chiudi | stampa

Raccolta di articoli di Martina Dell’Annunziata
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

- Cinema

Diario di un maestro di Vittorio De Seta

“La sua è una classe di risulta”, asserisce con convinzione la vicedirettrice all'arrivo del giovane maestro Bruno D’Angelo. Nel quartiere romano di Tiburtino Terzo la scuola, squallida e sporca, assomiglia ad una prigione mandamentale. Si dettano regole, si rispettano pedissequamente le procedure burocratiche, ma persino fra gli insegnanti regnano disordine e rassegnazione. Neppure sono incoraggianti le prime impressioni avute in classe, a lezione, nella quinta elementare che gli è stata assegnata. Gli studenti appaiono svogliati, pronti all’insulto e alla lite, disinteressati ad ogni argomento che, nel migliore dei casi, è rimasticato goffamente e ripetuto a memoria. La sfida che il maestro è chiamato ad affrontare non può essere che questa: salvare i suoi piccoli alunni dalla dispersione.

Ma come superare la percezione che la scuola, con i suoi astratti insegnamenti, con i suoi maestri indifferenti, sia del tutto estranea alla vita? Senza esitare a prendersi qualche rischio col direttore, Bruno D’Angelo si dimostrerà formidabile nell’impresa di ribaltare i rigidi schemi imposti dalla verticalità del rapporto allievo-maestro (emblematica, ad esempio, la riutilizzazione della cattedra come libreria), per andare alla ricerca dei ragazzi non frequentanti e delle loro famiglie, perseguendo il solo obiettivo di dare sostanza ad un’autentica comunità umana, senza autoritarismo né competizione.

Diario di un maestro (1973) di Vittorio De Seta è un capolavoro immeritatamente dimenticato. Ispirato all’opera autobiografica di Albino Bernardini, Un anno a Pietralata (1968), il film-documentario registra l’esperienza del costituirsi di una scuola che non è pensata per accogliere solo “i figli dei dottori”, bensì per porsi come antidoto e come lotta contro la sensazione di sentirsi ai margini, di credersi meno di quel che si è. Per questo "maestro di strada" un bambino non è un problema didattico, ma un patrimonio di istinti, di interessi e di slanci che la routine scolastica troppo spesso rinnega.

La scuola descritta da De Seta e Bernardini è la scuola che combatte contro i rischi della regressione. E non possiamo che sorridere, fors'anche amaramente, di fronte ad una scena che sembra parlarci dal passato: quella in cui il maestro D'Angelo, aiutato dai suoi alunni, fissa una cabina di plexiglas in aula. Per farne insieme un vivaio di lucertole.

 

***

MD

*

- Cinema

Prova d’orchestra di Federico Fellini

Prova d’orchestra, di Federico Fellini (1979).

 

Un’antica chiesa del Duecento viene allestita ad auditorium per le prove di un gruppo di musicisti. Arriva la televisione a realizzarne le riprese, chiedendo il permesso di intervistare gli orchestrali. Vi si aggiunge anche un sindacalista, a garanzia del rispetto dei diritti di tutti i professionisti presenti. Ma scioperi e proteste contro lo spietato direttore dell'orchestra sono appena dietro l’angolo.

Ogni strumento, infatti, ha le sue ragioni per sentirsi il migliore, il più importante, l’elemento (in senso greco, il fondamentale) di cui non si può fare a meno. C’è chi confessa all’intervistatore invisibile che avrebbe voluto girare il mondo, cavalcando il proprio sogno di solista, vivendo della propria arte; e, invece, ci si scopre miseramente aggrappati ad una quotidiana prova di coralità.

Se nel cuore di ogni orchestra si agita un desiderio di anarchia e di fuga verso il caos, la musica è un rito di transustanziazione: solo il direttore, despota per necessità e sacerdote per virtù, possiede la chiave che conduce fuori del silenzio senza passare per il rumore, trasformando un complesso di materialità in un’armonia intangibile. 

Così, l’autorità, dapprima respinta e sovvertita, è presto restaurata. Nel mezzo, un impulso di rivoluzionaria libertà divenuto distruzione, terrore sanguinario e sacrificio dell’arpa, davvero il più “apollineo” degli strumenti musicali. Infine, come un deus ex machina, è una minaccia esterna  – una palla di ferro demolitrice lanciata contro una parete dell’auditorium - a rimettere i musicisti in riga e il direttore sul podio, e il concerto può a quel punto ricominciare.

