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Raccolta di testi in prosa di Ignazio Salvatore Basile
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Memorie di scuola

Alzi la mano chi non ricorda almeno uno dei suoi ultimi giorni di scuola! 

I miei ricordi si confondono tra gli anni della formazione (dalle scuole elementari sino all'università) e quelli di insegnamento (ormai son più di trenta).

In attesa della pensione, che sembra non arrivare mai, ho iniziato a pubblicare le mie memorie di scuola.

Principalmente sto pubblicando le mie memorie di scuola sui miei blog letterari: albixlatino di blogspot.com e idiomalatinos di wordpress.com.

Ho pubblicato già il primo volume con la casa editrice Youcanprint.it.

Grazie a chi vorrà condividere i miei ricordi.

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Camera Charitatis

Quando seppero che suo fratello aveva fatto domanda per essere assunto al Comune come ragioniere capo lo abbracciarono tutti con grande trasporto. Ed era la prima volta, da che si conoscevano, che questo accadeva.

“ Prima Dio e poi i Santi” sentenziò ancora Giovanni nell’Ufficio del Sindaco.
Idealmente parve ripetere l’abbraccio di poco prima guardando Giorgio dritto negli occhi come per dire:

“- Noi siamo Dio. Dopo noi cinque vengono tutti gli altri.”

Per la verità Giorgio non aveva fatto niente per meritare tutta quella divina considerazione anche se non si nascondeva, tuttavia timidamente, un certo, indefinibile piacere.

In tre lunghi anni di vita amministrativa quella era la prima volta che i suoi colleghi di giunta lo trattavano da pari a pari e ciò, almeno nelle loro intenzioni, era una promozione e Giorgio era stato sempre particolarmente sensibile ai riconoscimenti altrui anche quando al loro paternalismo, che in questo caso non era neppure tanto palese, avrebbe voluto ribellarsi.

All’inizio, subito dopo l’insediamento, c’era stata una prima fase di fredda cordialità: non ci si conosceva a vicenda né come amici né come politici. Poi era subentrata nei suoi confronti una sottile inespressa antipatia che egli avvertiva solamente sotto forma di diffidenza. Innanzitutto era l’unico dei componenti l’organo esecutivo ad essere alla prima esperienza amministrativa. Ciò giustificava una qual certa aspettativa da parte dei suoi alleati di giunta.

Ma quando essi avevano capito che la sua integrità morale, il suo impegno personale, il suo attaccamento all’interesse generale erano più il frutto di una scelta di vita, di un suo ( per quel tempo) originale stile politico piuttosto che discendere dalla indecisione o dalla sua inesperienza, la cauta , timida e speranzosa patina di formale attesa si era tramutata lentamente ma inesorabilmente in quella incomprensibile diffidenza che Giorgio, all’inizio, non aveva saputo valutare e capire appieno.

- “ Ma come? Questo qui non ha nessuno da sistemare in qualcuno degli uffici dell’Ente?!? Non sbraita per nominare ingegneri, geometri, avvocati,di sua conoscenza a carico dell’amministrazione? Non sgomita, non traffica, non intriga per gli appalti e le commesse comunali?!? Ma come mai? Come è possibile! E se fosse una spia?!? Non ci posso credere! E’ solo un giovane idealista! Si sveglierà anche lui prima o poi!”
Giorgio si immaginò i nuovi commenti così come si era immaginato i vecchi.

- “ Ve lo avevo detto io??” - leggeva in bocca a Bobo.

-” Ogni uomo ha un suo prezzo. Nessuno di noi è immune dal peccato”. E Giovanni al sindaco: “E’ finita la pacchia Tonì!In tre anni ti sei mangiato anche la sua parte, eh?!?”

Mentre Ottavio dopo essersi schiarito la gola, con la sua voce piatta e rapida avrebbe sicuramente detto:

- “ Io lo sapevo che anche Giorgio era dei nostri. E’ un finto tonto ma sotto, sotto, dà dei numeri anche a noi” e avrebbe riso a mezza bocca.

