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Raccolta di testi in prosa di Cinzia Perrone
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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La corriera

La corriera

 

Conobbi Stefano non molto tempo fa; studiava all’università qualche materia economica, ora non ricordo perfettamente quale.

Un ragazzo dall’apparenza dolce e gentile, di quelli che non potrebbero far male a una mosca, anzi, di quelli che devi maneggiare con cura; fin troppo fragile, di una fragilità disarmante, di quelle che ti mette paura, come quando con mani inesperte provi a prendere in braccio un neonato in ospedale.

A me provocava solo tenerezza Stefano, ma a lui gli altri riuscivano a provocare una quantità di emozioni che non riusciva a controllare. Fu così che mi trovai presente, quando ad alcuni amici confidava la sua fobia, che diventava vero e proprio panico, a prendere la corriera per raggiungere il suo ateneo. Un disagio che nemmeno lui stesso riusciva a spiegarsi, figuriamoci a farlo capire ad altri.

Sembrava, dai suoi racconti, che osservando gli altri, ne venisse così catturato, da sentirsi quasi catapultato nella loro testa. Cominciava a ragionare sui loro gesti, sulle loro espressioni, sulle loro mosse, fino ad arrivare ad immaginare le loro vite.

Un gioco un po’contorto che lo portava anche a fare congetture e pronostici sulle loro future mosse, mosse che nella sua mente potevano avere anche i risvolti più strani.

E lì, dopo il disagio per aver scrutato un'altra persona fino all’inverosimile, non potendo farne a meno, subentrava la paura di reazioni e comportamenti altrui spinti da un’immaginazione profondamente estremizzante.

Così, un banale viaggio in corriera, si trasformava per Stefano in una tortura.

Cercava di farci capire come si sentisse in quella situazione, in cerca di consigli e rimedi per distrarsi da quel giochino che gli mandava in pappa il cervello.

Chi gli consigliava di ascoltare musica, chi di leggere un libro…ognuno provò a dare il proprio contributo per risolvere a Stefano quel suo particolare malessere.

Io ancora adesso mi chiedo se quel suo modo di approcciarsi in quell’ambiante esterno, in cui le persone te le ritrovi tutte davanti, concentrate in spazi ristretti dove non possono sfuggire facilmente ad un occhio indagatore, come avviene in strada ad esempio dove tutto è più dispersivo, non fosse un bisogno inconscio di creare dei contatti fortissimi col mondo esterno, contatti di cui sentiva la necessità ma che non riusciva a gestire, e che forse proprio per questo il mondo esterno spesso glieli negava.

Per un ragazzo troppo dolce e fragile può essere scomoda e difficile questa realtà, che vuole continuamente maltrattarti; se non impatti bene i colpi, e non ne assesti a tua volta, sei spacciato.

Il rimedio magari qualcuno se lo cerca in una dimensione alternativa, che può gestire meglio ed ecco eserciti di isolati in vari contesti moderni, dove se critichi puoi essere bloccato.

Può sembrare una contraddizione, ma purtroppo è realtà; strumenti che dovrebbero avvicinarci e annullare le distanze fisiche, ne creano altre, molto più subdole, dando solo l’illusione di condivisione e di vicinanza, dove invece regna l’ego più individualista che mai.

Soli, sempre più soli, coi nostri sogni, i nostri pensieri, i nostri desideri, i nostri principi…che non abbiamo più il coraggio di condividere, ma sul serio.

Sotto una campana di vetro, dove nessuno può farci niente, ma da dove neanche noi possiamo fare e ricevere niente, nel bene o nel male.

Questa campana per Stefano in corriera veniva quasi meno, perché se da un lato gli piaceva osservare quell’acquario, il timore che i pesci potessero saltarne fuori era incontrollabile. Forse avrebbe dovuto cominciare a nuotare e non cercare rimedi per non guardare neanche gli altri farlo. La sua prospettiva doveva cambiare, doveva mettersi in gioco, e non cercare un mezzo per defilarsi ulteriormente.

Fare tutto questo, forse con la sua fragilità lo spaventava, e probabilmente spaventava anche gli altri. Ma non importa, la paura fa parte di scelte coraggiose, è un sentimento come un altro della vita che dobbiamo accettare e con il quale convivere.

A volte serve aver paura, per capire la portata di quel che si sta facendo, senza essere imprudente o peggio superficiale.

Avere paura insieme e sapere che quel sentimento non attanaglia solo noi, può essere d’aiuto a superarlo; uniti nella paura per sconfiggerla.

Si pensa di essere soli nelle incertezze, nelle angosce quotidiane, di essere i soli ad avere paura…così la paura può diventare un mostro invincibile, ma se noi abbiamo il coraggio di condividerla mettendoci a nudo, allora sì che possiamo distruggerlo quel mostro, e ritrovare l’unione, la serenità, l’allegria…e perché no, la pace.

Ho saputo che Stefano si è laureato, ormai è da tanto che non lo vedo; avrà dovuto a forza prendere la corriera in questi anni.

Gli auguro di aver imparato a viaggiare.

 

 

