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Raccolta di testi in prosa di Anna Di Marco
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Il calice mezzo pieno

IL CALICE MEZZO PIENO

 

Un giorno Dio, non avendo nulla da fare, si passava il tempo a guardare dentro il suo specchio magico e vede  due fratelli, Oseib, l’obesità, e Anoser, l’anoressia.

Questi due diffondevano nella terra il terrore: rubavano, uccidevano, violentavano uomini, donne e bambini.

Toglievano la dignità e il rispetto di sé stessi a tutti coloro che riuscivano a trascinare con le loro lusinghe, nella casa della loro madre: l’accidia.

 

Il buon Dio, che ama tutti gli uomini, non poteva stare a guardare questo gioco osceno dei due fratelli e così decide di richiamarli per metterli in riga.

 

Era il giorno di natale quando Oseib e Anoser dovevano recarsi da Dio, ma ciascuno dei due diceva che per il giorno di natale non era possibile andare da Dio, è un giorno di particolare impegno per loro, hanno tanto da fare e che la cosa poteva essere rimandata di qualche giorno.

 

Il buon Dio, che era buono con tutti, fissa l’appuntamento per il giorno di capodanno, ma riceve la stessa risposta dai due fratelli.

 

Allora Dio, non riuscendo a far venire al suo cospetto i due fratelli, visto che lui è Dio e nulla è impossibile per lui, decide di andare lui stesso dai due fratelli.

 

Guardando sempre nello specchio magico, vede una folla che si trascinava nella casa dell’accidia e tra la folla scorge due individui che non riusciva a riconoscere tanto erano cambiati nel loro aspetto.

 

Uno era una montagna di lardo che mentre camminava traballava, si muoveva a fatica, una gamba non si distingueva dall’altra tanto erano gonfie e appiccicate, le mani erano due cose a forma di palloncino attaccate ad un pallone più grosso che doveva essere il braccio che sormontava una circonferenza ancora più grande che doveva essere il busto.

La testa sembrava piccolissima sopra quell’enormità.

Era Oseib.

 

Dio: come ti sei ridotto figlio mio! Ma come è stato possibile?

 

Oseib: Dio mio! Perché sei venuto a vedermi? Lasciami in pace.

 

Dio: è forse colpa mia il tuo stato? Ti ho forse trascurato?

 

Oseib: tu mi hai abbandonato.

 

Dio: qualcuno ha detto che quando nella spiaggia camminavamo uno accanto all’altro, tu vedevi le mie orme e le tue insieme.

Tutto andava bene.

Quando hai visto sulla sabbia le orme di un solo individuo, hai pensato che fossero le tue, non hai pensato che potevano essere le mie che ti portavo in braccio.

Io ti dico che ora sei talmente pesante che non riesco più a portarti, le mie spalle sono vecchie ormai.

Oseib:

tutte le cose che prima mi sembravano belle, non sono più belle, non esiste la leggerezza, non esiste la leggiadria, non esiste la gioia, non esiste la felicità.

I miei sensi si sono ispessiti talmente tanto che sono diventati callosi e duri, la sola soddisfazione per me è la quantità di cibo e la ricerca sempre di sapori sempre più gustosi e saporiti. E ora vattene.

 

Dio: ma non vedi come il grasso impedisce alla particella divina di passare nel tuo cuore?

Non vedi come il colesterolo impedisce alla scintilla divina di illuminarti?

 

Oseib: non ho bisogno di te e delle tue prediche, vattene.

 

Dio guarda quel figlio malato e lo mette in un angolo del suo specchio magico, mentre avrebbe riflettuto sul cosa fare.

 

Intanto si avvina all’altro individuo che si trascinava nella folla, era talmente smunto, talmente sottile che si vedeva appena.

Il suo corpo era uno scheletro ricoperto di pelle.

Non aveva la forza di camminare, sembrava un delicatissimo e sottilissimo calice di cristallo, fragile e trasparente.