Dare dei numeri a lui ed ai suoi amici! Questa poi!
E altrettanto certamente Giovanni lo avrebbe rimbeccato:

-” Meglio di voi è impossibile”

Come se i suoi compagni, dal centro-sinistra in poi, si fossero limitati ad accendere i ceri al padreterno!
Comunque, tutti quei commenti, i suoi colleghi di Giunta, se avessero saputo la verità, se li sarebbero risparmiati e avrebbero continuato a considerarlo chi un finto tonto e chi un vero imbecille seppure, forse, colto e intelligente.

Se solo avessero immaginato che suo fratello aveva saputo del concorso dalla Sezione Concorsi della Gazzetta Ufficiale e che egli, addirittura, aveva stentato a parlargliene, cercando quasi di tenerglielo nascosto per paura di possibili, come dire, implicazioni di natura etico-morale!

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L’Acchiappapensieri

L’idea gli venne davanti ad un foglio bianco, una sera che finalmente gli era riuscito di metterselo davanti, ritagliando dai numerosi impegni un piccolo spazio temporale da dedicare al suo hobby preferito, alla sua ambizione più recondita: sviluppare i suoi pensieri e trasformarli in una forma letteraria da trasmettere agli altri, fossero anche soltanto delle semplici memorie autobiografiche per i suoi discendenti diretti.

Ma per quanto si sforzasse, non gli riusciva di richiamare dal limbo fluttuante dell’immane congerie del deja-vû (o meglio, del deja pensé), neanche una delle mirabili intuizioni letterarie che nell’ultimo mese avevano attraversato come lampi lo spettro del suo raziocinio. E il foglio continuava a restare desolatamente bianco.

Fu così che gli venne l’idea di costruire un acchiappa pensieri.
Non doveva poi essere così difficile, per un ingegnere specializzato in elettronica molecolare di base, primo classificato nella sessione di laurea 2022-2023 al Massachussetts Institut of Technology di Cambridge.

Quando si rese conto che quel piccolo apparecchio computerizzato, ottenuto sostituendo i microprocessori al silicio di un normale computer con dei chips organici, il cui principio attivo non era altro che la ripetizione del processo fissativo della memoria cerebrale, assolveva in pieno la funzione per cui era stato concepito e creato, il brillante ingegnere ed aspirante scrittore, non pensò nell’immediato, di avere dato un significativo, ulteriore contributo al progresso scientifico e tecnologico dello scibile umano. Non gioì, come sarebbe stato normale, per il fatto che la sua invenzione costituiva un altro importante tassello di quel maestoso mosaico che l’uomo aveva iniziato a comporre migliaia di anni avanti con i primi rudimentali disegni sulla roccia, con l’alfabeto, la registrazione, quella visiva, olfattiva e via, via, elencando. Neppure realizzò sul momento gli importanti profitti che gli avrebbe fruttato la mirabile invenzione.

Ciò che maggiormente lo fece contento fu invece la possibilità di racchiudere in quella scatoletta i suoi pensieri; quelli sfuggenti ed imprendibili che ti colpiscono mentre distrattamente guardi fuori dal finestrino di un treno o di un tram; o magari mentre mangi meditabondo in un solitario self service; oppure nelle svariate circostanze in cui è macchinoso, se non impossibile, trovarsi con un registratore vocale o, peggio, con una penna in mano ed esser pronto lì, seduta stante, a dettare o scrivere i tuoi pensieri, sciupando quel magico, silenzioso e intimo momento, che trasposto fuori dalla mente, perde inevitabilmente quella sintetica ed indecifrabile unità che solo il sogno e il limbo della mente riescono a preservare.

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Tema sessione Estiva 1948

Tema

“Con riferimento alle vicende degli ultimi anni, parlate delle difficoltà in mezzo alle quali si è svolta la vostra carriera e dite in che modo avreste voluto potervi meglio preparare alla vostra futura attività professionale”


Svolgimento

Devo confessare di essere maturato precocemente, in mezzo ai dolori, a causa degli orribili misfatti che ho visto. Alla mia generazione rimane infatti il rimpianto di non avere goduto una fanciullezza serena, come sarebbe stato naturale.
Fino ai dieci anni ho trascorso dei giorni lieti insieme ai miei genitori e ai miei due fratelli più grandi, nati rispettivamente nel 1922 e nel 1926.
La nostra tranquilla esistenza si interruppe un giorno di giugno del 1940.

