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Raccolta di articoli di Massimo Sannelli
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Letteratura

Carmen Consoli Reloaded

“Ora e qui / ridurre in cenere / la materia bastarda. Era / vano l’esercizio di virtù. / La passione / indefinibile / divorò l’esistenza, ma non / è indispensabile / disimparare la vita. / Io voglio che al primo dolore / corrisponda una nuova potenza / desiderabile. E sublimare uno scheletro / non serve più a niente. / Rinuncio ad amare la morte, / quell’idea di una piccola pace / desiderabile. / Agire con impeto cancellerebbe / una lunga distruzione. / Non si può / restare fragili / artisti mentali. Adesso / la rivoluzione viene, / non è più / una cosa impossibile / vedere la grazia / carnale e tenera / di un minuto di pace. / Io voglio che al primo dolore / corrisponda una nuova potenza / desiderabile. E sublimare uno scheletro / non serve più a niente. / Rinuncio ad amare la morte, / quell’idea di una piccola pace / desiderabile. / Odiare con impeto cancellerebbe / una lunga distruzione”.

Tutto questo si scrive e poi si canta sulla melodia dell’Eccezione di Carmen Consoli.

Ma io perché faccio queste cose?

Ora rispondo, e la prima risposta è una specie di aforisma: “giocare” non è sempre un sinonimo di “fare”, soprattutto se uno gioca qualche decennio dopo l’infanzia.

Chi scrive pubblicamente è fatto per scrivere, come una macchina funzionante: quindi non si nega a nessuno, e non si nega mai, ma non si nega niente. Le canzoni rifatte a mo’ di poesie impegnate sono slanci nel mondo dell’apparenza, cioè nello spettacolo.

Lo spettacolo vive gloriosamente e gioiosamente, anche con fatica.

Così va bene.

E poi mi spingerò fino ad un piccolo punto odioso? E dirò che i miei esercizi di metrica sono poesie, e queste poesie sono contenutistiche? Non lo dirò mai. La fame inghiotte tutte le situazioni, anche quelle metriche, e per questo addenta anche Carmen Consoli. La mangia, la assimila, la adotta. Perché no? La situazione è molto pratica, come deve essere: si agisce per un risultato oggettivo e la spinta è sempre un po’ agitata. La fame è fame, come sa chi la prova.

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- Cinema

Il Duca Sottoponte si rivela

Narciso? Perché no? E (piccolo o grande) porco? No. Vanesio? Ora ci penso. Esaltato? Sì, esaltato, ma in senso buono. E non porco, davvero. E così addio al linguaggio, naturalmente. E alla cultura che sembra cultura (e pesa): la cultura non deve sembrare cultura, la cultura deve essere quella popolare & sonora (e accesa), & simpatica, e adesso metto un punto. Addio al linguaggio impopolare, e io vi dico: c’è un film delicato, si chiama “Il rivoluzionario”, ci ho lavorato, anni fa, ora la gente lo vede e la gente lo ama, la Cineteca di Rimini, oh sì Rimini-Rimini, si riempie. È gente gentile, ma il regista, il regista, che cosa farà il regista? Continuerà bene. Si chiama Denis Astolfi.

Io volevo la gente gentile, non la gente sottile, c’è differenza e contraddizione. E anche quella non gentile, ma volevo qualcuno. E gli artisti godevano senza pubblico, godevano e godevano, ma io mi chiedevo, fino al mezzo del cammino della mi’ vita: dove sono? Dove sono finito? Sono finito?

Sarà stato il 2009. Preparavo il mio Dante: quello è il commento che annulla tutti i commenti (dico: annulla i MIEI commenti; perché non commenterò più nulla). Era il 2009, annus Domini, e volevo cambiare la mia vita. Ti va?, disse la bambolina, l’anima bella. Oh sì, mi va, e non si può contraddire l’anima. Risposi.

E così tanto lamento per nulla, alla fine.

E tanto nulla per non lamentarsi delle cose vere, all’inizio.

E tante cose vere per amare il passaggio, che non fu facilissimo, ma fu felice. Parlo di ora.

