivale, la maga Circe.

E non è tutto. Raggiunta l’isola di Circe, madre del fratellastro Telegono, Telemaco, a sua volta, impalma la rivale di sua madre.

Edificante!

 

 

 

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- Storia/Mitologia

Donna nella Storia: Vizi-Virtù - Astuzia 2° par

(seconda parte)

Huthsepsut -Regina-Faraone.

Le gesta di questa regina egizia, appartenente alla XVIII Dinastia, sono un capolavoro di astuzia, temperamento e capacità: una donna che oggi nessuno esiterebbe a definire emancipata.

Era figlia di Thutmosis I e della regina Amesh e fu fatta sposare al fratellastro ThutmosisII.

I due non ebbero figli maschi, ma solo due femmine, Thutmosis II, però,  il suo erede, Thutmosis III, lo ebbe  da una Sposa Secondaria, la regina Ese.

Alla morte di Thutmosis II, avvenute in circostanze non propriamente chiare,  la regina Hutsepsut assunse la Reggenza del Paese, essendo Thutmosis III ancora troppo giovane, neppure decenne, per regnare.

Troppo poco, La Reggenza, per una donna come lei.

Huthsepsut era una donna intelligente, di grande carattere e assai ambiziosa. Era anche  molto bella e possedeva un fascino irresistibile e grandi doti di diplomazia.

Sapeva leggere, scrivere, danzare e guerreggiare: accompagnava il padre nelle battute di cacciae, si dice,  uccise il suo primo leone all’età di dieci anni.

Non si accontentò, dunque, del ruolo di Reggente e mise in scena uno di quegli intrighi di corte che solo una mente potenzialmente astuta ed audace poteva concepire.

Huthsepsut aveva creato intorno a sé una corte di funzionari fedelissimi, primo fra tutti, l’architetto Senmut, suo amante e, forse, padre di una delle sue figlie. Godeva anche del sostegno di buona parte del Collegio Sacerdotale e di quello delle più alte gerarchie dell’esercito: tutti pronti a reggerle il gioco.

Anche il principe erede aveva i suoi sostenitori, soprattutto nel corpo sacerdotale diKarnak, cui il faraone Thutmosis II aveva preferito affidarlo per tenerlo lontano dalle ambizioni della Regina, e che, inspiegabilmente, si astennero da qualunque azione.

La Regina aveva già raggiunto l’apice della sua potenza, ma sentiva il bisogno di legittimarla e di legittimare la decisione di costruire il “Milione dei Milioni di Anni”,  il suo Complesso Funerario che tutti, ancora oggi,  possiamo ammirare a Deir-el-Bahri.

Quale fu questo colpo di scena? Questo “miracolo”, come fu definito dai suoi seguaci?

 Stava, un mattino, officiando in vesti di Sacerdote Supremo, nel Tempio di Karnak, quando, tra fulmini e tuoni e saette, il dio Ammon fece sentire la sua voce attraverso il naos (tabernacolo in cui era l’effigie divina) e la proclamò Figlia-Sua  e Signora-delle-Due-Terre (Alto e Basso Egitto).

“Kem-hut-Ra (Colei che regna su Kem col favore di Ra) sarà il tuo nome – disse pressappoco la voce del Dio (probabilmente quella di un sacerdote che la sosteneva nel gioco) -  Io mi compiacerò in te.”

Kem era un altro nome con cui si designava l’Egitto.

Da quel giorno la Regina, non più Reggente e con il titolo di Regina-Faraone, si mostrò in pubblico in abiti maschili e con la barba posticcia dei Faraoni.

Era già accaduto in passato che Regine avessero usurpato il trono, ma l’avevano fatto conservando sempre atteggiamenti femminili. Era la prima volta che una Regina nelle iscrizioni si faceva nominare al maschile.

Le statue la rappresentavano quasi sempre con shendit (gonnellino plissettato) e copricapo da Re: la nemesh (triangolare ed a righe) e il pshent (casco blu da combattimento).

I testi che fece incidere sulle pareti e i pilastri del Tempio Funerario raccontano tutta la storia.