Gli occhi erano scavati in un viso senza guance, dei legnetti al posto delle gambe, delle braccia e del busto. Una testa enorme su una radiografia.

Era Anoser.

 

Dio: come ti sei ridotto figlio mio!

 

Anoser: Dio mio! Perché sei venuto a vedermi? Lasciami in pace.

 

Dio: è forse colpa mia il tuo stato? Ti ho forse trascurato?

 

Anoser: tu mi hai abbandonato.

 

Dio:

il giorno che sulla spiaggia hai visto le orme di un solo individuo, hai pensato che fossero le tue, non hai pensato che le tue non si vedevano più perché eri talmente leggero che non lasciavi segni e quelle che vedevi erano le mie orme.

 

Anoser: ti prego di andartene e di lasciarmi solo.

 

Dio:

non posso farlo, tu lo sai, la tua scintilla divina non si può neanche espandere perché il tuo corpo si sta smaterializzando e le tue vene sono talmente rimpicciolite che ciò che univa lo spirito all’anima e ai sensi non ci passa più.

 

Anoser: vorrei restare da solo.

 

Dio guarda quel figlio malato e lo mette in un angolo del suo specchio magico con Oseib, mentre avrebbe riflettuto su cosa fare.

 

Mentre la folla di ciccioni e di anoressici, continuava ad entrare e ad uscire dalla casa dell’accidia.

Quella casa era un luogo di perdizione, il luogo del male, bisognava distruggerla.

 

Allora Dio và da Noè e gli dice di costruire un’arca perché avrebbe mandato sulla terra il diluvio universale per distruggere quella casa.

Ma questa volta Noè doveva mettere in salvo: la creatività, la leggerezza, la leggiadria, la gioia, la felicità, l’amore e il rispetto.

Noè, che non era certo un ingegnere navale e che la sua prima arca è stato solo un caso se non è affondata con tutto quel peso che aveva nella stiva, non aveva la più pallida idea di come costruire questa nuova arca.

Và a prendere i disegni della prima e comincia a studiare.

 

Nel mentre Dio nel suo specchi magico vede un tipo che faceva di tutto per attirare la sua attenzione, questi era Vincenzino, un uomo altro e grasso, aveva sentito in giro di ciò che voleva fare Dio e perciò voleva parlargli e comincia col dire:

Il cibo mette allegria, dona soddisfazione, mentre stai mangiando si istaura un equilibrio interiore, i sensi addetti a questa soddisfazione sono appagati e diventano più importanti degli altri e ti senti bene.

Però c’è qualcosa che non và, quando non stai mangiando e il tuo corpo ha finito di assorbire tutti i grassi e gli zuccheri, si svegliano desideri e voglie che non puoi soddisfare a causa della tua grassezza ed è per questo che ricominci a mangiare, per avere un po’ di tranquillità e di piacere.

Se tu distruggi la casa dell’accidia, noi non abbiamo dove andare, non avremo più momenti felici.

 

Dio ascoltava in silenzio le parole di quel buon ciccione e mosso da pietà và da Maria Maddalena, che di uomini se ne intendeva, per avere un consiglio.

 

Maria Maddalena gli dice di convocare i più importanti studiosi del problema: alimentaristi, psicologi, industriali di prodotti alimentari, dietologi, sociologi, i sapienti e i saggi della terra.

Questo fa Dio.

 

Nel mentre nella casa del mulino bianco, una donna che voleva fare la modella era diventata piccola e sottile come un grissino, sembrava più un feto umano che una giovane donna.

Stava sempre con la bilancia sotto i piedi, fino a quando, non riuscendo più a controllare il suo peso, andava dimagrendo sempre di più e il suo corpo era diventato così fragile che anche un leggero soffio di vento di una bella giornata di primavera le face male.

Questa donna era Ermenegilda, lei era più piccola della lunghezza del nome che aveva.

L’attenzione di Dio era stata attirata dal suo sguardo, i suoi occhi erano così tristi, così stanchi, così bisognosi, così dolcemente illuminati da una debole luce.

