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Raccolta di testi in prosa di Maria Musik
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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8 dicembre del ‘65 »
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25, Morta che parla

Immagine di repertorio  25, Morta che parla (esce sempre!)

(Foto di repertorio reperita su Internet)

 

Ma cos’è quel manichino disarticolato, abbandonato sul marciapiede alla mercè dei curiosi? Non posso essere io! Eppure, benché non mi appartenga quello sguardo pietrificato dal terrore, l’azzurro dell’iride che si confonde nel rosso dei capillari rotti rassomiglia al mio. Mia madre mi dice sempre che ho gli occhi color fiordaliso, quasi viola, come quelli di Elizabeth Taylor.

Mia madre… Oddio! Mia madre non deve vedermi così! Cosa state lì a guardare?

Il viso è gonfio, la bocca spalancata in un urlo terrificante e afono, le palpebre paiono serrande bloccate come quelle di una bambola rotta; i miei bei capelli biondi insozzati da sangue rappreso, il collo livido. L’abito verde che mi piaceva tanto è gravido di macchie raggrumate e lascia scoperte le cosce e le mutande intrise d’urina.

No, non succede a tutti quando muoiono: mi sono pisciata addosso per il terrore quando le sue mani si sono strette intorno alla mia gola.

 

Le sue mani io le amavo: erano quelle di un pianista. Curate, affusolate ma non femminee, mi conoscevano come nessun altro.

Quella bella estate, quando con tocco leggero, aveva spostato dal volto la ciocca che la brezza salmastra rendeva così indisciplinata, per me si era aperto un mondo sconosciuto. Quell’inattesa carezza mi aveva fatta vibrare: fu come se dalla sabbia si fosse sprigionata una corrente elettrica che, dalle dita dei piedi formicolanti, era risalita aumentando d’intensità, attraversando il ventre come un orgasmo, per arrivare a sciogliere la severità del viso teso a respingere un’avance da spiaggia, fino a squagliarsi in bocca come il più dolce confetto dal cuore di mandorla.

 

Cosa devo fare per essere ascoltata? Voi, con la divisa, cosa state facendo? Non vi è abbastanza chiaro che mi ha ammazzata? Aspetta, te ti riconosco! Quando venimmo in commissariato, la mamma e io, mi dicesti che mi capivi ma, visto come il mio ex marito era stato bravo a non superare il limite delle minacce, al massimo si poteva chiedere al giudice un ordine restrittivo che gli impedisse di avvicinarsi a me e alla nostra abitazione. Te lo annunciai che, in ogni caso, non sarebbe bastato. Lui conosceva tutto di me: i miei luoghi, le mie persone, le mie attività gli erano più che noti. E non avrebbe rispettato un ordine che non era pronto ad accettare. Cosa avrei dovuto fare? Chiudermi in un convento di clausura? Cambiare città o, meglio, nazione? Smettere di lavorare, non andare più in palestra, rifiutarmi di incontrare le amiche… non vedere Alessandro?

 

Fu così che Michele entrò nella mia vita: percuotendo con tocco leggero la mia fronte, come fosse un fa sulla tastiera. Non ero più una ragazzina eppure sprofondai nel suo amore come una mosca nella melassa: poco meno di un anno e mi trasferii nel suo appartamento in centro. Furono i sei mesi più belli della mia vita e ci volle poco per decidere che, alla nostra età, non c’era da aspettare oltre. Ci sposammo e, lentamente ma inesorabilmente, Michele cominciò a cambiare. Iniziarono prima a scomparire tutte quelle piccole attenzioni di cui mi aveva sempre circondata: un mazzo di fiori senza alcuna occasione da festeggiare, la cucina già rigovernata e la cena pronta al rientro dalla palestra che mi concedevo, almeno due volte a settimana, all’uscita dal lavoro, la colazione domenicale servita a letto. Pensavo fosse normale: quando una coppia si consolida e si esce dal corteggiamento, mi dicevo, non c’è più bisogno di tanti vezzi.

 

Non vedere Alessandro. Dopo la separazione non pensavo che avrei potuto tornare ad amare un uomo. Per un po’, in ogni maschio scorgevo un mostro sopito ma pronto a mostrare i denti. Ma Alessandro, con quel suo modo semplice e onesto di essere sempre e comunque se stesso, aveva aperto una breccia nella mia armatura anti uomo. Non mi aveva scelta… si era lasciato scegliere. Accanto a lui sentivo di riappropriarmi del diritto di avere una relazione senza dover negare la mia identità di persona e di genere. Ma alla fine, è stato a causa sua (ma non per sua colpa) se adesso sto qui a guardare esterrefatta ciò che resta del mio povero corpo. Cazzo! È il mio corpo quello che state rivoltando calzando guanti di lattice per non sporcarvi o contaminare la scena del crimine. Volete decidervi a coprirlo con un lenzuolo, un cappotto o uno straccio qualunque? Un po’ di rispetto, almeno ora, non se lo meriterebbe? Non voglio che chi mi ha amata mi veda ridotta in queste condizioni. Non voglio che mia madre o Alessandro debbano subire lo stesso oltraggio riservato alla mia persona.

 

Quanto mi sbagliavo. Dopo che ogni gentilezza fu cancellata dal nostro rapporto, Michele avanzò come un’invincibile armata. Ogni mansione casalinga divenne esclusivamente di mio appannaggio e se qualcosa, dal grado di cottura della pasta alla stiratura della camicia, non corrispondeva alle aspettative, mi comunicava tutto il suo disprezzo per la mia palese mediocrità. All’inizio furono solo rabbugliamenti od ostentati silenzi, poi seguirono i commenti sferzanti e, infine, le punizioni. Tra queste c’era il sesso. Per giorni e giorni non mi toccava poi, all’improvviso, mi prendeva dove capitava. Niente preliminari e nessuna attenzione a ciò che poteva darmi piacere. Mi scopava, veloce e un po’ troppo brutale, in silenzio e senza neanche spogliarsi. Poi, si tirava su i pantaloni e il rumore della zip giungeva a consolarmi perché quell’ennesima umiliazione aveva avuto fine.

 

Finalmente pare abbiate terminato ma, nel frattempo, filmati e foto stanno già facendo il giro del web. Susciteranno pena nei più sensibili, ribellione tra i meno brutali, libidine nei voyeurs e, poi, vista l’ora, tutti a tavola, mentre la mia foto tessera comparirà sullo schermo del telegiornale servito come immancabile pietanza serotina.

Sono la “115” dei primi dieci mesi del 2017. Faccio parte di quella “metà abbondante” che aveva denunciato violenze. Lo leggevo ieri, con le lacrime agli occhi, sul Manifesto. Forse, piangevo perché mi prediceva un appuntamento con la morte: il 25 novembre sarebbe stata la mia giornata della memoria.

 

Fu quando gli annunciai che sarei andata alla cena con i colleghi che Michele, finalmente, fece un passo falso. Prima storse la bocca, poi, mentre mi stavo preparando, piombò in camera e comincio a picchiarmi. Ceffoni in pieno viso: tentavo di proteggermi con le braccia e, intanto, arretravo. Quando caddi all’indietro sul materasso, iniziò a sferrarmi pugni contro i fianchi. Ogni colpo un “Puttana” urlato con tutte le forze e a ogni “Puttana” il mio grido d’aiuto. “Sta' zitta, brutta mignotta, sta' zitta che ti ammazzo!”. Non sentiva che oramai latravo per il dolore o forse era così che voleva ridurmi: come una cagna bastonata. “Te la do io la cenetta con i tuoi ganzi e le tue amiche zoccole”. Tentai di buttarlo giù dal letto: puntavo i piedi, spingevo con le mani contro il suo petto mettendoci tutta la rabbia di cui, oramai, ero capace. Mi violentò lo stesso e io, sotto, smisi di muovermi: respiravo ma, dentro, ero morta e quel corpo non era più mio. Restai lì tutta la notte. Al mattino, andai in bagno e mi guardai allo specchio. Il tempo di una doccia mentre lui, da dietro la porta della cabina, professava tutto il suo dolore per l’accaduto “Non so cosa mi sia successo. Forse ti amo troppo: tu sei mia e non voglio dividerti con nessuno. Sono stato un bastardo, un vigliacco.  Perdonami…”.

