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Raccolta di articoli di Teresa Nastri
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Filosofia

Da Jan Hus a Jan Patocka...

                  Da Jan HUS a Jan PATOCKA

Una testimonianza di coerenza morale e intellettuale

 

Fra gli effetti prodotti dalla caduta del muro reale  di Berlino e di quello ideale  (o ideologico) che divideva Est ed Ovest del mondo c.d. civilizzato (leggere: industrializzato), va annoverata la rimozione delle censure e dei veti con cui un sistema di potere distorto, ottuso come tutte le dittature, infine violento fino all’autodemolizione, aveva condannato la parte migliore di molte nobili esistenze a restare sommersa, affidando al tempo e all’oblio il compito di disinnescarne l’implicito potere eversivo.

E’ stato così possibile, alla comunità filosofica più attenta della nostra città, portare all’attenzione del mondo della cultura la visione filosofica e la figura umana del pensatore cèco Jan Patocka, a venti anni dalla morte  provocata da un “interrogatorio” della polizia di Husak. L’iniziativa - partita dal Dipartimento di Filosofia dell’Università “Federico II”, per impulso di Domenico Jervolino - ha raccolto l’immediata adesione di quell’altro avamposto napoletano di cultura umanistica che è l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, oltre che dell’Istituto Universitario Orientale e del Suor Orsola Benincasa, che ha ospitato la parte più cospicua dei lavori nei giorni 6 e 7 giugno dell'anno appena trascorso.

 Scorrendo i numerosi interventi, abbiamo voluto privilegiare quello del belga Henri Declève, del quale ci è sembrata rilevante la precisazione fatta in via preliminare circa la diversità dello sguardo del filosofo, quando si affissi su un avvenimento o un’opera situabili in un passato più o meno definito, rispetto allo sguardo del filologo o dello storico, o di chiunque si ponga in un’ottica di pura ricostruzione scientifica. La differenza starebbe nel fatto che il filosofo “si assume il compito di analizzare la situazione”. E analizzare in senso filosofico vuol dire - secondo un’affermazione dello stesso Patocka - “tener conto delle implicazioni etiche e politiche”, e quindi del valore testimoniale che trasformerà l’analisi stessa in messaggio per la generazione a cui verrà consegnata. In questo senso al filosofo tocca ogni volta l’onere e la responsabilità di una valutazione, alla quale la sua sensibilità umana e intellettuale non può rimanere estranea, giacché “in un certo senso la sua stessa affettività è coinvolta”.

In particolare, l’opera e il modo stesso dell’esistenza di Jan Patocka appartengono per molti versi “al senso della nostra attualità”, tanto che secondo l’autore dell’intervento, “modificando leggermente il titolo di una raccolta di suoi articoli apparsa in traduzione a Milano nel 1970”, si può dire che il convegno di Napoli rappresenti il tentativo “di afferrare, insieme, Il senso dell’oggi  - e non solo in Cecoslovacchia”.

 I settant’anni in cui si dispiega l’arco temporale dell’esistenza di Patocka (1907-1977) sono segnati per il suo paese da eventi politici eccezionali.

Con la fine della prima guerra mondiale (1918) e il crollo dell’Impero Austro-Ungarico, la Cecoslovacchia si costituiva come Repubblica indipendente con a capo il presidente Masaryk, professore di filosofia all’università di Praga e studioso di Jan Hus (1370-1415) (sacerdote e teologo, che della stessa università era stato rettore cinque secoli prima, fino a che lo aveva raggiunto la scomunica del papa di Roma - si era in pieno Scisma d’Occidente - alla quale erano seguite la prigionia e la condanna al rogo da parte del Concilio di Costanza).

La travagliata parabola indipendentista del paese (1918-1938) s’interruppe con l’invasione delle armate hitleriane e la sua trasformazione, ad opera della Germania nazista, in un Protettorato di Boemia e Moravia.

Alla fine della seconda guerra mondiale, ricostituita l’unità nazionale con l’aiuto delle truppe sovietiche nel 1945, la Cecoslovacchia diventò "una Repubblica Democratica, satellite come le altre, peggiore delle altre, più staliniana e sanguinosa”, che vide succedersi “processi spettacolari ed esecuzioni in serie”.

Nel 1960, venne proclamata la Repubblica Socialista. Nel 1968, con Dubcek segretario del partito comunista, Svoboda presidente della Repubblica e Cernik capo del governo, iniziava la c.d. Primavera di Praga, sfiorita già in agosto nell’urto coi carri armati sovietici.

Il nuovo corso  fu spazzato via, e con esso le recenti libertà democratiche. Ma il ricordo della breve speranza di un socialismo dal volto umano  faceva da lievito per vecchie e nuove dissidenze, alle quali rispose la dura repressione del presidente Husak.

Molti intellettuali e artisti emigrarono. Patocka venne invitato a farlo: l’università tedesca di Magonza era pronta ad accoglierlo. Ma egli scelse di rimanere, ritenendo di non potersi sottrarre - da filosofo - al dovere di continuare ad insegnare proprio lì, dove la dissidenza lo chiamava a farlo, attraverso seminari privati ai quali non pochi professori stranieri assicuravano il legame con la cultura filosofica europea. In particolare, alla continuità di tali rapporti molto contribuirono le società olandese e francese degli “Amici di Jan Hus”, il cui nome e la cui memoria sembrano - a posteriori - proiettarsi come una lama di luce tra le tenebre di una clandestinità difficile, e tuttavia operosa.  In quella clandestinità, che non sfuggiva alla sorveglianza della polizia neostalinista di Husak, la resistenza intellettuale affidava ai semizdat  - copie dattiloscritte rigorosamente controllate e firmate dall’autore, riprodotte con lo stesso sistema da collaboratori e discepoli - la diffusione dei corsi e di opere che poi venivano pubblicati all’estero in riviste e raccolte commemorative. Come quella già menzionata, uscita in Italia nel 1970 col titolo Il senso dell’oggi.  

Nel 1973, Patocka è a Varna, in Bulgaria, al Congresso Internazionale di Filosofia per presentare “una comunicazione su I pericoli dell’orientamento della scienza verso la tecnica secondo Husserl e l’essenza della tecnica in quanto pericolo secondo Heidegger”. Il presidente sovietico gli lascia un solo minuto per parlare, con l’effetto di rafforzare in lui il senso drammatico del dovere “di affermare la libertà in modo efficace”. Lo fa in più occasioni. La più risonante e decisiva è la firma della Carta 77, su sollecitazione di Vaclav Havel - allora presidente della nuova Repubblica Cèca, intellettuale e drammaturgo egli stesso. Molti altri intellettuali rifiutano di impegnarvisi. Il documento si richiama alle libertà di opinione e di espressione e alla libera circolazione dell’informazione, diritti garantiti dagli accordi di Helsinki del 1975 e sottoscritti anche dalla Cecoslovacchia.

La reazione non si fa aspettare. In seguito ad una visita all’ambasciata olandese per un’intervista al ministro degli esteri di questo paese, Patocka viene accusato di atti sovversivi. Una serie di “interrogatori” da parte della polizia si conclude con la morte per “congestione cerebrale” il 13 marzo 1977.

Un secondo motivo della preferenza che abbiamo inteso accordare al lavoro del Prof. Declève - fra altri importanti contributi di analisi concettuale della sua opera e del suo pensiero - è l'intento che vi traspare di recuperare l'alto valore testimoniale di una scelta che Patocka, martire suo malgrado, pagò con l'estremo sacrificio. Come non pensare a un legame sottile ma persistente che attraversa i secoli e le generazioni di questo paese, per veicolare una visione platonica di bene pubblico perseguito sul filo di un accordo ineludibile tra potere e coscienza morale. A partire da quella lontana condanna al rogo che si trasforma in una lectio  di altissimo contenuto etico, fino al più recente sacrificio di Jan Patocka: entrambe le vittime avrebbero potuto sottrarsi alla minaccia incombente, ma non lo fecero. A Jan Hus fu suggerito di dire sì al Concilio, quand’anche gli avessero detto: “Tu hai un solo occhio”. Egli rispose: “Avendo la ragione di cui ora faccio uso, non potrei dirlo senza la resistenza della mia coscienza”. E di quest’imperativo di accordo tra ragione e coscienza, volle dare testimonianza in una lettera ai suoi discepoli.

Degli eventi che portarono alla morte di Jan Patocka è stato detto da alcuni che “... il coraggio di avere una coscienza è il più importante (e forse il solo) contenuto della Primavera di Praga”. Di lui stesso è stata criticata - da parte di altri intellettuali che ne lamentavano la perdita per l’evoluzione stessa della corrente fenomenologica alla quale essi tutti appartenevano - la mancanza di prudenza e un eccesso di innocenza.

Come se il filosofo, sul piano della prassi individuale, non avesse altro dovere che la salvaguardia della propria atarassia. Come se, per un intellettuale dei nostri tempi, dovesse essere facile e legittimo dimenticare quella lontana lezione di coerenza intellettuale e morale difesa fino all’inferno del rogo.

 Di Jan Patocka resta un’opera fatta di frammenti, di percorsi che s’interrompono per gli urti a cui fu esposta la sua esistenza. Ma, come afferma Henri Declève, “essi fanno scorgere l’unità di un intento e di un itinerario di pensiero... meglio di come avrebbe potuto fare la sintesi rimasta materialmente impossibile. Lo stato di quest’opera fatta a pezzi e come decostruita dalle convulsioni dell’Europa centrale, dall’ascesa del nazismo fino agli ultimi tempi dell’Unione Sovietica, ci... invita a... leggere nell’accidente e nel rischio l’avvenimento significante, il connettore intermittente del senso, la domanda rivolta all’esistenza pensante.”

Fra questi frammenti portatori di significati parziali, forse provvisori, che cercano di integrarsi in un quadro di pensiero composito, ma in sé compiuto e coerente, l’autore dell’intervento ricostruisce per noi l’asse noetico fondamentale: “Nell’era della tecnica, occorre una morale evidente  (corsivo del r.), non per far funzionare la società, ma perché l’uomo sia uomo. Questa identità o questa dignità umana è il dovere di ciascuno di noi. Essa implica, per l’individuo, l’obbligo di difendere se stesso contro ogni ingiustizia che gli venisse fatta. E questa difesa attiva, sempre pubblicamente visibile... rende manifesta la nostra solidarietà nella dignità."