Prova d’orchestra di Federico Fellini è quasi un saggio “polibiano”: la rappresentazione estetico-politica (giacché “politica” è ogni forma di pluralità) di un’anaciclosi. Ne viene fuori il ritratto, fellinianamente simbolico, di un’umanità più capace di azioni “circolari” che di svolte, più prevedibilmente contraddittoria che inafferrabile. Ed è forse questo l’unico enigma su cui possiamo riflettere: «Ma dove va la musica quando non suoni più?».

 

**

MD

*

- Letteratura

Le voci di dentro di Eduardo De Filippo

Le voci di dentro, di Eduardo De Filippo (1948).

 

Alberto Saporito si presenta a casa dei suoi vicini, i Cimmaruta, insieme a suo fratello Carlo, accusando l’intera famiglia della morte dell’amico Aniello Amitrano. Alberto denuncia alla polizia l’atroce delitto di cui ritiene di poter fornire sicure prove: le lettere scambiate tra Amitrano e Matilda Cimmaruta, una camicia insanguinata ed una scarpa sarebbero state accuratamente nascoste dietro una vecchia credenza.

Improvvisamente rinsavito, Alberto si rende conto di aver sognato l’assassinio e di non essere neppure certo del suo sogno; tuttavia, sebbene ritiri la denuncia, uno ad uno i membri della famiglia Cimmaruta gli fanno visita, accusandosi reciprocamente del delitto.

Inserita nella Cantata dei giorni dispari, Le voci di dentro indaga la difficile, quasi impossibile, costruzione di un’autentica relazione fra gli esseri umani, pronti ad uccidere e tradire gli affetti più cari pur di salvare se stessi.  

“Sono assai i morti, più i morti che i vivi”, dice Alberto Saporito a Pasquale Cimmaruta: morti fra i vivi, infatti, sono coloro che non prestano ascolto a quella scomoda “voce di dentro” che è la voce della coscienza. Il discorso interiore – “il dialogo silenzioso che l’anima svolge con se stessa” (Platone, Sofista) - è ciò su cui si fonda ogni discorso esteriore, ciò che rende possibile l’esistenza di una comunità umana, sembra voler dire, quasi platonicamente, Eduardo.

 Il silenzio, allora, è l’altro protagonista della commedia, impersonato dall’enigmatico e stravagante Zì Michele, o’ sparavierze. Chiusosi in un mutismo irrevocabile, Zì Michele “non parla, perché non vuole parlare”, vive isolato in una sorta di palafitta di legno nel deposito di sedie dei fratelli Saporito e si esprime soltanto attraverso un particolarissimo codice segnaletico, ossia lanciando granate, botte e girandole, convinto che solo la "verde" morte, quando arriva, dia il via libera.

Una segreta fratellanza lega Zì Michele ad un personaggio uscito dalla penna di Calvino, il signor Palomar. Come o’ sparavierze, il signor Palomar, uomo taciturno di temperamento contemplativo, rivendica il primato dell’arte del tacere sull’arte del dire. “In un’epoca e in un paese in cui tutti si fanno in quattro per proclamare opinioni o giudizi, il signor Palomar ha preso l’abitudine di mordersi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione” (Italo Calvino, Palomar).

Pur passando settimane e mesi interi senza proferire parola, Palomar però ci avverte: anche il tacere può essere una colpa in tempi di generale silenzio.

 

***

MD

*

- Cinema

Il racconto dei racconti

Il racconto dei racconti di Matteo Garrone (2015).

 

Una immaginifica rivisitazione di un capolavoro della letteratura in lingua napoletana, un «Pentamerone» del Seicento dal quale hanno tratto la propria opera i più ingegnosi autori del genere fiabesco, dai fratelli Grimm ad Andersen.