Mi asciugai mentre lui era crollato sul water e si teneva la testa fra le mani. Una volta vestita, presi solo la borsa: cellulare, documenti, portafogli. Le chiavi di casa le lasciai sul comodino. Infilai la porta e me ne andai.

 

Cos’è quell’affare che avete tirato giù dal furgone? Sembra un’ogiva d’argento. Non vorrete mica chiudermi là dentro? Non sopporto i luoghi chiusi e asfittici; ho sempre fatto le scale perché odio gli ascensori. Non potete portarmi via: mi squarterete per vedere ciò che è evidente a tutti. Che importa se prima ha tentato di strangolarmi? Cosa cambia se mi ha colpita con dieci o dodici coltellate? Che ve ne frega di sapere se ero già morta prima che il mio corpo volasse giù dal terzo piano?

Lavatemi, vestitemi bene, pettinate i miei capelli e consegnatemi ai miei cari. Che almeno possano piangermi, che questo corpo venga benedetto e incensato prima di scomparire per sempre.

 

Dopo quella sera, Michele non tentò più d’incontrarmi. L’unico contatto il giorno della firma delle carte per il divorzio. Ogni richiesta accordata, parlò solo il suo avvocato. Tornai alla mia routine ma senza più riconoscerla. Apparentemente normale, la mia esistenza era definitivamente cambiata. Io ero cambiata. Avevo paura e non mi fidavo più di nessuno. Mi sembrava d’essere seguita, spiata. L’analista diceva che era una sensazione più che consueta per chi, come me, aveva subito violenze domestiche. Però, mi invitava a non sottovalutare le mie intuizioni. E ricominciava a voler parlare del perché non avessi chiamato la polizia o non mi fossi recata in ospedale. Sapevo che aveva ragione ma il panico non riconosce la ragione. Il fatto che Michele fosse sparito, poi, mi aveva convinta di aver fatto la scelta più giusta, evitando di imbarcarmi in una vicenda giudiziaria interminabile e piena d’insidie. Perché non ero sicura che mi avrebbero creduta.… perché non ce l’avrei fatta ad affrontare le insinuazioni di un abile avvocato.

Conobbi Alessandro e, come entrò nella mia vita, ricomparve Michele. Prima telefonate, poi appostamenti sempre più palesi, infine minacce. Poteva sopportare che non fossi più sua ma non poteva permettere che fossi di un altro. Ma era furbo. Nulla che si potesse dimostrare, provare. All’ennesima chiamata minacciosa, mia madre mi accompagnò a sporgere denuncia.

 

E’ tutto finito ed è finito anche il mio tempo. Il furgone è partito, la folla si è dissipata quando il mio povero corpo è sparito dalla sua vista.

Sento che una mano mi sta afferrando per i capelli e non so dove voglia trascinarmi: nel nulla, in Paradiso o all’Inferno? No, all’inferno no: quello è sulla Terra.

Un’ultima cosa, però, la voglio dire: non dovrebbe esistere la giornata contro la violenza sulle donne. Non dovrebbe esistere la violenza ma, visto che esiste, allora ogni giorno dovrebbe essere dedicato a combatterla. Inutile ricordarci dopo che ci hanno seppellite. E non perdono nessuno.

Non ti perdono, non vi perdono.

Perdono soltanto me stessa perché me lo merito.

 

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#Svegliatitalia

Non conosco il tuo nome,

ma ti scrivo egualmente questa mia perché non posso proprio fare a meno di provare a spiegarti, fuori dalle polemiche. Ti chiedi perché io - etero, tradizionalmente sposata e madre - prenda tanto a cuore una faccenda che non è mia, perché non sia schierata dalla “mia parte” che, poi, è quella che consideri tua.

La risposta è molto più semplice di quelle offerte da scienza, teologia del dissenso o politica.

Da quando le, pur non rinnegate, battaglie per l’emancipazione del Paese e la mia appartenenza a una comunità di base mi delusero - così profondamente da farmi decidere di vivere fuori da ogni movimento o partito o chiesa - scelgo le mie cause seguendo la coscienza e il sentimento.

Quindi, sono schierata a chiedere parità di diritti per le coppie di fatto, sia etero sia omosessuali, perché ne frequento alcune e le ho viste crescere in amore e consapevolezza, superare le medesime difficoltà che ho fronteggiato io stessa, andare oltre il “limite” della convivenza per scegliersi, rinnovando ogni giorno - e non per paura di “far peccato” - la promessa di rimanere una sola cosa. Semplicemente, le ho viste amarsi.

Però, le ho guardate anche dibattersi - di più se omosessuali - fra molti più lacci di quanti (eppure sono già tanti) abbia dovuto tentare di sciogliere io. Infatti, ho potuto baciarmi in pubblico, non ho sperimentato la necessità di nascondere il mio stato civile per mantenere il lavoro o affittare una casa, ho - con diritto - avuto notizie di mio marito dal chirurgo uscito dalla sala operatoria e, nel caso mi fossi trovata nella condizione di farlo, nessuno avrebbe avuto da ridire se il mio coniuge avesse riconosciuto, come suo, un mio eventuale figlio.

 

Allora, ti chiedo: ti pare poco aver avuto tutti questi diritti a disposizione? E ti domando: perché, in nome di Dio, a loro devono essere negati?

Mi dici: “Sono malati e vanno curati!”

Ma io vivo con loro e non ravvedo alcuna patologia. Li frequento assiduamente, eppure non ho divorziato per scegliere di convivere né mutato orientamento di genere, prova evidente che non c’è contagio.

Mi dici: “Sono diversi!”

Perché tu e io non lo siamo? E non siamo diversi da circa altri sette miliardi di persone, individuo in più individuo in meno? E per fortuna: se fossimo tutti uguali saremmo cloni e non persone.

Mi dici: “Sono corrotti!”

Ma io li vedo lavorare con lena e passione, pagare le tasse, rispettare le leggi, compiere atti di solidarietà, fare volontariato, prendersi cura del partner nella malattia e nei rovesci economici… dov’è la corruzione? Nel loro letto? Sono adulti, consenzienti e si amano.

Mi rispondi: “Va bene, seguano pure la loro natura ma rimanendo casti.”

E tu chi sei per spegnere la loro passione? Dove lo hai letto che hai facoltà di evirare o infibulare psicologicamente e moralmente qualcuno? Perché tu hai diritto al tuo corpo e loro non possono liberamente godere del loro?

Ma torniamo al punto. Questa è la mia causa perché, se amo, non posso abbandonare l’amato o l’amata a combattere in solitudine i martiri dell’esistenza.

Ti faccio un esempio: sono madre e, per motivi che qui non spiego, vivo con angoscia il pensiero di quando non ci sarò più a tutelare il figlio. Però, mi consola il fatto che, se dovessi andarmene ora, ci sarebbe chi, a giusto titolo, continuerebbe a fornire le cure e l’amore che oggi sono anche mie. Allora, quell’articolo di legge che tanto ti disturba, per me è fondamentale.

Pensa a quella madre o quel padre che vorrebbero fosse la persona che amano e con cui convivono ad assumersi, in loro assenza, il compito di provvedere alla prole. E pensa, anche, che a loro è negato questo diritto.