 In altri termini, la coerente convergenza di senso fra lavoro intellettuale e prassi esistenziale qualifica innanzi tutto l'uomo, in quanto individualmente responsabile verso tutti gli altri dell'uso che avrà fatto della comune dignità umana. Quella dignità che nel filosofo (ma in qualche misura in ogni intellettuale che voglia distinguersi dalla categoria sempiterna dei clientes ) dovrebbe esprimersi con forza ancora maggiore, per la semplice ragione che più forte e più consapevole si suppone in lui l'imprescindibile esigenza dell'accordo tra ragione e coscienza.

 

 

 

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- Esperienze di vita

Coma, Semi-coma...

Coma, semi-coma...

(Sogno, o delirio post-traumatico?)

 

Una forma tondeggiante, leggera, perché la sostanza di cui è fatta è svuotata di ogni peso specifico. Galleggia, come l'altra: una sagoma flessuosa, sottile, con macchie dello stesso colore bruno, simile a crosta ferrigna, ma priva di spessore. Anche questo s'indovina a vista. Un colore più denso, qui e là, disegna i rilievi, i chiaroscuri argentati delle squame nella parte inferiore, che termina con la piccola coda di pesce a due punte. Come certi mappamondi in cui la densità della materia è segnalata dal colore più marcato delle incrostazioni che raffigurano le terre emerse. (Ma forse anche questa è una considerazione a posteriori - fatta in stato di semiveglia; del resto il confine fra le due dimensioni dell’esistenza è spesso così sottile da non potersi percepire con certezza.)

La forma sottile ha la consistenza di un'icona e scivola lungo il perimetro circolare della vasca trasparente che contiene il tutto. Per l'occhio che osserva  dall'esterno (ma in quale corpo si tenga è impossibile dirlo, anche con l'aiuto del ricordo cosciente - probabilmente a causa del condizionamento che deriva dall'immediatezza percettiva del visibile ), è una sirenetta che si muove in quello che appare come il suo naturale elemento: una massa liquida, fluorescente, percorsa da una misteriosa energia che la trascina con sé. La parte frontale è rivolta verso l'osservatore, che vede solo quella. (Alla luce di una riflessione successiva ci si rende conto che solo lo spostamento della forma rende in qualche modo visibile  il movimento della massa fluida, che s’indovina compatta e forse impenetrabile).

Più a zonzo, spezzettata, la direzione di marcia descritta dalla forma tondeggiante. L'effetto erratico forse è dovuto a un qualche contrasto - o resistenza - con lo stream.  Un osservatore pedante potrebbe pensare che una tendenza autonoma produca l'attrito che rende il percorso così accidentato. La forma appare del tutto irrelata col resto, perfino con lo stream  di forza trainante.

L'acqua all'interno della vasca trasparente gira e gira... da destra verso sinistra, in perfetto senso antiorario... Le  strane sagome sembrano rincorrersi.

*****

Ombre bianche e scure si muovono a tratti. A volte offuscano ogni altra visuale. Bubuum, bubuum, passiamo sotto un ponte o una galleria. Tac... tac... Urtiamo contro pareti troppo ravvicinate o porte strette. Su e giù, destr-sinist... Le rotte del mondo, sottosopra, non sono più obbligate.

Ma no! scuote la testa e l'universo cambia il senso di marcia: le stelle fanno una giravolta turbinosa e ora può osservarle solo dalla posizione capovolta, coi piedi che puntano verso il cielo. La nausea attacca violenta, ha paura di vomitare sulle stelle che ammiccano sotto i suoi piedi... La testa girata verso la spalla perde liquidi acidi, che finiscono in un panno messo lì da qualcuno. Il vomito trabocca a intermittenza.

 

"Teresa, ciao! Ma cosa fai in questa foresta?"

"Maria Rosa... sei sola? Aiutami, ti prego".

La faccia da Topogigio della piccola è alterata dallo sforzo di riportare lei nella posizione originaria. Poi scompare.

*****

Non so se seppi già durante il sogno  che la forma tondeggiante era la mia testa, alleggerita di tutti i fardelli che l'esistenza si trascina dietro. Quei fardelli pesavano tutti sulla parte rimasta di qua, nel vortice di ciò che si trasforma.

Sogno o delirio, quella parte l'ho ancora incisa sulla retina che conserva le immagini, o in qualche altro punto dentro di me. E' una forma tozza e sgraziata, grossa e di colore mattone, poggiata in terra a qualche metro dalla vasca trasparente e a una ventina di centimetri dal punto dove dovrebbero trovarsi i miei piedi, stando alle leggi della prospettiva. E la vasca è piena non di materia liquida come ho creduto prima, ma di pura luce, densa e assoluta... E mi sembra di essere stata sempre lì, accanto alla grossa testa pesante e tozza, a guardare quel serbatoio di luce su cui navigano le forme pure. Ma non so più afferrare il senso di quello smembramento: forma di qua, materia di là, visioni non mediate da un sistema organico. Com'è possibile vedere senza un occhio aperto? Ecco perché ora non so più scindere quella vista dalla mia presenza fisica e sono costretta a percepirmi come contenitore dell'occhio che guarda. Ma la sirenetta non mi somiglia, purtroppo. No, non le somiglio... lei è una versione nuova della donna di Chagall che attraversa orizzontalmente l'aria  "Sopra la città" - io sono in tutto il mio peso e occupo molto più spazio, ovunque mi trovi.

 

A 3 ore dal primo risveglio, sentivo il peso del dolore che nei momenti brutti identifica la vita e un pulsare ininterrotto nel padiglione auricolare sinistro. Era come il passaggio di una ventola regolata per scandire i secondi. Mi preoccupava, non sapevo a quale orologio fosse collegata, né quale segnale cercasse di trasmettermi. (Due settimane più tardi, a casa, cercai di contare i colpi - o pulsazioni - ma mi fermai a 135, per stanchezza. Ogni tanto si arrestavano per il tempo di qualche battuta...) 

La tensione iniziale, divenuta ben presto sofferenza martellante, da tutta la scatola cranica si addensava sulla zona perioculare, col peso di una corona di ferro che premesse in cima, sulla parte anteriore. Dalle profondità delle orbite si trasmetteva alle strutture mandibolari, e da qui si riverberava sul punto più basso della gola. Un'efficiente rete connettiva svolgeva scrupolosamente la funzione di diffondere il dolore.

Il braccio faceva male, nella posizione obbligata appeso a un filo. Era inchiodato e fermo sul lenzuolo bianco che spuntava da sotto la coperta marrone chiaro... troppo chiaro perché non si vedesse che era sporca. Sotto la guancia, dall'altro lato, pungeva il ruvido delle grinze nel panno messo lì per raccogliere il vomito. Inutile cercare di stenderle quelle pieghe, poi mi accorsi che dipendevano da un'arricciatura tutto intorno. (Solo più tardi mi resi conto che si trattava di una specie di mutandone - destinato probabilmente ai degenti che non riescono a controllare i moti intestinali.)

*****

A due anni di distanza, mi capita di pensare che la morte può essere davvero un trapasso del tutto indolore. Io non conservo alcuna memoria dell'aggressione di quel venerdì sera, né del colpo alla testa, né di tutto ciò che ne è seguito fino alla domenica, quando vennero mio fratello e mia sorella. Soffrivo certamente almeno come nei giorni successivi, ma ciò che mi fa ricordare di quella domenica, isolata dalla contiguità temporale del prima e del poi, è il fatto che c'erano loro. 

Se fossi morta in quei primi due giorni, sarebbe stato senza la coscienza di una sofferenza, e a quest’idea l'orizzonte di morte  di cui parla Heidegger come dell'unica certezza assoluta che ci accomuna tutti appare meno fosco. Una semplice uscita di scena... anzi, no! E’ la scena che sparisce e rende superfluo il primo attore.

 

Silvana mi guarda costernata e mi sorprende con una domanda: ma tu l’accetti questa consapevolezza? Vorrei risponderle: credi forse che potrei rispedirla al mittente?

 

 

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- Letteratura

Arti e Artifici

Arti e artifici

 

 

Il cinema, inizialmente considerato di genere minore, fu poi annoverato a pieno titolo tra le arti visive; oggi tuttavia anche questa collocazione sembra riduttiva rispetto alla sua capacità di fondere linguaggi provenienti da campi molteplici, con risultati che ne sottolineano la specificità multidimensionale.

Molte sono le funzioni che assolve la c.d. “settima arte” nell’era delle comunicazioni di massa e della globalizzazione. Ma, all’interno di questo suo carattere di grande apertura, noi riconosciamo al cinema il pregio particolare di non essere invasivo, per il fatto stesso che obbliga a una scelta e perfino all’acquisto di un biglietto per potervi accedere. Questo aspetto, che di per sé sembrerebbe anti-democratico, emerge in una luce diversa se ci fermiamo ad analizzare gli effetti che cinema e televisione hanno sulla nostra quotidiana fatica di vivere.

La televisione - che del cinema condivide i caratteri strutturalmente più appariscenti - all’utente dotato di un livello medio di capacità critica  appare come una specie di parodica imitazione. Con l’aggravante di piombarci in casa e confondere finanche la nostra percezione del reale. Sulla convulsione delle nostre giornate, essa sparge l’illusorio sedativo della ripetitività, che produce atonia e assuefazione. E ci lascia la possibilità dello zapping per l’esercizio illusorio della nostra volontà di esseri liberi .

Espressione apicale di questa farsa sono certi prodotti della “creatività” pubblicitaria. Mi chiedo come facciano certi professionisti a non rendersi conto che il più riuscito degli spot alla lunga si trasforma in un fastidio intollerabile sul piano estetico e su quello del più comune  buon senso. Chi non ricorda la bella immagine di Megan Gale che pubblicizza la tecnologia vodafone: all’esotismo naturalistico dello sfondo e della stessa fascinosa modella, si aggiunge quello suggestivo della voce che sembra avvolgerci in un caldo abbraccio mentre pronuncia “… ed è tutto intorno a te.” Ma dopo un centinaio di repliche, quel sussurro cadenzato, volutamente allusivo come una promessa suggerita ma non espressa, si trasforma in una sdolcinata mimesi e produce solo fastidio.

E questo tipo di analisi potrebbe estendersi quasi a tutta la pubblicità televisiva.