Non dissi “me ne andrei” e “lo faccio, sai!”, e “vedrai! Vedrai!”. Lucidamente o niente. Lucidamente, allora, e con rabbia, tanta e sempre. Allora me ne andai e feci bene, via dalla vecchia (vita), via dalla morte, via e basta. Andai a Rimini per un mese e diventai un barbone, poi un barbone ripulito, cioè un Duca: il Duca Sottoponte. Non vi dico “Trouvez Hortense”, come Rimbaud. È molto più facile dire: cercate – e vedete – il Rivoluzionario. E vedrete anche me, prima lurido e poi ripulito. “Vedete” è un dolce imperativo, “vedrete” è l’annuncio di un piccolo premio.

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- Teatro

Risposte alle domande di Peter Brook (2)

La recitazione è differente dal normale comportamento?

Ho notato i corsivi, Maestro. Lei voleva mettermi di nuovo in difficoltà. Questo discorso sulla recitazione non si alza dal livello teorico. La recitazione è sempre la recitazione di qualcosa e – nel caso del teatro rappresentativo – è la rappresentazione di un ruolo. Franco Graziosi che interpreta Cotrone (in costumi di scena, in una scenografia, con altri attori, sotto la regia di Strehler) non è Corrado d’Elia che interpreta gli scriti di Strehler (vestito normalmente, da solo, senza scenografia, senza regista all’infuori di d’Elia). Eppure Franco Graziosi e Corrado d’Elia recitano. Il verbo è lo stesso, recitare, ma il fatto è diverso.

La recitazione che fa di Graziosi un Cotrone non è la recitazione che fa di d’Elia uno Strehler. La recitazione di Graziosi è “differente dal normale comportamento”; e – sempre in casa di Strehler – la Ilse di Andrea Jonasson non ha nulla – ma proprio nulla – del “normale comportamento”: sia per come la parte è voluta da Pirandello sia per come la interpreta Jonasson. Voglio dire che la recitazione o si mostra nella casistica – e noi giudicheremo la casistica – o è un’astrazione.

 

Qual’è la differenza tra un attore e un non attore?

Nessuna: sono umani. Ma l’attore è un professionista, il non attore fa un’altra professione. A certi livelli, l’attore – Artaud, Bene – si dissocia dall’umanità. Naturalmente è un modo di dire, come è un modo di dire l’immortalità di Gino De Dominicis.

Eppure.

Eppure le esigenze umane sono superabili. C’è chi pensa di poterlo fare, e nel momento stesso in cui lo sa, deve “cessare di saperlo” (come Martin Eden quando passa a miglior vita), salire al Mistico, tacere, muto e morto, stop, fine.

Di un attore io dico solo: funziona? Va bene. Dà più svantaggi che svantaggi? Perfetto. E poi mi chiedo sempre: quali sono le condizioni? Queste o quelle. Bene. In queste condizioni io chiamo Alvaro Vitali, in quelle chiamerò un altro. A Ninetto Davoli, ad Alvaro Vitali, a Pierluigi Zerbinati, io chiedo solo ciò che possono fare. Mi accontento dei loro limiti e ci faccio il meglio che posso. Possono trasumanare e superare i loro limiti, sotto una regìa carismatica, ma è un sorpasso illusorio: i limiti sono superabili all’interno di una gabbia precisa di possibilità. A me va bene così.

 

Come può un attore, senza alcuna formazione psicologica, comprendere in modo diretto il funzionamento della psiche umana?

Maestro, lei mi mette di nuovo in difficoltà. Prima di tutto, e davvero in principio: non è necessario avere una “formazione psicologica”. In ogni caso, chi è privo di questa formazione, ha comunque una psiche. Metalinguisticamente, autocriticamente, ogni volta che il non-psicologo si interroga su se stesso, fa della psico-logia, cioè un discorso su se stesso, a se stesso. Non vedo il problema.

Io non posso assentarmi dal particolare (e dal particulare, sempre). Va bene? Mi faccia pure un’altra domanda. Mi impegno, vede.

