chiudi | stampa

Raccolta di testi in prosa di Claudia Lamma
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Momo

                                     

 

Aveva detto di chiamarsi Momo.

Sapevo che non era vero, ma non m'importava.

Momo l'ho conosciuto all'alimentari dove faccio la spesa tutti i giorni. Da quando sono di nuovo sola, la spesa è un'eventualità, un  dubbio che amo lasciare appeso.

Non è malizia da parte mia, ma l'infantile  privilegio ad un'incognita,  premessa a un fatto straordinario, voglia di vivere.

Non ho più una famiglia da accudire, né un uomo che mi aspetti. A casa non c'è nessuno, se non le cose con cui debbo fare i conti.

E a me non piace fare i conti.

Mi piace rialzarmi, e questo non va tanto d'accordo con la contabilità.

Momo ha gli occhi grandi , la stessa sospensione incredula dei caprioli che incauti si avventurino nell'attraversamento di una statale a buio fatto.

Confida nella schedina vincente, nella ripresa economica, in quella confidenza di quartiere che gli consente di salutare tutti gli esercenti, la complicità di chi ascolti i segreti di ciascuno.

Mi sorride, tutte le volte che mi vede. Mi critica se compro roba surgelata, mi sgrida se spendo i soldi al take away cinese. Mi ha baciato sulla fronte per molti mesi, mi ha fatto giocare alla schedina e abbiamo perso insieme.

Un pomeriggio tardi è successo che io ero all'alimentari, lui per l'acciottolato a oziare. Uno di quei sabati svogliati che il mondo non considera, la città dorme. Poi quello del negozio di elettrodomestici ha avuto un infarto e Momo l'ha salvato.

Quel cuore è ripartito e noi ci siamo trovati insieme, su quell'acciottolato.

Quel pomeriggio è stato molto liquido, in modo particolare. Forse c'entrava di come il tempo si ferma, quando succedono certe cose, oppure c'entravano le prime frange di un inverno rigido,  un cavolo che io volevo comprare ma per Momo non era bello nemmeno un poco, il fatto che a un certo punto le cose succedono e basta, senza troppi forse.

Il gradino del civico nove ci ha ospitato a lungo, subito fuori l'alimentari. Io mi chiedevo perchè, alla fine, al posto del cavolo avessi comprato altro e ogni tanto dicevo a Momo cose come Meglio che vada, adesso vado.

E poi non me ne andavo.

E in quell'intercalare si è fatta sera.

Il tempo con lui ha modi speciali di trascorrere, armi segrete che ti costringono a inaspettate confidenze, mentre cammini.

Così abbiamo camminato e io gli ho detto di quel ragazzo della libreria e lui mi ha detto di un ricordo che più che un ricordo era un'immagine del suo balcone e di come delle volte quello ti rimane, delle persone importanti, un frammento sensibile che resta impigliato nelle cose.

Il succo di quello che conta è molto concentrato, mi ha detto, indicando in alto.

Io lo guardavo da sotto, un terrazzino come tanti, con le piantine di basilico, qualche geranio.

Per un momento ho immaginato e mi sembrava anche di aver sentito le cose che sentiva lui.

La notte dopo quella sera, dopo quel pomeriggio siamo approdati nella mia casa, che era un disastro di confusione e Momo ha cucinato gli spaghetti coi pomodorini che erano nella sporta della spesa, e anche l' 'nduja.

Aveva una confidenza strana coi miei fornelli, una fiducia cieca che la casa gli rispondesse.

Abbiamo mangiato a notte fonda e io ridevo raccontandogli le mie immaginazioni, il loro percorso dietro i doppi vetri e la condensa.

Abbiamo fatto l'amore per molto, sul divano letto, fra tutti quei vetri. Non avevamo deciso e il divano è diventato il letto come per sbaglio e  alla rovescia.

Per copriletto il piumino arancione, poi le lenzuola blu, poi i cuscini e poi noi due.

Ci siamo addormentati, alla rovescia.

