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Raccolta di articoli di Silvana Sonno
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Cultura

Divagazioni intorno alla verità ai sogni alla poesia

Divagazioni intorno alla verità ai sogni alla poesia
– Silvana Sonno -

Dedico alla rilettura degli scritti di Giacomo Leopardi – già da diverso tempo – gli scorci di tempo che mi restano dallo sbrigare gli uffici del quotidiano affannarsi. Di recente, approfittando del tempo più lungo offerto dalle festività del Natale, ho ripreso a leggere le annotazioni de Lo Zibaldone, dove l'autobiografia si coniuga con lo sviluppo di un pensiero tormentato e potente, che ha permesso la creazione di poesie tra le più alte del panorama culturale del mondo intero.
Proprio nella parte finale de Lo Zibaldone ho trovato un'affermazione che mi ha dato molto su cui pensare, e su cui ho abbozzato – indegnamente, visto il punto di partenza – un ragionamento che intendo proporre al confronto.

Scrive Giacomo Leopardi che ci sono “due verità che gli uomini non crederanno mai: l'una di non saper nulla; l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molto dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte”. Si tratta di osservazioni fulminanti, tanto più incisive perché esposte col tono pacato di chi ha raggiunto una consapevolezza profonda sui grandi temi dell'esistenza, ma che proprio perché non sottoposte a discussione o giudizio hanno il tono perentorio di verità rivelate, che contrasta con il contenuto delle affermazioni stesse. Chi non è nulla, e non sa nulla, nulla può dire e noi sappiamo invece che nel caso del nostro grandissimo poeta ciò che egli ci ha lasciato nelle sue opere ha certamente un valore altissimo di testimonianza di quanto lo spirito umano possa avvicinarsi all'abisso della Verità, senza sprofondare nelle sabbie mobili della consolazione, del fanatismo, del conformismo codardo, della negazione, della rinuncia. Per Leopardi lo strumento di questo procedere senza cadere è la Poesia.

Ma cos'è, cosa significa, cosa si intende per Verità? E' una parola singolare (da qui la maiuscola) o plurale,come il cosiddetto relativismo culturale richiede?
Nel secondo caso la questione decade a elenco di postulati, sorta di "teorie ad hoc", accettate grazie alla loro utilità in un campo specifico o nell'altro, non soggette a dimostrazioni e assunte come vere nelle diverse circostanze del discorso. Nel primo caso, invece, il vento del Mistero ineffabile soffia inquietante e avvolge ogni ragionamento dell'aura di sacralità, che proclama l'esistenza di una conoscenza superiore e richiede adepti.

La Verità (leggi: ricerca, ossequio, culto della ...) è da sempre il principale feticcio delle culture umane. Nei tempi antichi cercata e s/velata nei miti di potenti cosmogonie, e poi assunta per essere ri-velata nelle parole custodite dalle grandi religioni; nei tempi moderni vera ossessione della scienza e della tecnologia, sempre indagata dalla filosofia, declamata nelle grandi ideologie della politica, insomma perseguita da quanto di meglio le civiltà umane possono mettere sul tappeto e spendere con liberalità. In ogni età difesa dalle armi dei potenti.
Quasi sempre confusa con sua sorella minore: la Realtà, e per questo ricondotta a forma mediocre del sentire umano, alla portata del desiderio d'infinito ridotto a immaginetta sconsacrata; ombra sognata e rinnegata nella profusione di luoghi comuni e praticabili, la Verità inseguita fugge nel labirinto affollato delle convinzioni, si confonde dentro la vetrina delle opinioni, per lo più confezionate a uso e consumo delle contingenze; si sfinisce nei meandri di “soggettive oggettività” elette a metodo e sistema.
La ricerca della Verità per ogni essere umano diviene così, spesso, il terreno della sottomissione ai poteri delle ragioni più forti, alibi per pavida inerzia, frustrante sospensione d'ogni giudizio, fino all'ossimoro proclamato dentro l'espressione banalizzante del fallimento di ogni ricerca: “ La verità è che non ci sono verità!” … Ma allora?... Allora si ricomincia...