Ci fu un certo discorso alla radio che entusiasmò tutti quanti, all’infuori di mia madre. Infatti, subito dopo quel discorso, mio fratello Carmelo, quello più grande, venne chiamato alle armi. Era scoppiata la guerra, così, all’improvviso. Mia mamma diveniva sempre più triste, mano a mano che passavano i giorni. A ottobre, rientrando a scuola dalle vacanze, non ritrovai più il mio caro maestro, ma una maestrina incaricata di svolgerci un programma di emergenza.
Fu un inverno molto duro e freddo: a scuola, come a casa, mancava la legna per le stufe e cominciarono le restrizioni di tutti i generi di consumo. Le cose peggiorarono l’anno successivo, quando venni iscritto alla scuola media: di fronte alle cose che accadevano nel mondo, la scuola finì all’ultimo posto.
Bisogna riconoscere che molti insegnanti facevano di tutto per dedicarsi alla nostra istruzione, ma era davvero difficile dimenticare le preoccupazioni e i pericoli che incombevano su tutti noi, unitamente al pensiero degli approvvigionamenti e ai lutti.

Dopo l’estate del ’43, quando già eravamo stremati dagli affanni della guerra, un barlume di luce parve illuminare le nostre speranze di pace.
L’8 settembre la radio diffuse la notizia della firma dell’Armistizio, ma in casa mia le cose, purtroppo, peggiorarono. Infatti, mentre mio fratello Carmelo, in quanto appartenente all’Esercito Regolare Regio ci confermava che in seguito all’Armistizio i nuovi amici dell’Italia erano gli Alleati Americani, Inglesi e Francesi, l’altro mio fratello, Ninì, partì all’improvviso, lasciandoci tutti nella costernazione. Con una sua lettera, ai primi di ottobre di quel disgraziato 1943, ci informava di essersi arruolato volontario nell’esercito della Repubblica di Salò che, capeggiata dal Duce Benito Mussolini, era rimasta alleata dei Tedeschi.
Per mia madre e per noi tutti fu il colpo di grazia. Certo, nella mia povera, piccola testa non restava tanto spazio per gli studi. Nella nostra avventurosa e incosciente ingenuità, soprattutto tra coetanei e compagni di scuola, ci chiedevamo con chi ci saremmo schierati al momento della chiamata alle armi.

Io, poi, ero ancor più dibattuto dei miei compagni: sarei stato per il Re, come Carmelo? O con il Duce, come Ninì?
Mio padre mi tacitava nervosamente: “Che pensassi a studiare! E basta!”
Mia madre, a volte, senza un apparente motivo, mi stringeva convulsamente al petto: ed io capivo che aveva paura, anche per me. E ancor più mi strinse a sé, tra lacrime di indicibile dolore e disperata rassegnazione, quando giunse la notizia che i miei due fratelli erano entrambi morti.
Nessuno ci spiegò mai come, ma io, nella mia allucinata fantasia, immaginavo che si fossero sparati, dai fronti contrapposti, senza neppure riconoscersi, nel buio di una notte di guerra.
Poi, nel 1945, la guerra finì, anche se non finirono le nostre sofferenze. Io intanto stavo per completare il mio secondo anno all’Istituto Tecnico.

Certo che sento il rimpianto di non avere potuto studiare come avrei dovuto e voluto. Se guardo indietro non è però quello il rimpianto più grande: penso ai miei due fratelli, alle sofferenze e ai lutti di tutti gli Italiani per le ferite della guerra. Poco danno sarebbe il non conoscere le declinazioni del latino o essermi dimenticato qualcuno dei trenta e passa Imperatori di Roma! Ma, se guardo avanti, penso che almeno oggi ho la speranza di un futuro e ciò che ho perso in conoscenze di scuola, l’ho purtroppo imparato in esperienze di vita.
Spero perciò, concludendo, di essere all’altezza del grande compito che ci aspetta: quello di ricostruire un’Italia di nuovo forte e di nuovo unita nella pace e nel progresso.