 Eppure, Lo cunto de li cunti, overo lo trattenemiento de peccerille - questo il titolo completo non è una raccolta di fiabe per bambini. Gianbattista Basile scrive per un pubblico di cortigiani, «uomini letterati ed esperti e navigati», offrendo loro narrazioni in cui trovare leggerezza e diletto, ma anche il guizzo di più acute riflessioni sul proprio tempo (anche Basile fu contagiato da un’epidemia che colpì Napoli fra il 1630 e il 1631.). Un libro vivo e più che mai attuale, che apre squarci sulla segreta complicità di amore e morte, sul sentimento del tempo che sgretola e corrompe tutto ciò che tocca, su un mondo umano che dà mostra di sé in variegate e sempre nuove forme, in cui, tuttavia, non possiamo anche noi non riconoscerci. Il barocco, con le sue fate silvane e i suoi orchi ripugnanti, abita ogni pagina di questi racconti dall’insolito piglio ironico e «vi esegue una sua danza allegra […]: fu già torbido barocco, ed è ora diventato limpida gaiezza» (B. Croce, Il Pentamerone ossia La Fiaba delle Fiabe).

 La trasposizione cinematografica di Garrone è la libera messinscena di tre dei cinquanta racconti del Basile rivisitati in chiave horror-fantasy: La regina, La pulce e Le due vecchie, tre storie di donne ambientate fra i più evocativi paesaggi della nostra penisola. Un viaggio fra malizie e crudeltà, storture fisiche e travagli interiori di personaggi che appaiono tanto più seducenti quanto più se ne esaltano i tratti grotteschi e stravaganti.

 

***

MD  

*

- Poesia

Piste ulteriori per oggetti dirottati di P. P. Del Giudice

 

Dare un titolo alla propria opera è uno dei momenti più drammatici del lavoro dello scrittore.
Quando Pasquale mi ha mostrato una lista di titoli possibili da dare alla sua raccolta, ho pensato subito che “Processi di accumulazione” fosse perfetto per le sue composizioni. La scelta è infine caduta su “Piste ulteriori per oggetti dirottati” che, mi sembra, consenta di presentare nel modo più chiaro al lettore intenti e prospettive delle prose-poesie che compongono il volume.

 

1. “Innamorato dell’inanimato […], torno sulla strada dell’immaginazione” 

Così si legge ne Le discrete nozze (P. P. Del Giudice, Piste ulteriori per oggetti dirottati, Ensemble, 2019, pp. 107, qui p. 104). L’operazione fondamentale che la scrittura di Del Giudice realizza è infatti la restituzione della poesia alla sua matrice originaria, la fantasia. È mediante la riabilitazione della facoltà immaginativa che si compie l’istituzione di un rapporto nuovo col mondo. Nel rinnovato colloquio con gli oggetti, ogni ente è riscoperto come il centro di un’infinita rete di combinazioni possibili; esso sta lì, davanti a noi, pronto per essere “dirottato” in insoliti contesti, lungo “piste ulteriori” non ancora tracciate. L’oggetto rappresenta l’occasione per ristabilire un rapporto non utilitario con la sfera delle cose o, piuttosto, si potrebbe dire con buona pace di Montale, che è lo sguardo del poeta ad offrire agli oggetti l’occasione per rivelare tutto l’impensato in essi presente. C’è una nascosta parentela fra le cose, una segreta fratellanza del simile e del dissimile, che la poesia consente di riscoprire: ciascun elemento del reale, ricorda il poeta, trascina dietro di sé «l’altro latente, il somigliante, il sosia» (p. 9). L’ovvia datità dell’Universo perde così la sua compattezza per lasciare spazio all’ «ambiguità della fantasia».

Ci si accorge allora che non è lecito chiudere la conoscenza del mondo in formule definitorie: «Cosa non sono e cosa non hanno pensato di essere/ queste due bottiglie di plastica/ sono la cosa che più mi interessa, /cosa loro non sanno di poter diventare/ deformando la loro figura». (Le due bottiglie, p. 57)

 

2. “Ogni cosa è andata in pezzi in modo particolare”

Nei versi di Del Giudice l’atto poetico è uno strumento, forse l’unico concesso all’uomo, per riprodurre il gesto della creazione. Sostituirsi al Creatore vuol dire anzitutto dis-fare ciò che è già stato prodotto. L’immaginazione rivela dunque tutto il suo potere divino, ma anche tutto il suo potenziale destabilizzante e decostruttivo. Ne La caduta dei gravi si legge: «Ho lasciato cadere una tazza/una scorza di pane, uno specchietto,/ una mela, un pomodoro, un pompelmo/ poi un telefono, un sacchetto di arance/ poi un’anguria, della pasta/dal decimo piano di un palazzo,/ ogni cosa è andata in pezzi/ in modo particolare […], (p. 31).

