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Raccolta di articoli di Angela Caccia
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Cultura

Cerimonia di Premiazione Di Liegro - Campidoglio

Nella giornata dell’ 1 febbraio, a Roma, nella splendida cornice della Sala Pietro da Cortona del Campidoglio, si è tenuta la cerimonia di premiazione della VI edizione del Premio Internazionale di Poesia “Don Luigi Di Liegro”. Nella sezione “libro edito di poesia” del prestigioso premio che si svolge sotto il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, una talentuosa crotonese ha conquistato il terzo posto. Si tratta di Angela Caccia, pluripremiata poetessa cutrese che, nella suggestiva atmosfera barocca dei Musei Capitolini, ha incantato la giuria con la sua silloge “Nel fruscio feroce degli ulivi”. Una raccolta di 63 poesie attraverso le quali la Caccia lascia scorgere i suoi sentimenti più intimi, riflessioni sugli eventi contrastanti della sua esistenza e della nostra società, accompagnando il lettore negli impervi sentieri della natura calabrese. Nella variegata raccolta si intravede il fil rouge dell’introspezione mediante la quale la poetessa instaura un rapporto empatico con il lettore, offrendogli l’occasione di domare insieme la ferocia del fruscio degli ulivi, la brutalità dell’umanità, cercando così di conferirgli la sua originaria serenità. L’autrice crotonese ha ricevuto il premio dalle mani del presidente della fondazione, la dottoressa Luigina Di Liegro, mentre il presidente dell’autorevole giuria, il Prof. Dante Maffia, poeta e saggista nonché candidato al Premio Nobel 2014 per la letteratura, ha letto una motivazione densa e accorata definendo l’opera premiata “un testo che cattura immediatamente per la folata di calore che arriva dai versi, tesi a fare vibrare le corde intime dell’anima. Ognuna delle composizioni è imperniata su qualcosa che ha voce remota e viva, avvitata a una spiritualità che non ammette cadute. Ogni immagine, ogni espressione si è divincolata dagli stereotipi del mistero e della religione e anela a condividere l’ansia di un processo che porta alla salvezza vera, non a quella canonizzata. Voce che sa offrire parole ricche di sensi, che si esercita su un campo di battaglia, come lei chiama il foglio; voce che se cerca di dare “nome a un dolore / implode” e “appanna la parola”, ma che a noi arriva densa e vibrata”. Ha presenziato alla cerimonia di premiazione il dott. Giovanni Capocasale, assessore alla cultura della provincia di Crotone, invitato poi ai microfoni dallo stesso Dante Maffia. Un intervento emozionante il suo: richiamando alla memoria il leggendario valore eruditivo della città, culla della Magna Grecia, ha sottolineato l’attuale volontà di rompere le barriere delle criticità crotonesi puntando, appunto, sulla promozione della cultura, anche grazie al supporto di professionisti dei versi come la Caccia. “La poesia è tuttora lo specchio che mi rimanda, nel bene e nel male, i miei lineamenti, mi dà la consapevolezza di un ineffabile e chiarifica in qualche modo il resto. Scrivere di poesia riesce a dosare in me un certo disincanto, anche se ne ignoro le dinamiche” così connota la sua tensione poetica Angela Caccia, che ha portato un altro importante riconoscimento nel suo, quanto nostro, tormentato e raggiante angolo di Calabria. Gabriella Cantafio

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- Cinema

Il discorso del re

Un film di Tom Hopper, ha ricevuto 12 nomination all’Oscar. Non so confermare o meno la plausibilità di tutte quelle candidature: alcuni personaggi mi sembrano poco caratterizzati, a tratti il racconto è lento e approssimativo, si incontrano vere e proprie cadute di ritmo. Di certo il film ha un grande merito: dirotta con maestria lo spettatore da quel contesto storico pregno di tragicità e così coinvolgente, qual era l’approssimarsi della seconda guerra mondiale, ad un ambito preciso altrettanto tragico ma totalmente altro, nascosto tra le pieghe di una menomazione che da sempre desta una profonda tenerezza: la balbuzie.

Il racconto, nella svolgersi di una trama tessuta dai due protagonisti, Colin Firth e Geoffrey Rush, si snoda intorno un incontro e all’instaurarsi di un rapporto umano. Umano perché reale, umano perché dialogico e relazionale: se è vero che un rapporto nasce sempre da un incontro, è anche vero che ‘incontro’ ingloba la parola ‘contro’: ogni confronto ha, e deve avere, i suoi momenti di scontro per crescere e raggiungere una sua solidità. E’ quello che succede nel film che pare scandire le tappe di un percorso: lungo il sentiero della conoscibilità reciproca, i due protagonisti partono da molto lontano – la deferenza di uno, dovuta al titolo dell’altro – per arrivare all’unica intimità possibile: quella che trova e riconosce un humus comune nella propria umanità.L’incontro è tra re Giorgio VI il balbuziente e il suo logopedista, falso dottore ma esperto psicanalista, laureatosi all’università del dolore, quello che ha attraversato la sua terra con la Grande guerra; lui sa dove e quali corde toccare per spingere fino al suo fondo un’anima, e poi farla risalire, ma consapevole, dall’abisso in cui era rimasta impigliata.