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Le tre profezie di nonno Savio

Non so come né perché quella mattina d’autunno dell’anno 2001 mi vennero in mente le tre profezie di nonno Savio. Forse per il fatto che avevo letto, giusto qualche giorno prima, che nel trapasso dal regime monetario della Lira a quello dell’Euro, l’unità di conto europea, nelle abitudini dei consumatori italiani, andava sostituendo le vecchie mille lire, piuttosto che coprire gli acquisti corrispondenti alle 1.927,36 del cambio ufficiale che ci era stato imposto.

O forse era stato un refolo nostalgico e malinconico di quella mattina che preannunciava, in modo sottile e misterioso, la fine del bel tempo, a smuovere le icone spirituali degli avi che riposano nella memoria dell’anima di ciascuno di noi.
Così, quella mattina, era emersa dai recessi della mia mente la figura della nonna paterna. Era stata infatti proprio nonna Maria, la mamma di papà Carmelo, che molti anni addietro mi aveva parlato delle tre profezie di nonno Savio. L’occasione era stata una delle visite che io le facevo nella casa di riposo di Selargius, dove la vecchina passò gli ultimi anni della sua vita. Ricordavo bene quell’ultimo sabato di settembre del 1971.

Mi raggiunse nel parlatorio, come sempre. E come ogni volta mi salutò con una carezza della mano destra sulla guancia, accompagnata dalla solita frase in siciliano, appena sussurrata sulle labbra ancora fresche; un sussurro che era insieme una conferma di ciò che la sua vista ormai scarsa, le aveva non di meno fatto intravedere entrando in parlatorio:

- “Sarbaduri di Carmelo sei!”

Dopo i ringraziamenti per la busta di pere che mio padre regolarmente mi incaricava di portarle, mi faceva sedere, sedendo a sua volta, su una sedia di legno alta e impagliata, presso un tavolo su cui poggiava la mia busta con la frutta. Terminati i convenevoli di rito, quella sera mi chiese conferma del ritorno all’ ora solare. Si fece spiegare bene, per di più d’una volta, come funzionava questo cambio di conteggio dell’ora, chiedendomi se fosse vero che domani ci sarebbero state 25 ore anzicchè le consuete, normali 24 ore. Si scusò per la sua “ svagatezza”. Usò proprio questo termine, nel suo dialetto samperoto che io capivo abbastanza bene, pur non riuscendo a parlarlo, per mancanza di pratica.

- “ Sto diventando assai svagata; deve essere una malattia di famiglia. Anche mio padre, Domenico Formica e mio nonno, Savio Formica, con l’età si svagarono! Tuo padre ti parlò di suo nonno Domenico e di mio nonno Savio ?”- aggiunse poi puntandomi gli occhi velati addosso.

Le dissi che sapevo qualcosa del bisnonno Domenico, ma che nulla sapevo di questo mio trisavolo, Savio, se non per averlo sentito nominare, una o due volte da mio padre.

–“ Questo mio nonno”- riprese nonna Maria – “ trascorse gli ultimi anni della sua vita a casa mia; tutti dicevano che fosse ammattito, anche se io lo ricordo solo un po’ originale, quasi cieco e a volte assente, svagato, per l’appunto. E’ vero però che ripeteva sempre, come una cantilena senza senso, soprattutto tre cose: ' Ricordatevi che sarà trascorso da poco questo secondo millennio dell’era di Cristo, che voi vedrete giorni di 25 ore, le vostre ricchezze dimezzate e i bambini nascere da due donne!'". Mia nonna Maria, a complemento di quel curioso aneddoto, precisò che suo nonno Savio, si meritava per quelle assurdità incomprensibili, le bonarie prese in giro dei passanti, ai quali rivolgeva con enfasi profetica le sue predizioni, talvolta levandosi in piedi all'improvviso, durante le quiete sere che trascorreva all'ombra della casa, seduto sull'uscio a meditare Dio solo sapeva cosa, con lo sguardo perso nel vuoto. E che spesso concludeva la sua filippica rimarcando l'ultima delle tre profezie, sollevando l'indice e il medio della mano destra e concludendo a voce ancora più alta: 'Due donne! Capiste? Senza masculu e senza patri!!!'