La poesia non deve essere pacificante se vuol stare nel presente, se aspira ad offrirsi all’uomo come un’ulteriore pista essa stessa, per la comprensione del reale, alternativa al ragionamento logico e al sentimento. Un’inquietudine di fondo percorre infatti queste “composizioni”. Le chiamo così, composizioni, perché esse si strutturano come catene di immagini che, verso dopo verso, si inseguono fino a comporre un montaggio. I “fotogrammi” si avvicendano descrivendo itinerari poetici imprevedibili, eppure non casuali. L’immaginazione risponde a certe regole che le appartengono in modo esclusivo e che ben poco hanno a che fare col “caso”. Solo così la poesia può esser davvero un “sogno creatore” (p. 9).

 

3. Poetico, impoetico, metapoetico

Come ho precedentemente affermato, “Processi di accumulazione” mi era parso un titolo efficace per designare i testi di Del Giudice. Questi “racconti” in versi, che si snodano per pagine e pagine nel fermo rifiuto della brevità, sostenuti da un linguaggio asciutto, che nulla concede agli eccessi dell’enfasi e del lirismo, sono carichi di immagini di vita e di morte, di trasfigurazioni e movimenti, di “violenza” e rassicurazione, di macerie e momenti inaugurali. Tutto si deposita nel verso, nello sforzo inesausto di riempire un vuoto, di rispondere alla percezione di un’assenza, di un punto di non ritorno del mondo, di una mancanza fondamentale, a cui, alla fine, non si può fare altro che rassegnarsi. Così anche la poesia entra nella poesia e il poeta, acciuffando se stesso per i capelli, si fa metapoeta. «Il metapoeta mostra che in realtà non si ha granché da dire». (Cfr. Una poesia su chi scrive metapoesie, p. 65). Siamo nel tempo in cui tutto è stato già detto, in cui ogni arte, inclusa la poesia, pare essere condannata solo a riflettere su se stessa, ad autocontemplarsi non si sa bene come, se con compiacimento o disperazione.

E allora sarà forse meglio non prendersi troppo sul serio ed esercitarsi a quella “divina indifferenza” portata in dote dall’ironia. I versi di Del Giudice ci ricordano soprattutto che immaginare è anche l’arte di saper prendere le distanze dalle cose e, auspicabilmente, da se stessi.

 

 

Martina Dell'Annunziata  

*

- Letteratura

E come il vento: l’Infinito di Davide Rondoni

      Studiavo per l’ultimo esame all’università. L’ultimo che non è mai ultimo se si tratta di esami. Sfogliavo e risfogliavo le pagine del mio bel librone di logica. Formule, teorie, definizioni epigrafiche. Mi sono imbattuta nel teorema di Cantor, che recita più meno così: “Per ogni insieme di elementi è sempre possibile trovare un insieme con un numero maggiore di elementi, e ciò vale sia per gli insiemi di numero finito che per l’infinito”. Per l’infinito? Esistono insiemi infiniti maggiori di altri infiniti?

      Non ho mai avuto il dono di una mente matematica, per cui non ero sicura di aver capito il significato di quel teorema. Con l’infinito il cortocircuito del pensiero è davvero inevitabile, ma quando gli infiniti sono addirittura molteplici, che fare?

    Decisi di prendermi una pausa e di ricorrere ad un altro Infinito, quello più famoso, poetico, filosofico - e forse matematico esso stesso - quello “cantato” dell’amato poeta recanatese. Ho riletto con attenzione i versi di Leopardi quasi interrogandoli, perché mi sovvenissero a chiarimento, a illuminazione di un concetto che si agitava confuso nella mente. Scoprii poco dopo che la matematica risiede in un luogo non altrove della poesia, per usare le parole di Davide Rondoni e del suo originale libretto dedicato all’Infinito leopardiano. Non amo lasciarmi lusingare da ingenue teleologie, ma per una strana coincidenza di bicentenari, nuove uscite editoriali e sessioni universitarie, la lettura di questo testo ha accompagnato, intervallandole piacevolmente, quelle ore di studio. Ne ho tratto una nuova immagine del poeta, del suo idillio in versi ed anche di Cantor, che a suo modo pure ha tentato di di-mostrare ciò che già era effettivamente presente nelle parole di Leopardi.