 

 

Teresa Nastri

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- Letteratura

Elogio del libro

Elogio del libro

 

     Da qualche meseè in circolazione un libro di racconti: una nuova piccola creatura gettata - come tante altre, come tutti noi - nel vortice della vita sensibile, esposta agli urti e a tutti i rischi di ciò che appare, vive (un anno o un secolo, qualche volta di più) e poi muore. O semplicemente ‘passa’, scivola fuori dal campo visivo, ed è proprio come se morisse, perché ci sono cose -  come un libro - che vivono solo e ogni volta che qualcuno le “chiama in vita”. In se stesse, queste ‘creature’ - presenze intermedie fra uomo e mondo, e più ancora fra uomo e uomo - sono prive di qualsiasi autonomia di vita. Sono depositari, ignari, di saperi complessi com’è complessa la vita, dei quali custodiscono il segreto ma anche la chiave di accesso - che però bisogna saper cercare, come gli eroi delle vecchie fiabe dovevano cercare la mappa che portasse al tesoro nascosto.

     E tuttavia, mentre il tesoro nelle fiabe era uno e uno solo, la sapienza che si deposita nei libri -  e qui non si allude a quelli importanti, che nascono già pesanti di contrassegni araldici, ossia accademici, ma a quelli segnati dalla leggerezza stessa dell’essere, che perciò hanno bisogno di essere sostenuti e ancorati, perché sempre a rischio di essere trascinati via, nel turbine inarrestabile di tutto ciò che è - la sapienza dei libri leggeri, si diceva, ha la proprietà magica di rinnovarsi ogni volta, di crescere nella misura stessa in cui viene còlta e fatta propria da ogni singolo lettore. Perché un tale libro è al tempo stesso uno specchio, che ri-flette chi vi si affaccia trasformandolo, euna creatura polimorfica, che si lascia trasformare a sua volta adattando il mondo che proietta al mondo di chi potrebbe abitarlo. Il prodigio della moltiplicazione dei saperi avviene perciò attraverso l’incontro di mondi diversi - quello del libro e quelli di tutti coloro che via via lo leggeranno - perché la materia spirituale ha la proprietà di duplicarsi ad ogni scambio, sicché la fonte di ciascuna donazione, anziché prosciugarsi, si arricchisce di ciò che a sua volta riceve.

     Fra i libri a cui si addice il carattere della leggerezza, i più leggeri di tutti sembrano essere quelli che raccontano storie, specie se brevi, apparentemente slegate fra loro, come atomi spersi nell’iperspazio dell’immaginario, in attesa dell’energia psichica capace di raccoglierle insieme con un atto di donazione, per conferir loro un senso unitario. O per lasciarle così, come tante piccole monadi, metafore inconsapevoli della insuperabile solitudine dell’Uomo.

     Un piccolo libro così, ho gettato  di recente nel vortice dell’esistenza. E ora tremo per lui, per la sua leggerezza indifesa e priva di ancoraggi. Se al lettore di questa pagina accadesse di incontrarlo, non sia brusco; se - avvicinandolo - lo ritenesse inadeguato alle sue aspettative, non lo biasimi per questo. I libri sono tutti innocenti, perciò non ricada su di essi la colpa dei padri. O delle madri!

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- Filosofia

Jan Patocka

Jan Patocka

Tra filosofia come vocazione e politica come sacrificio necessario

 

Se la politica incombe sul nostro quotidiano dibatterci in difficoltà pratiche di ogni genere, la filosofia appare sempre più come un piano del sapere del tutto separato dalla realtà, a meno che non la si intenda come mezzo per la conquista di spazi di potere nei diversi agoni professionali, politici, ecc. In pratica, un valore strumentale o di facciata. Naturalmente ci riferiamo a un sentire acritico, ma molto diffuso - se la percezione non c’inganna - fra le giovani generazioni, anche in quelle fasce sociali non del tutto prive di strumenti di analisi culturale. Non si tratta di un problema italiano, ma di una realtà del nostro tempo e del nostro mondo occidentale, industrializzato, consumistico, deideologizzato, disorientato, e sempre più contraddittorio.

Su questo sfondo, appare più che mai emblematica la figura del filosofo cèco Jan Patocka (1907-1977), che in occasione dei vent’anni dalla morte è stata portata all’attenzione del pubblico e degli studiosi, nei giorni 6 e 7 giugno, nel corso di un convegno internazionale, di cui è stato organizzatore e animatore il Prof. Domenico Jervolino del Dipartimento di Filosofia della “Federico II”. All’iniziativa hanno inoltre assicurato consenso e sostegno organizzativo l’Università di Studi Orientali, l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e l’Istituto Universitario “Suor Orsola Benincasa”.

Ciò che rende peculiare la presenza di questo pensatore nel panorama culturale della seconda metà del Novecento, è il fatto che solo le crudeli necessità della storia ne hanno fatto un “filosofo resistente” - secondo una definizione di Paul Ricoeur - nel senso politico del termine. Ciò in quanto gli effetti più perversi della politica hanno investito un’esistenza paga di studi, imponendo alla stessa riflessione filosofica, orientata verso le sue scaturigini greche, l’onere di farsi carico della violenza “del proprio tempo e della propria situazione storica”. L’esistenza di Jan Patocka, già attraversata dalla tragedia del nazismo, che lo vide protagonista, con altri, nell’opera di salvataggio degli inediti di Husserl (cèco per nascita egli stesso), fu infatti segnata dalla intensa esperienza della “Primavera di Praga” del ‘68, e infine spezzata dalla repressione stalinista, nello stesso anno che lo vide tra i firmatari di “Charta ‘77”.

 

L’originalità della sua visione filosofica - animata dallo sforzo di ancorare proprio all’inevitabilità della sofferenza la solidarietà degli uomini per la reciproca debolezza di fronte alla violenza della storia, e che si propone come soccorso del pensiero fenomenologico alla “comunità degli scossi” - è stata oggetto di un articolato confronto fra studiosi di vari paesi, sui cui contenuti ci riserviamo di tornare, in forma più estesa, in uno dei prossimi numeri.

 

 

19 Novembre 1997

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- Filosofia

Spinoza

                                            Spinoza 

                      (dal "Diario letterario" di una studentessa di filosofia)

 

 Cerco di figurarmi come Spinoza abbia inteso rendere un servizio alla collettività umana con la rappresentazione di un progetto di esistenzialità che porta a dissoluzione una delle due modalità "forti" in cui si manifesta il proprium  della specie: la modalità del pàtico  (termine caro al Prof. Masullo e molto ricorrente nelle sue lezioni). Quella zona nodale dell'umano in cui hanno luogo i cortocircuiti delle emozioni, e nella quale l'estasi poetica ha sempre visto la faccia più familiarmente nota di  Sapiens -  il polo caldo del suo universo ontico - scomparirebbe sotto l'urto di ondate crioclastiche provenienti dall'Emisfero Glaciale Logico.

[E' bastato un attimo di abbandono alla suggestione dell'estro poetico appena evocato ed ecco che la riflessione - che voleva essere filosofica - si ritrova deviata e come catturata nel campo magnetico di quell'immaginario dal quale ci viene raccomandato di tenerci al riparo. Il risultato ha un colorito vagamente apocalittico. Devo ricominciare daccapo.]

Nella prospettiva spinoziana il soggetto individuale si sa  "modo" di una totalità di cui le parti sono onticamente correlate da una legge di necessità intrinseca e assoluta. Questa consapevolezza, conquistata mediante un lungo processo di autodefinizione conoscitiva, non lo porta all'affermazione di una solidarietà universale in cui l'individualità si auto-censuri in ciò che le è più proprio per un vantaggio universalmente utilizzabile (come in qualche modo farà più tardi con Hegel). Paradossalmente, egli sceglie per la propria realizzazione un cammino di solitudine, fatto di rifiuto di tutto ciò che lo correla agli altri soggetti empirici, "non sterili" sul piano dell'affettività. E' un distaccarsi progressivo almeno da quanti non siano subito sulla stessa direttrice di marcia.

E non è il distacco al modo del mistico - la cui scelta conserva pur sempre traccia di un valore testimoniale, quindi di una implicita caritas, come consapevolezza di autoelezione a un ruolo di avamposto spirituale, che presuppone una retroguardia cui quell'esperienza potrà recare vantaggio.

La solitudine del soggetto spinoziano si costruisce sull'auto-immunizzazione progressiva contro i soprassalti di quella humanitas considerata valore supremo ben prima che fosse assorbita all'interno del concetto cristiano di caritas.  E questo può solo spiegarsi come correlato della assoluta, infinita neutralità di un Dio asettico e indifferente - che non odia e non ama - che non guarda e non pensa se non se stesso: vero opposto, insieme, sia del Dio di Abramo e di Israele, sia di quello del Golgota e della con-passione.

L'uomo di Spinoza è diverso da tutto quanto la tradizione ci ha consegnato, perché diverso è il suo modello di riferimento metafisico. L'antropomorfismo della divinità è una costante della cultura occidentale - anche se il Cristianesimo ne ha precisato i termini rovesciandone gerarchicamente l'ordine implicito nella definizione stessa: l'Uomo è fatto a immagine di Dio - non viceversa. Spinoza non si è sottratto al cambiamento prospettico, rendendo peraltro ancora più intrinseca la derivazione dell'uno dall'altro.

Ma è legittimo il dubbio che, nella realtà empirica, l'operazione tutta ratio  con cui egli ha posto i termini della complessa unitarietà del reale abbia seguito l'ordine inverso: posto l'uomo che sceglieva di essere, l'uomo-Spinoza creava per se stesso il Dio che meglio conveniva all'attuazione del suo disegno - quello in cui fosse maggiormente esemplata la forma di perfezione cui egli aspirava, e che avrebbe dovuto guidare il suo progetto ontopoietico, ossia il suo divenire intellettuale.

Egli poteva così concludere la propria opera in quella beatitudine dell'essere che proviene dall'Amor Dei Intellectualis, e cioè dalla compiaciuta contemplazione intellettuale di se stesso. Ma per far questo, Spinoza ha dovuto neutralizzare l'alterità - flagello irriducibile e necessario della soggettività empirica. E lo ha fatto in tutti i luoghi in cui la granitica compattezza della sua costruzione lo consentiva:

- nella costituzione del suo orizzonte ontico, diluendola nella sostanzialità unica e unitaria che tutti ci costituirebbe;

- nella sfera del senziente (o del pàtico ), riducendola a presenza meramente fantasmagorica, quasi elemento alchemico che l 'Io-pensante può manipolare a proprio uso e consumo, per dare o togliere consistenza a un'oggettualità che non giunge così mai a diventare vera minaccia all'interno del modello di conoscenza spinoziano;

- sul piano noetico : mentre in altre filosofie l'alterità viene posta come necessario contraltare dell'Io, qui la sua stessa pensabilità è messa a dura prova.

Il pensiero, in quanto funzione di quella sovranità assoluta che è la Conoscenza, ne disinnesca la potenzialità eversiva, relegandola nel regno delle ombre e della non-realtà.