Come dicevo, quella mattina d’autunno d’inizio millennio, nonostante il bel sole d’ottobre, si respirava aria di inverno, a ridosso di novembre ed io mi ero ripromesso, come d’abitudine, tra le cose da fare, una visita dalla mia parrucchiera di fiducia.

- “ Cumenti andausu, su dottori?” – Mi fece la signora Tecla, mentre mi sistemava con le dita sottili e abili l’asciugamano nel colletto. Risposi con formule di circostanza. Com’era tacita intesa tra noi, la conversazione non doveva essere impegnativa. Infatti riprese a parlare seguendo un suo filo personale di pensiero. Ad un certo punto entrò una signora, sorprendendosi di trovare tutto il personale impegnato e sottolineando comunque la sua puntualità.

- ” Veramente sei in ritardo esattamente di un’ora, mia cara!” La corresse, seppure giovialmente la titolare.

- “Io? Quando mai?” – riprese la cliente, più indignata che sorpresa.

- “ Hai messo a posto le lancette del tuo orologio?” – replicò la signora Tecla, in tono tranquillo, continuando ad occuparsi dei miei capelli.

- “ L’ora legale!” – esclamò l’anziana cliente battendosi la mano nella fronte, illuminata da un lampo fugace.

- “Non ti preoccupare!” – la rincuorò subito la parrucchiera- “ Ho quasi finito con questo signore. Accomodati pure, intanto”.

- Peccato per queste giornate lunghe e luminose che stanno per salutarci! Non è vero su dottori?”- aggiunse poi rivolta a me.

- “Veramente la giornata più lunga dell’anno è quella di oggi, che dura ben 25 ore!”- disse un’altra cliente che sembrava non stesse neppure ascoltando il discorso.

- Sì, d’accordo”- ribatté la sig.ra Tecla cercando di non contrariarla troppo apertamente- “però indubbiamente, da oggi, il buio arriverà prima, facendoci sembrare le giornate più corte”.

- “Eh, già!” – riprese quella, incoraggiata dal tono solidale della parrucchiera- “D’altronde abbiamo portato indietro le lancette dell’orologio di un’ora, stanotte alle tre!”

- “Insieme alle lancette, mi sembra che qui stia girando all’indietro anche il cervello di certi politici!” – saltò su un altro cliente, evidentemente contrariato da quel cambio d’orario che, pur se soltanto di un’ora e limitatamente a due giorni all’anno, avevo letto che scombussolava l’orario biologico di tanta gente!

- “ E perché mai, signor Bruno?” – lo stuzzicò la parrucchiera, che le chiacchiere del suo salotto le sapeva attizzare meglio di un fabbro il suo fuoco.

- “E me lo chiede pure?” – fece di rimando l’uomo, in unn tono a metà tra l'indignazione e l'esasperazione. Con la coda dell’occhio notai che era un signore di una certa età! – “La mia pensione vale esattamente la metà rispetto all'anno scorso; mi cambiano l'orario, inventandosi giorni di 25 ore ed in più leggo sui giornali di donne autorizzate a farsi i figli da sole, senza la collaborazione dell'uomo! Non so se mi spiego?

- “Che sarà mai?” – interpose la signora che era arrivata in ritardo sull’orario solare ripristinato. – “Ma non l’ha letto che da qualche parte, forse in Olanda, in Spagna o addirittura in America, si sposano uomini con uomini e donne con donne e così ottengono il diritto di adottare i bambini orfani che diventano loro figli a tutti gli effetti? Ma ci rendiamo conto o no? Un figlio che si ritrova due genitori dello stesso sesso?

- “E lei si scandalizza per così poco?”- ribatté la mia parrucchiera, levandomi l’asciugamano dal collo e spazzolandomi abilmente giacca e pantaloni. – “Glielo dica lei, su dottori, che oggi ci sono figli che hanno due padri e una madre! Oppure due madri e un padre. Non adottivi, ma naturali!”