     E come il vento. L’infinito, lo strano bacio del poeta al mondo di Davide Rondoni (Fazi Editore, Roma 2019, pp.166, euro 15) non è un testo di critica filologica-letteraria come si potrebbe auspicare dalla bella copertina, in cui il manoscritto autografo dell’Infinito si offre immediatamente alla vista del lettore. Rondoni propone piuttosto una passeggiata intorno all’infinito, il suo è un perì apeìrou alla maniera greca, un dialogo a più voci, in cui l’autore esplora e scopre con il lettore qualcosa di profondamente umano, di sorprendentemente quotidiano, nell’esperienza dell’infinito.

  Molti pensano che l’idillio leopardiano sia una poesia di pura estasi o quasi di geniale rimbambimento, qualcosa come un’istantanea fotografica, un lineare momento di rapimento e naufragio.

  Invece succedono un sacco di cose nel corpo e nel testo di questa poesia. […] Molti pensano dunque di conoscere L’infinito. Anche io lo pensavo. Invece si scopre sempre qualcosa. (p.21)

   Ed io ho scoperto che molti sono gli infiniti che Leopardi osserva, ascolta, contempla, insegue nella totalità di un’esperienza, quella poetica, che non lascia fuori nulla del corpo e nulla del pensiero: infinito è lo smisurato «sempre» dell’incipit «Sempre caro mi fu», in cui si nomina l’intensità di un rapporto affettivo, quello che ognuno di noi conserverà «per sempre» con i luoghi natii, infinito è «l’ultimo orizzonte» che non possiamo vedere, e tuttavia presentire nella potenzialità di un progetto, o di un’ulteriorità segnata e segnalata da un limite, «questa siepe», che copre ed allo stesso tempo dispiega «interminati spazi», che altro non sono per noi che innumerevoli possibilità di realizzazione, perché, afferma Rondoni:

Forse avviene qualcosa di simile a quanto dice Pavel Florenskij: «La persona è un infinito in atto che si deve svelare, è un infinito in potenza che deve crescere». (p.145)

   Infiniti sono ancora «la profondissima quiete» e «i sovrumani silenzi» che l’immaginazione non può concepire, perché il suo dominio è la visione, che sorge e si consuma nel suono della vita:

Il suon di lei… Dell’epoca, dell’attualità. La vita ha un sound, un ritmo, una canzone. Ogni lingua lo ha, Leopardi ne scrive. E la presente e viva non ha il medesimo di ieri. Sotto, per così dire, c’è il silenzio, quell’infinito e sovrumano silenzio. (p.157)

   Leopardi, come il Cantor delle mie ore di studio, solo qualche anno prima del matematico tedesco - che «aveva cercato una via per considerare un infinito in potenza e un infinito attuale» -, scopriva che l’infinito può darsi come la qualità di un rapporto, il quale non è necessariamente un fatto misurabile, e che pure accade come un avvenimento-segno del nesso indissolubile che lega visibile e invisibile.

     E come il vento, scrive Rondoni con il poeta di Recanati, e forse si potrebbe dire che «è come il vento» l’infinito che si fa presenza nella poesia di Leopardi. E come il vento Rondoni soffia sull’Infinito, lasciando che esso sia così com’è, senza nessun appesantimento, senza nessuna pedanteria. Ci gira intorno, lo porta nel fatto autobiografico, nel ricordo di vicende personalissime, ora cedendo al proprio sentire, ora ritrovandolo in una delle tante epifanie che punteggiano il quotidiano, lungo un sentiero dall’andamento circolare, in cui l’infinito diviene centro e punto equidistante da ogni altra possibile pista tracciata dal pensiero.