L'Essere  vive solo nella persona dell'Ego -  organo delegato della conoscenza. Ogni altra forma di soggettività è respinta in una funzionalità gregaria, più prossima al non-essere di quanto possa apparire ad un sommario approccio. Così è servita la maestà dell'ego, la quale - apparentemente negata - sopravvive nella funzionalità più alta che si possa dare in una prospettiva filosofica.

 

Post-Scriptum - A Spinoza devo un reale accrescimento della mia capacità di mediare fra i campi di forza che si contendono il dominio dell'Io - e che fanno della soggettività empirica quasi una semplice funzione simbolica della conflittualità universale da cui l'esistenza stessa appare governata.

E' un debito che non si lascia mettere in questione. Ma tuttavia devo impedire che esso assuma una consistenza tale da vanificare col suo peso il vantaggio conquistato.

Tra ragione e immaginazione, il  gioco  letterario si fa momento rituale di esorcizzazione della tendenziale costituzione di una nuova  Auctoritas  spirituale.

 

 

Teresa Nastri

 

 

(Marzo 1992 - corso di filosofia morale del Prof. Aldo Masullo)

 

 

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- Informatica

Uomini o...Alieni ?

                                                 Uomini o... Alieni ?

                 ( Una pagina di diario, specchio parlante della coscienza )

 

Lunedì, 22/3/04 -  Bollettini di guerra si susseguono a partire da Uno mattina: Kossovo, Israele, Palestina, Irak...

E Italia: marcia per la pace con aggressione, "veleni di stato" esportati in Somalia, fondi enormi per la "collaborazione" inghiottiti da pozzi che invece di acqua emettono contaminazione e radiazioni; Ilaria Alpi uccisa perché non potesse svelare, e inchiesta appena archiviata senza alcun indagato.

Stadio Olimpico a Roma paralizzato da ultras che mettono in scacco tutto il sistema di prevenzione contro le violenze, e gran parte della popolazione maschile che oggi piange sul derby interruptus...

Il "villaggio globale" si rivela sempre più un campo minato dalla demenza globale.  Forse lo era anche prima che lo si definisse tale, ma non saperlo equivaleva ad affacciarsi sul proprio orticello per poter stabilire cosa fosse più utile seminare.

Le notizie che oggi ci aggrediscono in tempo reale scuotono identità consolidate sull'ignoranza della faccia oscura dell'umanità, e sulla fede in una possibilità salvifica. Lo schermo televisivo, da piccola interfaccia fra la singola coscienza e il resto dell'umanità, si trasforma inevitabilmente in uno specchio che riflette l'immagine di ciascuno di noi confusa e alterata dalle tenebre di una notte in cui "tutte le vacche sono nere".  Costretti a identificarci con l'assurdo e l'irragionevole, che scopriamo irredimibile fondo dell'umano, non ci è più possibile sentirci diversi.  Dopo aver esiliato gli dei, vediamo il nostro spazio vitale contrarsi sempre più, anziché dilatarsi, e il mondo ci si stringe addosso come una gabbia globale in cui sopravvivenza significa ferocia - esercitata e subita, secondo i momenti e l'angolazione  presa dal contingente.

"Homo homini lupus" recitava Plauto, ma io credevo piuttosto a Terenzio: "Homo sum, humani nihil a me alienum puto" - riecheggiato dopo due millenni dal film Per chi suona la campana : "Quando un uomo muore, io muoio con lui... perché partecipo dell'umanità...".

 

Oggi non so più chi sono, né se potrò ancora credere alle antiche fedi. E domani ?

 

(pubb. su Cosmoggi sett/ott. 2004)

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- Filosofia

Felicità

 

(ovvero:l’ambigua universalità dei sentimenti)

 

“L'essere che può venir compreso è linguaggio” - dice Gadamer e, al di là dell'interpretazione che ne è circolata, a partire dalla vulgata  di Vattimo, in qualche modo l'affermazione trova nobili e alti sostegni nella tradizione di pensiero che ci costituisce. Penso ad esempio ad Aristotele per il quale il linguaggio “è l’ambito comune ad ogni forma di sapere e di comunicazione umana”, lo strumento che “organizza il nostro modo di parlare del mondo, di pensarlo, di interpretarlo”.

Ma oggi questa tradizione, credo più che mai prima, sembra sfociare in una babelica sovrapposizione di tentativi egemonizzanti. E il non addetto ai lavori - in senso istituzionale, per esempio - rischia lo spaesamento proprio nella cosiddetta "casa dell'essere" - secondo la bella definizione che del linguaggio dàlo stesso Gadamer. E tuttavia non sa prescindere - il soggetto è sempre il "non addetto ai lavori" - dall'interrogarsi ogni volta, alla ricerca di un significato stabile che lo aiuti a far fronte al bisogno continuamente riaffiorante di dare un contenuto di senso alla sua esperienza esistenziale. Un bisogno che muove non dall'ambizione di spingere lo sguardo oltre  l'orizzonte già aperto da altri, ma proprio di ritrovare il senso smarrito dell’Heimisch, quel sentimento familiare di co-appartenenza all' Essere, che è parte di un comune sentire, al di qua di ogni dotta enunciazione.

Ma non è soltanto sul piano delle lingue naturali storicamente affermatesi che vedo profilarsi il problema all’idea di affrontare un tema così “caldo” come quello di oggi. Penso anche al proliferare continuo delle koinoi,man mano che la tendenza moderna alla iper-specializzazione dei saperi si trasforma quasi in un processo di speciazione da cui germinano sempre nuovi “giochi linguistici”.

Tra essi, quello della filosofia richiederebbe competenze molto più complesse di quelle che mi riconosco. E tuttavia, in quell’interno crocevia che è la coscienza individuale le direttrici concettuali s’intersecano di continuo con le pulsioni in lotta tra loro e col reale del mondo esterno, e si lasciano contaminare dal marasma delle emozioni, intrecciandovi nodi spesso inestricabili - grazie ai quali, anche,  tutto (faticosamente) si tiene.  

Ecco perché, in definitiva, la filosofia non si lascia mettere da parte per partito preso.  E torna alla mente Aristotele, per il quale la felicità è una costante ricerca di tutti gli uomini, e quindi il fine per eccellenza dell’agire umano. E poiché essa consiste nell’esercizio della ragione e viene a coincidere con la virtù, il massimo di felicità cui si possa aspirare è la vita dedita all’attività teoretica. “La felicità della contemplazione e della pura conoscenza... rende l’uomo simile a Dio, egli pure solitario e contemplatore” (cito da Vegetti).Ma il mondo greco, che per tanti versi ci affascina, erigeva a virtù l’Otium intellettuale - segno distintivo dell’essenza superiore dell’uomo, nei confronti dei Barbaroi (ossia di quelli che parlavano una lingua diversa)edegli schiavi.

D’altra parte, quel mondo, dal quale Aristotele attingeva gli spunti per la sua speculazione, era in qualche modo più semplice della nostra modernità, che propone ogni giorno paradigmi nuovi, produce e brucia valori come fossero titoli azionari, riduce “l’esercizio della ragione” a pura strategia carrieristica, trasforma le professioni intellettuali in pratiche narcisistiche e le sedi istituzionali del sapere diventano, in molti casi, vivai di burocrati in perpetua competizione reciproca.

 

Spinoza, dopo quasi due millenni, era sulla stessa direttrice di marcia: “Il frutto della mia capacità di apprendere ha fatto di me un uomo felice… Vale la pena di consacrare la vita a coltivare il proprio intelletto… Concedo agli altri di morire per ciò che stimano il loro bene… a me sia permesso di vivere per la verità”.  [Ma quale è la verità per l’uomo moderno? Per che cosa varrebbe oggi la pena di vivere… o di morire?]

Egli ci ha offerto un paradigma granitico per definire lo stato dell’essere identificabile con la felicità, anzi con la beatitudine, che la esprime ai massimi livelli. Ricordo l’alternanza continua dei miei stati d’animo e di mente, mentre studiavo l’Etica: passavo da momenti di grande esaltazione, dinanzi all’esercizio di una tale potenza intellettiva, ad altri di confusa irritazione, man mano che con gli occhi della mente vedevo crescere un edificio in cui non avrei mai potuto abitare, se non al prezzo di snaturarmi al punto da perdere ogni rapporto di contiguità con ciò che ero - e che tuttora sono.

Non so più quale dei due orientamenti fosse più forte. Ma so che alla fine, con un po’ di perfidia, mi rifeci della fatica che quello studio aveva richiesto distorcendo l’ “Amor Dei Intellectualis” in “Amor Sui Intellectualis”, ossia in ”compiaciuta contemplazione intellettuale di se stesso”.

(Ma, altrove, Spinoza scrive anche che “la chiarezza del conoscere... diminuisce il potere inventivo...”; e Antonio Renda, nei suoi “commenti e note” all’ Etica, ci segnala - dietro “il freddo geometrismo espositivo che nasconde il problema vero del suo pensare” - uno Spinoza più umano, al quale m’inchino...).

 

Come dire allora qualcosa sulla felicità se la mente non riesce a in-trattenere un'idea “chiara e distinta”del particolare stato dell' Esserci che il termine dovrebbe designare? Designare, dico - ossia alludere, indicare, rinviare a..., non definire, tanto più che fin da Giordano Bruno, come ci ricordò il Prof. Masullo in occasione di un precedente felice incontro seminariale, la tendenza a definire, propria della filosofia, poteva essere vista come un inciampo nello scacco della rinuncia all’infinito, che resta così affidato alla capacità immaginativa - più universale, forse, e di certo, almeno così a me sembra, più democratica della filosofia stessa.

Ma qui - ancora una sospensione di giudizio, ad opera dell’atteggiamento pratico orientato alla prudenza  -  l’infinito a cui mi fa pensare questa semplice riflessione, che non ha alcuna pretesa di scientificità o di legittimità metodologica, è quello che Borges chiama “la infinita algarabía  que es la historia del mundo”. Un guazzabuglio che parte dalla varietà e molteplicità delle singole prospettive da cui la storia stessa - così come la felicità  (ma l’aggiunta è mia!) - possono essere pensate.

Evito, del resto, il ricorso diretto alla Poesia, alla quale riconosco un ambito di possibilità molto più vasto e una legittimità originaria, ma che per ciò stesso aumenta il mio senso di inadeguatezza - salvo poi chiamarla in causa, come ho appena fatto, quale testimone a conferma della fattualità  a cui pure apparteniamo in quanto sinolo - ossia materia e forma combinati col concorso di contingenze di varia natura.