Mi sarei svegliata e non avrei trovato niente, giusto così. Ci ero abituata da molto prima di ricominciare a fare la spesa tutti i giorni.

Non sarebbe stato lo stesso vuoto di quando qualcuno che ami ti lascia prima ancora di andarsene.

Sarebbe stato un vuoto ridicolo, l'inciampo sul gradino.

Ma Momo era lì, le sue mani sulla mia pancia.

Rannicchiato a me, un koala alto, le gambe fra le mie.

*

La Penultima spiaggia

                            

 

Rouille si era tesserata alla Federazione giovani comunisti per i poster della mansarda di Gauche e per il modo che Gauche aveva di infilare le labbra nelle pieghe inesplorate della parola partito.

La madre di Gauche, sindacalista  della  prima ora, sollevava appena la testa dallo scrittoio dello studio, lasciando che Rouille sfilasse fra il conclave di autori che abitavano gli scaffali del corridoio fino al soffitto, un sorriso d’indulgenza riflesso nella montatura degli  occhiali.

Gauche sdraiava Rouille sulla trapunta del letto, raccontandole della svolta della Bolognina, di quanto fossero disordinati i capelli di Akel, di come avesse quasi pianto,citando Tennyson, in quel novembre triste del comunismo, quando lui aveva solo quindici anni ed erano già troppi quelli che avevano dimenticato il riferimento alla battaglia di Porta Lame.

Venite amici, si era sdraiato accanto a lei,recitando piano le parole del Barone: Io vi propongo di andare più in lá dell’orizzonte.

Rouille in casa aveva l’enciclopedia della Treccani, comprata da sua madre a rate, insieme a un set di lenzuola e copriletti per la matrimoniale; una versione della Divina Commedia bordata in oro, ordinata fra gli annales dei sussidiari scolastici, il Breviario enciclopedico delle Scienze Naturali e le piccole collane Urania dell’intera produzione di Isaac Asimov, in mezzo cui spiccavano I Pilastri della Terra e Il Socio.

Gauche ascoltava Janis Joplin e traduceva al volo Patty Smith, parlava di Hemingway come se avessero pescato insieme il Marlin a Cayo Guillermo, mentre saltava con disinvoltura da Kerouac a Deleuze. Recitava Pasolini, Sanguineti e Isgrò. Contestava l’embargo cubano e Guantanamo, lamentandosi della morte prossima ventura del socialismo reale.

Rouille se n’era andata di persona alla sede  di via Tibaldi 17. Si era messa a frequentare la biblioteca dell’Archiginnasio con la stessa assiduità del Bestial Market e del Link, altalenando tra la vocazione monastica del proprio intelletto e l’istinto concupiscente a tradurre il mondo per mezzo di un letto.

Aveva scoperto in fretta che Akel era il nome con cui Tita Spernocchio avrebbe voluto chiamare suo figlio, se le leggi fasciste e poco esterofile del 1936 glielo avessero concesso. Si era dovuta accontentare di Achille, all’anagrafe, e del fatto che il marito fosse riuscito a tornare da Auschwitz. Akel-Achille, era l’uomo che citava Tennyson, che aveva cavalcato il crollo del muro di Berlino, lo stesso che davanti alle facce impietrite dei partigiani presenti a quel 12 novembre dell’89, aveva dichiarato che era necessario inventare nuove strade per unificare le forze di progresso.

Lo stesso che aveva suggerito l’urgenza di un nome nuovo e di un nuovo simbolo, ricordando di come il socialismo reale stesse tradendo la causa della liberazione dell’uomo, mentre Cecchetto imperava alla radio insieme a  tutti i suoi sottoprodotti, il Michele Apicella di Nanni Moretti perdeva la memoria e Salvatores veniva consacrato nell’Olimpo del cinema internazionale con la fuga di Marrakech Express.

Rouille aveva continuato ad amare Gauche con la dedizione dell’esploratrice che mappa nuovi mondi. Gauche, dal canto suo, la prendeva per mano e la trascinava fra assemblee d’istituto, corrispondenti esteri appena atterrati sul sagrato prospiciente la sala del cinema Castiglione, a denunciare la guerra dimenticata dei Balcani e l’eccidio in corso, salvaguardato dal disinteresse mediatico e dall’ombra mite delle fosse.