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La piccola designer

In un piccolo lembo di periferia, tra tutti quei poveri disgraziati che vivono ai margini del mondo di elemosina e quant’altro, i cosiddetti invisibili, c’era una ragazzina che nonostante tutto conservava dentro sé un amor proprio e un orgoglio che le faceva onore, non solo per la sua tenera età, ma anche perché nel posto dove era cresciuta non c’era spazio per questi valori. Viveva in una roulotte con i genitori e ben quattro fratelli. Dal risveglio al mattino fino a sera, la loro unica missione, era portare a casa soldi, anche poche monete; non importava come, quando e perché…si doveva in qualche modo andare avanti senza farsi né troppe domande né troppi problemi. Ma a quella ragazzina di nome Elisa non piaceva quella vita, ma suo malgrado ci si era ritrovata dentro, immersa fino al collo. A chi interessava che lei sognava una casa vera o una scuola con tanti compagni? Magari le altre persone non pensano minimamente che alcuni bambini e ragazzetti come Elisa possano avere dei sogni, e certamente non quel tipo di sogni. Certo, tutti vedono quel che tu appari, ma pochi sentono quel che tu realmente sei, scriveva Macchiavelli, e si potrebbe aggiungere che nemmeno le importa alla gente di non riuscire a farlo. La vita è fatta di apparenze, verità preconfezionate per i poveri stupidi; ma la verità assoluta non esiste, è negli occhi di chi guarda, è solo relativa. Dopo questa piccola riflessione filosofica, ritorniamo alla nostra storia, quindi alla sua protagonista. Elisa, così fiera, ma anche profondamente amareggiata e frustrata da quella misera esistenza, ogni giorno cercava di dare colore a tutte le sue giornate grigie. Come? A modo suo, un modo specialissimo! Lei era troppo intelligente e profonda per trascinarsi per le strade ad elemosinare, anche se è quel che diceva di fare a tutti quanti. Il suo trucco era svegliarsi ogni giorno sognando di essere una persona diversa, e la forza della sua immaginazione era talmente forte, che i suoi occhi traevano in inganno lei stessa alle volte; così, con la sua fantasia, quella ragazzina riusciva ad alleggerirsi e a vivere nel miglior modo possibile quel che un destino avaro le aveva saputo dare. Quel giorno Elisa si svegliò sarta-decoratrice, quasi una stilista; aveva tagliato e cucito con del tessuto rimediato qua e là delle cravatte e dopo su di esse aveva deciso di apporre varie decorazioni: paillettes, bottoni colorati, coccarde, nastrini e anche disegni bizzarri e fantasiosi, insomma tutto quello che avrebbe potuto rendere quell’accessorio di moda maschile così monotono e serioso, allegro e scanzonato. Era il momento per Elisa la stilista di lanciare sul mercato la sua strepitosa linea di cravatte di tendenza. Così, la ragazza si procurò un banchetto di fortuna, su cui adagiare le sue creazioni, e si mise sul marciapiede di una stradina, sperando di riuscire a catturare l’attenzione dei passanti, per poter vendere qualche cravatta e guadagnare qualche soldo da portare a casa. Ma la gente che passava di lì non vedeva altro che una ragazza sporca e trasandata che voleva rifilarti delle cianfrusaglie inutili ed elemosinare qualche soldo, dando solo fastidio alle persone perbene che se ne vanno tranquillamente per fatti loro. Ecco: questa era la verità negli occhi di quei passanti, persone perbene che non fanno bene a nessuno e neanche se ne preoccupano. Non erano in grado loro di sentire il disagio di quella ragazza, vedevano solo i suoi abiti consunti e sporchi; non potevano sentire la forza di quei sogni e speranze che animavano la vita di Elisa, vedevano solo l’ennesimo parassita fastidioso che animava le loro strade; non avrebbero mai capito e sentito la passione, l’amore e il riscatto che emanavano quelle bizzarre e allegre cravatte, loro erano capaci di vedere solo della inutile chincaglieria senza valore. Il tempo passava, prima minuti, poi ore, che portavano la giornata al suo epilogo senza alcun risultato. La ragazza stanca e amareggiata, pensò che sarebbe stato meglio chiedere l’elemosina come facevano tutti i suoi compagni; a cosa era servito impegnarsi in un progetto, come faceva tutti i giorni, se non le portava guadagno? A cosa era servito cercare di essere migliore, se tanto per lei non sarebbe cambiato mai nulla? Il mondo non vuole che si migliori, vuole che le cose restino così come sono; come intrappolati in qualcosa di peggio di una prigione, dove non si riesce né ad andare avanti, né ad andare dietro. Ormai abbandonatasi a questi cupi pensieri, la ragazzina aveva perso anch’essa il senso di quel che faceva: lo sconforto stava diventando più forte della poesia e della fantasia che albergava in Elisa. Il fato volle che proprio in quel momento quasi di rinuncia, passasse da quelle parti, anch’egli stanco e provato da una dura giornata, un giovane suonatore da strada con la sua chitarra sulle spalle. Il suo nome era Pablo, altrettanto povero, squattrinato e mal vestito; infatti lui non faceva parte delle persone perbene che erano passate fino a quel momento, e non ci si deve stupire più di tanto se subito fu attirato dalle creazioni di Elisa. Nei suoi occhi vi era un'altra verità: la verità di chi possiede il dono dell’empatia. Da subito il giovane si mostrò interessato al lavoro della ragazza e incuriosito le fece tante domande su come avesse realizzato le cravatte; alla fine Elisa gli raccontò anche che si era stancata, che nessuno si era fermato per comprarne una e che era disperata perché avrebbe dovuto portare qualche soldo alla famiglia altrimenti la avrebbero punita. Pablo, anche se era molto stanco perché aveva suonato tutto il giorno e non vedeva l’ora di andare a riposarsi, si fece venire un’idea per aiutare l’amica in difficoltà. Afferrò la sua chitarra e si mise a suonare: aveva escogitato un vero e proprio jingle pubblicitario. In perfetto stile blues, improvvisò un motivo e le parole che ci cantava sopra parlavano di Elisa e le sue cravatte, di come le avesse fatte e di come avrebbero dato brio ad ogni camicia spenta: più o meno tutto quello che i due si erano detti, condito da qualche slogan accattivante che invogliava all’audace acquisto. L’idea funzionò; si fermarono a frotte attirati dalla musica e in seguito rapiti dalla freschezza e dalla peculiarità di quelle cravatte così singolari, procedevano lesti a comprarle. In meno di mezz’ora Elisa ebbe venduto tutta la sua merce e ricavato un po’ di soldini, abbastanza da portare a casa e anche da poter offrire una cioccolata calda a Pablo, per ringraziarlo di come avesse risolto così brillantemente una situazione che sembrava persa. I due poi si salutarono molto affettuosamente; Pablo le disse che era stato un piacere poterla aiutare, perché aiutare gli altri, specialmente quelli più in difficoltà come lei, era una gioia per lui, doppiamente visto che anche lui, come aveva potuto notare, faceva parte di quelli più in difficoltà. L’aiuto giunge sempre inaspettato e da chi meno te lo aspetti. Elisa tornò a casa, diede il denaro guadagnato alla madre, e svelta andò a dormire stanca com’era per quella faticosa giornata; addormentandosi però, pensò a come durante quel giorno fosse stata una così brava stilista, grazie anche al prezioso aiuto di un eccellente pubblicitario.