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- Teatro

Risposte alle domande di Peter Brook (1)

Cos’è un attore?

Lei mi mette in difficoltà, Maestro. Immagino che non basti rispondere “l’attore è uno che recita”. Dunque, mi lasci dire qualcosa per via apofatica: un attore non è un animale e non è uno strumento inanimato; e poi mi lasci un po’ di via catafatica: l’attore è un professionista. Parlo dell’attore occidentale, che lavora – o lavorerebbe – per un compenso. Non è un animale: tende ad un fine e ha molti secondi fini, alimentari e pratici (più l’ambizione e il narcisismo; ma il narcisismo non è una colpa); non è uno strumento inanimato: non è un martello, né un trapano, e nemmeno un fazzoletto di carta; è un professionista, quindi opera senza gratuità (cioè senza carità, per forza di cose).

 

Cos’è la recitazione dell’attore?

Maestro, mi guardi, per favore. La recitazione dell’attore è una mediazione tra controllo esterno, autocontrollo, improvvisazione. Il risultato non è strategico in modo assoluto. Faccio un esempio musicale. Luigi Nono ha imposto agli esecutori di Fragmente-Stille. An Diotima di suonare pensando ai testi di Hölderlin: “Gli esecutori li ‘cantino’ internamente nella loro autonomia” e “in nessun caso da esser detti durante l’esecuzione”. Dopo il recitar cantando, è nato il pensar suonando.

Maestro, il principio è raffinatissimo, ma gli esecutori ci pensano davvero? E per quanto possono imporsi la dolce tortura di “cantare internamente”? Che cosa accade se il pensiero devia? Che cosa arriva in un caso e nell’altro al pubblico?

Veniamo a noi, Maestro. Il regista non è il padrone di tutto l’attore. In nessun caso. Quindi la recitazione dell’attore è una unicità incontrollabile, o non del tutto controllabile. Ma adesso mi lasci dire una cosa, Maestro: qui parliamo troppo umanisticamente. Troppo, davvero. Cioè: sono abbastanza certo che quando Lei mi chiede dell’attore e della recitazione, non si riferisce a Marina Massironi a Mike Myers a Sascha Baron Cohen. Per Lei l’attore è un essere culto e colto, Maestro: o no? Lei ha ragione: l’arte dell’attore culto e colto è una possibilità. Ma Ace Ventura e Brüno non sono altre possibilità? Io sarei stato felice di scrivere Brüno. Senz’altro, sì.

Quello che scrisse Aldo Busi su – e contro – Carmelo Bene è terribilmente serio. L’intervista – un massacro più giusto che orrendo – uscì su “Playmen” nell’aprile del 1989. Vede: non si può parlare impunemente di Deleuze e di Klossowskia chi ha scritto il Seminario sulla gioventù e fu Barbino, e poi un cameriere. Legga Busi, Maestro, ne vale la pena. La “broda di estetismo” è troppo oggettiva per essere ignorata da noi.

 

La recitazione è differente dal normale comportamento?

Ho notato i corsivi, Maestro. Lei voleva mettermi di nuovo in difficoltà. Questo discorso sulla recitazione non si alza dal livello teorico. La recitazione è sempre la recitazione di qualcosa e – nel caso del teatro rappresentativo – è la rappresentazione di un ruolo. Franco Graziosi che interpreta Cotrone (in costumi di scena, in una scenografia, con altri attori, sotto la regia di Strehler) non è Corrado d’Elia che interpreta gli scriti di Strehler (vestito normalmente, da solo, senza scenografia, senza regista all’infuori di d’Elia). Eppure Franco Graziosi e Corrado d’Elia recitano. Il verbo è lo stesso, recitare, ma il fatto è diverso.

La recitazione che fa di Graziosi un Cotrone non è la recitazione che fa di d’Elia uno Strehler. La recitazione di Graziosi è “differente dal normale comportamento”; e – sempre in casa di Strehler – la Ilse di Andrea Jonasson non ha nulla – ma proprio nulla – del “normale comportamento”: sia per come la parte è voluta da Pirandello sia per come la interpreta Jonasson. Voglio dire che la recitazione o si mostra nella casistica – e noi giudicheremo la casistica – o è un’astrazione.