Nel 1991 il partito comunista italiano era ufficialmente deceduto, e con esso la federazione giovanile. Il progressismo reclamava altri simboli e nuovi nomi. La scissione non si fece aspettare tanto, in entrambi i casi. Rouille celebrò la morte del suo periodo associazionista, officiando i funerali nella solitudine che il caso richiedeva: affacciata alla finestrella che spia tutt’oggi il fiume Reno.

Nonostante questo, Rouille continuava a masturbare Gauche sulle vecchie sedute del Lumiere, fra una rassegna del cinema neorealista e una dei documentari di Herzog. Si lasciava trascinare per i portici della città, preda del furore missionario di Gauche per il volantinaggio, e sempre più distratta dai sudamericani, gli esistenzialisti, i comici e i neorealisti. Rouille continuava ad avere questa fissa che anche il modo di scopare di Gauche avesse un piglio più consapevole del suo e, sebbene cercasse di sondare quell’intellegibile matassa, non otteneva che confusione nella confusione, coltivando il desiderio di non sentirsi sempre una mula in mezzo ai profeti.

Nel frattempo la destra aveva vinto le elezioni, loro erano diventati maggiorenni , Gauche era passato lentamente dalle Ms alle Marlboro light, e dalla lotta di classe al patto di sangue con gli accademici della giurisprudenza. Al volantinaggio erano seguite le occupazioni, al trentasei di via Zamboni, al fu Bestial Market, rinominato Livello 57, mentre i bottegai della zona Universitaria lamentavano del vandalismo studentesco e il sottobosco di Piazza Verdi cambiava razza, passando dalle mani dei connazionali a quelle degli emigrati dai Paesi extra Ue.

Gauche sosteneva esami di diritto, mentre Rouille correva a un appello fra un lavoro e l’altro, una lettura e l’altra. Gauche amava la soffitta di un amico in cui spesso si discuteva di cose come il gruppo 63, le avanguardie, Angelika.

Rouille fumava appoggiata alla finestra, e si faceva soccorrere dai tetti della città.

Poi venne l’anno della vittoria della sinistra, e il baffuto Aramis scoccò un altro e definitivo affondo. Rouille vide la madre di Gauche alzarsi dallo scrittoio, venirle incontro e abbracciarla, l’entusiasmo che mascherava abbastanza bene l’epiteto segreto con cui, in tutti quegli anni, Rouille sapeva di essere stata apostrofata. Per la signora, Rouille era destabilizzante. Se all’inizio ci aveva sofferto, e anche parecchio, ora trovava una certa prossimità tra l’atteggiamento da intellighenzia rossa del figlio e quello della madre, capace di abbracciare qualcosa di destabilizzante.

Rouille ricambiò, sebbene molti già dicessero che l’esaltazione del popolo della sinistra per la vittoria, fosse il segno concreto del diffondersi del morbo di una pericolosa allucinazione.

Quella fu la primavera in cui Gauche cominciò a vagheggiare di Capalbio, mentre respiravano nudi fissando il soffitto dalla trapunta del letto, oppure sul telo scozzese steso sulla schiena di Monte Donato, fra i colli, vicino a quell’altissima antenna di trasmissione.

Da quel ventuno aprile, fino alle frange canicolari di luglio, Capalbio e l’Ultima spiaggia avevano preso forma nell’immaginazione di Rouille  con la leggerezza figurativa di quelle  vele sottili di tela rossa un poco mosse dal vento. Immaginava la quercia davanti alla dimora di Achille Occhetto, e i vari Asor Rosa, Elisabetta Rasy, Marramao, Luciana Castellina, Furio Colombo, Veltroni, Rutelli, Fassino e Lidia Ravera, a interpretare una sorta di under statement diventato, con gli anni, uno stile di vita e una cultura di stile. Immaginava il bagno di fronte alla battigia, buen retiro di tutte quelle teste pensanti, fra dibattiti e accordi politici, raggiunti con una partita di scopone, un tuffo e un piatto di spaghetti vecchia maniera, i capelli interclassisti di una Capalbio spettinata. Ancora una volta si era lasciata catturare dalle mani di Gauche, le sue parole danzanti.