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Il percorso della vita

Era tempo di Pasqua, ma Giovanna stava affrontando e avrebbe dovuto continuare ad affrontare ben altri passaggi. Era poco più che una ragazzina, ma di lì a poco avrebbe lasciato alle spalle tutta la sua fanciullezza, per andare incontro a un ruolo che di certo non apparteneva alla sua età. Un ruolo che l’avrebbe catapultata in un’altra dimensione, lontana anni luce da quella dei suoi coetanei, con i quali avrebbe presto imparato ad indossare la maschera dell’adolescente spensierata. Tutto quello che era accaduto, stava accadendo e continuava ad accadere appariva inverosimile ai suoi occhi, o meglio agli occhi di una ragazza, per questo quegli occhi presto avrebbero imparato a guardare come un adulto con lo sguardo fiero e severo. Tutto era cominciato quando aveva circa dieci anni: fu in quegli anni che la forte depressione di sua madre cominciò a manifestarsi. Giovanna non riusciva a capire certe dinamiche degli adulti, vedeva solo suo padre molto disorientato, e con lui tutti quelli che orbitavano intorno alla famiglia e alla casa. La sua domanda nasceva spontanea: se gli adulti non sapevano come affrontare la situazione, come avrebbe potuto mai affrontarla una ragazzina della sua età. Malgrado questi suoi pensieri, la situazione doveva affrontarla eccome; anche se il più delle volte era la situazione che la travolgeva con tutta la sua drammaticità. Lei non capiva, non poteva capire cosa fosse scattato nella testa di sua madre: sapeva solo che di fronte a questa realtà, alquanto malsana in cui vivere, avrebbe voluto scappare via lontano, gettandosi tutto e tutti alle spalle. Ma le cose che desideriamo non sono quasi mai rispondenti alla realtà. Fu così che a mano a mano, col passare degli anni, dovette acquisire consapevolezza e fare i conti con la bestia nera che stava divorando sua madre. Già, è così che Giovanna aveva sarcasticamente ribattezzato la depressione profonda in cui era caduta irrimediabilmente la madre. Non poteva fare a meno, ogni tanto, di ubriacarsi di ricordi, anche se molto vaghi e sbiaditi, in cui sua madre era dolce, affettuosa e sorridente; forse era questo che le mancava dipiù, il suo sorriso: non è forse il sorriso di un genitore fonte di forza e sicurezza per qualsiasi figlio? Potevano essere anche fugaci momenti in cui il malessere della donna appariva sopito a rincuorarla, ma duravano davvero molto poco ed erano sempre più rari. Dovette fare i conti con le intere settimane in cui la madre non usciva di casa; le interminabili giornate in cui si rintanava nella sua stanza buttata sopra il letto; giorni sempre più tristi e apatici, in cui Giovanna dovette anche imparare a badare a sé stessa, e più tardi anche a suo padre. Tutto questo non fece altro che invecchiarla precocemente, lasciandole dentro una voglia infinita di quella fanciullezza ormai perduta per sempre. Non sapeva che le cose erano destinate a peggiorare; ignorava che il destino le stesse per assestare un pugno in pieno stomaco. Questo fu l’effetto devastante, l’immagine che meglio descrive la potenza distruttrice che quel tragico avvenimento provocò, non solo per Giovanna, ma per l’intera famiglia. Una apparente tranquilla mattina, una come tante altre, si sentì un rumore, prima di una tazzina di caffè andare in frantumi, e poi un urlo straziante di dolore di suo padre. Giovanna immediatamente si chiese che cosa stesse accadendo, ma fu allontanata subito dal padre con una scusa, a casa di alcuni vicini. La ragazza sentì arrivare un’autombulanza e subito pensò a sua madre, ma non sapeva cosa fosse realmente successo e cosa immaginare. Arrivarono anche alcuni parenti; li vide dalla finestra dei vicini: sua zia, la sorella di sua madre, e anche un fratello di suo padre. Era chiaro che era successo qualcosa a sua madre: ma cosa? E quanto grave fosse, lei non poteva e forse non voleva immaginarlo. Verso sera, con un’ansia che era arrivata a mille, finalmente suo padre si era ricordato di lei, e la andò a prendere dai vicini con sua zia. Una volta entrati in casa, lei aspettava, poi prese a far domande, ma dai visi quasi spettrali dei due adulti, capì che si sarebbe dovuta preparare al peggio. Fu la zia che per prima tentò di parlare, con la voce rotta dal dolore e dal pianto; bastarono poche parole e l’incrocio del suo sguardo con suo padre. Buio totale, rabbia, violenza che voleva esplodere impazzita; poi solo dolore dilaniante. La mamma se n’era andata; andata via per sempre, aveva lasciato quello spazio ancora da riempire inesorabilmente vuoto, senza possibilità di essere colmato. La sua vita continuava a svoltare repentinamente, in curve sempre più a gomito, dove puoi solo scendere o vomitare; la mamma aveva scelto di scendere. Ma questo a Giovanna, naturalmente non fu detto; le fu raccontato di qualche malore improvviso che non le aveva dato scampo. Solo con gli anni la verità sarebbe venuta fuori, procurando alla povera Giovanna un altro dolore per l’ennesima sterzata. Quando seppe tutta, ma proprio tutta la verità, impulsivamente non potette non odiare sua madre: l’aveva abbandonata, lasciata da sola ad affrontare la vita, negandole il suo affetto e il suo sostegno. Ma ripensandoci bene, la madre già da tempo non era in grado né di dare affetto, né tantomeno sostegno. Si può condannare qualcuno per la sua debolezza? Per la sua incapacità di reagire? Forse si pensa razionalmente, che cose di una certa importanza, tipo un figlio da crescere, debbano far trovare la forza di reagire. Giovanna aveva ormai capito che in quella triste situazione con quel tragico epilogo, non c’era niente di razionale. Niente di razionale rimaneva nella mente di sua madre. Fu una scelta totalmente irrazionale la sua, ma non perché se ne fregasse di tutti. Era difficile da spiegare e da accettare, ma la ragazza cercava disperatamente di aggrapparsi a qualcosa, un filo che non le facesse perdere la via, che la tirasse fuori da quel labirinto buio in cui si trovava. Imparò a pensare che ognuno ha un cammino in questa vita, un percorso in evoluzione fatto di scelte consapevoli o meno. Era inutile e controproducente il fermarsi a pensare al perché e al come, accumulando solo rabbia. Doveva accettare che nel percorso di sua madre c’era anche quella scelta e avrebbe dovuto imparare a rispettarla; lasciarla andare serenamente e ritrovare essa stessa la serenità nel suo imperituro ricordo.