Parlano della sua nascita divina, mettendo in bocca alla regina Amesh, sua madre, il racconto del suo  concepimento ad opera del dio Ammon:

“… quando nella tua grazia ti sei unito alla mia maestà

e la tua rugiada è penetrata in tutto il mio essere…”  le fa dire.

E parla lo stesso Ammon:

“Colei che Ammon abbraccia è il suo nome

Sua la mia anima. Suo il mio Scettro

Suo il mio prestigio. Sua la mia corona

Affinché regni sui Due Paesi

E regni su tutti i viventi”

E ancora, per donarle prerogative maschili, sempre ad Ammon fa dire:

“Salute a te, Figlia mia, nata dalla mia carne

Immagine brillante uscita da Me

Tu sei un Re che reggi i Due Paesi

Sul trono di Horo, come Re.”

Il suo regno durò per quasi venti anni e fu, sicuramente, uno dei momenti più pacifici e felici di tutta la storia del popolo egizio.

Durante il suo regno, infatti, quella Regina fece erigere Templi ed Obelischi, organizzò spedizioni, istituì leggi in favore di donne, bambini e gente umile e fece molte altre cose ancora che, noi gente moderna, diremmo, degne di un Sovrano Illuminato.

 

 

 

 

 

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- Letteratura

LA DONNA nella STORIA: Vizi e Virtù - L’Astuzia

Che cos’è l’astuzia?

Non potrebbe essere la virtù di chi non ha il potere, ma le qualità per procurarselo?

Si dice chel’astuzia sia una virtù soprattutto femminile

 Ed è proprio delle “astute manovre”  di due donne che intendo parlare: la biblica Abigail e l’egiziana Hutsepsuth.

 

 ABIGAIL

 

 

Visse ai tempi di Davide, quando Davide, pur essendo già considerato l’eroe nazionale per aver ucciso Golia, non era ancora colui che per la Bibbia rappresenta il personaggio più importante dopo Mosè.

All’epoca Davide, perseguitato dalla gelosia di re Saul, s’era trasformato in un fuorilegge che aveva raccolto intorno a sé tutti gli scontenti e i malumori che caratterizzano ogni epoca. Diventato il loro capo, viveva tra i monti, taglieggiando tutto il territorio, come qualunque banda di fuorilegge, per mantenere se stesso e  i suoi seguacicon le loro famiglie: un particolare della sua vita che si ignora o si tende a minimizzare.

Fu il caso che pose sul suo cammino la bella Abigail, moglie di Nabal, che la Bibbia dipinge malvagio, ma soprattutto stolto.

Questo Nabalviveva nel territorio del Maon ed era molto, ma molto ricco: una ricchezza che attirò su di lui l’attenzione di Davide.

Davide, infatti, inviò un gruppo di uomini a chiedere al ricco Nabal di cedergli un po’ di quella  ricchezza: provviste per sé ei suoi seguaci.

Lo fece, bisogna riconoscere, con gentilezza ed educazione, ma si trattava pur sempre diun atto di banditismo… diremmo oggi.

 

Nabal, però, era un uomo assai egoista. (un antico Mastro don Gesualdo) e per tutta risposta, occupato nella tosatura delle sue pecore, fece sapere al famoso fuorilegge che non aveva nessuna intenzione di donare

“a chi non soneppure da dove venga”, acqua, pane e carne, destinati ai suoi tosatori.

Il rifiuto mandò in collera Davide che ordinò a 400 dei suoi uomini di armarsi per una spedizione punitiva molto severa e, dice la Bibbia. “.. non sarebbe rimasto a Nabal allo spuntar del giorno neppure un maschio.”

Una carneficina, insomma. Secondo l’uso del tempo.

Un servo, però, riuscì ad avvertire Abigail, moglie di Nabal.

La bella Abigail, astutamente accorta e, forse, attratta dal bel fuorilegge, indossata la veste più ricca, gli andò incontro con un carico di pani, otri di vino, carne macellata, uva passa, fichi secchi e grappoli d’uva.