Quegli occhi erano un S.O.S. uralto a squarciagola.

 

Mentre gli esperti cercavano la soluzione e Noè faceva l’arca, a Dio venne una splendida idea:

se lui metteva insieme Vincenziono e Ermenegilda, i due si sarebbero compensati a vicenda.

Vincenzino si sarebbe tolto il cibo dalla bocca per far sì che Ermenegilda cominciasse a nutrirsi, così Ermenegilda sarebbe ingrassata e Vincenziono sarebbe dimagrito.

Questo sarebbe stato possibile grazie all’amore.

Così nella casa del mulino bianco Dio ci porta Vincenzino ed Ermenegilda.

Nel giro di poco tempo i due erano irriconoscibili e felici, due belle creature che si erano salvate.

 

Nel mentre Noè aveva studiato come fare l’arca che Dio voleva, era più un impianto idraulico che un’arca, difatti aveva creato delle tubature, degli sfiati, delle saracinesche, dei gomiti, degli attacchi per far sì che la scintilla divina potesse usare una via alternativa per farsi sentire dall’uomo, per far sì che la coscienza e la consapevolezza potessero lavorare in armonia con i sensi anche quando le vene erano ostruite.

Così distruggendo la dimora dell’accidia, l’essere dell’uomo si sarebbe salvato.

Gli esperti della terra avevano elaborato: diete, consigli, soluzioni, dialoghi, per curare i discendenti di Oseib e Anores, il trucco che hanno adottato era l’Amore, l’Amore per sé stessi e per gli altri, il Rispetto per sé stessi e per gli altri.

Non per nulla siamo stati creati ad immagine e somiglianza di Dio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*

deserto

Deserto

Aveva una famiglia: il marito, una bambina. Aveva un lavoro e una piacevole vita sociale fatta di piccole cose: una pizza con gli amici, al cinema ogni tanto, un caffè in compagnia, una passeggiata con le amiche. Aveva quello che tanti non hanno e che desiderano avere come sede di serenità, come il minimo e il massimo che ciascuno ha il diritto di avere.

Tutto ciò improvvisamente perse ogni interesse per lei, un mostro l’aveva trascinata dentro una voragine dove la libertà non esiste più e le cose che aveva non avevano braccia talmente lunghe da tirarla fuori.

Non la considerava una malattia, era uno sfizio che piano piano si è trasformato in dipendenza, la dipendenza dal gioco, da quelle maledette slot macchine  divora-soldi, dal gratta e vinci, da tutti quei giochi che misteriosamente la rapinavano dei suoi risparmi, del suo stipendio, ma ancora più gravosamente, la privavano della sua libertà.

Una malattia è quella che, quando c’è, prendi una compressa e guarisci, questa non, non sparisce con una compressa, è una bestia che ti azzanna e non ti lascia più.

La crudeltà del mostro però non ha mai fine ed ecco che la scaraventa nel deserto, un mondo isolato, silenzioso indifferente, sotto il sole cocente, arsa dal calore che le faceva bollire il sangue nelle vene, che le bruciava la carne e con essa il sogno della libertà.

Ed eccolo il miraggio di un’oasi dove potersi dissetare e rinfrescare sotto l’agognata ombra di una palma.

Andava in quella sabbia che le bruciava i piedi, in quella luce accecante, saliva e scendeva dune alte quanto le cime più alte della terra, fin quando l’oasi svaniva e, senza forze,  rotolava giù lungo quei morbidi pendii girandosi e rigirandosi nella bianca sabbia che le si appiccicava tutta addosso nelle piaghe della sua carne provocate dal caldo di quell’ inferno, rendendola irriconoscibile, un mostro essa stessa, come il mostro che la divorava. Tra le dune, nessuno la vede, nessuno sente il suo lamento.