Io me la immagino, sai, una come me che, spenta la luce, si rotola nel letto senza trovare pace perché pensa che - se all’indomani non dovesse risvegliarsi - verrebbe a prendersi sua figlia quella sorella o quella madre che l’hanno rinnegata e che la dipingerebbero all’orfana come una degenerata. Oppure, vede entrare il cugino, quello delle cartoline a Natale e al compleanno, unico parente, arrivare e prendersi figlio e casa, buttando fuori la compagna, perché colei con la quale ha condiviso il pane, il tetto e il letto non è nessuno, per legge. Nella più rosea delle ipotesi, seguirebbero battaglie legali e, magari, la soluzione sarebbe una bella casa famiglia.

E quella casa famiglia sarebbe perfetta anche se monogenere.

Che c’entra?

Abbi pazienza, che te lo spiego.

Molte di queste strutture sono gestite da ordini religiosi e questi sono monogenere. Quindi, tu che mi dici che un bambino ha bisogno di figure genitoriali maschili e femminili, non ti scomponi a pensare che così crescerebbe, sino a 18 anni, solo con tutori o solo con tutrici. Scusa: ma allora perché tanti estranei dello stesso sesso dovrebbero essere custodi migliori di due coniugi omosessuali?

Ci sarebbe ancora tanto da dire ma, ahimé, so che stai scuotendo il capo.

 

Allora, basta con riflessioni, confidenze o sentimenti.

 

Resta solo un’affermazione: tu, in nome di Dio, non vuoi riconoscere loro pari diritti  e io non riconosco a nessuna confessione di fede la podestà di interferire pesantemente nella giurisprudenza di uno Stato Democratico o presunto tale. Lo Stato Italiano è uno stato di diritto e non può essere normato da quello canonico.

Rispetto la scelta di orientare la tua esistenza secondo gli indirizzi morali della tua chiesa ma non intendo permettere che tali indirizzi debbano “costringere”, per legge o per sua assenza, la comunità civile eccezion fatta per quelli che - come i comandamenti riguardanti l’omicidio, il furto, la malversazione, la mendacia, ecc. - fanno coincidere il “peccato” con i principali crimini, definiti tali da qualsiasi corpus giuridico che si rispetti.

Fine!

 

Quando sarai in piedi in una piazza a pregare perché cessino sfruttamento dei deboli, razzismi, rifiuto degli ultimi, oscene dittature, distruzioni del Pianeta e quanto esso contiene, mi troverai al tuo fianco.

Oggi mi vedrai dall’altra parte della tua barricata.

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Natale in casa Proietti

Ricordando con affetto Luca De Filippo

 

 

Regazzi’, venite che papà ha portato su ‘o scatolone: famo er Presepe!

 

Allora, Donato, tu metti la carta verde… sì, cuccioletto: quella che sembra ‘n prato. E tu, Letizia, appiccica ar muro quest’artra: certo, teso’, er celo stellato.

Intanto, papino prepara le montagne co’ la carta der pane ed io er laghetto, er ruscello e l’acqua der pozzo co’ la stagnola.

 

Ecco, è quasi fatto: spruzzamo un po’ de borotarco sulle montagne, buttamo la ghiaietta sur prato, un po’ de muschio qua e là. Perfetto!

Mò prennemo le statuine e le mettemo ar posto loro. Dona’, tu metti li maschietti e Letizia le femminucce.

 

Che disci? L’acquaiolo sembra ‘n terrorista? Ma no… famme vede’.

Beh, ‘n effetti. Co’ ‘sta papalina bianca, la barba lunga e nera e ‘ste fiaschette in mano che parono bombe… arimettilo nella scatola, vah! Ecco, bravo, so’ mejo quelli che se prennono pe’ la manina.

 

Amo’, che me biascichi ‘ne le recchie? Che dichi? E parla forte. Perché le creature nun ponno sentì? Parono du’ recchioni! E mo’ che famo?

… Bello de mamma, me dai li pastorelli? - Crash! - Oddio, c’ho le mano de ricotta: me so’ cascati e se so’ sfrantumati. Nun t’accorà: sì, ereno carucci ma se so’ rotti. Tira su er callarrostaro: mettemo questo. Leti’, e mò perché piagni? Le castagne te so sempre piasciute! Rissomiglia allo zingaro, quello della rulotte? Te fa paura? E lo levamo.

 

Aho, famo ‘na pausa e mettemo le bestie. No, Dona’: lo vedi che sur cammello c’è ‘sta ‘n omo? È negro! E sì, fijo, Baldassarre era ‘n moro, l’ha detto puro er prete ‘n chiesa. No, nun è l’omo nero, no nun è un mostro, no … levalo de mezzo, che me ‘sto a pija male. Gnente Remmaggi, quest’anno. Che, poi, so' puro musulmani.

 

Te prego amo’, nun te ce mette pure tu! Li pastorelli l’avemo levati, mò nun potemo mette manco le donne? C’hanno tutte er velo. E che se doveveno da mette dumilaequindic’anni fa ‘n Palestina? Lo porteno pure adesso e a te nun te sta bene? Se devono da integrà se no se ne torneno a casa loro.  Senti ‘na cosa… allora levamo la Madonna perché c’ha er velo e San Giuseppe perché è ebreo e noi semo cristiani. Nun fa ‘na piega, no?

La capanna è abbusiva… via!  Ah,  po’ restà perché Cesare farà ‘na sanatoria.

Quello seduto all’osteria nun ce l’avemo messo perché è ‘n ‘mbriacone. L’artro che dorme pe’ tera, puro… sembra ‘n barbone della metro. Quella che fa er pane nun ce la metto io perché tu’ madre, ner presepe mio, nun ce la vojo…

Ricapitolamo: c’avemo ‘na stalla co’ ‘n asino e ‘n bove. Cinque pecoroni, tre papere, du’ cani, ‘n gatto. A me me sembra ‘n agriturismo messo male pe’ la crisi.

Uh, guarda: Letizietta ha trovato l’agnoletto bionno bionno. Mettemoce armeno quello. Ma li mortè… s’è tutto rovinato. Che c’era scritto sur rotolo che teneva ‘n mano? S’è scancellato tutto!

 

Sapete che ve dico: er Presepe nun me piasce e, visto che me gireno le palle, famo l’arbero.

 

 

 

Note. Il dialetto è volutamente “sporco”, più simile alla cadenza contemporanea urbana.
        Il cognome Proietti non fa riferimento  a  persone conosciute  ma  è stato scelto solo

        perchè tra i più comuni a Roma.

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Un amore così grande

Sto seduta ad un tavolino del bar interno al nosocomio dove Giovanna venne ricoverata.

Oramai sono tre mesi che, ogni mattina, vengo qui. Mi siedo, ordino un caffé schiumato e un micidiale croissant che farà lievitare il mio peso corporeo il più possibile, così sarà in perfetto equilibrio con l’anima: entrambi ignobilmente gravosi.

Resto almeno tre ore, con lo sguardo fisso all’entrata dell’ospedale, fumando un numero indecente di sigarette. Non faccio altro: guardo il flusso di persona in entrata e in uscita, digrignando i denti ad ogni paziente amorosamente accudito da un qualsiasi parente.

Sono occupata nel mio stalking visivo quando, come fosse sorta dal nulla, una voce maschile mi distoglie dalla mia occupazione. Vorrei girarmi e mandare affanculo questo ridicolo quanto disperato moscone. Invece, alzo gli occhi e dico: “Cosa?”

“Mi sono presentato: piacere, Sandro.”

Lo guardo e, sinceramente, tutto sembra meno uno che voglia provarci. È piuttosto giovane, almeno se lo paragono a me; è bruno, snello, alto ed ha due occhi neri che quasi non lasciano distinguere fra iride e pupilla.