Né mi rimetterei al senso comune, che comune è solo in modo illusorio -  proprio perché le convinzioni su cui poggia lasciano squarci di indeterminatezza in cui trovano posto le infinite variazioni dei modi dell’Essere incarnato nella materia vivente, per intrinseca necessità del suo dispiegarsi.

 

Resta la prospettiva psicologica, che comprende quella psicoanalitica - alla quale la filosofia guarda con qualche sussiego, ma che per l’indigenza della singola coscienza rappresenta spesso l’ancora a cui appigliarsi per evitare la deriva della perdita di contatto perfino col proprio sé più intimo. Un sé nei cui confronti, consapevoli o meno, non facciamo che cercare un senso, ossia un contenuto che serva da ancoraggio e gli assicuri stabilità - senza la quale l’ Io  rischierebbe di ridursi a un vuoto calco linguistico.

E qui, pur nel ristretto perimetro dell’esperienza individuale (ma forse dovrei dire personale, giacché questa è la sola che mi è dato osservare da vicino) in cui questa riflessione tende a circoscriversi - già le cose si fanno complicate. Quando e come, nella mia interiorità fosse avvenuta la scelta ideale che mi portava a dichiarare, provocatoriamente in qualche caso, che la sola vita degna d’essere vissuta era quella della mente, non saprei dirlo. Ma per poco che mi siano note le coordinate principali del pensiero di Freud, so che l’esistente adulto è spesso portatore di tendenze che possono assumere la forza cogente di un conatus  irresistibile. Ma questo andrebbe generalmente in direzione opposta a quello teorizzato da Spinoza  (...oppure no???). 

Ricordo inoltre la sua teoria della sublimazione e di una civiltà umana cresciuta grazie al sacrificio imposto ai singoli attraverso l’educazione e l’organizzazione sociale. E quella sua pensosa notazione secondo cui “... se la civiltà esige sacrifici tanto grandi... allora si comprende perché l’uomo stenti a trovare in essa la sua felicità...”

Penso allora al bisogno di solitudine, cho ho sempre intesa come conquista di libertà dagli impegni del sociale nelle sue varie articolazioni, e come intimità con me stessa, ma che contrasta con l’insuperabile necessità umana di inter-esse, da cui non sono affatto immune.

 

So, per averne avvertito il peso, che la “scelta” cui accennavo prima, in favore dell’impegno volto alla comprensione di ciò che ci costituisce in quanto umani, mi ha segnata con una frattura difficilmente sanabile e ha condizionato pesantemente il mio quotidiano. Il bisogno di approfondimento teorico sembrerebbe infatti andare in senso contrario a quello della vita, che chiederebbe solo di essere vissuta. Ma vi sono anche evidenze concrete e testimonianze autorevoli del contrario. E mi soccorre a questo proposito un breve aforisma di Nicolás Gómez Dávila, che ha subito attratto la mia attenzione: “Vive la sua vita solo chi la osserva, la pensa e la dice. Gli altri, la vita li vive”.

E vorrei chiudere questo tentativo di riflessione in actu dando nuovamente la parola al poeta-filosofo Luis Borges, che conclude il frammento già citato all’inizio osservando che nel vorticoso guazzabuglio della storia “passano Cartagine e Roma, io, tu, lui / la mia vita che non comprendo, quest’agonia / d’essere enigma, caso, criptografia / e tutta la discordia di Babele.”

Versi come questi possono suscitare nel lettore emozioni che si sottraggono al controllo puntiglioso della ragione. Quanto a quelle che accompagnano l’erompere della visione artistica e il travaglio dell’atto creativo, una volta mi folgorò l’espressione “tormento del sublime”. Mi parve bellissima e pensai che essere artista si dovesse sempre pagare con la rinuncia alla felicità. Ma ero nella fase in cui le energie psichiche dell’adolescenza si ritraevano quasi con disgusto dai giochi noti e cercavano nuovi investimenti, che non fossero passatempi effimeri. Ripensandoci ora, mi chiedo se qualcuno la userebbe ancora un’espressione come quella, o se essa sia da considerare alla stregua di un filo di bava sfuggito a un rigurgito di romanticismo.

 

Teresa Nastri

Il testo risale al 12-12-1997 - mi segnala il mio Mac. Non fu una riflessione nata autonomamente, come in altre occasioni; ricordo di avere fatto una breve ricerca, perché mi era stato chiesto di preparare un testo sull'argomento per una serata tra amici, a cui partecipava il Prof. Masullo.

 

 

 

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- Antropologia

Rapina con Sorpresa

 

Fenomenologia di un interagire relazionale

 

Il giovane con la pistola - nel corso di un improvvisato e convulso dialogare che non lascia tempo alla sorpresa per farsi avvertita emozione -, si sforza di apparire pericolosamente minaccioso. Con lo sguardo fermo sulla mia faccia e il foro dell’arma puntato verso il mio petto, mi avverte forse per la quarta volta: “Sta’ zitta, ho detto, non farmi fare una cosa che non voglio fare...!”.

Un lampo: la famosa sequenza di un film di tanti anni prima, credo con Alberto Sordi, torna in mente e mi porge la battuta. Adeguatamente enfatico, anche il tono della voce si sforza di far fronte alla circostanza: “E fallo! Spara...!”. Ma subito soccorre la ragione pratica e riflettente: “Non hai capito che se mi ammazzi mi fai un favore...!?”

Il ragazzo mi fissa per un attimo, poi rilancia la minaccia, precisandone i termini: “Adesso ti sparo nelle gambe!”. Già... non mi farà il favore  di uccidermi.

A questo punto il complice, non armato, lascia la postazione di guardia alla portiera opposta, dove il mio amico - pallore da rigor mortis  e afasica sudorazione - continua tuttavia a respirare, e percorre con pochi passi il semicerchio che la parte anteriore della vecchia cinquecento disegna sull’asfalto. Senza quasi parlare, allunga una mano verso il mio giubbino di pelle. “Non te lo do il giubbino... fa freddo e mi serve per stare calda”. Rinuncia e volge la sua attenzione verso i miei anelli: “Dammeli”. Il ragazzo con la pistola allunga la mano libera, mi sfila l’anellino a doppio cerchio d’oro con brillantini, lo passa all’altro. E inscena una piccola pantomima: gira e rigira più volte con le dita ruvide la fede  ancora scintillante al mio anulare sinistro;  poi, rivolgendosi al compagno, dice con voce ferma: “Questo non se ne viene”.

   Sono passati quarant'anni da quella sera di febbraio. Al mio anulare sinistro brilla ancora lo stesso cerchietto d'oro - e ogni volta che lo sguardo vi si posa non so reprimere un sorriso: che avrà fatto in tutto questo tempo il giovane rapinatore?

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- Sociologia

Donne : “angeli” domestici o custodi di senso ?

 

La bellissima foto di Carolina Lieto -pescatrice di Posillipo con qualifica professionale di mozzo, secondo l’albo della “gente di mare” - campeggiava al centro della prima pagina di cronaca cittadina su La Repubblica del 15 gennaio. Un viso mediterraneo e aperto, il busto proteso nel  movimento leggermente torsivo di chi si trovi a procedere in barca con un solo remo, i lineamenti contratti nello sforzo della messa a fuoco tra riverberi cangianti e orizzonti  che sfumano... E i caratteri cubitali del sovrastante titolo a 4 colonne - che nulla aveva a che vedere con l’immagine - sbiadivano, arretrando su uno sfondo opaco di lotte e miserie quotidiane.

L’immagine - fissata insieme ad altre da Antonio Biasucci per raccontare una delle “30 storie di donne nell’Italia che cambia” - potrebbe essere la foto-manifesto della mostra itinerante, di forte impatto figurativo, che si estende su una ventina di pareti, non solo perimetrali, della chiesa di San Severo al Pendino, per restarvi fino al 12 febbraio.

 Il mondo gira anche grazie al lavoro delle donne,  e la mostra fotografica sul ”quotidiano al femminile” documenta in modo ampio e variegato il superamento degli steccati che per secoli hanno segnato i confini culturalmente fissati fra le “due metà del cielo”. Quanto meno nell’Occidente progredito; dove, ad esempio, della casalinga, celebrata come “angelo del focolare”, abbiamo spesso sentito i mariti - occasionalmente interrogati in merito - rispondere: “Mia moglie non fa nulla, sta a casa...”

Ma la mostra, frutto di un progetto a cui hanno partecipato almeno una ventina di artisti-fotografi, e il bellissimo catalogo che la riassume - fatto di immagini e di testi che ne integrano e sottolineano il significato testimoniale - sollecitano riflessioni che partono dal luogo comune per arrivare al testo biblico, dove si vede Dio punire Eva e la sua discendenza femminile destinandola a perpetuare la specie “con dolore”, affinché Adamo, libero da altre cure, possa spandere il sudore della sua fronte per procurar loro cibo e riparo dai pericoli ambientali.

Come non pensare che la millenaria “separazione dei ruoli” abbia avuto origine e sia stata perpetuata per il malinteso  adempimento di un mandato divino?

La ragione riflettente, infine, si acquieta ricordando un più recente giudizio di intellettuali - specie filosofi - che alla donna riconoscono una connaturata tendenza alla “cura dell’esistenza”.

 In questa formula sono racchiusi significati molteplici e profondi sul contributo di senso che l’animo femminile può ancora riversare sulla nostra contemporaneità, mentre la vita stessa è sempre più esposta non solo all’usura del tempo, ma alla perdita di valore di tutto quanto non sia quotato in borsa.

 

 Teresa Nastri

(Apparso sul periodico Cosmoggi - n° di febbraio/marzo 2004)

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- Politica

L’Affare Moro

(Scritto dopo la lettura di un articolo su Repubblica di venerdì 19/6/98)

 

Una coscienza - sociale - piccola piccola (nel senso di non possedere particolari contenuti di conoscenza su cui fondare proprie visioni delle cose che accadono nel c.d. sociale - per es. in politica).

Improvvisa illuminazione sui retroscena di un dramma collettivo. Affare Moro: ‘comprensione’ delle possibili ragioni dei Brigatisti per tacere su (probabili?) corresponsabilità di Servizi c.d. ‘deviati’, o comunque di centri di potere oscuri che l’Italia sembra aver sempre alimentato nel seno stesso delle sue istituzioni pubbliche.

Cossiga (sospettato di appartenenza massonica, allora Ministro degli Interni) giura e spergiura sulla lealtà della lotta di Andreotti per lo Stato contro la Mafia (ritengo che pochi in Italia ci credano veramente).