Attraverso un sentiero poco battuto raggiunse Davide e gli sbarrò la strada, poi gli si prostrò ai piedi chiedendo perdono a nome del tirchio marito.

“Egli (il marito) – disse la donna – è come il suo nome: stolto si chiama e stoltezza è in lui. Io, tua schiava, non avevo visto i tuoi giovani, mio signore, che avevi mandato.”

A queste parole, la bella Abigail ne fece seguire altre: una splendida collana di astutissime e mielate parole con cui riuscì non solo a placare la collera delbel fuorilegge, ma a conquistarne il cuore.

“Ora, mio signore, – concluse – poiché Dio ti ha impedito di venire al sangue e di farti giustizia con la tua mano, siano come Nabal (cioè, stolti) i tuoi nemici… Quando Dio avrà concesso tutto il bene che ha detto a tuo riguardo e ti avrà costituito capo d’Israele, tu vorrai ricordarti della tua schiava.”

E Davide non si scordò affatto della “sua schiava”.

Provvidenzialmente morto, Nabal, per un colpo apoplettico, soltanto dieci giorni dopo, Davide, assai sensibile al  fascino femminile (come ebbe in seguito più volte a dimostrare) inviò messaggeri alla vedova, chiedendola in moglie.

Abigail accettò, naturalmente, e divenne una delle mogli di colui che da lì a poco sarebbe diventato re Davide.

 

segue: Huthsepsut - Regina Faraone

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- Mitologia

La Leggenda di Katia e Styr

 

 

mitologia nordica

 

 

La leggenda di Katia e Styr

 

 

Katia la Dolce, figlia del saggio Magnus, secondo una leggenda nordica, era ritenuta la ragazza più bella di tutta l’Islanda e per questo era da tutti corteggiata e ammirata.

 Fra i pretendenti c’era anche il feroce guerriero Styr, capo degli Sturle , un gruppo di guerrieri-banditi che terrorizzavano villaggi e contrade costringendo la popolazione ad ogni sorta di angherie.

La bella Katia rifiutò le sue profferte amorose, ma Styr non era tipo da accettare un rifiuto. Violento e prepotente, abituato ad ottenere o prendersi con la violenza tutto ciò che voleva, case, castelli e terreni e altro, non gradì per nulla quel rifiuto.

Con alcuni compagni, fra i più violenti e sanguinari della banda, irruppe nella casa di Magnus.

Magnus fu subito ridotto all’impotenza e i due giovanissimi fratelli, Gunt e Thor, accorsi in aiuto della sorella, furono barbaramente uccisi.

La povera ragazza venne trascinata via con la violenza e costretta a partecipare ad un orgiastico banchetto in suo onore.

Nel momento, però, in cui Styr, in preda ai fumi dell’alcool, si avventava sulla ragazza per violentarla, qualcosa di straordinario lo fermò: gli spettri di Gunt e Thor, che si frapposero fra lui e la sorella.

La faccia sconvolta dal terrore e dallo smarrimento, il feroce bandito barcollò e si accasciò ai piedi della ragazza.

Costretto, infine, secondo le usanze del tempo, a comparire davanti ad un Tribunale e condannato a sostenere un duello con un Guerriero-Campione, Styr,  in preda alla follia più cupa, si detta alla fuga e vagò a lungo nelle brughiere brumose d’Islanda, fino a che la morte non lo colse in maniera assai misteriosa.

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- Mitologia

La leggenda di Brunilde e Sigfrido

Brunilde era una delle più belle Valchirie, vergini-guerriere inviate, secondo la mitologia nordica, sui campi di battaglia a scegliere i combattenti destinati a morte gloriosa.

Era, però, anche la più testarda ed orgogliosa e con attitudine alla disobbedienza.

Proprio a causa di quel suo carattere, per punizione Odino, Re degliDei, la relegò sulla cima di un monte circondato di fiamme.

A salvarla arrivò l’eroe di stirpe divina, Sigfrido.

Tra i due scoppiò l’amore. Reciproco e totale che, come spesso succede, attirò sui due innamorati, invidie e gelosie.