Una bambina dai grandi occhi, più grandi del viso, con una mano tesa, le si avvicina, l’afferra, la tira a se e le chiede di alzarsi. Un altro miraggio? La sabbia comincia a diventare più fresca, il sole ha smesso di lanciare i suoi raggi come frecce che si conficcano in ogni centimetro del suo corpo. Rimane lì ferita, dolorante, tra le braccia del mostro e gli occhi grandi della bambina.

In quegli occhi grandi più del viso vede acqua fresca, ne sente quasi i benefici dentro la sua bocca, sente il profumo di fragranti cornetti appena sfornati e l’odore del cappuccino con una spruzzata di cioccolato, avverte il piacere di quei sapori che sostituiscono l’amaro della sabbia.

Afferra quella manina tesa, tira a se la bambina, la stringe così forte da farle quasi male.

Piange, si era persa, si è ritrovata grazie a quei grandi occhi, i suoi occhi di quando a sei anni nella calda cucina della casa, con i suoi fratelli, faceva girotondi intorno al vecchio tavolo sotto il sorriso della mamma che preparava la colazione prima della scuola.

Gli occhi della sua bambina che ha lasciato a casa senza colazione, la sua bambina silenziosa e triste che ha dovuto fare a meno della sua mamma, perché la sua mamma non era libera di essere mamma, il mostro l’aveva catturata, il mostro cattivo che ruba le mamme alle bambine.

La sua silenziosa bambina che non piange, non si lamenta, con due occhi più grandi del viso.

Piangi pure mamma, sono lacrime di libertà, allontanati dal mostro, sono la tua bambina, sei tu la bambina, la tua mamma, sei tu la mamma, non privare la tua bambina dalla sua mamma, e non privare la mamma della sua bambina.