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Un dono speciale

Era arrivato il mese di maggio, bello come sempre! La gioia sui visi dei bambini per l’arrivo dell’ultimo mese di scuola si manifestava in tutto il chiasso di cui solo una classe eccitata è capace; anche la maestra appariva visibilmente esausta, non riuscendo più a contenere l’entusiasmo e l’euforia dei suoi alunni. Ma il mese di maggio porta con sé anche una ricorrenza speciale per ogni bambino: la festa della mamma! E quale occasione migliore per la maestra, che già escogitava mirabolanti opere manuali, per tenere a bada quelle simpatiche canaglie! Oltretutto, questa festa è speciale proprio perché ogni figliuolo porta un dono speciale alla sua mamma fatto col cuore, e il valore aggiunto del poterci lavorare con le proprie manine sante, riempiva di orgoglio tutti i bambini, che si sentivano come degli artigiani alle prese con un’opera importante; se non altro importante era il destinatario dell’opera: la propria mamma!  Quella mattina l’annunciò della maestra dell’inizio dei lavori, fu accolto da un fragoroso e spontaneo applauso dalla classe; ora alla maestra non restava che elencare i materiali occorrenti e aspettare che tutti i suoi alunni diligentemente portassero il necessario quanto prima per poter iniziare il mitico “lavoretto”. Luigi era l’unico bambino triste in quel momento, la sua espressione in quel preciso istante si incupì improvvisamente; come ogni anno in quel periodo, per lui si faceva viva più che mai la fiamma del dolore, che ardeva sempre silenziosamente nel suo cuore.  Povero Luigi! Aveva perso la madre da piccolissimo, talmente piccolo da non ricordare neanche il suo viso, ragione per la quale portava sempre con sé una sua fotografia, nel portafoglio che ormai come un vero ometto custodiva gelosamente. Il bambino, con aria sommessa, andò dalla maestra e con un fare troppo adulto per la sua età, le chiese di essere esonerato da quella attività, che tanto… «non ho la mamma a cui regalare il lavoretto» …, disse il piccolo con voce tremante che faceva intuire il suo profondo disagio. La maestra, visibilmente commossa, annuì con la testa, pensando che assecondare la volontà del bambino fosse la cosa giusta da fare, per non metterlo ulteriormente sotto pressione. La cosa non passò inosservata; gli altri avevano captato qualcosa di strano e presto detto tutti erano a conoscenza della situazione del loro compagno…ma cosa potevano mai fare loro? Erano solo dei bambini che avevano voglia di festeggiare la loro di mamma, e anche se potevano essere solidali con Luigi, questo non significava “perdersi il divertimento”.  Ma per Piera non era così. Lei tornò a casa e continuò a pensare a quanto soffrisse il suo sfortunato compagno di classe: le bastò immaginare di non avere improvvisamente la sua di mamma, che un gelo le attraversò veloce come un dardo la pancia. Come avrebbe potuto lei, così piccoletta, trovare il modo di manifestare la sua empatia al compagno riuscendo ad alleggerire un po’ il macigno che opprimeva il suo piccolo cuoricino? Come fanno quei ragazzi gentili e ben educati, che sono sempre pronti a togliere borse pesanti dalle mani di anziane signore affaticate. Ecco, Piera avrebbe voluto, anche solo per un attimo, sollevare l’amico da quel peso e magari farlo un po’ suo.  Ci sarebbe riuscita? Mai sottovalutare le risorse di un bambino: nel bene o nel male riescono sempre a trovare un modo, e qui certamente si trattava di bene. I materiali erano stati tutti reperiti e puntualmente portati a scuola, infatti già da un paio di giorni la classe era impegnata nella realizzazione del progetto. Luigi, tutto solo, in quei momenti cercava di distrarsi anticipandosi qualche compito; anche questo a volte era oggetto di scherno da parte di qualche buontempone dei compagni di classe. Piera, invece, continuava a guardarlo con aria affettuosa e malinconica, stando attenta a distogliere subito lo sguardo non appena Luigi si fosse voltato: il sentirsi osservato avrebbe sicuramente potuto infastidirlo e sortire lo stesso effetto di quelle stupide prese in giro… «Bravo, bravo…fai i compiti», gli dicevano sornioni alcuni compagnucci; e intanto una lacrimuccia faceva capolino dai suoi occhietti lucidi. Il giorno era arrivato: l’opera era conclusa e pronta per essere donata quella domenica. La maestra consegnò ad ogni bambino il suo personalissimo capolavoro, da sfoggiare con tutta la spavalderia caratteristica di quell’età e portare in regalo alla propria mamma. La faccia di Luigi era colma di rabbia in quel momento, avrebbe voluto essere felice anche lui come gli altri che stringevano tra le mani il manufatto. Piera non esitò: finalmente aveva trovato il modo! Senza proferire parola con nessuno, si alzò dal suo banco, si avvicinò all’amichetto e disse: «Questo è per te», porgendogli il suo lavoretto. Luigi, la maestra e gli altri compagni erano rimasti completamente allibiti. Cosa significava quel gesto? Per quale motivo Piera rinunciava al suo regalo per la mamma? La bambina, con parole sue, spiegò all’amico che mai avrebbe dovuto rinunciare all’idea, al ricordo della sua mamma, perché lei rimarrà sempre viva nel suo cuore; per questo lei gli aveva donato il suo lavoretto: come per donarlo alla sua mamma che vive in lui, che sarà sempre una parte di sé. Piera intravide un live sorriso sul volto di Luigi, e in quel momento capì di aver fatto la scelta giusta, che quel sacrificio era stato ricompensato dalla gioia di essere riuscita a far sorridere un amico che aveva solo bisogno che qualcuno gli stesse vicino e condividesse il suo dolore. Mai sottovalutare le risorse di un bambino: loro sì che stupiranno il mondo, sempre! Nel tornare a casa soddisfatta per la sua buona azione, un leggero velo di tristezza avvolse i pensieri di Piera: «E adesso cosa do io a mamma?», pensò fra sé. E così venne la domenica. La bambina fece gli auguri alla sua mamma nel giorno di festa, le disse che non aveva nessun regalo da darle, o meglio che ce l’aveva ma aveva dovuto darlo via. La mamma non riuscendo a comprendere quello che le stava dicendo sua figlia, le chiese di raccontarle meglio cosa fosse accaduto. Così Piera le raccontò tutto nei minimi particolari, e alla fine le chiese scusa per non averle portato un dono. La mamma l’abbracciò forte, dicendole che non avrebbe potuto portarle dono più grande dell’orgoglio che stava provando nei confronti della sua amata bambina, che era stata capace di un gesto così altruista e generoso verso un suo compagno. Da quell’anno in poi, grazie anche al contributo di Piera, Luigi partecipò sempre al lavoretto per la festa della mamma, riuscendo in questo modo a lenire il suo dolore col suo dono speciale pieno d’amore per la sua amata mamma per sempre