Come in tutte le sue cose, temeva il confronto. Continuava ad avere quest’idea blasfema di non sapere niente, di non conoscere niente, di non capire niente. Si rifugiava dietro a scuse banali, tipo l’inefficienza di un corpo poco supplente, come se la natura in qualche modo, fosse stata in obbligo di compensare quello che andava compensato, mascherando quelle che Rouille continuava a chiamare le sue carenze con una carrozzeria da prima classe.

Eppure l’idea dell’Ultima spiaggia e la voglia di ripetere certi baci e certi bagni, era stata più forte delle sue infinite idiosincrasie. Sarebbero dovuti partire il primo agosto e non partirono mai, per una cosa stupida in fondo : Rouille trovò l’uccello di Gauche prossimo a godere nella bocca di una milionaria marsigliese, nella casa di campagna della delfina del Magnifico Rettore.

Rouille aveva messo in conto questo e molto altro, e non rimase stupita, solo delusa dalla scelta, commettendo l’errore tipico di molte donne, che confondono intelletto e sessualità.

A Capalbio non c’era andata, e sebbene dopo poco, circostanze inevitabili l’avessero riportata a Gauche, Rouille si era adoperata per rovinargli l’esistenza in maniera metodica, sputtanandolo sul piano ideologico attraverso imbarazzi e umiliazioni, e ripagandolo con una visione ben peggiore di quella che a lei era toccata in sorte.

La rottura definitiva era arrivata in concomitanza con l’ennesimo autunno della sinistra e la vittoria conclamata del Cavaliere. Non si erano più visti, sebbene la città non fosse questa gran metropoli. Nell’estate del duemiladieci, preda di scriteriate allucinazioni esistenziali, Rouille aveva abbandonato la sua vita presente senza nessun preavviso, involandosi in direzione della Toscana, la precisa idea che quel viaggio mancato avrebbe fatto la differenza. Aveva camminato per ore sulla spiaggia di Capalbio, pensando a L’era del Cinghiale Rosso appena letto, agli scaffali della libreria della sindacalista, a Gauche.

 A conferma di quanto raccontava la Nuvoletti, a troneggiare adesso sull’Ultima spiaggia erano vele di tela azzurra, e un mondo più gossipparo e meno radical-chic di quanto avesse immaginato.

Per confortarsi con un’insalata di mare, il dazio richiesto sarebbe stato di ventidue euro, ma nella limitrofa area apostrofata come La penultima, meta peraltro di naturisti e autodafé, avevano pensato bene di approntare un chiosco alla bisogna, per evitare che i cenciosi si assiepassero al banco dei tenutari. Rouille sarebbe andata lì, nella Penultima, a confondersi con quelli cui credeva di assomigliare, attenta a non fissare troppo l’impiantito dell’altra spiaggia, dove fra un birrino e uno scopone che sapeva tanto di retrò, poteva incappare nel guaio d’agganciarsi a un paio di labbra togate, capaci ancora e dopo anni, di infilarsi in modo terribile nelle pieghe recondite della parola partito.

 

 

“Beniamino Placido alla domanda: Cosa fanno gli intellettuali a Capalbio? E cosa vuoi che facciano, benedetto ragazzo. Fanno gli spaghetti, a volte col tonno, a volte con le vongole”.

Giovanna Nuvoletti, L’Era del Cinghiale Rosso

 

“I comunisti, quando perdono l’idea della rivoluzione, perdono il senso dell’avventura. E i comunisti, quando perdono il senso dell’avventura, diventano gente noiosa e anche pericolosa”.

Il compagno Gianni Marchetto, sezione Mirafiori, 2 dicembre 1989