*

Il nonno e il bambino

Un vecchio e un bambino
Un tempo si chiamava Giovanni e tutti lo chiamavano Giò; Giò come gioia, come giovane, come gioioso, come giocherellone, come gioviale. Era stato un grande lavoratore e un uomo amorevole con la moglie e con i figli, un amicone per tutti.
Ora ha 85 anni e nessuno lo chiama più Giò, anzi, nessuno lo chiama più. Tutti quelli che erano più grandi di lui: i suoi genitori, il suo barbiere, alcuni suoi amici, non ci sono più.
Quelli della sua stessa età, alcuni sono morti, altri rinchiusi in case per anziani, di altri non si sa più nulla.
Gli amici più giovani, alcuni non hanno tempo, altri non hanno mezzi per andarlo a trovare.
Giò vive solo, la sua casa è come una vecchia scatola che un tempo conteneva un prezioso regalo e ora è vuota. Il regalo è stato portato via dalla vita: la moglie è andata in cielo, i figli hanno creato nuove scatole con dentro il loro regalo, si sono sposati e a loro volta hanno avuto i loro figli.
Di tanto in tanto riceve la visita di questi, ma è come se fossero degli estranei che credono di trovare posto nella sua vecchia scatola vuota.
I soli suoi amici sono il silenzio e la solitudine, nessuno lo chiama più Giò e lui ha perso tutto ciò che Giò significava.
I ricordi sono le sole cose che gli fanno compagnia. Non ha bisogno di molto, tranne che di una tazza di latte e un piatto di pasta.
Gira per la casa vuota guardando ora una foto, ora un oggetto e i ricordi passano davanti ai suoi stanchi occhi.
Si siede sulla sua poltrona dietro la finestra in compagnia della solitudine.
Una donna delle pulizie due giorni a settimana toglie la polvere dai ricordi, ma non lo chiama Giò, lo chiama Signore, lo accudisce nei suoi bisogni materiali dietro ricompensa economica, gli cucina qualcosa da mangiare, gli lava la biancheria, lo aiuta a farsi il bagno e poi va via senza lasciare traccia della sua presenza perché ha l’ordine di non spostare nulla, di lasciare tutto dove si trova, dove sua moglie aveva stabilito quando era ancora con lui, quando sentiva ancora qualcuno che lo chiamava Giò.
Un giorno uno dei suoi figli lo va a trovare con il suo ultimo genito, un bambino di appena 5 anni.
E’ una visita fuori programma.
Questo è il giorno della fine di qualcosa e dell’inizio di una nuova cosa.
Inaspettata la richiesta fatta dal figlio che affida alla sua custodia quel bambino a lui estraneo, ma a lui legato da un vincolo di sangue, era suo nipote, il più piccolo di tutti, non avevano nulla in comune a parte il fatto che era suo nipote e che c’era una differenza di età di appena 80 anni.
Due grandi occhi sopra due guanciotti paffuti e rosei si fissarono davanti a Giò.
Due grandi occhi che chiedevano: chi sei? Che facciamo? Cosa abbiamo in comune io e te? Perché sono qua con te?.
Naturalmente un bambino di 5 anni non fa queste domande, ma davanti a quel vecchio inconsciamente vedeva qualcosa da scoprire.
In quei grandi occhi Giò riconosceva un legame forte, ma non riusciva ad individuare il nesso, la ragione, il principio. Quel nanerottolo cosa voleva da lui? Perché quegli occhi volevano penetrare nel rapporto perfetto che lui aveva creato con la solitudine?
Suo figlio, per necessità, lo aveva costretto a fare entrare nella scatola dei ricordi un piccolo estraneo e nello stesso tempo aveva costretto quel piccolo ad entrare nella scatola di un vecchio che non aveva più nulla da dare né da ricevere.
Come per magia, la piccola mano paffuta del bambino si posò sopra la grande mano rugosa del vecchio e, come la ciliegia sulla torta rende perfetta e bella la torta, da quel contatto cominciò a sgorgare il piacere della presenza dell’uno sull’altro e viceversa.
Gli occhi si posarono sugli occhi, dietro il rumore della porta d’ingresso che il figlio si chiuse alle spalle; un lungo attimo di imbarazzo, di paura, di curiosità mista a pudore e timidezza, un lungo silenzio pieno di emozioni venne seguito da una bocca che si allargò in un sorriso mettendo in mostra denti da latte e gengive vuote.
Questo fu l’attimo in cui cominciò a tessersi il tessuto del rapporto tra nonno e nipote.
Il piccolo prese dalla tasca la cosa più preziosa che aveva, una trottolina minuscola, sorpresa dell’ovetto Kinder, e la mostrò a Giò, poi poggiandola in quella grossa mano disse:
- Te la regalo.
Furono queste le parole del nodo d’inizio della trama del tessuto affettivo.