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Il fiore, il fungo e la piantina

In un tempo lontano, quando gli uomini convivevano pacificamente tra loro, con la natura e gli animali che li circondavano, i prati erano bellissimi, pieni di fiori graziosi e profumati; ce n’era uno speciale però, molto più bello degli altri, con petali tutti colorati e un odore di buono che infondeva gioia e pace. Tutti, ma proprio tutti, quelli che passavano per il prato dove era il bel fiore, non potevano fare a meno di fermarsi ad ammirarlo. Alcuni ci andavano apposta per vederlo e sembrava che il fiore si cibasse di quegli sguardi curiosi ed ammirati, così come la gente sembrava rinascesse a quella bellezza armoniosa fuori dal comune. Ora la notizia del fiore si diffondeva; di orecchio in orecchio, da bocca a bocca, tutti sapevano dell’esistenza del bel prato in cui sbocciava l’incantevole fiore. Quindi la gente che accorreva, era sempre più numerosa; ci venivano anche da molto lontano, magari anche per ammirarlo solo una volta, ma la sua immagine e il ricordo di quella straordinaria bellezza non li avrebbe mai lasciati: si sarebbero scolpiti nella memoria di ognuno, segno indelebile come una marchiatura a fuoco sul bestiame. Così quel fiore viveva ammirato da tutta la gente nel suo bel prato, inconsapevole quest’ultima che fosse proprio quella mirabile creatura floreale ad ispirare la gioia, l’amore e la pace fra tutti, fonte di un impeccabile condotta improntata all’amore. La bellezza e la purezza di quel fiore erano capaci di destare i sentimenti più autentici e benevoli nelle persone che ne contemplavano l’immagine limpida e soave, come una sinfonia di profumi e di colori che allieta il cuore e fa vibrare l’anima. Nessuno, e dico nessuno, poteva durante il suo viver quotidiano, evitare di sentire il richiamo alla bellezza che aveva tanto riempito i loro sguardi e i loro cuori, infondendo in essi tutto ciò che il bello trasmette. Non si trattava di una bellezza puramente estetica ma di qualcosa di più, più complicato da spiegare e da capire, qualcosa semplicemente da sentire...non con le orecchie, ma con l’anima.  Emozionare, questa è la parola che meglio descriveva l’effetto che produceva su tutti la visione di quell’incanto; tutti siamo fatti di emozioni e siamo portati a provare emozioni: piangiamo, ridiamo, gioiamo, esultiamo, ci commoviamo, amiamo, proviamo paura, dolore, tristezza, felicità...insomma è un continuo sentire che ci avvolge nella calda e rassicurante coperta che è la vita. Un po’ come quelle coperte in quello stile americano che uniscono diverse parti di tessuto. Ecco, quel fiore nel suo bel prato era il fulcro, il centro nevralgico, il nucleo essenziale, il punto di origine di tutto il “patchwork”, fatto di emozioni, sensazioni…fatto di vita, vita che aiuta la vita. Tutto poteva continuare per il vero giusto, ma si sa, che quando tutto fila liscio, è lo stesso genere umano a complicarsi la vita, commettendo dei terribili errori. Un giorno, così, un uomo si era stancato solo di ammirare il bel fiore; per di più gli toccava fare un bel cammino prima di arrivare a quel bel prato. In lui si stava facendo strada l’idea malsana di voler possedere il fiore, così da poterlo ammirare ogni volta che volesse; tenere il fiore tutto per sé significava privare gli altri di una tale gioia per gli occhi e tutti gli altri sensi...e cosa sarebbe stato di quei dolci e delicati sentimenti che provava la gente nel guardarlo? Queste domande l’uomo non si pose; molto spesso, la storia ce lo insegna, purtroppo si agisce senza pensare alle conseguenze. L’uomo era ormai preso da un sentimento sì forte di egoismo, che era comprensibile che mai gli avesse potuto balenare nella testa neanche la benché minima preoccupazione circa la bontà della condivisione del prodigioso fiore e il suo venir meno. Ormai la decisione definitiva era stata presa: doveva essere suo, che importava se questo suo desiderio di possesso avrebbe escluso del tutto gli altri. Non bisogna forse lottare per esaudire i propri desideri, si chiese l’uomo. Era ormai talmente concentrato solo su di sé, da non vedere più gli altri, da non interessarsi della felicità comune all’intera collettività. Lottare per i propri desideri è anche giusto, ma sicuramente questo non deve implicare che nella lotta si infrangano i desideri altrui. Poi, un altro concetto gli sfuggiva: lui stesso era parte di quella collettività, quindi l’infelicità che avrebbe procurato a tutti, primo o poi, si sarebbe riversata anche su di lui; soddisfacendo un suo egoistico desiderio si sarebbe procurato solo una felicità effimera, a discapito di quella ben più importante e duratura comune a tutti, compreso lui. Quando si dice che la stupidità umana non ha limiti! A quel punto, l’uomo si organizzò sul da farsi per poter passare all’azione una volta per tutte, che ormai era stanco di aspettare e rimandare: andò di notte nel prato, di nascosto come un ladro per non farsi vedere da nessuno, si avvicinò all’amabile fiore, e cominciò a scavare la terra intorno e fino in profondità in modo da poter estirpare il fiore integro con tutte le sue radici; più l’espianto fosse stato preciso e perfetto, più l’operazione del reimpianto sarebbe riuscita. Infilò il tutto nella sacca che si era portato dietro per l’evenienza e corse subito a casa, sempre attento nel guardarsi attorno. Arrivato a casa, tosto preparò un vaso pieno di terriccio, accuratamente prese il fiore riposto nella sacca e con delicatezza lo piantò nel vaso. Ora beato poteva ammirare il fiore a suo piacimento, inspiegabilmente felice di essere il solo a poterlo fare. Non ci volle molto prima che la gente si accorgesse che il fiore era misteriosamente scomparso. Come si poteva non notare l’assenza del fiore più bello in quel prato? I primi che scoprirono la scomparsa del fiore, cominciarono allarmati a diramare la notizia, così a