“Una strana coincidenza: io mi chiamo Sandra!”

Mi sorride e si scusa per avermi disturbata: è il gestore del bar e, nel vedermi tutti i giorni seduta lì, ha sentito di doversi avvicinare. Mi chiede se, per caso, ho qualcuno ricoverato lì. Così, senza un perché, mi ritrovo a raccontargli la mia (la nostra, Amore mio bellissimo) storia.

 

- Avevo 27 anni, quando conobbi Giovanna. Fino ad allora avevo avuto solo due brevi storie, durate niente. Mi ero convinta che, nella mia condizione, era meglio rimanere sola. D’altra parte, avevo tanti amici, ero impegnata socialmente, in famiglia mi amavano e non facevano pressioni perché io mi trovassi una sistemazione autonoma. Certo, mia madre era preoccupata per me. Affermava che se avessi continuato ad allontanare gli uomini con quel mio fare “da maschio”, non avrei permesso a nessuno di capire che bella persona fossi. Quando diceva “da maschio” si riferiva alla mia indipendenza, al mio innato sarcasmo e alla tendenza a non assumere atteggiamenti che venivano reputati femminili mentre a me apparivano civettuoli e leziosi (“mi apri la bottiglietta che non ce la faccio?”, detto alla fine di un allenamento durante il quale avevo scagliato un centinaio di palloni, del peso di mezzo chilo, da una parte all’altra del perimetro di gioco e, spesso, ripetuto serie di cinquanta flessioni a bordo campo ad ogni risposta data, senza il suo permesso, all’allenatore).

Giovanna comparve nella mia vita in una soleggiata giornata autunnale, una di quelle “ottobrate” romane che tanto amo.

C’eravamo dati appuntamento in uno spiazzo nei pressi del casello autostradale di Roma. Un bel gruppo di amiche e amici che andavano all’assalto della casa di proprietà della nonna di Paola a Capalbio, armati di chitarre e spartiti vari. Lei era un’amica della nostra ospite e mi colpì immediatamente per la sua bellezza da mozzare il fiato. Alta, snella, muscolosa ma aggraziata. Una massa di riccioli neri le incorniciava il volto lievemente squadrato e illuminato da due occhi insolitamente pervinca.

Sembravamo essere state create per rappresentare gli opposti: lei olivastra e io candida, lei corvina e riccia e io bionda e liscia, lei efebica e io giunonica.

Ma si sa: gli opposti si attraggono. Sin dal primo contatto, avevo avvertito che fra noi c’era una “canale aperto”, attraverso cui cominciava a fluire un’immediata simpatia.

La sera, dopo aver cenato, su richiesta del gruppo, presi la chitarra e cominciai a intonare una canzone dietro l’altra. Malgrado avessi gli occhi attenti al libro d’accordi, non mi era sfuggito lo sguardo penetrante di Giovanna che si era appuntato addosso alla mia persona.

Poco prima che facesse giorno ci congedammo. Io uscii per fumare una sigaretta e lei mi seguì.

Ci ritrovammo affacciate ai merli delle mura medioevali del paese. Parlammo a lungo, sommessamente, scoprendo tante piccole e grandi affinità: la musica, la letteratura, le riflessioni sul senso della vita e dell’oltre… andammo a coricarci che il sole sorgeva. Quello che non immaginavamo era che stava nascendo, in quell’esatto momento, un indissolubile amore.

Quando mi resi conto d’essermi innamorata di una donna, la mia prima reazione fu di terrore allo stato puro. Era peccato. Se avessi assecondato quel sentimento avrei dovuto rinunciare alla fede nella quale ero stata educata, ai sacramenti e, pensiero atroce, alla mia famiglia. I miei genitori non avrebbero mai compreso, mai!

Il fatto era che, sapendo chiaramente d’essere ricambiata, più mi riproponevo di non incontrarla più, più la cercavo. Ad ogni incontro, il nostro rapporto si faceva più solido e appagante; ad ogni rientro a casa, la mia depressione aumentava in maniera proporzionale alle bugie che andavo raccontando. In realtà non ce ne sarebbe stato alcun bisogno ma, visto che mi sentivo terribilmente in colpa, infiorettavo di menzogne una realtà che sarebbe stata interpretata solo come una buona amicizia. A nessuno sarebbe passato per la testa che lei fosse la mia donna: era del tutto naturale che avessi una “migliore amica”.

Per Giovanna era diverso: orfana e figlia unica non aveva parente alcuno e viveva da sola già da cinque anni. Per lei, non praticante e consapevole della propria omosessualità da molti anni, tutto evolveva con più serenità e meno inciampi. Però mi comprendeva e pazientava. Ma la pazienza ha un limite: cosa stavamo aspettando? Avevamo traccheggiato per quasi tre anni a causa mia. Non potevamo continuare a salutarci da buone amiche, sotto il mio portone, ogni santa sera tranne quelle in cui, con l’ennesima scusa, rimanevo a dormire da lei.

Così mi decisi ed affrontai il primo dramma familiare. Perché dovevo andarmene? Nessuno mi cacciava di casa e, per giunta, da anni ero ormai il sostegno morale e fattivo dei miei genitori. Spiegai che i trenta anni s’avvicinavano e sentivo di dover vivere da sola. Avevo un lavoro ed un posto in cui andare a vivere: la mia amica Giovanna aveva spazio in casa e mi chiedeva un piccolo affitto. Arrivò il giorno del trasloco: me ne andai fra abbracci muti e sguardi colmi di lacrime, con il cuore a pezzi e la coscienza sporca.

Ma quello fu il giorno più bello della mia vita. La sera, a “casa nostra”, ci fu una sorta di festa nuziale, durante la quale, al cospetto dei più fidati fra amici e amiche, ci scambiammo le nostre promesse d’amore. Ci regalarono una torta a più piani sulla quale, in cima, troneggiavano due spose: una mora e l’altra bionda, infilate in due “meringosi” abiti bianchi con tanto di velo ed assolutamente identici. -

 

Sandro mi interrompe, offrendomi un bicchiere d’acqua e mi chiede: “A parte i bruciori d’anima sembra una favola. Tutto così idilliaco, come in un film da prima serata?”. Rido, roca e cupa: “No, decisamente non lo considererei un film da prima serata… in Italia? Ma immaginati. Due lesbiche monogamiche in prima serata!” E riprendo il mio racconto proprio dalla parte meno idilliaca della storia.

 

- All’inizio, a parte gli sguardi interdetti e, in alcuni casi, scandalizzati di alcuni coinquilini, tutto andava più o meno liscio. Eravamo ormai avvezze agli epiteti e alle battute sconce che ci raggiungevano, come sassate contro la nuca, quando passeggiavamo mano nella mano. Però, al contrario di Giovanna che osteggiava un’olimpica quanto efficace indifferenza, il mio carattere passionale ed emotivo mi portava a reazioni meno eleganti. Una vaffa o un dito medio alzato mi scappavano e lei mi guardava con evidente riprovazione. Era un’attivista e, nei modi e luoghi deputati, non mancava né di far sentire la sua voce né di esporsi. Però riteneva che non bisognasse “andarsela a cercare”. Da romana doc quale era, soleva ripetere: “La madre degli imbecilli è sempre incinta. Che te ne frega?”.