Preso così per i capelli (si fa per dire), dovetti dire anch’io la mia e raccontai di quella causa da me seguita in Tribunale dove un padre anagrafico, pur avendo acconsentito ad una paternità con inseminazione eterologa, indispettito dalla sopravvenuta separazione, aveva agito in giudizio contro la moglie per il disconoscimento del figlio che, essendo nato da un embrione formato in provetta dagli spermatozoi di un donatore (seppure da un ovulo della moglie medesima), non poteva certo dirsi figlio suo, quantomeno da un punto di vista strettamente biologico e comunque tale non poteva risultare, comparando le analisi del DNA che vennero disposte, alla luce di un sistema giuridico antiquato.
La questione giuridica era risultata ancor più complicata per il fatto che l’embrione era stato trapiantato nell’utero preso “in affitto” da un’altra donna successivamente alla fecondazione in vitro. Inoltre, sembrava allo stato degli atti, che la Banca del seme si rifiutasse di dare le generalità del donatore, che aveva preteso l'anonimato ed una liberatoria per eventuqali, future paternità! Per cui quel bimbo rischiava di crescere proprio senza padre.

Lanciata quella bomba, lasciai con un cenno di saluto il salone, diventato ormai una bolgia, peggio di uno studio televisivo durante un talk-show. La giornata adesso era leggermente meno fredda. Respirai forte.

Beh, se non altro adesso sapevo che anche il mio trisavolo Savio, fra tanta gente più o meno illustre d’ogni tempo, era stato ingiustamente considerato pazzo dai suoi contemporanei.


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Cose dell’altro mondo


Adesso Pippo aveva finalmente capito. Quand’era di questo mondo si era chiesto tante volte, senza farsene mai una ragione, come mai e perché i due mondi, quello di qua e quello dell’aldilà, fossero separati ed incomunicabili.

Si era addormentato, quella notte, come sempre, fantasticando sui mondi del passato, convinto che da qualche parte dovessero esserci quegli antichi romani che ammirava tanto, o gli eroi di Omero che tanto lo entusiasmavano leggendo le sue opere; o ancora i suoi antichi antenati sardi e siciliani, che gli apparivano nei vari costumi d’epoca, in un’infinitamente lunga processione di oranti in cammino; i conquistadores spagnoli, che cavalcavano come dei celesti davanti a folle immense di indios vocianti. Ed ogni notte era un viaggio diverso nell’immaginario del suo fantastico mondo interiore.

Sorrise il ragazzo, ma in un modo diverso da quello che appariva sulla foto della tomba dove sua mamma non faceva mancare mai i fiori freschi.

Sua mamma! Che sensazione, sfiorarle i capelli, appena spruzzati di grigio, sotto le sembianze impalpabili di un refolo di vento! Certo la mamma non poteva capire che quello scompiglio improvviso di capelli o quel prurito fugace alla guancia o lo sventolio rapido del soprabito erano sempre carezze del suo piccolo Pippo!

Ma forse era meglio così. Se l’avesse immaginato appena si sarebbe certo spaventata. Meno male che il Buon Dio non aveva reso possibile il contatto materiale tra i due mondi, anche se in fondo, Pippo non era poi così convinto che sua mamma non lo sentisse a fianco a sé.

Se avesse potuto parlarle le avrebbe detto che i mondi antichi, tanto da lui bramati notte e giorno, erano lì, negli stessi posti dove i viventi del mondo terreno vivono. Era sufficiente, per visualizzare attorno al Colosseo gli antichi abitanti, allontanarsi con la velocità della luce ed arrestarsi ad un certo momento, per vedere l’arena affollata di fiere e gladiatori, di senatori ; e le antiche strade percorse dai pesanti calzari dei soldati romani armati di scudi e di lance; i mercanti, gli osti e le prostitute; e le ilari commedie di Plauto che tanto lo facevano divertire sui banchi del liceo: tutto era lì, come se duemila anni non fossero mai passati. E nel gaudio eterno, con Gesù, Giuseppe e Maria, i santi, gli angeli e gli spiriti immortali di Dante, di Leopardi, Shakespeare, Holderlin, cantava ora anche Pippo le lodi alla grandezza infinita di Dio.

Come poteva ora il suo spirito giubilante, spiegare ai mortali che il tempo che si vive non è altro che un piccolo segmento spazio-temporale, integrato in una curva geometrica infinita che si evolve senza soluzione di continuità dalla notte immemore dei tempi?

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La lega dei sette pianeti »
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