poco a poco tutti quanti vennero a sapere dell’accaduto. La tristezza inondò l’intero paese, come uno tsunami che non dà scampo né preavviso. E la gente triste si sa, non combina nulla di buono; anzi, cominciarono da quel momento le inimicizie, le invidie, i litigi, le maldicenze e tutto quanto di più deplorevole esista per rendere una sana e pacifica convivenza, come era stata fino a quel momento, un vero e proprio inferno. Che fosse stata la scomparsa di quel fiore a cagionare così tanto dolore? L’uomo reo che sapeva, dopo aver visto coi propri occhi la tristezza e lo sgomento sul viso di tutte le altre persone, adesso gli interrogativi che frettolosamente e superficialmente aveva ignorato, se li stava ponendo; in cuor suo le risposte che era riuscito ora a darsi, tuonavano come una sentenza senza appello; rubando il fiore, aveva privato le persone della gioia che scuote il cuore, che permette a quei valori di riuscire a venir fuori. L’ altruismo, la bontà, la solidarietà, la condivisione, la disponibilità, la generosità, albergano nell’uomo ma fanno fatica a venir fuori; la natura previgente a quel fiore aveva assegnato questo compito…ed ora? Ora che lo sciagurato si era finalmente posto le dovute domande, oltretutto riuscendo anche a darsi le plausibili risposte, cosa mai rimaneva da fare per porre rimedio al disastro procurato dal suo comportamento scellerato? Il bisogno di cercare in tutti i modi di rimettere le cose a posto, o almeno di provarci, era fortissimo in quell’uomo colpevole, l’unica sua possibilità di potersi riscattare, di potersi sentire di nuovo bene con se stesso e nei confronti degli altri; quando ci si rende conto del proprio egoismo, come era successo a quel malcapitato, si comincia a stare veramente male. Allora una notte egli prese con sé il vaso e andò fino a quel prato dove un tempo il fiore giaceva indisturbato; scavò con cura e vi ripianto il fiore pieno di premura. La sua speranza era una sola: che con quel gesto tutto si fosse sistemato per il meglio e che la vita delle persone potesse ritornare a essere amorevole e gioiosa come prima. Ma una domanda gli ronzava nella mente: sarebbe bastato quel solo gesto così semplice, per porre rimedio a un così grande errore; come un bambino che giocando con la palla in casa, cosa tassativamente vietata, rompe il più bel vaso della mamma e per non farla arrabbiare, meticolosamente lo rincolla pezzo per pezzo. Per quanto grande possa essere il suo sforzo nel ricostruirlo, in cuor suo sa che le crepe a uno sguardo più attento saranno sempre visibili, ma comunque spera che la madre non se ne accorga. Così, l’uomo sapeva che era stato fin troppo semplice l’aver ripiantato il fiore come se nulla fosse successo, comunque sperava che potesse essere sufficiente a rimettere le cose così come erano. L’indomani, tutti si accorsero naturalmente del ritorno incomprensibile del fiore, ma si accorsero anche che accanto ad esso era spuntato un fungo che ne offuscava la bellezza. Ormai la sua visione era compromessa, non suscitava più quella gaudiosa beatitudine che al meglio li spronava tutti ad essere felici e magnanimi. La stupefacente riapparizione, aveva destato nella mente di tutta quella gente, solo una quantità indecifrabile di interrogativi, non più gioia e pace come faceva una volta: le perplessità che aveva avuto l’uomo stavano trovando la loro conferma. Come era possibile che il fiore fosse ricomparso così miracolosamente? E soprattutto, da dove spuntava ora quel fungo, qual’era la sua provenienza e la sua natura? Queste e tante altre erano le domande che si facevano tutti, ma più di ognuno se le faceva l’uomo, che tanto aveva sperato, pur essendo scettico, di aver sistemato ogni cosa. Ritrovatosi solo nel prato, pensieroso e tutto assorto, una voce misteriosa e sibilante lo richiamò all’attenzione; era il fiore che provava a spiegargli, tra la sua incredulità, cosa fosse stato a cambiare la situazione: “Vedi caro amico, io rappresento tutto quello che di bello esiste e riuscivo a infonderlo e destarlo anche in tutte le persone. Tu mi hai voluto per te sottraendomi a tutti gli altri. In questo modo hai causato la fine di un giubilo provvidenziale, e quando poi hai capito la tua leggerezza e ti sei pentito, era troppo tardi. Mi hai riportato, è vero, nel mio bel prato per poter essere di nuovo sotto gli occhi di tutti, ma il mio prato, la mia terra, quella che mi nutre e mi preserva, grazie a te ha conosciuto l’odioso fungo dell’egoismo, con il quale ora mi tocca condividere la casa.” L’uomo triste come non mai, avendo compreso l’irrimediabilità del suo gesto, si chiedeva se ormai non fosse giunta la fine di ogni cosa; il fiore accortosi di questi suoi nefasti pensieri, di nuovo replicò:” Non pensare che è finita, amico mio! Il fungo ormai è qui, è vero, ma come ti dicevo mi tocca conviverci; ma io non sono morto, vivo ancora, e se tu insieme a tutti gli altri terrete quel fungaccio sotto controllo combattendolo ogni giorno, può darsi che le cose andranno meglio, magari non come prima, non sempre, specialmente se qualche volta vi dimenticherete di contrastare il fungo, facendo sì che esso prenda il sopravvento su di me; abbi fiducia, quindi e porta il mio messaggio a tutti quanti.” L’uomo non se lo fece ripetere due volte, andò di corsa da tutta l’altra gente, confessò a malincuore il suo misfatto, spiegando il suo ravvedimento e la nascita del fungo. Poi continuò raccontando quello che gli aveva detto il fiore e quale fosse l’unica soluzione da esso stesso suggerita. L’uomo fu perdonato e tutto andò come il fiore disse, alternandosi i periodi vigili, in cui il fungo sotto controllo lasciava il fiore primeggiare, a quelli distratti, in cui il fungo incontrastato prendeva il sopravvento. Comunque quel giorno in quel bel prato, accanto al fiore di “ogni bene” infastidito dal fungo dell’”egoismo”, germogliò la piantina della “speranza”.