Poi, arrivò la sera in cui, durante una cena con i miei ineffabili colleghi, si arrivò a parlare delle leggi a favore delle coppie di fatto. La Contini, fervente cattolica e castigatrice del mal costume, smise improvvisamente di fare piedino sotto la tavola al Senigallia, contabile arcigno ma amante focoso di mogli altrui, e cominciò a pontificare su come Dio “maschio e femmina li creò”, sulla fine fatta dagli abitanti di Sodoma, sulla dottrina della Chiesa e concluse benedicendo il fatto d’essere nata in Italia, paese civile e religioso nel quale, mai e poi mai, sarebbero passate leggi a favore di “quelli”. Fino a lì, devo ammettere, Giovanna ed io non facemmo una piega, limitandoci a scuotere la testa. Prima che una delle due potesse dire la sua, il Bagatin, ragioniere e cavaliere del lavoro nonché datore di lavoro, rubizzo in volto per il troppo vino ingollato, intervenne con voce stentorea e stridula: “Du’ màsci che xe confóndan el bòfice mi me fa' rimétare; du’ fémenè, ciò, me fa' incancarìre l’osèlo!” Fu prontamente tradotto da Proietti, il più abile lecchino dell’azienda: “L’avete ‘nteso er Capoccia: du’ maschi che se scambieno er culo lo fanno rimettè ma du’ femmine jelo fanno venì duro!”. Grasse risate, botte di gomito, porcate da trivio… un successone: un po’ per somma ignoranza, molto per grande piaggeria!

Giovanna si alzò sorridente, tenendo stretto nella sinistra un bicchiere colmo di rosso e con grazia si avvicinò al vecchio che la guardò voglioso e pronto al brindisi. Una volta che gli fu accanto, levò il calice e, lentamente, ne svuotò il contenuto sulla testa canuta che, insieme a giacca, camicia e pantaloni, andò a tingersi di un bel rubino. Il Presidente fece per alzarsi ma lei lo rimise seduto sibilandogli: “Brutto maiale, sono io che vomito e ringrazia Dio che vado a farlo in strada invece che sulla tua capoccia piena di lerciume!” Poi, si rivolse a me, e mi intimò: “Sandra, alzati che ce ne andiamo. E saluta ‘sti quattro stronzi trogloditi perché tu non li vedi più!”

Mi tirai su dalla sedia con le gambe molli e tremanti e la seguii, dopo aver lanciato il tovagliolo ed un’occhiata di fuoco all’intero consesso.

In macchina non dicemmo una parola: le mani di Giovanna, aggrappate al volante, tremavano e io piangevo sommessamente, impigliata tra il disgusto per quanto accaduto e la tragica evidenza di essere rimasta disoccupata.

Lei frenò all’improvviso, facendomi sobbalzare. Eravamo ancora distanti da casa, a margine di una strada male illuminata. Si voltò verso di me, guardandomi con gli occhi colmi di un dolore inimmaginabile: “Perdonami. Non avrei dovuto. Ho scelto al posto tuo… ho fatto un casino.”

Non le risposi. Presi le sue mani e le baciai poi cominciai a lambire la sinistra, leccando via ogni rimasuglio di vino; compiuta l’opera, le dissi: “Ecco è pulita. Ora non c’è nulla che ci ricordi questa serata orrenda.”

Seguirono giorni duri, passati a consegnare curricola, postare annunci e pregare tutti i santi. Ma alla fine, arrivò una delle più belle mail che abbia mai ricevuto. Mi scriveva un’Associazione no profit; mi volevano come segretaria di redazione della loro rivista. Contratto a tempo indeterminato e una dignitosa retribuzione. Fu così che cominciai a capire che il lavoro può veramente nobilitare l’uomo.

Furono tre mesi perfetti fino al giorno in cui, mentre ero al giornale, squillò il cellulare. Avevano trovato il mio numero e mi chiedevano di recarmi prima possibile al Policlinico Casilino, presso il Pronto Soccorso dove tal Giovanna Bassi era stata portata in seguito ad un incidente d’auto.

Mi scapicollai, terrorizzata. Mi chiedevo cosa avrei fatto se l’avessi trovata morta.

Una volta giunta all’accettazione, chiesi di lei. L’infermiera mi disse cortesemente: “È una sua parente?”. Risposi che mi avevano chiamato loro, che ero la compagna e aggiunsi, quasi urlando: “È viva?” L’infermiera, visibilmente imbarazzata e infastidita, mi rispose di attendere; c’era un problema e doveva chiedere al responsabile sanitario. Mi parve fossero passate ore quando la vidi ricomparire a fianco di un giovane medico che mi comunicò che, non essendo una parente, non avrebbe dovuto dirmi nulla ma, data la grave situazione e l’indicazione espressa del mio contatto come persona da chiamare in caso di emergenze, si sentiva autorizzato a comunicarmi che Giovanna era giunta priva di conoscenza, con gravi lesioni craniche ancora da accertare con la dovuta precisione e che la stavano trasportando al reparto di neurochirurgia del CTO, alla Garbatella. Sussurrai un grazie, corsi all’auto e ripartii. Una volta al CTO, la scena si ripeté quasi invariata, non fosse per il fatto che ci misero un giorno prima di constatare che l’unica persona a cui riferire fossi io. I Carabinieri avevano accertato l’assenza di parenti o affini e, alla fine, in assenza di procedure e data la gravità delle condizioni di Giovanna, finalmente mi dissero che era stata operata d’urgenza ma posta in coma farmacologico. Sarebbe rimasta in quello stato sino al momento in cui il primario non avesse deciso che si poteva rischiare di richiamarla alla coscienza. Solo allora avrebbero potuto constatare la gravità dei danni subiti.

Chiesi di poter accedere al reparto di rianimazione negli orari stabiliti. E lì, ricominciò la trafila. A che titolo potevano accordarmi un tale permesso? Rimanevo attaccata al vetro ma potevo solo scorgere dei ciuffi rossi che spuntavano da una sorta di letto/lettiga dal quale si dipanavano mille fili. Poi, tornavo alla carica: perché gli altri potevano entrare, bardati di tuta sterile, soprascarpe e mascherina, per sussurrare ai loro cari parole che li confortassero o che confortassero loro stessi? Finalmente, al quinto giorno di degenza, comparve il primario: era una donna ed era lei che aveva operato Giovanna. Si avvicinò alla caposala e le vidi transitare in uno studiolo accanto alla sala di rianimazione. Udii chiaramente le sue parole. “Ma siete bestie o cosa? Quella è sua moglie da venticinque anni e me ne frego se non sta scritto da nessuna parte. Ora lei va, le fa indossare il necessario e la porta dalla compagna: sono stata chiara?”

Così, finalmente, ebbi modo di stare accanto a Giovanna anche se, quando il gatto non c’era, i topi tentavano di ricominciare con la loro macabra danza.

Ed il balletto riprese quando, incapace di comunicare se non con gli occhi e tetraplegica, fu trasportata nel reparto di neurochirurgia.

Potevo andare a trovarla nelle ore di visita ma, quando tentavo di avere notizie sul decorso post risveglio, la caposala, una suora arcigna e scostante, mi ripeteva stizzita che non era autorizzata visto che non ero una parente.

Le cose non andarono meglio una volta a casa. Erano passati mesi, Giovanna era stata licenziata avendo superato il periodo consentito di assenza per malattia ed essendo stata dichiarata inabile al lavoro. Ricevevamo un assegno che era poco più di un quarto dello stipendio che percepiva da lavoratrice; il CAD forniva l’assistenza di base ma io non potevo più chiedere permessi per assisterla. Mi rivolsi persino alla ASL per ottenere almeno il beneficio della 104 ma venni a scoprire che le modifiche all’originario testo dell’art. 33 comma 3° legge 104/1992, se da un lato avevano consentito di estendere il beneficio dei permessi lavorativi ai parenti ed affini non conviventi con la persona portatrice di handicap grave, avevano anche totalmente eliminato qualsiasi possibilità di interpretazione analogica della norma, al caso del convivente more uxorio che assista stabilmente la persona affetta da una grave minorazione.