Propongo un'inversione del percorso, per cui invece di orientare la propria personale ricerca a scavare negli albori della nostra specie e di tutte le specie viventi per trovare il dato comune che ne caratterizzerebbe l'essenza, orientandosi chi sul versante scientifico chi su quello creazionista o comunque religioso, articolati entrambi nelle diverse vulgate comunque totalizzanti, perché non pensare la/le verità – invece che un dato costitutivo a cui tentare di accedere, nell'impotenza dichiarata dei mezzi a nostra disposizione – un obiettivo da costruire?
D. - A partire da che? -
R. - Ma dai nostri sogni.-
Facciamo che i nostri sogni divengano Verità ( e non è un caso se dei sogni si dice che possono – o no - “avverarsi”), sottoponendoli al fuoco di una intima e tutta umana intenzione. Così ci ha insegnato Gesù di Nazareth che nasce figlio putativo di un falegname e muore indiscusso figlio di Dio. “Io sono la via, la verità, la vita” dice Gesù e fa del suo sogno un percorso da intraprendere insieme, corpi e anime, perché l'approdo sia il sogno inverato di tutte e tutti: la Salvezza.

Il sogno sognato e perseguito in molte/i ha una possibilità di “inverarsi” che i deboli desideri delle individualità non concedono. Come afferma Miguel de Unamumo, il sogno di uno solo è l'illusione, l'apparenza; il sogno di due è già la verità, la realtà. Che cos'è il mondo reale se non il sogno di tutti, il sogno comune?
D. - Sì, ma chi garantisce che questo tuo/ nostro sogno divenga una Verità Vera? Non un nuovo feticcio manipolato e contaminato da ambizioni maldestre?-
R. - Nessuno lo garantisce. -
Prendiamoci – ognuna/o di noi – la responsabilità della nostra soggettività e avanziamo con quella. La nostra umana fallibilità ci sia maestra, il dubbio che incalza compagno di viaggio, la coscienza delle catene a cui siamo allacciate/i con le altre e gli altri come noi non ci sia peso, ma salvezza contro il nudo silenzio della solitudine dell'Io. Non lasciamo spegnere il fuoco che illumina la via e scalda i corpi, e se tra i lapilli compare qualche immagine illusoria, qualche fantasma che la ragione reietta, arruoliamo anche quelli alla pratica della vita che si costruisce: vero riscatto per chi vive e sogna e fa del sogno un atto di verità e non una transizione dal nulla al nulla.

Scrive Thomas Edward Lawrence (sì, proprio lui:Lawrence d'Arabia) ne I sette pilastri della saggezza (The Seven Pillars of Wisdom), libro di memorie, ma anche racconto poetico: Tutti gli uomini sognano. Non però allo stesso modo. Quelli che sognano di notte nei polverosi recessi della mente si svegliano al mattino per scoprire che il sogno è vano. Ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, giacché ad essi è dato vivere i sogni ad occhi aperti e far sì che essi si avverino.
Uomini pericolosi - e donne, naturalmente - , perché capaci di fare a meno del mito di un Eden perduto o un Olimpo abbandonato, di cui avere nostalgia - che è desiderio del ritorno - e impegnate/i nel trapasso dal mito all'esperienza, e in una nuova mitopoiesi collettiva che fa dei sogni la testa di ponte verso una conoscenza, che possiamo anche chiamare “ aurorale” perché si nutre di immagini e emozioni, e fa della Poesia lo strumento principe di traduzione del sogno in Verità. C'è chi dice che proprio la Poesia salverà il mondo, ma anche la poesia, come la verità, è esperienza da costruire e ci spetta come obiettivo comune, meta di un percorso che ha i caratteri del notturno bosco incantato e la concretezza del diurno necessario buon senso, per non rischiare inciampo nel concreto procedere.