Il cattivo di turno era il mago Hayen, vero genio del male, segretamentee follemente innamorato della bella Valchiria.

Egli riuscì con un incantesimo a dividere i due amanti.

Con un filtro magico, fatto bere con l’inganno a Sigfrido, ospite del Re dei Burgundi, fece accendere d’amore e di passione il cuore dell’eroe per la bella Crimilde, figlia del Re.

Sotto l’effetto dell’incantesimo, l’eroe abbandonò Brunilde e sposò Crimilde.

E non si accontentò di questo. Brigò e ci riuscì, a far sposare Brunilde con Gunther, fratello di Crimilde

Umiliata e offesa, la bella Valchiria finse di accondiscendere alle richieste dell’ ex-innamorato: sposò Gunther, ma dentro di sé covò una terribile vendetta: rivelò al perfido Heyen il punto vulnerabile dell’eroe.

Sigfrido, infatti, in una delle tante sue imprese, aveva affrontato ed ucciso il drago Fafnir e si era bagnato nel suo sangue, rendendosi invulnerabile. Ad eccezione della spalla sinistra, su cui si era depositata una foglia.

Proprio in quel punto della spalla fu scagliata la freccia che lo uccise.

Quando apprese dell’inganno del filtro, Brunilde, non reggendo al dolore e al rimorso, si lanciò con il cavallo sulla pira che Crimilde aveva fatto innalzare per adagiare il cadavere dell’eroe, e vi trovò la morte.

Le fiamme si alzarono e raggiunsero il Walhalla, la residenza degli Dei, Odino l’accolse a braccia aperte e dove gli spiriti dei due amanti vissero uniti e per sempre.

 

 

 

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- Mitologia

Le Valchirie

 

Valchiria!  E’ un termine che evoca oggi,  soprattutto nell’immaginario maschile, la  figura di una bellissima ragazza di origine nordica.

Le Valchirie appartengono proprio alla leggenda ed alla mitologia nordica; della Scandinavia, per la precisione. Ed erano davvero bellissime: corpi statuari e lunghi capelli dorati.

Bellissime,vergini e guerriere.

Le Valchirie erano inviate da Odino, re degli Dei, nei luoghi dove infuriava la battaglia, ad accendere i  combattimenti e scegliere i guerrieri destinati a morte gloriosa: gli Einherii.

Dai campi di battaglia, le Vergini-guerriere, dalle corazze di cuoio e gli elmi piumati,  guidavano gli spiriti dei valorosi caduti in battaglia fino al Walhalla, dimora di Odino,  in Asgard.

Il termine Walkyrie, infatti, trae la sua origine da wal, che significa battaglia e kyran, cioè, scegliere.

Terminata la battaglia, Le Valchirie guidavano gli spiriti dei valorosi caduti attraverso la “selva d’oro” di Glasor e li conducevano fino al cospetto di Odino, nel Walhalla.

Qui, per fortificarsi e rendersi invincibili, i guerrieri si cibavano del verro Sadhrimmnir (maschio di maiale dalla carne illimitata) e si dissetavano con idromele fornito dalla capra Heidrun.

Ogni giorno, sotto la guida delle Valkirie, si esercitavano in durissimi tornei per essere pronti alla lotta finale e senza quartiere che dovevano affrontare quando sarebbe giunta la fine del mondo.

Lo stesso Odino partecipava a quelle tenzoni, in sella a Sleipnir, il suo cavallo e impugnando Gungnir, la sua lancia.

Di numero non ben definito, nove o forse dodici, i nomi di queste Vergini-guerriere immortali, erano sicuramente di carattere guerresco: Gud, Hrund, Hild, ecc…

Più noto, forse, il nome di Brunilde, ma solo perché nata dal genio di R. Wagner che, per la sua splendida opera  “Le Valchirie” , compose musica e libretto, ispirandosi alla mitologia del popolo dei Nibelunghi.