L’incontro è tra l’alterigia della nobiltà, quella blasonata, e la ‘nobiltà altra’, quella che si proietta sull’altro e gli tende una mano, d’origine squisitamente interiore, rigorosamente umile e disinteressata, all’occorrenza impertinente (se impertinenza serve, com’è nel film, ad accorciare distanze…); di fondo illetterata, è decisamente erudita nei rapporti umani: li ha vissuti sulla propria pelle, ed ora è capace di proiettarsi verso un orizzonte lontano, lontano da mondanità, apparenze, pregiudizi, opportunismi, lì dove si trova l’essenza dell’uomo.

L’incontro è tra la ricchezza e la povertà, frizione ineludibile da cui sgorga sempre un insegnamento, oggi più che mai inutile moralismo per i furbi di ogni tempo e stagione. L’uomo, per costoro, non solo ha una sua valutazione economica, ma può ben essere ricondotto, nella sua essenza, esclusivamente ad essa. Riduzione letale, questa, che non svilisce ma cancella l’uomo dalla vita di ogni tempo: non esistono i principi da una parte, e l’uomo dall’altra, ma l’uomo ‘è’ i suoi principi, è i valori in cui crede, tutta roba che, vivaddio, non ha prezzo. Dall’intelligenza e la dignità del logopedista che non  sa identificarsi in una somma di danaro né vendere o svendere i principi in cui crede,  inizia la fortuna del Re.

Un insegnamento, di oggi e di sempre, la cui sintesi amara affido alla mano esperta del drammaturgo norvegese Henrik Ibsen “Il denaro può comperare la buccia di molte cose. Può darvi il cibo ma non l’appetito, la medicina ma non la salute, i conoscenti ma non gli amici, i servitori ma non la fedeltà, giorni di gioia ma non la felicità e la pace”.

Il discorso del re, di fondo, è un film su un preciso incontro, uno di quelli fortunati, capaci non tanto di farti cambiare vita, ma di fartela incontrare – e riconoscere – tra i fotogrammi di una pellicola.
 
 
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- Cinema

Un riflessione sul film ’Uomini di Dio’

Se ci sono film capaci di spostare lentamente, quasi inconsapevolmente, l’attenzione dello spettatore verso la propria coscienza, Uomini di Dio è uno di questi. Te ne accorgi quando, d’un tratto, non sei tu a guardare il film ma è lui a guardarti dentro, a misurare la tua capacità di stare solo, solo dinanzi un progetto, una responsabilità, un impegno che non fanno parte della tua vita, come fosse un’aggiunta, ma ne sono parte e, quindi, essenza: credere in Dio.

 Lunghi silenzi nel film favoriscono quell’introspezione, supportati, peraltro, da immagini molto eloquenti, che pesano e scavano: i volti di uomini, donne e bambini algerini, tutti provati, sono comunque i volti felici della semplicità che solo la povertà può regalare, anzi, restituirci: nasciamo semplici perché ricchi della sola povertà del nostro essere umani. Al regista; Xavier Beauvois, l’acutezza di non aver affidato un messaggio immenso a troppa parola, sarebbe risultata uno sterile balbettio.
 E’ uno di quei film per i quali non ha alcun senso raccontare la trama perché non è la trama in sé a raccontarlo e renderlo pregevole, quanto il paradigma che intimamente si dipana svelando, nei protagonisti e in noi, un’antica fatica: la fatica del credere e la ri-conquista della Fede, quella con l’iniziale maiuscola.

Otto monaci francesi abitano un monastero sperduto sulle montagne del Maghreb, e si ritrovano a fare i conti, ognuno per sé, con la propria ampiezza di fede, minata dalla paura per la violenza che dilaga intorno a loro e al villaggio di confessione mussulmana, nato e cresciuto all’ombra del monastero cristiano. La fede che non è supportata dalle opere può diventare esaltazione, e l’ora et labora benedettino fa zavorra e scongiura da sempre quel pericolo, ma nessuno sa quale ampiezza di fede, così molliccia nel nostro quotidiano operare, ci viene all’improvviso richiesta. 

 E’ quell’ampiezza che ogni monaco sonderà e recupererà in sé, e che motiverà il loro martirio: Dio è amore, e lo sa il buon credente e il peccatore convertito, ma Dio è soprattutto amore incondizionato, ecco perché in quell’amore confluisce anche il peccatore non convertito (“Io mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, ho risposto anche a quelli che non mi invocavano” Romani 10,20). Lo sa bene Christian (Lambert Wilson), l’abate generale, che piange e prega sulla salma del terrorista, ucciso dai soldati di un governo corrotto per il quale il monaco, e tutto il monastero, sono già un nemico.  

 Eppure la fedeltà a quell’amore che abbonda in Christian, non contagerà gli altri monaci che seguiranno strade diverse e tutte faticate per raggiungerla, come a confermare che ciò che paralizza e snatura è, molte volte, la paura, ancor peggio la paura della paura.
Siamo come uccelli su un ramo…” così, uno dei monaci, giustifica la loro presenza precaria lì e la probabile fuga da quel territorio, troppo rovente per la permanenza in un monastero cristiano; “Gli uccelli siamo noi – obietta la donna algerina – il ramo voi: se ve ne andate dove ci poseremo?”.
E i monaci decidono di rimanere. Ecco allora affiorare il vero volto dell’amore: quello della responsabilità e della cura: C’è in ognuno la luce di razione incancellabile… Dovunque qualcosa di generoso si svincola dal nostro egoismo e si piega dolcemente sopra una pena e una miseria altrui, lì si innalza e continua il monte della Trasfigurazione (Don Primo Mazzolari).
 
Cos’altro è credere in Dio se non  l’impegno, ora rinnegato, comunque fedele, sempre tenace, a trasfigurarsi...

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