Non avevamo soldi per pagare una assistenza domiciliare, io ero distrutta dalla fatica e dalla rabbia che montava ad ogni porta che mi si chiudeva in faccia e gli occhi di Giovanna si andavano spegnendo di giorno in giorno sino a quando, alle tre di un mattino invernale, si chiusero per sempre. –

 

Sandro mi porge un fazzoletto. Non me ne ero accorta ma ho il viso inondato di pianto.

Mi meraviglio: non avevo versato una sola lacrima sino a quel momento, chiusa in un livore torbido e muto che nutrivo contro tutto e tutti; ora, di fronte allo sguardo limpido di quel giovane, quell’odio si era sciolto e tramutato in una purificatrice pioggia di accorato dolore.

Sandro mi prende una mano e mi dice con dolcezza: “Posso presentanti Matteo? Matteo questa è Sandra, Sandra ti presento mio marito.”

Poi, solleva una bambinetta di colore e se la mette sulle ginocchia: “E questa è Fatima, nostra figlia. Fatima, saluta la signora!” La piccola solleva una manina paffuta e la agita verso di me.

Sandro sente di dovermi delle spiegazioni. Si erano sposati all’estero e avevano adottata la bimba. Poi, erano tornati in Italia ed avviato l’attività del bar. Ora, dopo che il Sindaco aveva registrato la loro unione, attendevano speranzosi che passasse la legge e che, finalmente, potessero essere considerati una famiglia. Lo desideravano perché era un sacrosanto diritto ma, soprattutto, per Fatima.

No, non ce la faccio. Non è invidia ma non posso tollerare la loro felicità, la speranza che ride tutto intorno a loro.

Giovanna ed io volevamo tanto avere dei figli, invecchiare insieme. Ora non c’era nulla e nessuno che potesse ridarmi ciò che mi era stato tolto: un amore così grande!

 

Sono passati tre anni: ho continuato a frequentare Sandro e Matteo, che ora sono regolarmente sposati. Fatima mi chiama nonna e spesso, i suoi papà me la affidano per qualche ora e giochiamo insieme.

So che in tanti pensate che siamo dei malati, degli anormali ma a me non interessa: sto qui che cucio un abitino a fiori per la mia nipotina e so che Giovanna, da lassù, mi guarda e sorride; ci rincontreremo un giorno, là dove l’amore non ha etichette né limiti: è solo amore e solo su esso saremo giudicati.

*

Postribolo inverso

Quanto ci avrebbero messo i trent’anni ad arrivare e scovarmi, intenta a raccattare monete nelle tasche del cappotto di mio padre e nei pertugi nella fodera lisa della borsa di mia madre? Poco, molto poco. E già se la ridevano - i bastardi! - mentre, parlando con i quaranta, chiedevano maliziosamente: “La becchiamo in casa dei suoi o mentre serve l’happy hour agli ex compagni di corso, nel ristorante davanti al Dams?”

Mandai giù l’ultimo sorso di the scadente - sempre che fosse the quella poltiglia color can che fugge, confezionata in anonime bustine “authentic discount” - e, con uno scatto, mi alzai per andare ad avviare il portatile.

Mentre attendevo la faticosa inizializzazione del vecchio catorcio, mi arrotolai un drummino e gli diedi fuoco con lo Zippo Rocco Marocco. Finalmente comparve la schermata del Crome. Google Maps: un click bello deciso. Digitai l’indirizzo e, all’apertura della mappa stradale, mi cadde tutta la cenere sulla tastiera. Credevo di trovare una stradaccia di periferia o situata nei quartieri a luci rosse. Invece, zona strafica appena fuori dal centro storico. Strano. Comunque, ora sapevo dove andare.

Mi feci una doccia e indossai un tubino verde petrolio aderentissimo e corto al punto giusto. Trucco e parrucco: arricciai i capelli che scesero sulle spalle come graziosi serpentelli fulvi, poco fard pesca sulle gote, solo mascara ad addensare la linea degli occhi verdi che sfoggiarono, alla grande, la loro espressione migliore da gatta sognatrice. Ultimo tocco: calzare un paio di Mary Jane tacco nove.

Mi guardai scontenta nello specchio: ero perfetta fuori e uno schifo dentro, come certe bottiglie di vino pregiato andato a male. Mi preoccupava anche il pensiero di come avrei potuto cavalcare “Addio”, il mio motorino vintage - un aggettivo che un amico aveva affibbiato a quella quasi bicicletta d’epoca… grazioso, vero? – che si ossidava grazie al clima, ormai, decisamente più albionico che mediterraneo, assumendo una nuance che gli conferiva la dignità del pezzo d’antiquariato. Mi attraversò il pensiero di cambiarmi ed indossare l’abitino bordeaux così, se mi fossi macchiata di ruggine, nessuno se ne sarebbe avveduto. Desistetti perché, se avessi temporeggiato per una qualsiasi ragione, avrei finito col tornarmene a letto a rannicchiarmi avvolta dalla puzza di fumo e dal nauseabondo lezzo di greggio che emanava il pile made in China.

Quindi, dopo avere fatto un paio di grattini a Sultana che mi guardava triste e pareva avesse bisogno di conforto, uscii tirandomi dietro la porta rumorosamente. Scesi le scale in punta di piedi. I vicini, dopo quel boato, non avrebbero gradito il ticchettio delle mie calzature da passerella.

Inforcai “Addio”, grazie ad esilaranti evoluzioni ginniche, e misi in moto scomparendo nella nube tossica dell’avviamento a freddo.

Schivai tre gatti, dodici piccioni, venti cornacchie nonché un grosso gabbiano con gli occhietti cattivi che “pascolavano” fra l’immondizia vomitata dai bidoni scassati della differenziata - avete notato che questi esimi volatili non hanno più paura di noi e come, protervi, ci sfidano? – e, dopo aver urlato turpi epiteti contro almeno una trentina di automobilisti - perchè, alla vista di un motorino scassato, si tramutano in Transformers cattivi? -, arrivai a destinazione.

Mi tolsi il casco trash regalatomi da mia sorella - sapete quelli ricoperti di peluche, con le orecchie da orsetta minchia? -  e guardai sbalordita, dal basso verso l’alto, il grattacielo stile “Inferno di cristallo” che mi si parava di fronte. Caspita che lusso! Non avrei immaginato.

Riposi tutto, tranne la borsa, sotto il sellino, misi la catena a bloccare la ruota anteriore - che, poi, al solito, i ladri se la fregheranno e, con l’attenzione di un caregiver alle prese col primo soccorso, lasceranno il trabiccolo a boccheggiare sul marciapiede, disteso su un fianco - ancorandola ad un lampione.

La porta automatica, apriti sesamo, spalancò le sue fauci lasciando che la hall - notato che hall e hell si differenziano per una sola lettera? Ci sarà bene un motivo, no? - mi digerisse.

Una escort mi si parò davanti - come amavo in quel momento le mie scarpe ed il sito di svendita on line - e potei constatare, con soddisfazione, che la guardavo dritta negli occhi. Strizzata in un tailleur blu notte, con la targhetta di riconoscimento appuntata al bavero sulla quale, proprio sopra al nome, fiammeggiavano il logo - ma che schifezza di grafico l’ha creato? Cos’è? Sembrano le corna di un caprone… - e il motto “We Can Do It!”, stampato usando il font “Comic Sans MS” - Dio Santo, ma non lo odiate anche voi, con tutto il cuore, questo carattere che fa il simpatico? - corpo 8, grassetto.