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Gli occhiali magici

C’era una volta in un villaggio costiero del sud, una giovane madre che viveva da sola con il suo bambino. Quel bambino era l’unica cosa che le rimaneva del suo grande amore che, aimè, l’aveva lasciata molto prematuramente. Aveva sposato, dopo essersene innamorata perdutamente, un giovane e affascinante pescatore di un villaggio vicino. Una volta sposati i due non vedevano l’ora di completare e sigillare la loro unione felice con l’arrivo di un figlio. Infatti, solo dopo un mese la donna fu incinta e entrambi impazzirono di felicità. Ma un destino scellerato e infame, in una notte scura e tempestosa, si portò via l’uomo; in una sfortunata pesca notturna la sua barca, non riuscendo a resistere ai flutti del mare in tempesta, si ribaltò portando giù negli abissi con sé tutto il mal capitato equipaggio. La donna piombò nella più cieca disperazione: non riusciva a darsi pace per la sua enorme perdita e non capiva come avrebbe potuto continuare ad andare avanti senza il suo grande amore. Ma il tempo le diede agio di riflettere e la donna capì che il suo grande amore in realtà non l’aveva mai lasciata, pulsava in lei attraverso il battito del loro bambino; l’ultimo dono più grande che le aveva fatto, incarnazione del loro amore: quello le avrebbe dato la forza e quello ora sarebbe diventato il bene più prezioso della sua vita. Fu così che diede alla luce un bel maschietto e lo chiamò Paolo come suo padre. Ora la donna e il suo piccolo vivevano in un’atmosfera di armonia e serenità, tutto quello che secondo la madre non sarebbe mai dovuto mancare al suo bambino. Erano felici, nonostante il vuoto che portavano dentro entrambi; sua madre aveva cresciuto il piccolo Paolo nel ricordo amorevole e gioioso di suo padre, e quando parlava di lui a suo figlio lo faceva sempre col sorriso sulle labbra, senza versare mai una lacrima. Ma Gertrude, questo era il nome della donna, era anche una madre affettuosa e presente, oltre ogni limite; la sua triste storia l’aveva legata a doppio filo a suo figlio: come biasimarla! L’importante comunque era che insieme riuscivano ad avere una vita allegra e spensierata. Un giorno però, l’ennesima sventura stava per rompere gli equilibri che la povera Gertrude aveva a fatica creato. La donna ebbe la triste notizia di essere affetta da un male incurabile e che la sua dipartita non avrebbe fatto attendere molto; le restavano al massimo un paio d’anni, nella più rosea previsione. Il pensiero di lei andò subito al suo amato figlio, che dopo il padre, sarebbe stato derubato anche da sua madre da un destino troppo crudele; sua madre, che era l’unica persona che gli era rimasta, l’unica luce che illuminava il suo cammino. Questi erano i pensieri che turbavano la donna, l’angoscia per il futuro di suo figlio, no di certo la paura della morte; ma si propose con gran caparbietà di porre un rimedio a questa triste situazione, a costo di scendere all’inferno e fare un patto col diavolo. Infatti ella pensò subito di rivolgersi al vecchio stregone del villaggio, da cui tutti si tenevano alla larga, anzi, si guardavano bene anche del solo nominarlo: aveva la reputazione di uno che praticava la magia nera, e si sa che quel tipo di magia è molto rischiosa perché ha sempre un prezzo da pagare. Ma alla donna tutto questo non interessava minimamente; lei sarebbe andata avanti perseguendo il suo proposito. Una volta giunta dal vecchio stregone, gli espose minuziosamente la sua situazione e il suo intento, cioè di non voler lasciare suo figlio senza alcuna protezione. Lo stregone, dopo averci pensato un po’, tosto esclamò di avere qualcosa che facesse al suo caso; andò a rovistare in un vecchio baule impolverato, rilegato in un angolo nascosto della sua casa, e in un attimo tirò fuori un paio di occhiali. La donna si chiese a cosa mai potessero servire un paio d’occhiali; il vecchio le si avvicinò, avendo intuito le sue perplessità, le elencò con dovizia le proprietà magiche di quelli che a un comune osservatore sembravano solo dei semplici occhiali. Avrebbero potuto chiamarsi occhiali della felicità, perché avevano la peculiarità di deformare la realtà sempre in positivo agli occhi di chi li portasse, riuscendo a captare quale fossero i desideri e le aspirazioni del suo portatore. Quando si dice “vede solo ciò che gli fa comodo”; proprio così, quegli occhiali avrebbero protetto Paolo nel corso della sua vita da qualsivoglia delusione, da