Ma cos'è mai la poesia?
Più d'una risposta incerta
è stata già data in proposito.
Ma io non lo so,non lo so e mi aggrappo a questo
come alla salvezza di un corrimano.

( La poesia, W. Szymborska)

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- Alimentazione

sapere è/e sapore

introduzione diSilvana Sonno,in SOPRAVVIVERE AL CIBO:UNA NUOVA DIET-ETICA, AUTORE: RAFFAELE RUOCCO, ED. AGUAPLANO

"La definizione dell' Unesco considera la cultura come “una serie di caratteristiche specifiche di una società o di un gruppo sociale in termini spirituali, materiali, intellettuali o emozionali”. E a partire da questa definizione risulta innegabile che il cibo è da considerare fattore culturale a tutti gli effetti, se inteso, fin dai primordi dell'evoluzione della nostra specie, come risposta al bisogno primario della fame e della sopravvivenza, ma attraverso percorsi che sono il risultato di complesse attività umane, che vanno dalla conoscenza e raccolta dei prodotti naturali spontanei, alla loro coltivazione e selezione e produzione, attraverso l'agricoltura, la caccia,l'allevamento, alla loro conservazione e elaborazione attraverso semplici o sofisticate pratiche culinarie, oltre all'invenzione e costruzione di strumenti e utensili necessari a garantirne la piena riuscita.
Gli esseri umani, come si sa, sono onnivori, quindi caratterizzati da una grande flessibilità, data dall’assenza di specializzazione alimentare, che ha consentito alla nostra specie di colonizzare tutti gli habitat della terra, adattandosi quindi alle differenti tipologie di cibo offerte. Questa disposizione ha avuto notevoli conseguenze e ha ridisegnato nei secoli e nei millenni il paesaggio naturale del pianeta, soggetto a una forte antropizzazione e - nel dipanarsi del divenire storico - a vere e proprie
razzìe a scapito delle sue risorse alimentari, favorendo la crescita a dismisura della ricchezza, dei commerci, dei consumi in alcune società, nello stesso tempo in cui venivano (vengono) condannate alla fame e alla sete milioni di persone, che a quelle risorse – specularmente – non potevano (possono) avere accesso.
Gli animali si nutrono e l'essere umano mangia. In questa semplice affermazione si racchiude la divaricazione tra natura e cultura che ha attraversato e attraversa anche l'alimentazione umana, dove la dimensione simbolica del cibo si è fatta subito evidente, tant'è vero che possiamo studiarne le tracce nel paesaggio storico della specie, delle sue fortune e delle sue tragedie, in pace e in guerra,
in abbondanza e miseria. Penso alla presenza del cibo nell'arte, nella filosofia, nella religione (in principio fu una mela), nella politica; penso alla via delle spezie e ai ricettari della latinità e poi a quelli prestigiosi dell'Umanesimo, ai banchetti rappresentati nel vasellame ellenico e negli affreschi tombali dell'antichità, alla letteratura, alla scienza, alla tecnologia e al mito. Un elenco imperfetto e volutamente mantenuto fuori da una qualsivoglia cronologia e/o geografia, a indicare la potenza semantica degli alimenti e dell'alimentarsi, che si esprime in immagini e simboli sempre