“Benvenuta nel Centro Nazionale Work Guarantee. Questo è il suo passi. Permette? Glielo appunto sul petto. Non deve mai toglierlo finché è all’interno dell’edificio: il codice permetterà al nostro personale di identificarla. All’uscita lo riconsegnerà alla collega che le consentirà l’uscita. Vede? È lì, alla sua sinistra. Ora, ritiri il suo numero presso il dispenser elettronico e prenda posto nella fila, sportello “Smistamento”. E ricordi: “We Can Do It!”

Feci un cenno di assenso col capo e mi diressi, a passi decisi, verso il distributore. Presi il pizzino e mi misi in coda, andando ad allungare la fiumana umana che stanziava presso i botteghini di assegnazione.

Pochi secondi dopo, con la coda dell’occhio, riuscii a scorgere il “cliente” successivo. Era un giovane, forse mio coetaneo, forse un po’ più grande; alto, magro, occhiali dalla montatura nera, colorito pallido, mani dalle dita affusolate e unghie curate, perfette se non fosse stato per la trasparenza giallognola che allignava fra le falangi superiori di indice e medio della sinistra, indelebile marchio del tabagista accanito.

Mentre stavo tentando di immaginare quale fosse la sua identità, una voce stentorea mi fece sobbalzare.

“NomeCognomeLuogo e data di nascitaCodiceFiscaleSessoeStatoCivile.”

Dopo aver balbettato un superfluo “buongiorno”, sciorinai le mie generalità.

Il robot - sono sicura lo fosse. Oppure, al massimo, un essere bionico o geneticamente modificato. “JMJ2015 al suo servizio, Signore!” In ogni modo, era alquanto inquietante - chiese, lapidario:

 “Settore?”

“Audiovisivi, spettacolo e pubblicità."

“Professione?”

“Attrice.”

“La sua richiesta?”

Ed eccomi arrivata alla frontiera. O si valicava o si moriva. Se quello che Estella mi aveva spifferato - e vi assicuro che, malgrado sia una cittadina informata e tutt’altro che ingenua, quel racconto mi era parso piuttosto incredibile… quanto meno gonfiato, enfatizzato: si sa, noi saltimbanchi siamo esseri emotivi, fantasiosi, a volte rimaniamo prigionieri di un nostro personaggio - si fosse rivelato vero, sarei riuscita ad andare avanti, altrimenti mi avrebbero portata via, incartata con cura in una bianca camicia di forza. Coraggio! Dovevo pronunciare la formula magica. Mi avvicinai al vetro blindato dello sportello, accostai la bocca a pochi millimetri dall’amplificatore e, scandendo le parole a voce bassissima ma perfettamente pulita, dissi:

Chi - mi - devo - fare?”

L’automa non mosse un muscolo - e come avrebbe potuto? – e sentenziò:

“Segua la linea blu, prenda il lift nel padiglione “Audizioni”: quindicesimo piano, stanza 15103.”

Incerta se attribuire all’euforia della speranza piuttosto che ad un severo attacco di panico gli innumerevoli sintomi che, in un nanosecondo, si erano impadroniti del mio corpo, mentre prendevo le distanze dal “dissennatore”, ebbi modo di ascoltare il “botta e risposta” fra il miope fumatore che mi succedeva nella fila e il manichino da crash test.

“Settore?”

“Veramente dal repertorio non si evince. Editoria, forse.”

“Professione?”

“Poeta.”

“Scenda le scale, quarto piano interrato, in fondo al corridoio, subito dopo le toilettes: “Ufficio oggetti smarriti”.

*

Il prete.

“Vedrai: lì ci saranno i tuoi ad aspettarti e ci sarà Michaela. Non sentirai più dolore, non proverai angoscia…”

La donna, con gli occhi già appannati e il cranio troppo evidente sotto la grigia pelle del volto, strinse i denti a dominare l’ennesima acuta fitta e lo interruppe.

“Allora, il Paradiso esiste? Ma mi vorranno, Padre?”

”Sì che esiste! E ti vogliono, vogliono ognuno di noi! È tuo, ti è stato promesso e lo avrai!”

“Si avvicini per favore.”

L’uomo accostò l’orecchio alla bocca esausta della poveretta e stette in silenzio per un minuto. Ripeté velocemente la formula di assoluzione dai peccati, impose le mani sul capo della moribonda, pronunciò l’orazione di benedizione dell’olio e, quindi, le segnò le mani e la fronte con il santo unguento.

Padre clementissimo,

che conosci il cuore degli uomini e accogli i figli che tornano a te, abbi pietà della nostra sorella Vittoria nella sua agonia; fa' che la santa Unzione con la preghiera della nostra fede la sostenga e la conforti perché nella gioia del tuo perdono si abbandoni fiduciosa tra le braccia della tua misericordia. Per Cristo Gesù, tuo Figlio e nostro Signore, che ha vinto la morte e ci ha aperto il passaggio alla vita eterna, e vive e regna con te per tutti i secoli dei secoli. Amen.”

La donna, nel mentre, era spirata.

Si volse indietro a cercare gli occhi di un parente ma incrociò solo quelli del ragazzotto, il figlio del portiere che lo aveva accompagnato nel monolocale di Vittoria. Il giovane torceva fra le mani un berretto con la visiera e guardava il prete come fosse un alieno.

“Padre… quindi, è tutto vero: il Paradiso, l’Inferno…”

Don Bruno lo interruppe mentre riponeva, dopo averla meccanicamente baciata, la stola viola nella borsa.

“Ragazzo, lascia stare. Qualcuno che conosci è mai tornato da lì a dirti come ci si sta? Piuttosto, dì a tuo padre che ci penserò io a chiamare in Comune, che mandino un medico legale e si occupino di questa poveraccia.”

“Ma, ma… lei ha detto…” Non ebbe tempo di finire. “Lo so quello che ho detto. Lo dico una volta al giorno, anche due o tre. Cosa volevi che le raccontassi? Stava morendo, aveva una paura fottuta e nessuno a stringerle le mani. Dovevo rincarare la dose? Magari, spifferarle che nessuno sa cosa o chi ci sia?” Stava, quasi, urlando. Abbassò lievemente la voce. “… Sempre che ci sia, poi.” Chiuse la logora cartella di cuoio. “Cazzo! La maledetta cerniera mi morde le mani ogni volta. Sembra voglia vendicarsi di tutti questi gesti da stregone che mi vede fare.”

Il giovane, ora, lo guardava basito. Fece diètro frónt sui propri tacchi e uscì. Don Bruno lo sentì rivolgersi a qualcun altro, un amico, forse. “Merda! Questo è più strafatto di noi due. Andiamo a calarci una pasta e a bere: me lo voglio scordare questo brutto stronzo.”

Il prete calzò un berretto di lana sulla testa e, visto che il pastrano se l’era tenuto indosso per tutto il tempo, prese la porta e la chiuse alle spalle, lasciando però accesa la luce.

Fece le scale di corsa, a rischio di rotolare giù e spezzarsi l’osso del collo con quel suo saltare due gradini alla volta.

Finalmente fu fuori: era buio pesto e faceva un freddo boia.

Rabbrividì. Preferiva quell’aria umida che gli infilava dita ghiacce sotto i vestiti all’ammorbante lezzo della morte.

Mentre camminava, nella cartellaccia da professore in pensione, l’aspersorio urtava, ritmicamente, contro la pisside “da diporto” e il cilindro metallico dell’olio santo. Era tutto un “battere e levare”. Gli tornarono alla mente le parole di Goethe. "Il ritmo ha qualcosa di magico, ci costringe persino a credere che il sublime ci appartenga."

Si rese conto che quel suono, forse a causa del suo incedere, seguiva una misura ternaria semplice: era un walzer… ma senza Strauss.