Il piccolo cominciò a guardarsi intorno e in alcune foto riconobbe il padre, delle altre chiese informazioni e il vecchio Giò cominciò il suo racconto trasmettendo a quel nanerottolo, che si definiva suo nipote, le sue antiche esperienze, i suoi vecchi ricordi carichi di avventure, di emozioni, di sentimenti, di motivazioni e di conseguenze.
E volle raccontargli una vecchia fiaba che Giò raccontava al papà di quel “cosino” quando era bambino e la moglie l’ascoltava come fosse anche lei una bambina:
C’era una volta un angelo, si chiamava Serafino, era bellissimo, aveva grandissime ali bianche di morbide piume, era sempre allegro, la sola sua presenza portava una ventata di ilarità in tutto il paradiso, forse troppo, tanto è che tutti, appena lo vedevano arrivare, cominciavano già a ridere e si preparavano ad assistere ad uno spettacolo inedito.
Era anche un po’ mattacchione, si divertiva a fare scherzi di ogni tipo a tutti gli angeli del cielo, dai più grandi ai più piccoli.
Ma un giorno tutti decisero di fare a Serafino uno scherzo, gli dissero che era arrivata in paradiso una carovana di circensi, avevano non solo tutte le cose che ci sono al circo, saltimbanchi, equilibristi, trapezisti, clown, maghi, etc.. ma anche una bellissima giostra di cavalli e persino le montagne russe, e avevano anche lo zucchero filato.
Serafino, con entusiasmo e con una certa agitazione, chiese dove si era piazzato il circo perché a lui piacevano molto le cose del circo e voleva andare subito a vedere.
Tutti gli dissero che ancora non era il momento, doveva avere pazienza che poi sarebbero andati tutti insieme.
Ma Serafino non poteva aspettare e allora lo condussero davanti ad una porta dicendogli che il circo stava oltre quella porta.
Serafino senza pensarci due volte, aprì la porta ed entrò in un lungo viale bianco, la porta si richiuse alle sue spalle e lui non potè più tornare in dietro.
Il viale scendeva giù fino alla Terra, Serafino capì che i suoi compagni gli avevano fatto proprio un brutto scherzo.
Si incamminò e arrivò sulla Terra, ma qua non sapeva dove andare e cosa fare fin quando la sua attenzione e la sua curiosità furono attratte da un vociare di bambini.
Era finito in una scuola e vide tanti bambini intenti nei loro compiti, c’erano quelli che leggevano, c’erano quelli che imparavano a scrivere, c’era quelli che coloravano, c’erano quelli che facevano ginnastica, c’erano quelli che cantavano e quelli che recitavano poesie.
L’angelo Serafino si chiese cosa poteva fare e allora, visto che nessuno lo vedeva perché gli angeli sono invisibili e nessuno lo ascoltava perché nessuno sapeva sentire, cominciò col fare dispetti a tutti i bambini, rubava le matite, cancellava disegni, scarabocchiava quaderni, faceva volare cappellini e fermagli dai capelli.
Nacque una vera e propria baraonda perché ogni bambino pensava che fosse stato il compagno a fare il dispetto e pertanto si vendicava facendo dispetti a sua volta.
Serafino si divertiva come un matto, rideva a crepapelle battendo le ali fino a quando Dio non urlò:
- Serafino, cosa stai facendo? Che ci fai lì? Chi ti ha dato il permesso di scendere sulla Terra?
Serafino, sentendo la voce di Dio che lo richiamava e pensando di non fare nulla di grave, non fece la spia dicendo che erano stati gli altri angeli a fargli questo scherzo, disse solo:
- Sono venuto a portare un po’ di allegria.
Dio, che tutto vede e tutto sa, replicò:
- Questa non è allegria, è una baraonda. I bambini devono essere educati nel rispetto degli altri, nell’aiutare gli altri, nel volere il bene degli altri. Invece guarda quello che fanno! Si tirano i capelli, urlano parolacce, si rincorrono, mostrano solo la loro prepotenza e il loro egoismo. Dove sono finiti i dolci e affettuosi pargoletti?
Serafino:
- Ma Dio mio, io non saprei…….
Dio:
- Non dire bugie Serafino! Riporta tutto come era prima, i miei bambini sono la cosa più bella che ho.
Serafino non sapeva cosa fare, c’era un rumore assordante, non poteva parlare a quei marmocchi e dire loro di stare in silenzio e riprendere i loro lavori: nessuno sente gli angeli.
Non poteva neanche farsi vedere in modo che lo stupore fermasse la baraonda: gli angeli sono invisibili.
C’era solo una cosa che poteva fare, giocarsi le ali, ma se lo faceva non poteva più tornare in paradiso e vendicarsi dello stupido scherzo che gli avevano fatto i suoi compagni.