attuali. Non dobbiamo dimenticare quanto nella nostra cultura il cibo sia intrecciato a metafore che riguardano ambiti apparentemente distanti, e che la lingua conserva e rivela quando, ad esempio,diciamo che abbiamo “fame” di conoscenza, “sete” di sapere, “appetiti” intellettuali, quando confessiamo di non “digerire” certi argomenti (o persone), quando “ruminiamo” su certi progetti, quando non siamo mai “sazi” di certe esperienze, quando “divoriamo” un libro o abbiamo “nausea”di uno spettacolo, quando diciamo parole “dolci” o “acide”, oppure raccontiamo aneddoti “piccanti”.Quando intimiamo a qualcuna/o: - Parla come mangi!Oppure ci accorgiamo di “divorare con gli occhi” una torta, un quadro, una persona. Il bisogno di nutrirci (sia in senso materiale che simbolico), da una parte ci stringe a un rapporto intimamente individuale con ciò che mangiamo,che è intrecciato anche dei complessi percorsi affettivi che legano i sapori che amiamo alle esperienze più profonde e antiche della nostra vita, senza i quali – come ci ricorda Proust nell'episodio delle madeleines - molti saperi sarebbero morti al ricordo e, attraverso il ricordo, al contatto con noi stessi e la nostra storia; dall'altra ci lega ai riti e alle tradizioni del territorio in cui siamo nate/i e viviamo, che conservano il sapere e l’esperienza cumulata da generazioni prima di noi, in una complessa serie di rituali, ricette, regole, tabù, veri e propri codici identitari e relazionali. E in questo intreccio di saperi e sapori si conserva la memoria atavica dell'umanità: il suo lungo pellegrinaggio su strade che si intersecano e si dividono, in cammini che portano verso il cibo della fame e/o il cibo dell'abbondanza. Ricordo a questo punto un'intervista al grande José Saramago in cui raccontava di essere stato interpellato sull'opportunità di fare leggi per liberalizzare le sostanze stupefacenti. - Mi hanno chiesto: – ricordava lo scrittore - lei è in favore della liberalizzazione delle droghe? Ho risposto: prima cominciamo con la liberalizzazione del pane. E' soggetto a proibizionismo feroce in metà del mondo.- E sì, perchè se si parla di cibo non possiamo dimenticare che, se questo è la croce e la delizia dei nostri tempi, in questa parte del mondo in cui l'obesità è di gran lunga più vicina alle porte di casa che non la denutrizione; la malnutrizione, e i disturbi dell'alimentazione di gran lunga le esperienze più condivise e più tematizzate nella comunicazione sociale - che pure le induce attraverso la pubblicità e modelli di consumo alimentare, sempre più lontani dai bisogni organici della nutrizione- , esso è solo croce per una parte consistente dell'umanità, “inchiodata” al legno di una tavola sempre tragicamente vuota o quantomeno insufficiente a soddisfare le necessità alimentari di popolazioni spinte, fin dalla nascita, verso la malattia e la morte per denutrizione.
Paradossalmente anche questa situazione è un aspetto della scena sociale dove si rappresentano i banchetti della storia; anche la fame dunque è un fattore culturale, in quanto frutto di deprivazione per giochi di potere, dove le potenze mondiali e i loro mazzieri allestiscono partite truccate a spese dei poveri e degli ultimi. E ben dice Luigi Pulci nel suo Morgante, quando mette in bocca al gigante Margutte una professione di fede, in odore di blasfemia, ma giocosamente irriverente delle contrapposizioni religiose che vedono i paladini di Francia e i saraceni “miscredenti”scannarsi nei
campi di battaglia dell'ennesima crociata:

...ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
e credo che sia salvo chi gli crede;
e credo nella torta e nel tortello:
l'uno è la madre, e l'altro è il figliuolo;
il vero paternostro è il fegatello...

Morgante, il “gigante nano” (cosiddetto per la sua statura di "soli" 4 metri, a differenza dei tradizionali 8 degli altri giganti del poema), esprime la propria risposta ai tempi incerti e imprevedibili in cui vive,facendo del ventre e del cibo le sue divinità tutelari, ma non è forse vero che tanti soggetti sociali – anche nei paesi cosiddetti “ricchi”della contemporaneità – vivono stesse insicurezze materiali e simboliche? Senza più limiti di natura etica o culturale la nostra civiltà ci chiama a razziare le risorse della terra - fuori dai riti e dalle tradizioni che da sempre le contengono, dentro un orizzonte di bisogni consapevolmente agiti - avvelenando i nostri corpi e le nostre menti, paradossalmente spingendoci a enfatizzare e drammatizzare il nostro rapporto col cibo, nel periodo forse di maggiore abbondanza e disponibilità degli alimenti.E a questo proposito, possiamo utilmente meditare su uno dei principi cosmologici comuni a molte antiche mitologie - a cui anche la scienza sembra dare, in qualche modo, credito - che ci raccontano del Caos primordiale, da cui sarebbero nate tutte le entità preposte allo sviluppo dell'universo e delle sue forme di vita. Nel mito greco, esso viene rappresentato come una voragine profonda, una cavità oscura, una bocca vorace - la parola Caos deriva dal verbo greco chasko, che significa “aprire la bocca” - da cui usciranno tutti gli elementi che daranno poi origine a Cosmo,l'universo ordinato in cui trova posto la storia dell'umanità.Il lungo processo da Caos a Cosmo, che
il mito ci racconta - fatto di unioni e nascite inconsuete e atti di grande efferatezza - assomiglia molto a una digestione difficile, che richiede la complessa elaborazione e la conseguente differenziazione degli elementi che sono necessari per l'esistenza stessa degli esseri, e il cui processo inverso non può che avere come approdo finale di nuovo il caos, l'annientamento dell'ordine e dell'equilibrio. E in questa chiave molti dei disturbi nati da un “perverso” rapporto col cibo possono essere letti – al di là delle tragedie personali, a cui nulla si vuole né si può togliere – come metafore dell'inquietante percorso intrapreso dalla nostra società verso l'annichilimento dei
suoi fondamenti, nel momento in cui il banchetto “globalizzato” a cui siamo tutte/i chiamate/i, e che sostituisce il sushi al cappone nel pranzo di natale, solo apparentemente allarga il ventaglio delle scelte alimentari, mentre omologa, omogeneizza, “assimila”, quanto prima si mostrava coi caratteri delle specifiche differenze etniche, e i suoi componenti con la garanzia della biodiversità.Quando ci sediamo davanti alle nostre tavole imbandite di “prelibatezze” ricercate, che hanno via via perso il gusto della novità e la concretezza della concezione, capita sovente di sentire il disagio di un rapporto alienato coi sapori, rispetto ai quali non possiamo spendere né sapere né saper fare autonomamente esperiti, e siamo così lasciati in balia del modo più primitivo ed istintuale di entrare in relazione col cibo: il rifiuto o la voracità incontrollata.

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- Cultura

omaggio a Moderata Fonte

Omaggio a Moderata Fonte* Io sono l'altra metà di me Conto su me Sono viandante e via Io sono mia. Niente aspetto da te Che pur succhi da me piena energia In cambio d'un biscotto, un fiore, un amo A cui allacci la lenza dell'amore Perché io t'amo e d'amore abbondate nutro e alimento te, perché tu viva Nutrire e amare è affare delle donne E quindi mio. Amore senza scambio, ricco dono sostentamento e linfa della vita Saziati dunque al latte del mio amore Sii grato a Dio, ma non pensare mai D'essere tu il padrone del mio cuore Padrona sono io di dare e avere Nel"mio libero cor non servo alcuno" Conto su me, sono viandante e via Nel rorido mio cuore "d'altri non son che mia" * Moderata Fonte, pseudonimo di Modesta Pozzo de' Zorzi (Venezia,1555 - 1592), è stata una scrittrice e poeta italiana. Alla morte dei genitori, avvenuta un anno dopo la sua nascita, fu affidata alla tutela della nonna. Dopo aver trascorso due anni in un convento, all'età di nove anni tornò a casa, dove studiò il latino e il disegno; si dedicò anche alla musica, imparando a cantare e a suonare il liuto e il clavicembalo.La giovane,che aveva già dato prove del suo precoce ingegno durante il soggiorno al monastero, imponendosi all'ammirazione dei visitatori per l'eccezionale memoria e la prontezza di spirito nel rispondere alle domande che le venivano rivolte, aggiunse a queste doti anche una notevole vocazione alla poesia e allo studio, grazie alla vicinanza con una sorellastra della madre (la nonna materna essendo vedova risposata). Moderata (Modesta) imitò questa giovane zia nel gusto di comporre versi e approfondire le proprie conoscenze, incoraggiata dal nonno, che era avvocato, e le procurava volentieri dei libri; poté così formarsi una buona cultura e coltivare la sua vocazione poetica. Dopo aver sposato Filippo de' Zorzi, un importante uomo veneziano, Moderata si vide costretta, nei dieci anni di matrimonio, a sacrificare molto la propria attività letteraria. Morì all'età di trentasette anni, mentre dava alla luce il suo quarto figlio. Aveva però fatto in tempo a terminare la sua opera maggiore, "Il merito delle donne", che fu pubblicata postuma nel 1600 e ebbe ampia risonanza. Il merito delle donne è l'espressione compiuta della sua consapevolezza di donna e un vero inno all'autodeterminazione femminile. (Nell'“omaggio”i versi tra virgolette sono tratti da una sua poesia).