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- Letteratura

Fango esaltato. Due visioni di Roma

Amelia Rosselli scopre Roma e l’Italia nel dopoguerra democratico. In realtà non è proprio Roma: è un grosso spazio, tutto marcio, obbligato al modello arcaico di un’allucinazione biblica e letteraria. Nelle Prime prose italiane del 1954 la visione è così: “Roma città eterna che silenziosamente di notte ti bevi il tuo splendore hai tu nulla da predire. Ti sei fatta principessa e languisci. […] Il fiume delicatamente si torce. Bello che sei fiumicino cadaverino. Ti pescano. Siedi come un cane”.

Sono gli anni della Roma innocente in cui si esprime – e si esalta; esaltandola – anche Pasolini, ed è il tempo leggero di Poveri ma belli e della Dolce vita. Ma Rosselli non trova tutta questa goliardia: Roma è morta e decaduta, bloccata come Gerusalemme nell’incipit delle Lamentazioni di Geremia.

Alla fine, Roma si ridurrà ad un ossimoro potente: “[…] oggi ancora vivo a Roma, in una specie di fango esaltato”, in un’intervista del 1992 a Milo De Angelis e Isabella Vincentini. Così nel “fango esaltato” si vive “oggi ancora”, come possono viverci i vermi: non gloriosamente, e con l’esitazione depressa che porta ad un suicidio. Chi vive nel ventre sporco della vedova diventa vedovo: si vive oggi ancora, ma dubitando.

Anche Cristina Campo vive a Roma, dove non è nata. Passa anche lei dal tempo di Poveri ma belli alla nouvelle vague postconciliare. E anche Campo ha l’assoluta certezza che Roma non è patria, ma vedova, come la capitale di Geremia e la città eterna e paradossale di Rosselli.

Nell’intimità delle Lettere a Mita l’inconciliabilità con Roma è drammatica, avvertita nel corpo, che è sensibile a tutto. Il 9 novembre 1971: “Tante volte ho cominciato a scriverle, cara. Ma, o non bastava la forza, o l’incertezza sull’arrivo della mia lettera me la toglieva. Chi sa se lei mi ha scritto? Tutto è un po’, ormai, come in tempo di guerra, questa città sempre più simile a una città assediata”.

5 novembre 1973: ritornando a Roma, “ricominciarono i vomiti, le angosce, i sogni di claustrofobia – e con quale sentimento di panico può immaginare, dopo una remissione completa di quasi un mese. (Pesa d’altronde su questa città una spaventevole energia negativa. Se non camminassimo su sangue di martiri, saremmo forse tutti già periti. Tutte le forze di maledizione che possono convergere su una Città Santa che non ha più custodi si sono date convegno qui)”.

Il 4 dicembre 1975, nell’ultima lettera a Mita: “Tornata a Roma dopo un lungo periodo al mare (duro e difficile questa volta, per molte ragioni) il rigetto di questa città ormai maledetta, che me ne aveva spinto via alla fine di settembre, si è manifestato di nuovo, e violentemente, con tutti i fenomeni che lei sta sperimentando a Chicago: malesseri d’ogni genere, vomito, e quell’angoscia, quel taedium profondo che può mutarsi, instaurarsi ogni giorno in depressione – il mio principale terrore!”.

“Questa città” è determinata ma scissa dal vero nome. “Questa città” è assediata o maledetta, e il suo avverbio è ormai (“ormai, come in tempo di guerra”, “ormai maledetta”). Nella città senza nome, Cristina è senza forza (1971), nauseata fino al vomito (1973, 1975), angosciata (1975). Il corpo a corpo con le “forze di maledizione” è reale come la lotta di Rosselli con le voci, quando “la malattia era la CIA”. Il degrado – la sporcizia vera o presunta, materiale o religiosa – comporta il rigetto, come in un trapiantato: Roma è un corpo estraneo alla sensibilità affilata di Campo, Campo è estranea a Roma.