Scalfaro, eterno DC (ma a mio avviso la sua connivenza con gli strapotenti di sempre potrebbe essersi limitata, come quella di molti altri, alla non denuncia di quanto sapeva o almeno intuiva), potrebbe benissimo oggi (da Capo dello Stato di un Paese che imprevedibilmente sembrerebbe essersi liberato di una delle tante piovre con cui ha imparato a convivere da secoli) aver deciso che occorra e che si possa fare di più per impedire che gli stessi burattinai  di un tempo riprendono in mano le leve che fanno muovere la baracca.

I Brigatisti: la grande incognita dell’equazione. Fin qui. Perché avrebbero taciuto su responsabilità altrui? Perché non far sapere alla “società civile” - ancora restia a un atto di c.d. clemenza verso una devianza politica sostenuta da un forte contenuto ideologico - di cui essa, peraltro, ha imparato nel frattempo a parlare con rispetto - che altri ben più responsabili hanno approfittato della loro carica ideologica per fini molto più ignobili (se non altro perché da loro stessi ritenuti non confessabili) ? Si sarebbe trattato di portare allo scoperto tutto il marcio in cui si muoveva il Gotha del Potere in carica (DC/PS), impedendo la sua ri-organizzazione - oggi già in avanzato stato di attuazione. Perché dunque? Scalfaro - che è pur sempre un raffinato prodotto di una raffinata fonderia politica - improvvisamente lo ha spifferato in modo chiarissimo per chi sappia e voglia intendere, ma facendo passare la rivelazione come semplice ipotesi, o inferenza - quello che si usa definire un teorema : non vedo nei Brigatisti (tutti ormai noti) quei giganti capaci di ordire e gestire in tutte le sue fasi un disegno strategico della portata di quello che ha travolto la scomoda (soprattutto per i suoi stessi correligionari politici) esistenza dell’On. Aldo Moro.

E’ la risposta che non sapevo darmi. Di colpo tutto mi appare chiaro. I vari Moretti, Faranda e Co., non hanno neanche oggi la statura morale (direi culturale, che per me è quasi la stessa cosa) necessaria per ammettere di non essere mai stati quegli eroi puri e sconfitti di una tragedia degna della compassione degli stessi dei.

Gli auto-inganni sono i più difficili da smascherare. E gli auto-miti rivelano la pochezza immaginativa dell’Io.

L’ego-collettivo brigatista si tiene insieme sull’autoinganno irrinunciabile di essere stati strumenti di un destino crudele, anziché marionette nelle mani di qualche ignobile burattinaio, che essi si erano illusi di poter usare per la vittoria della loro causa. E ora sono costretti a coprire il nemico più infido della loro stessa visione politica per non dover scoprire l’insipienza retorica di tutta la sceneggiatura che hanno messo in atto - senza avvedersene - a puro vantaggio altrui. E, impassibili burattini cui qualcuno ha reciso tutti i fili, stanno a osservare impotenti come quegli avanza sulla scena che essi credevano di rifondare.

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- Letteratura

Il Volo Interrotto

                                         Il Volo Interrotto
                              (Un ricordo di Marcella D'Arle)
Un giorno la trovai in ufficio ad aspettarmi, e la sua figura mi parve più straordinaria e pittoresca che mai. I capelli lisci, di un biondo ormai smorzato, le stavano appiccicati alle orecchie che appena ricoprivano, e l'eterna frangia le cadeva sulla fronte fin quasi a confondersi con le sopracciglia. Sulle spalle aveva il vecchio lapin bianco, un po' ingiallito; sul petto, le pesanti catene coi complicati medaglioni arabi facevano pendant con la fibbia di metallo lavorato, che chiudeva in vita una vecchia cintura elasticizzata, arrotolata a mo' di un cordone. Ceste di paglia colorata, legate con spago e cinghie, erano poggiate ovunque, e dai coperchi spuntavano gli oggetti più disparati: bacchette da tavola cinese, un drappo di seta bianca, il tacco di uno zoccolo.
“Ho fatto due conferenze che son costate alla Lauro almeno un milione l’una. Da restarci secca!”
Non capivo. Chiesi: “Da dove viene?”
“Sono in transito sull’Achille Lauro, abbiamo fatto una crociera di 65 giorni, ma io voglio sbarcare a Genova e proseguire per Vienna. Perciò, carina, dovrebbe farmi il piacere di portarmi questa roba ad Amalfi.’’
“E così è stata finalmente in Estremo Oriente, ce l’ha fatta!”.
In occasione di precedenti viaggi ero riuscita a farle ottenere condizioni vantaggiose in cambio di qualche articolo sulle nostre rotte turistiche, ma la compagnia per la quale lavoravo non aveva destinazioni in Estremo Oriente.
“Pensi che mi hanno dato una grande cabina tutta per me. Una fortuna!”
Finalmente cominciò a raccontare tutto dal principio: la lettera alla compagnia armatrice, la telefonata della compagnia al suo numero di Vienna, lo sconto in cambio di qualche conferenza a bordo.
“Non ci avevo mai pensato, sa? Ho preparato tutto in fretta, le diapositive, gli appunti, i ritagli dei giornali... Un successo. Alla serata per i tedeschi il locale era pieno. A quella per gli italiani c’erano un centinaio di persone, ed erano comunque tanti, sa? Gli italiani in vacanza non è che si interessino molto alle conferenze.”
La conoscevo da vent’anni. Mi chiesi che età potesse avere: era impossibile dirlo dal suo aspetto. Dall’esuberanza entusiastica del carattere, dal suo dinamismo, dalla capacità di adattamento a tutte le situazioni (con la sola eccezione dell’impossibilità, per lei quasi fisiologica, di dividere la camera da letto con chicchessia), la si sarebbe detta un’adolescente,
ma con tratti così contrastanti che sembravano appartenere ad epoche distanti fra loro.
Ricordo i suoi slanci verbali, ma anche gli improvvisi rossori non appena si parlasse di questioni sessuali (“non mi dica che lei approva l’aborto, le pillole?... che vergogna, ma perché non si può essere casti?”).
Un tempo era stata giornalista ed aveva vissuto un momento di grande notorietà quando - con l’appoggio di Re Saud - si era introdotta nella Mecca, travestita da musulmana, e aveva realizzato il suo reportage più importante. Da allora, il suo biglietto di presentazione era sempre stato lo stesso: Sono stata alla Mecca. Una volta mi aveva mostrato alcune fotografie in cui indossava il meraviglioso abito donatole dal monarca saudita: con l’espressione del volto ‘controllata’ per l’occasione, la somiglianza con Greta Garbo era fulminante. Anche quel giorno la notai, e glielo dissi. “Sì - mi rispose con assoluta serietà - però lei si è fatta brutta, mentre io sono ancora carina”. Ma il sorriso pronto e infantilmente civettuolo la distingueva dalla divina e la rendeva diversamente meravigliosa, umana e vicina.
Parlammo del suo viaggio. “No, la Tailandia non mi ha lasciato col fiato sospeso. Amalfi, mi lascia col fiato sospeso, e la vista dalla mia casa di Pogèrola. Trinità dei Monti e Piazza Navona mi lasciano col fiato sospeso. E il Colosseo, e... sissignora, stanno tutte in Italia le cose più belle. I famosi templi di Bangkok non sono la Bellezza. Vede, in tedesco si dice Konditoreien , pasticcini colorati, come si dice... pastocchie. Sembrano di cartapesta. E Hong Kong è una città senza Dio. Però... il Taj Mahal mi lascia col fiato sospeso.”
Scriveva romanzi per ragazzi, storie bellissime quasi tutte ambientate nel mondo arabo. Scriveva in tedesco, ma da qualche anno aveva cominciato a tradursi da sola in italiano.
Professionalmente stava vivendo un periodo felice: in Austria preparavano la ristampa di due libri, proprio mentre ne usciva uno nuovo, di cui promise di regalarmi una copia: “Die Herrin der Sahara, da restarci secca, vedrà!”.
La ricordavo da sempre amica di tutti, capace di vivere giorno e notte sui ciottoli della spiaggetta di Amalfi, dove da tempo non era più un’attrazione, ma una presenza imprescindibile e integrata alla fisionomia stessa della città: come il mare, la strada serpeggiante tagliata nella roccia, e i mosaici della facciata del duomo. Ma quel giorno, in ufficio, non so più come, ad un certo momento il discorso scivolò - per mia sbadataggine - sulla politica e sui problemi sociali.
“Non mi dica che fa la comunista!”, esclamò guardandomi perplessa e dispiaciuta. “Beh, faccia pure la comunista cristiana...”, aggiunse quasi timidamente, col tono di chi si trovi in presenza di un’alternativa difficile - tra i vincoli di una fede esigente e quelli di un’indole che rifugge da ogni contrapposizione. E alla parola “consumismo”, da me pronunciata ancora più
incautamente, chiese con incredibile candore: “Che cos’è?”. La guardai a lungo, quasi cercando nelle linee del volto, nella limpidezza di uno sguardo che sembrava non conoscere doppiezza, il segreto di un modo di esistenza in cui l’aderenza materiale alla necessità del quotidiano appariva depurata delle contraddizioni più laceranti. Ma com’era riuscita a disinnescare la latente conflittualità su cui sembra radicarsi la stessa possibilità di ogni rapporto umano?
Per la prima volta, vidi nella sua espressione una serietà quasi spaventata. Qualcosa che non riuscivo a decifrare mi causò un oscuro disagio, come un presagio di colpa.