 

Cito da “Ragionamenti sulla scrittura di genere” in L'In/differenza del potere- Silvana Sonno, ed. Graphe.it : 

Ne Il merito delle donne, l’autrice Moderata Fonte  sviluppa nella seconda parte del testo, all’interno di un dialogo a più voci tra le sette donne protagoniste, la polarità maschile/femminile, nell’opposizione binaria attività/passività - modulata in modo non univoco - e in concordanza/discordanza, enunciando una vera e propria grammatica della lingua e del comportamento, che muove dal dire al fare, dal nome al verbo, in uno stile piacevolmente ludico, ma ben centrata sulla necessità di accordare i due generi sessuati, e combattendo come errore maschile la trasgressione del codice linguistico:

Perché essi nel loro latino errano le concordanze,non accordano mai il relativo con l’antecedente, che se ieri vi fecero buon viso e vi diedero buone parole, oggi discordano dal passato e vi si mostrano nemici. Hanno il passivo del primo verbo, ma non l’attivo, che è proprio di noi; perché noi amiamo ed essi sono amati; hanno le note delle loro colpe, ma son senza regola ne’ loro appetiti; de’ generi hanno il mascolino e l’incerto; dei casi l’accusativo è loro, perché sempre ci accusano. Il dativo, perché tallor anco ci percuotono, l’ablativo perché sempre rimovono loro stessi ed ogni ben da noi. Ma all’incontro noi avemo il nominativo del nomarli con onore, il genitivo dell’esser tutte di loro e ‘l vocativo del chiamarli sempre con amore. 

Moderata Fonte “declina” abilmente i due generi nella sintassi dei casi della lingua latina ( ancora largamente diffusa tra le persone colte dell’epoca) per smascherare ciò che sta dietro alla presunta inefficacia della parola femminile, davanti ad interlocutori incapaci di afferrare il senso di una narrazione che scorre libera, ma coerente, come nella domestica conversazione delle donne del Merito , per le quali la funzione retorica della parola è volta tutta alla conciliazione e all’armonia tra gli opposti, quando senza aver rispetto di uomini che le notassero o l’impedissero, tra esse ragionavano di quelle cose che più loro a gusto venivano.

Moderata Fonte - sposata, quattro figli, morta a 37 anni di parto - ha trovato nella scrittura la forza di “enunciarsi in parole” e nella parola scritta, potenziata dalla “nuova” invenzione della stampa, la via d’una legittimazione che ha “bucato” i secoli e l’ha ricondotta - intera e coeva – al nostro fianco, come la “fabulosa fenice” a cui s’ispirava.Sola vivomi ogn’or, muoio e rinasco.