    «Il pensiero umano somiglia a Napoli» - dice Rondoni -, ricordando una città in cui Leopardi scelse di abitare fino alla fine dei suoi giorni. Il pensiero de-linea circuiti, tratteggia itinerari imprevedibili, a volte smarrendosi in un «naufragio» che prima «spaura», poi «è dolce», perché destinato a ritrovare una rotta, a cavarsela ancora una volta.

 

Martina Dell'Annunziata

 

*

- Poesia

Il Canzoniere dell’assenza di Antonio Spagnuolo

Nel Canzoniere dell’assenza di Antonio Spagnuolo (Kàiros Editore, Napoli 2018) la poesia assume i toni di un’elegia senza appesantimenti, in ricordo della donna amata, moglie e compagna di una vita. Posta al centro di un fluire incessante di immagini che, mentre tentano di restituire lampeggiamenti appena visibili di antiche memorie, sfumano in contorni indistinguibili, Elena è l’algos ed il nostos, la lontananza infinita e l’infinito ritornare, cui il poeta offre i suoi versi.

L’assenza si tramuta così in una presenza pervasiva, ma intangibile, si svela come un’epifania quotidiana, eppure rivelatrice di significati sempre ulteriori, perché grande ed inesauribile è ‹‹il mistero del dopo›, che il poeta non smette di interrogare. Un’interrogazione a cui mai è anteposto il sentimento della rassegnazione: che non possa proprio Elena, e per una sola ultima volta, riappropriarsi della parola e rispondere a chi la invoca, rompendo il silenzio dello spazio domestico, ‹‹dove tutto è memoria››? Come l’Ulisse cantato da Tennyson, che tornato a Itaca dopo tanto peregrinare sa di doversi preparare al più imprevedibile dei viaggi, il poeta sfiora l’idea che ci sia ancora una terra da conquistare, un ignoto da rischiarare, e che la morte non sia la fine di tutto (‹‹death closes all…››).Il tempo del calendario, su cui è segnata ‹‹…con matita a colori/ una data per non dimenticare/ la stagione che ripete l’inganno››, appare tuttavia come un conto alla rovescia, non per stanchezza della vita -  una vita lungamente e pienamente vissuta, e da cui, certo, non si potrà trarre che un felice resoconto -, ma perché quel tempo tutto interiore, quella distensione dell’animo che è l’esistenza spirituale dell’uomo, sembra cristallizzato, fermo ad un’attesa, sebbene ancora capace di scandirsi in entusiasmi, in accensioni improvvise, in nuove illusioni.

Strettamente congiunto al tema fondamentale della memoria è, pertanto, il tema dell’inganno. Se il ricordo è il solo possibile varco attraverso cui tentare un ricongiungimento con l’amata, d’altro canto esso riemerge continuamente dalle polveri, e giorno dopo giorno si assottiglia, sbiadisce in dissolvenze, e forse tradisce la verità delle cose in configurazioni imprecise, quasi irreali. Ma se la memoria è ripetizione ingannevole del passato nell’illusione del presente, è proprio nel ripetersi dei ricordi che il poeta ritrova il filo conduttore dell’intera sua vicenda interiore, sorprendendosi di scoprire che qualcosa è pur sopravvissuto al tempo: ‹‹ Non immaginavo che l’amore / avesse il potere di sopravvivere anche dopo,/ dopo che il tuo profilo abbandona le forme…››.

Una lirica moderna la poesia di Spagnuolo, in cui il racconto di un’interiorità inquieta è restituito con una sincerità non comune, e in versi altrettanto limpidi, misurati, affidati ad un linguaggio musicale, su cui viaggiano rapide sovrapposizioni di immagini. E proprio nel punto in cui lo sforzo introspettivo coglie tutta la fragilità della condizione umana, nessun artificio interviene a mascherare ciò che ‹‹a tanto caro sangue›› lo Spagnuolo poeta - e dietro di lui lo Spagnuolo medico -  ha potuto comprendere di sé e dell’uomo, attraverso quell’esperienza privata del dolore e della separazione, in cui ogni altro lettore potrà dunque ritrovarsi, ‹‹perché l’assenza è universale››.