ogni dolore, da tutte le amarezze che il destino può avere in serbo, avvolgendo il suo sguardo, e di conseguenza il suo cuore, in un alone di positività assoluta. Gertrude non doveva preoccuparsi neanche della misura di quel paio di occhiali, perché essi magicamente si sarebbero adattati a chiunque li avesse indossati, in tutti i sensi. Fu così che la donna afferrò gli occhiali e corse a portarli al figlio, avendo secondo lei sentito abbastanza e lasciando lo stregone lì impalato al centro della stanza intento a continuare nella sua spiegazione. La madre chiamò il figlio a sé per parlargli con la dovuta serietà; Paolo si mostrò da subito preoccupato e ansioso, ma Gertrude lo tranquillizzò: gli diede gli occhiali e si fece giurare che li avrebbe sempre indossati, in qualsiasi momento, senza fare domande perché doveva fidarsi di lei, che lo stava facendo unicamente per il suo bene. Il ragazzo avrebbe voluto parlare e fare mille domande, tanto era stupito da quel discorso della madre, ma in ossequio alla promessa fattale. Indossò gli occhiali e tacque. La fine di Gertrude non tardò ad arrivare, e proprio in quella circostanza gli occhiali palesarono il loro grande potere: Paolo non versò una lacrima per la morte della madre, anche se il suo animo continuò ad essere amorevole e compassionevole verso la donna fino alla fine. Era come se vivesse tutto con un metodico distacco, senza mai un coinvolgimento emotivo; non era diventato né arido e né cattivo, perché la sua personalità era rimasta inalterata da quella sorta di incantesimo continuando ad essere il ragazzo dolce di sempre, ma la sua anima non avrebbe mai arso al sacro fuoco della passione sia nel bene che nel male. Il tempo passò inesorabilmente, Paolo ormai un uomo felice e allegro, aveva mantenuto fede alla promessa fatta alla madre e continuava a portare assiduamente gli occhiali. La sua vita scorreva senza intoppi: mai un litigio, mai un’inimicizia, mai un’ingiustizia, almeno ai suoi occhi, che continuavano sempre a sorridere. Quel sorriso perpetuo attirò le attenzioni di una fanciulla del paese che aveva pressappoco la sua età. I due cominciarono a frequentarsi e così a poco a poco, si conobbero meglio. Ella fu subito presa da quel giovanotto affascinante così allegro e amabile, nonostante le dure prove che aveva dovuto affrontare: nato orfano di padre, poi orfano di madre, cresciuto in solitudine contando sulle sue sole forze, eppure così pacato, senza una briciola di risentimento contro la vita; per la ragazza tutto questo appariva più che ammirevole. Qualsiasi altra persona al suo posto, ella pensò, si sarebbe imbruttita e inaridita: lui no. Questa riflessione di lei non faceva altro che aumentare a livelli esponenziali il fascino di Paolo. Finalmente i due si sposarono con estrema gioia di tutti. Un giorno mentre Paolo era in cantiere, lui lavorava come carpentiere in un cantiere navale, ci fu un tremendo crollo delle impalcature dove si trovavano alcuni operai tra cui lui. Nella caduta perse gli occhiali che andarono distrutti, e Paolo sempre memore di quel giuramento chiuse gli occhi, dopo di che cadde in uno stato di incoscienza. Si risveglio in ospedale in condizioni gravissime accanto a sua moglie. “Apri gli occhi Paolo”, furono le parole tremanti di lei; lui per amor suo aprì gli occhi e gli apparve la donna che aveva sposato e ne sentì subito la mancanza, in un misto di amore struggente e dolore lacerante. Iniziò a piangere, non l’aveva mai fatto e fu strano vederlo piangere anche per sua moglie. Pensò a sua madre, a come l’avesse protetto anche dopo la morte, a come quegli occhiali gli avessero impedito di piangerla come meritava, e per questo cominciò ad odiarli. Era la prima volta che provava un sentimento ostile verso qualcuno o qualcosa; intanto continuava a guardare la sua amata, non più con un distacco amorevole, ma terrorizzato dal pensiero di perderla, bruciando di desiderio per lei. Le sue ultime parole furono all’incirca queste: non sento più il distacco dalla vita ma un totale attaccamento ad essa, e mentre soffro per questa morte inaspettata gioisco ora più che mai attraverso i ricordi di una vita vissuta a metà, e tu mia cara non sei stata mai così bella ai miei occhi. In quel momento la donna ormai in lacrime capì che era arrivato il momento, quindi si affrettò a sussurrargli qualcosa all’orecchio. Poi Paolo serenamente spirò, col sorriso più bello che avesse mai fatto durante la sua breve vita con gli occhiali magici.