La fissavo incerta, sembrava rimpicciolita di colpo e come rannicchiata su se stessa. Poi la voce le si spense in un sussurro: “Vede, io ho sofferto tanto per la politica...” Vagamente mi ricordai che una volta, parlando di arabi e di israeliani, lei aveva accennato a un suo essere in parte di origine ebraica. Oppure lo era sua madre? no, non ero più sicura di cosa mi avesse detto.
Tentando di ricordare, mi venne in mente con chiarezza una sua osservazione, secondo la quale se non si era ebrei, nella Vienna dell’epoca, “non si entrava in certi ambienti”.
La guardavo e avrei voluto riprendere a parlare dei templi tailandesi, per cancellare quella svolta nella nostra conversazione. Ma ero sotto l’effetto di una sorpresa, e la rivelazione giunse inaspettata, prima che potessi prevenirla.
“Io sono stata anche in prigione, perché non potevano prendere mia madre, non riuscirono mai a prenderla. Ma un giorno vennero a casa, a Vienna, e trovarono tanti passaporti in un cassetto chiuso a chiave. Io non sapevo nulla, ma mia madre aiutava gli antifascisti a fuggire, così presero me e volevano fucilarmi. Quando mi lasciarono, dopo tre settimane, dissero che dovevo andarmene come straniera indesiderabile. Era di giovedì. Il sabato mi sposai e non poterono più cacciarmi. E poi, ogni volta che pubblicavo una novella, arrivavano le lettere al giornale perché non mi accettassero, che ero figlia di antifascisti... Vede, mia madre era redattrice dell’Avanti quando Mussolini era il direttore, e anche mio padre era un collaboratore di Mussolini. A Genova c’è una piazza intitolata a lui, c’è scritto 'Statista ed Educatore di Popoli', non so bene. Ogni tanto litigavano perché una era un po’ più socialista dell’altro. Una volta a Vienna venne da noi anche Saragat e non so chi altro. Mia madre era forte, aggressiva, una grande antifascista. Mio padre era più dolce, moderato. Io non sapevo niente, ma poi è stata dura, sa!... Vedersi sbarrare gli usci, le strade...”.
Una sofferenza oscura e profonda pareva salire, con la voce, dai recessi più segreti dell’anima, diventava palpabile e, mentre lei parlava, ogni frase sembrava accumulare anni su quel viso, che era stato così a lungo senza età visibile. Avrei voluto cancellare del tutto quell’ultima ora, restituirle quell’innocenza delle cose del mondo che lei si era costruita radicandola in un primordiale istinto di sopravvivenza, così saldamente da cancellare nella coscienza i contorni delle cose. Fino a confonderne il significato doloroso.
Sono trascorsi tanti anni, e per l'imprevedibile concatenazione di molte circostanze non ho più rivisto Marcella. Ma ripensando a quel lontano incontro mi sento ogni volta come chi abbia per sventatezza calpestato l’ala di una tortora fermatasi al suolo a beccare, e si chieda, sospirando di rimorso, se il volo interrotto poté mai essere ripreso.

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- Letteratura

Raccontare e leggere... per trovarsi

 

Nell'era della cibernetica, i cui sviluppi sono tanto rapidi e invasivi da farci immaginare scenari talvolta apocalittici come orizzonte e approdo delle prossime generazioni, ci chiediamo spesso dove vada la tradizione narrativa. Ma cos'è innanzitutto narrare? In primo luogo una prassi empirica universalmente esercitata. Ma anche un fenomeno ricco di implicazioni gnoseologiche; e una modalità del discorso che si fa arte nelle sue forme culturalmente più raffinate.

Nella riflessione del filosofo Paul Ricoeur, che alla narratività ha dedicato una delle sue opere più note (Tempo e racconto, pubblicata in Italia dalla Jaca Book), la massima valenza etica del racconto si lega in particolare alla c.d. questione del soggetto. La difesa della narrazione si fa difesa del soggetto, il quale - nella precarietà della sua condizione di essere-gettato  in una realtà precostituita e aliena - è alla perenne ricerca di un'identità che faccia da perno ai frammenti del vecchio cogito  - non più credibile - e della sua supposta auto-trasparenza. Decentrato e ridotto a "canna pensante" (secondo la bellissima definizione di Pascal) in perenne oscillazione, soprattutto da quando è stato investito dalla potenza disvelatrice delle teorie freudiane, il nuovo soggetto si vede costretto a cercare il senso del proprio essere nei segni e nei simboli del suo stesso agire. Un soggetto fragile e insicuro, ma tuttavia ineliminabile - contrariamente a quello che  sembra il  postulato fondamentale delle "scienze del linguaggio"-, giacché "ogni azione presuppone un agente, ogni enunciazione un locutore".

La realtà umana, complessa e contraddittoria, trova nella coerenza di una forma narrativa la consistenza intelligibile e la stabilità necessaria per non smarrire del tutto una percezione di sé che la salvi dal caos del non-senso.  Per dirla in metafora, il racconto sembra possedere la capacità di aggiungere una quota di plusvalore conoscitivo a una qualsiasi esistenza, e in ciò, paradossalmente, anche l'uso di materiali inventati assume una funzione eticamente positiva, se inteso come contributo di rischiaramento e non come strumento di falsificazione.

Nella teoria del racconto, il fenomeno della lettura chiude il cerchio della costituzione del senso complessivo dell'opera e rappresenta il momento in cui il lettore, nel faccia a faccia con una "proposta di mondo che potrebbe essere abitato", è chiamato a un confronto da cui il suo stesso sé uscirà modificato. L'operazione ricettiva, infatti, riferisce il contenuto dell'opera a un reale concreto e in un cero senso familiare : il mondo del lettore e la sua modalità di abitarlo. E la coscienza del lettore, nell’analisi ricoeuriana, diventa il “sito ontologico” delle operazioni di senso e di referenza nei confronti dell'opera.

Dall'incontro, nessuna delle due entità uscirà immutata: l'opera sarà arricchita da un contributo di senso inedito; l'identità del lettore, passata attraverso "le variazioni immaginative dell'ego", sarà rischiarata dalla luce della riflessione da cui l'opera è sorta (o che da essa avrà preso il via).

La narrazione si rivela così un soccorso irrinunciabile per la coscienza moderna, sempre più in preda al disorientamento, ai dubbi, alle perplessità in cui sembra destinata a risolversi la sua esperienza esistenziale.

 

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- Scrittori

Amori di Giornalista

Amori di giornalista

 

“J’ai deux amours...” cantava una volta il pubblico di un grande teatro, per onorare una grande cantante che aveva scelto di rivestire il bronzo della propria pelle coi colori mutevoli delle stagioni parigine. Due sono anche gli amori, dichiarati o manifesti, di Gaetano Afeltra (almeno per quanto riguarda la sua vita pubblica): il “Corriere della sera” e Amalfi. Ma dire “Corriere della sera” è dire inevitabilmente anche “Milano”, la sua vitalità, il suo dinamismo, il suo cuore più generoso e cosmopolita. E per due sere consecutive, il 28 e il 29 di agosto, queste diverse realtà si sono raccolte intorno a lui nell’austera ma accogliente cornice del Salone Morelli. Nella prima delle due serate, il giornalista-scrittore, nel ruolo di anfitrione, presentava al pubblico amalfitano il libro Pappagalli Verdi  di Gino Strada - medico e docente universitario trasformatosi in “chirurgo di guerra” per passione umanitaria - al quale il giorno precedente era stato assegnato il Premio Viareggio per una sezione “internazionale” appositamente istituita, come ha tenuto a sottolineare lo stesso Afeltra. E per l’occasione, a sostegno dell’azione di Emergency e dell’équipe sanitaria di Gino Strada - che fonda, ovunque si dia emergenza, ospedali e centri di riabilitazione per le vittime delle mine antiuomo - il Centro Sportivo Amalfitano ha consegnato ai rappresentanti di quest’associazione la somma di un milione, raccolta fra i propri iscritti.

Il secondo dei due incontri è con Ettore Mo, un altro grande del giornalismo italiano, di cui è appena uscito da Rizzoli il volume Sporche guerre,  una raccolta dei suoi celebri reportages  da fronti di belligeranza diversi - e mai troppo lontani, perché non ci coinvolgano tutti! E’ l’occasione per un affettuoso dialogo fra vecchi amici, sul filo di ricordi comuni che muovono da un unico centro: quel “Corriere”, primo amore dichiarato di Gaetano Afeltra. Apprendiamo così che nel ‘79, per intuito dell’allora direttore Franco Di Bella, Ettore Mo si trovò di punto in bianco trasformato da esperto di arte e spettacoli culturali, a cronista di guerra. Gli aneddoti si susseguono, e sembrano piccoli fatti, detti così, commentati dalla franca risata di Mo e dal sorriso pensoso di Afeltra: quasi note a margine in un diario d’autore. Un amarcord  che apre per noi piccoli squarci su un particolare tipo di comunità, che cresce e vive come un organismo plurimo, in cui pulsa un solo cuore: il giornale!

Teresa Nastri

 

 

Napoli, 6/9/99

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- Letteratura

Arte e Finzione

Arte e finzione

 

“Il poeta è un fingitore”,afferma Pessoa. L’artista in genere è un fingitore, forse per quell’ “aria di famiglia” che circola all’interno di tutto ciò che costituisce il mondo “ristretto” di chiunque identifichi la propria esistenza con la necessità di un fare particolare, che ne costituisce la cifra. Un fare che assimila a sé e modella (trans-forma o de-forma) tutti gli aspetti della realtà e dello stesso ,  e dà loro un senso - altrimenti cercato invano.

L’arte è fuga dall’immediatezza del riconoscimento di un senso dato. E’ rifiuto di un dono accettato come una grazia e di cui, in tal modo, si finisce con lo svalutare la portata: c’è, mi vien dato, lo prendo. Tutto così naturale da obnubilare l’atto originario della donazione a cui l’esistenza stessa mette capo.

L’artista è un fingitore: ha bisogno di fingersi creatore e donatore di senso. Per farlo deve attraversare l’inferno della perdita, dell’estraniazione, della manchevolezza assoluta, da compensare con un fare che tenda al ripristino, al rinnovamento, alla riformulazione. Perciò un artista è sempre un esule, anche nella quotidianità degli affetti ai quali si lega - con la speranza che lo aiutino a sopraffare i marosi da cui è sempre minacciato: quelli della perdita totale di un filo di collegamento con l’umanità divenuta massa informe. Perché da essa la sua vulnerabilità sempre esposta non sa prescindere del tutto.

E’ questa la vera diversità: quell’essere dentro-fuori, esule volontario e bandito - oppure teso a una riunificazione che superi il repulsivo rifiuto di ciò in cui ci riconosciamo uguali.

 

La modernità ha elaborato stratagemmi svariati - un sistema complesso e ben oleato - per individuare le nature artistiche più flessibili e addomesticabili, da chiamare al successo.

Ma qual è la dimensione interna dell’artista di successo? E’ quella del distacco, della distanza, dell’estraniamento, rispetto all’opera, oppure dell’appartenenza sempre e nonostante tutto? Chi può dirlo? Il sistema è tale da riuscire perfino a sottrarre la coscienza artistica - grazie ad artifizi e tagliole elaboratissime - alla percezione della propria solitaria mancanza di un posto certo nel mondo. Gli artisti di successo rimediano intrecciando relazioni fra loro - creando (fingendo) connessioni comunitarie nel cui intreccio si possono fingere a casa - non più esuli, ma installati nel cuore di un’esistenza i cui confini visibili si fanno rassicuranti. E l’arte, spesso, si fa pura techné. Un fare sapientemente autocosciente, finalizzato a scopi positivi che svelenano l’aria intorno. L’ “aria di famiglia” viene ripulita dai vapori originari - avvertiti come patogeni.