 

 

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- Storia/Mitologia

I Libri Sibillini

 

Una leggendaracconta che Apollo, il bellissimo Dio del Sole, innamorato di Deifobe, labella  Sibilla da cui era statorespinto, ciò nonostante, le concesse di vivere molto più a lungo del previsto, a patto che lasciasse la Grecia esi stabilisse a Cuma, in zona partenopea.

Qui, un giorno,la Sibilla apparve a Tarquinio il Superbo, ultimo Re di Roma (vedere articolo:“Lo stupro che causò la fine della Monarchia nell’Antica Roma) e gli offrì isuoi nove Libri Sibillini in cui erano riportati oracoli e profezie.

Il Sovranoreputò eccessivo il prezzo richiesto e la Sibilla, allora, ne distrusse tre.

Re Tarquinio,ritenne ancora più alto il prezzo richiesto per quei soli sei Libri e a quelpunto, la Sibilla ne distrusse altri tre.

Solo di frontea tanta determinazione, il Re di Roma si decise ad acquistarli, proprio mentrela Sibilla faceva l’atto di distruggere gli ulteriori tre rimasti.

Il prezzo,però, rimase quello relativo a tutti e nove.

 

Tarquinio ilSuperbo ordinò di custodire i tre Testi Sibillini nel Tempio di Giove, a Roma.

Purtroppo,nell’ 83 a.C., essi andarono distrutti in uno dei tanti frequenti incendi cheaffliggevano la città.

 

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- Storia/Mitologia

La Sibilla Cumana

 

La Sibilla cumana è una delle figure più inquietanti, misteriose ed affascinanti della mitologia greco-romana.

Sibille, erano chiamate le sacerdotesse di Apollo, il bellissimo Dio del Sole, in possesso di poteri divinatori concessi loro dalla Divinità.

Vivevano in grotte oscure o in prossimità di fonti sacre e sul significato del loro nome, c’è la stessa oscurità e lo stesso  alone di mistero  che circondava la loro figura.

“VergineOscura”,  secondo alcuni, il significato del termine Sibilla, proprio perché vivevano in luoghi oscuri e misteriosi; inaccessibili. E proprio per questo, e per i loro infallibili responsi, le Sibille erano assai temute e rispettate.

La Sibilla era “posseduta” da potere divino che acquisiva attraverso il respiro di vapori che uscivano da fenditure del terreno nei pressi della grotta in cui viveva (l’Antro della Sibilla) e con libagioni di acqua  di Fonte Sacra. 

Masticava foglie di lauro, pianta sacra al dio Apollo, atto con cui suggellava la sua unione con la Divinità.

Come ogni altra Sacerdotessa, la Sibilla era la “sposa” del Dio, ma non si trattava di amplesso fisico: la Sibilla, infatti, conservava intatta la sua verginità, poiché “l’amore” di Apollo nei suoi confronti era solamente un “soffio” trasfuso in lei, conservandola nello stato di verginità.

(il concetto di Vergine-feconda ha sempre affascinato l’uomo)

La Sibilla cumana, però, conobbe un ben altro destino: beffardo e crudele.

La leggenda narra che una di queste Sibille giunse a Cuma, in Campania, nei pressi dei Campi Flegrei, dalla città greca di Eritre. Il suo nome era  Deifobe.

Era così bella, che Apollo se ne innamorò follemente e le promise, in cambio di sesso, che avrebbe esaudito ogni suo desiderio.

La Sibilla si chinò a raccogliere un pugno di terra e chiese ad Apollo di concederle divivere tanti anni quanti erano i granelli di terra raccolti.

Apollo acconsentì, ma la ragazza gli si rifiutò.

La vendetta di Apollo fu terribile: le concesse di vivere, ma le negò la giovinezza: settecento anni.

Con il passar degli anni, Deifobe divenne sempre vecchia e più piccola; quanto una cicala.

A chi le chiedeva quale fosse il suo desiderio, rispondeva con voce triste e sconsolata:

“La morte!”

Apollo, infine, le concesse di morire.

Morale?…  Forse che una vecchiaia troppo lunga è anche troppo triste!

 

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- Letteratura

L’ULTIMA CENA del GLADIATORE

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