Ma non poteva neanche disubbidire agli ordini dati da Dio.
Così battè forte le ali e tutte le piume si staccarono, una pioggia morbida e candida cadeva lentamente sul pavimento della scuola, sulle teste dei bambini.
Serafino, rimasto privo delle piume, si sentiva nudo, le ali erano il suo orgoglio, ora non poteva più volare e i suoi occhi si riempirono di lacrime.
Ogni bambino raccolse una piuma, perché le piume erano visibili ai bambini, e tutti con una piuma nella manina si sollevarono da terra come se fossero leggeri più dell’aria.
Non si sentivano più pianti e urla, ma tanti oh oh oh oh oh oh oh oh oh oh di meraviglia, non si vedevano più capelli tirati e boccacce, ma tanti sorrisi che volavano come uccellini appena usciti dal nido, si alzavano e si abbassavano per poi rialzarsi.
Improvvisamente si accorsero anche di Serafino che stava in un angolo della classe a piangere, si perché i bambini con le piume in mano potevano vederlo.
Paolino, il bimbo che aveva urlato e scalpitato più di tutti e che ora volava più in alto di tutti, si avvicinò a Serafino e disse:
- Piangi perché non hai una piuma? Abbracciami così voliamo insieme.
Ma Serafino continuava a piangere e non si muoveva.
Allora Paolino gli disse:
- Vuoi una piuma solo per te? Ti do la mia e facciamo un po’ ciascuno.
Serafino continuava a piangere, lui non voleva una piuma, voleva le sue ali. Che angelo era senza le ali!
Paolino:
- Tieni il mio fazzolettino, non piangere più, asciugati gli occhi, non volo neanche io e sto con te.
Serafino prese il fazzoletto, guardò Paolino, si meravigliò del fatto che riusciva a vederlo, ma subito comprese che era la Bontà che permetteva al bambino di vederlo, nel mentre gli altri bambini si avvicinarono, tutti lo vedevano.
Formarono un cerchio intorno a lui con le piume tenute in alto nelle loro manine. A vedere quell’immagine, sembrava di vedere la corolla di uno splendido e candido fiore sbocciato alla luce del sole.
Erano la Bontà e l’Amore a creare quell’immagine.
Serafino non piangeva più, aveva attorno tanti piccoli amici che si preoccupavano per lui, che non volevano che lui fosse triste, e vide negli occhi di quei pargoli qualcosa di più bello delle belle ali che aveva.
Si alzò e cominciò ad accarezzare quelle paffute faccine. Improvvisamente tante, tante, tante e tante piume cominciarono a spuntare sulle sue spalle e nel giro di pochi minuti, un paio di ali più belle, più morbide, più grandi e più bianche di quelle di prima si aprirono ad avvolgere tutti quei bambini in un unico abbraccio.
Quel giorno uno splendido spettacolo si svolse nella scuola, un angelo seguito da tante piume che tenevano altrettanti bambini piroettavano da una classe all’altra e lungo i corridoi, nessuno si era mai divertito così tanto e la Bontà non era mai stata conosciuta come in quel bellissimo giorno.
Serafino sentì nel suo cuore la voce di Dio che lo invitava a tornare in cielo.
I bambini sentirono la voce delle loro mamme e dei loro papà che erano andati a scuola per riportarli a casa.
Con la Bontà e con l’Amore si può volare come angeli e si possono vedere gli angeli che volano con noi.
Il bambino attentamente ascoltava quella storia, rapito dai personaggi del racconto e dalla calda e calma voce del nonno, si rivelò essere complice del vecchio Giò ed improvvisamente disse: tu sei un angelo? Mi fai vedere le ali?
La scatola di Giò all’istante si riempì di un piccolo angelo che si chiamava Giovanni come lui, dal sorriso sdentato.
Mentre giravano per casa Giò invitò il piccolo a guardare le foto di famiglia dove poteva conoscere la sua amatissima moglie, il pezzo più importante e vitale della sua esistenza.
In una foto Giò bambino era con suo padre, in quella foto il piccolo vedeva se stesso con il proprio papà, il figlio di Giò.
Era impressionante la somiglianza dei due bambini e dei due genitori che vivevano a distanza di tantissimi anni, epoche diverse, generazioni diverse che si perpetuavano attraverso quei grandi occhi che non la smettevano mai di accarezzare nel vecchio Giò quel legame forte che la vita concedeva per la vita stessa.
Fu un bellissimo pomeriggio per il bambino vecchio e per il bambino bambino e il figlio, al suo ritorno, si ritrovò figlio e padre del padre e del figlio.