La famiglia non è più quella dispersa nella moltitudine informe dei più, in un raggio che tocca il limite, il margine che separa l’esistente dal niente. La famiglia, ora, è l’insieme degli operatori di successo - che sanno di esistere perché lo proclama il sistema. L’aria che circola all’interno della loro comunità ristretta è quella di “famiglia allargata” in senso odierno - ossia legata da vincoli indiretti, obliqui, multivalenti. Non c’è più l’ansia del doversi trovare. Ora, quell’ansia la si può solo fingere - una dimensionalità sancita e riconoscibile dell’esistenza provata dall’arte. Mentre invece gli altri - artisti portatori innocenti di un carattere ontologicamente destinale che li segna fin dall’inizio - continuano a fingere un fare che li salvi dal deserto dell’ in-differenza.

La finzione - in entrambi i segmenti - resta il filo che collega l’individualità all’origine.

(Forse si potrebbero dire le stesse cose di tutti gli uomini. La differenza sta nel fatto che per gli artisti la mancanza ontologicamente fondante è avvertita come  sofferenza, non riconducibile ad alcuna cosa che possa essere barattata o acquistata con strumenti forniti dalla modernità.)

 

 

 (2001)

 

 

 

 

 

 

 

 

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- Letteratura

Giappone mon Amour

GIAPPONE MON AMOUR

 

 

Quell'ansia sottile e indefinibile che precede tutte le partenze era la sola cosa che provavo lasciando l'Italia.

Stranamente, il meccanismo dell'immaginazione non era scattato come d'abitudine. Forse perché il Giappone non era una meta che avevo scelto deliberatamente, dopo riflessioni e calcoli accurati, come per ogni altra vacanza. Un paio di imprevedibili circostanze, del tutto fortuite, mi avevano improvvisamente messa di fronte alla possibilità di beneficiare del viaggio aereo gratuito, in occasione di un volo inaugurale, a sole 36 ore dalla partenza: prendere o lasciare.

 

Del Giappone avevo un'idea turistica di tipo oleografico: Monte Fuji, pagode, mandorli in fiore, paesaggi romantici; geishe avvolte in raffinati kimono ad uso e consumo dei visitatori occidentali; immagini di Budda dalle mani intrecciate, le sopracciglia ad arco e la bocca a cuore...

Dopo solo 10 giorni dall'arrivo, lascio il Giappone con un senso di commozione profonda, quasi religioso - come di chi abbia casualmente assistito al manifestarsi di un prodigio in cui non avrebbe mai altrimenti creduto.

Nel confuso mosaico di immagini stereotipate e asettiche, i sensi tesi alla scoperta di una realtà che si rivelava ogni giorno più ricca e composita, una capacità di percezione acuita dalla necessità di sopperire in qualche modo alla difficoltà di comunicazione, hanno finito con lo scomporre e ricomporre dati esperienze e nozioni, come in un gioco di pazienza; e i tasselli - riordinati - hanno prodotto alla fine un quadro vivo, dinamico nella sua policroma bellezza, assolutamente nuovo e inaspettato.

 

Il Monte Fuji è nascosto dalle nubi; il lago Hakone ha la bellezza tranquilla di altri già visti altrove, ma il paesaggio è più bello; le profonde vallate ai piedi dei monti che sovrastano Nikko, sotto la neve inattesa di questo inizio di aprile, ricorda certe visioni alpine di casa nostra. Ma ai "mandorli in fiore" del nostro immaginario si sono ben presto sostituiti i "cherry blossoms": un miracolo prodotto dalla natura e dall'amore di un intero popolo per tutto quanto vi è di più gentile e delicato. Esplodono da ogni angolo; i loro petali si staccano dai rami - del tutto privi di foglie - ad ogni minimo soffio, e vi cadono sulle spalle, sui capelli: quasi minuscole creature che brucino la loro fragile vita per darvi il benvenuto. Non c'è guida turistica che non li additi alla vostra attenzione ad ogni passo, non con l'insistenza pedante del fanatico, ma con la premura dell'ospite, attento a che nulla perdiate di quanto ha da offrirvi.  Man mano che essi si moltiplicano sotto i vostri occhi, sentite crescere dentro di voi - anziché diminuire - l'estatico stupore che essi producono nel visitatore che viene da lontano.

 

Al di là dei particolari architettonici e decorativi - che non sono mai fini a sé stessi, ma rispondenti alla necessità di rappresentare simbolicamente i contenuti religiosi e filosofici nel modo più suscettibile a impressionare la mente del seguace - scoprirete che le pagode sono parte dei templi, in quanto il tempio stesso non è - come generalmente si ritiene in Occidente - un luogo chiuso e circoscritto, ma un'area più o meno vasta, che contiene diversi edifici sacri.

Dopo le prime impressione di immanenza vagamente terrificante, riportate dalla visita del tempio Sanjusangendo, con le sue 1001 statue di Kannon - emanazione femminile di Budda, dalle molte teste e braccia - o la facile ilarità che sul principio comunica la buffa faccia del dio dalla bocca a cuore, ci si comincia a sentire pervadere da un senso di mistica partecipazione. Fino a che, nel tempio di Rakanji a Tokio, osservando l'espressione di serenità sconfinata nel volto della statua, si prova un senso di liberazione profonda e pacificante, per la scoperta di religioni nelle quali è ricorrente il motivo della salvazione universale e indiscriminata; e che non incombono sull'uomo col senso drammatico di colpa con cui siamo marchiati dal cristianesimo.

 

Immaginavo Tokio come un'immensa metropoli di tipo occidentale: grattacieli, insegne colorate a neon..., disumana. Persino sul "Tour Companion", una specie di gazzettino settimanale turistico, a disposizione dei visitatori in tutti gli alberghi della città, un articolo su Tokio recava il titolo, in inglese: "E' un mostro... ma è sicuro". La mostruosità di Tokio è quindi un luogo comune accettato dagli stessi giapponesi, ma essa attiene solo alle sue dimensioni.

Di Londra, pare che qualcuno abbia detto che se mezza città venisse distrutta, l'altra metà continuerebbe a ignorarlo finché qualcuno non andasse a dirglielo. La battuta non si adatterebbe a Tokio, sul cui suolo si addensa un decimo di tutta la popolazione del Giappone, con un numero adeguato di infrastrutture di ogni genere, comprese quelle amministrative centrali. Inevitabilmente le case si addossano l'una sull'altra,  e al di fuori del centro sfavillante di modernismo, esse si estendono a tappeto, senza soluzione percettibile di continuità. Il centro tende ad estendersi verso l'alto, ma i grattacieli s'innalzano quasi con grazia, come assottigliandosi verso il suolo, per lasciar respiro alle vecchie botteghe dei fruttivendoli, ai caffé microscopici, alle trattorie cinesi. Il vecchio e il nuovo si fondono  mirabilmente, e i rami di uno stesso ciliegio a volte coprono il tetto di mattoni scuri del piccolo edificio centenario e sfiorano le pareti di cristallo della "storehouse" di 14 piani. Il mostro immenso e gentile sembra avere la capacità portentosa di armonizzare fra loro gli elementi più contrastanti, e di comporli in un tutto ospitale e accogliente. Perché questo "mostro" ha l'anima della sua gente. Un'anima ricca di storia e di cultura millenaria, nelle quali affondono profondamenbte le radici della vita attuale, a dispetto delle più avanzate esperienze tecnologiche e della più spietata pressione occidentalizzante. Cultura e storia sembrano aver conferito una flessibilità speciale all'anima del Giappone, fino al punto che le due religioni più diffuse nel paese - buddismo e scintoismo - pur avendo identità ben distinte tra loro, coesistono nella realtà del popolo in maniera così totale da trovare entrambe applicazione  nelle due manifestazioni più caratterizzanti della vita sociale: il matrimonio, che viene celebrato quasi esclusivamente col rito scintoista, e i funerali per i quali si ricorre alla cerimonia buddista. Simbolo architettonico di questa capacità di conciliazione e di sintesi sembra essere lo stupefacente tempio/santuario Toshogu a Nikko, nel quale figurano anche elementi didattici del confucianesimo.

 

(Cronaca parziale di un'esperienza dei primi anni '70 - ritrovata qualche giorno fa in un vecchio cassetto )     Teresa Nastri

 

 

 

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- Letteratura

Parlando di Proust

 

Parlando di Proust

 

 

 

L’Alfa procedeva lenta, nel traffico dell’ora di punta, ma i due occupanti non sembravano avvedersene. Il guidatore manovrava con la perizia automatica dell’esperienza, ignaro di ogni suo minimo intervento sugli strumenti. Questi gli obbedivano con la precisione propria del loro essere non-pensanti, e perciò incapaci di interferire in un comportamento guidato da una volontà dinamica.

 

La ragazza girava nervosamente le pagine del libro che teneva appoggiato sulle gambe.

 

“Ma come fai a leggerlo?”, chiese lui sorridendo. Sorrise anche lei.

 

“In effetti è vero che bisogna essere un po’ proustiani per amarlo. E non è che lo si diventi leggendolo, bisogna già esserlo per legge genetica...”

 

“Dovresti sorridere più spesso. Mi piace portare con me il ricordo di un tuo sorriso.”

 

Lei voltò il viso verso di lui e stette a guardarlo per un lungo momento.

 

Lui staccò la destra dal volante e l’appoggiò sulla mano che lei teneva abbandonata in grembo. A la recherche du temps perdu si trovò ad essere, come in una pratica magica, oggetto medianico di garanzia e testimone di due promesse non formulate.

 

“Perché ti sei innamorata di me? Perché proprio di me?”

 

“Proust dice che di tutto quanto l’amore esige per nascere, ciò a cui tiene di più è immaginare che l’altro partecipi di una vita sconosciuta in cui il suo amore potrebbe farci entrare...”

 

“Non parlarmi così. E’ troppo complicato per me.”

 

Lei non continuò, e non gli disse che quella vita sconosciuta a cui lui partecipava e di cui fin dall’inizio aveva desiderato di poter far parte lei stessa, era la familiarità con il mondo editoriale, con quell’universo di libri - oggetti fatti di simboli dal potere misterioso di ri-creare, e perfino di correggere ciò che il buon Dio ha creato.

 

 

 

(testo introduttivo alla mia raccolta di racconti Il Primo Giorno  (L'Autore Libri, Firenze 1999)