 

Martina Dell'Annunziata

*

- Poesia

I Canti territoriali di Pier Luigi Bacchini

Una poesia come etologia quella che Pier Luigi Bacchini propone nella sua raccolta Canti territoriali (Mondadori, 2009, pp. 99, euro 14). In una nota riportata a margine dell’omonimo componimento, è lo stesso Bacchini ad offrire una fondamentale direzione di lettura dei suoi versi: in ambito etologico si definiscono «territoriali» i canti d’amore e di guerra degli uccelli. Ma «territoriale» è forse l’aggettivo di cui l’autore si serve innanzitutto per dichiarare il suo radicamento alla terra, proprio quando l’età che avanza suggerisce la transitorietà di quest’ appartenenza, l’inevitabile ritornare all’humus, da cui faticosamente l’uomo si è messo in cammino verso la storia, fatta di posture erette, evoluzioni, ma anche di rovinose ricadute. Così, neppure il poeta può sottrarsi alla gittata di una legge che scandisce gli eventi in sequenze di corsi e di ricorsi, e il suo compito non può essere quello di chi tenta l’apertura di varchi nella metastoria. Qui abbiamo dalla nostra parte tutta la Scienza nuova di Vico, e la più antica lezione di Lucrezio, tanto apprezzato dal filosofo, e alla cui fonte anche Bacchini dichiara di abbeverarsi.

 

 Dunque non c’è nulla fuori della storia, perché essa è la stessa natura, ed è la terra con tutti i suoi abitanti. Un gioco di interferenze definisce la «tremenda concretezza del mondo», nel bel mezzo della quale sta il poeta, come clinico e diagnosta di uno stato di cose che, fuor di idillio, per essere descritto abbisogna della complessità di tutti i linguaggi possibili, di tutte le esperienze possibili: «Ho tolto l’abito/ alla serena e tumultuante bellezza/ per investigare le impalcature» (cfr. Il legame). La scienza della natura assorbe l’antropologia come una fra le sue branche, smascherando l’illusione umanistica che all’uomo soltanto spetti la misura del reale: anche «l’amorosa erba/ striscia sputando veleno» (cfr. Iniziazione), persino il goffo caudato pavone «grida miti, sottratti/ alla buia sordità» (cfr. Disposizioni per flauto), ed ogni elemento, ed ogni creatura si scoprono parte di un’intricata lotta, «che il dolore ci svela lungo gli anni».

Il poeta non può che riattrezzare il suo strumentario, e confidare in un’alleanza collaborativa di sensibilità e pensiero, di mano e psiche («Questo arto, la mano/ è la mia psiche dalle cinque dita» - cfr. Il mio strumentario), secondo quella lezione dell’embriologia che descrive come tessuto nervoso e tessuto muscolare abbiano origine e struttura comune. E proprio grazie agli studi giovanili presso la facoltà Medicina Bacchini ha maturato un linguaggio dalla precisione chirurgica e una personalissima visione poetica, in cui il mondo appare come un grande corpo anatomico («I rametti in alto paiono dendriti/ e l’insieme ricorda un effettore» - cfr. Studio di paesaggio con anatomia), un organismo in cui ogni elemento svolge funzionalmente la sua parte, rispondendo ad un determinismo sempre compromesso col caso, con la variabilità, con l’ulteriorità di fantasiosi scenari.

 

 La partitura del cosmo si rinnova in ogni momento lungo andamenti imprevedibili. Ed ecco allora che quel canto, a cui si allude nel titolo della raccolta, non può essere compreso semplicemente come un’allegoria etologica del canto del poeta. La poesia che Bacchini ci offre vuole intercettare il discorso musicale della creazione, una creazione continua, in cui divino, umano, vegetale, animale si fondono nel ritmo evolutivo, in un rigoroso armonium, che non esclude clamorose stonature, e in cui nessun suono sembra prevalere sugli altri. Solo «l’apparizione improvvisa di una voce di contralto» (cfr. Discorso musicale) adombra una gerarchia possibile di suoni, e segnala il riemergere di un minimo-lirico del poeta a cui torna da lontano, nell’epifania del ricordo, la voce antica e materna di un canto familiare - (si riniva alla raccolta Canti familiari del 1968, con la quale i Canti territoriali qui presentati si pongono in un dialogo a distanza, definendo la singolare parabola poetica di Bacchini nel panorama della poesia contemporanea). 

 

Martina Dell'Annunziata