Il passo gli si fece lieve, quasi leggiadro, mentre attraversava quella desolata periferia, rasentando muri scrostati e imbrattati d’iscrizioni incomprensibili che un suo confratello diceva essere scritte nel “dialetto del Demonio”. Di tanto in tanto, saltava di destrezza un escremento canino o arricciava il naso per il puzzo di piscio, sicuramente umano, che proveniva dalle cabine telefoniche ormai in disuso e, comunque, non di certo adibite alla telefonia.

Arrivò al portone di casa che erano quasi le due di notte. Il palazzone grigio sembrava ancor più anonimo e dava l’impressione d’essere disabitato. Cercò le chiavi, dispiaciuto di aver dovuto interrompere quell’improvvisata esecuzione alla Bill Evans. Una volta dentro, fece qualcosa di insolito, servendosi dell’ascensore. Era fisicamente troppo stanco per affrontare le ventuno rampe di scale che lo separavano dal suo appartamento. In realtà, odiava elevarsi con quella claustrofobica scatolaccia puzzolente.

Varcato l’uscio di casa, lo chiuse accostandolo delicatamente e si liberò del soprabito. Scosse le spalle e le ali, rattrappite da quel lungo restare immobili e soffocate dall’ampio paltò, si distesero e vibrarono candenti.

Tolse scarpe, calze, pantaloni e mutande.

Nudo come un verme, si sedette allo scrittoio: avrebbe preferito strapparsi una piuma, intingerla nell’inchiostro e vergare le parole nella sua antica lingua.

Ma, anche quello, non avrebbe avuto più molto senso. Così, si limitò ad accendere il portatile: digitò la password “paradiso” e si collegò al suo blog di poesia. Avrebbe scritto versi, come ogni notte, per trionfare sulla notte. In quell’ora oscura, Vittoria stava ricevendo in dono la sua eternità.

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Pasquinata di Natale a Pasquetta »
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Protomoteca. Effetto notte. »
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y »
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Perdere la fede

Alessandro tornava guidando piano per evitare di finire dentro una voragine piena d’acqua. Professore emerito, a soli cinquantaquattro anni, sentiva ancora riecheggiare nella testa i punti salienti della sua ultima, magistrale, lezione. Aveva introdotto l’argomento della possibile coniugazione tra fede e ragione partendo dalla proibizione, subita da Teilhard de Chardin, di scrivere libri su argomenti non scientifici, di affrontare temi di carattere teologico, filosofico o, semplicemente, religioso.

 

L’espressione, un po’ bovina, dipinta sulle facce dei suoi studenti non lo aveva debitamente gratificato ma, di certo, non aveva neppure intaccato la sua immensa autostima né la convinzione che un mondo pagano ed agnostico dovesse, suo malgrado, confrontarsi con tali temi e, tanto più, in un’aula della facoltà di filosofia.

 

Scuoteva la testa, mentre cercava, intorno all’isolato, un posto per parcheggiare l’auto sebbene non fosse certo lo stressante rito serale a disturbarlo. Come si potevano archiviare così, senza troppo riflettere, domande sull’esistenza di Dio, sulla trascendenza, sulla sua immanenza. Eppure quella era Roma, quella stessa città che, nel bene e nel male, poteva essere definita la culla del Cattolicesimo. Ripensava alle conversazioni con sua moglie, ricercatrice precaria ed attualmente disoccupata: quante ore passate a disquisire su creazionismo e evoluzionismo, sulla necessità, ancora attualissima, di superare fanatici dogmatismi per scardinare i pericolosi dualismi che relegavano l’uomo in un superficiale agnosticismo od in religiosità di facciata o, peggio, in ottusi fondamentalismi.

 

Mentre, finalmente, innestava la retromarcia per accostare al marciapiede, già pregustava una delle loro “serate” speciali quando, accoccolati sul divano del soggiorno, fieramente orfano di televisione, avrebbero a lungo parlato, alzandosi solo per prelevare un testo dagli scaffali o preparare una fragrante tisana.

 

Non prese l’ascensore: si sentiva, malgrado l’ora tarda, giovane e pieno di energia. Fece i gradini a due a due e, giunto al pianerottolo con un filo di fiatone che conclamava le sue pessime abitudini sedentarie e quei cinque chili di troppo, pigiò energicamente sul campanello.

 

Niente: nessuna risposta. Anche se era inusuale che Giovanna non fosse solerte nell’aprirgli la porta e le braccia, non si allarmò più di tanto: forse, era al telefono. Cercò le chiavi nella cartella in cuoio naturale che, malgrado il più che considerevole numero di borse regalategli negli anni, mai avrebbe sostituito e aprì l’uscio.

 

Nella casa, illuminata e impregnata da un buon profumo di ciambellone, il silenzio regnava sovrano. Giovanna doveva essere sotto la doccia. Gettò giacca, borsa ed ombrello sulla cassapanca dell’ingresso e si diresse con passi sicuri verso il bagno, ben deciso, sempre grazie ad un filosofico convincimento, a godere della visione di una meraviglia del creato quale era, ancora, il corpo della sua compagna, a dispetto della incipiente maturità.

 

Lo spettacolo che gli si parò davanti, spense l’ardore insieme al sorriso.

 

Giovanna, cosa ti è successo?”

 

La donna, seduta sul bordo della vasca, proprio accanto al water, con aria sconsolata, rispose:

 

Ho perso la fede!”

 

Alessandro si sentì peggio di Galilei di fronte ai giudici, con in testa calcato un cappello con orecchie da somaro.

 

Malgrado lo sgomento, prevalse il suo indefettibile ego.

 

Amore mio, ma cosa dici?” - domandò, muovendosi, dato l’olezzo poco gradevole che impregnava la stanza, verso il pulsante per scaricare lo sciacquone – “La fede non si perde: a volte si nasconde ai nostri occhi, sembra abbandonarci ma è lì, al suo posto.”

 

L’acqua scrosciò nella tazza mentre sulla faccia di Giovanna si dipingeva l’orrore. Il professore vacillò di fronte a quel viso deragliato neanche fosse l’urlo di Munch.

 

Si sentì prendere dalla rabbia ed, abbandonato il suo consueto fair play, le si fece innanzi sibilando:

 

La fede si perde così? Un click, l’interruttore si spegne e tu resti al buio?”

 

Giovanna, rimase seduta al suo posto, le braccia lasciate scoperte fin oltre il gomito e le mani ancora infilate in un paio di guanti di gomma: il volto si era ricomposto, anzi, illuminato di un baluginio ironico e, stranamente, soddisfatto.

 

No, Alessandro, hai ragione tu: non è persa. Presumibilmente la mia vera nuziale, grazie al tuo pronto intervento, ora si trova nel Tevere e, chissà, forse la inghiottirà un pesce o s’arenerà alla foce. Ma, ti prego, prendila bene: avremo da discutere questa sera sul valore dei lemmi. Che ne dici: etimologia al posto di filosofia?

 

 

 

*

Sangue e lacrime a Detroit

Le luci erano ormai tutte accese all’Overall Motors ma, nel Worthiness Laboratory, nessuno ci faceva caso. I fari illuminavano a giorno tutta l’area.

 

L’uomo era seduto alla sua postazione, in una cabina a vetri che gli permetteva di avere una visuale piena dell’intero spazio di lavoro. Malgrado ciò, gli occhi erano concentrati sui monitor e passavano dall’uno all’altro, fissando i diversi fermo immagine che baluginavano sul nitore degli schermi.

 

All’improvviso, dall’auricolare in ear, irruppe una voce preoccupata a frantumare la sua concentrazione.

 

“Capo, abbiamo un problema!”

 

“Che problema? I miei dati sono perfetti.”

 

“Sid sta sanguinando.”

 

L’ingegnere trasalì. Per un attimo pensò di aver avuto un’allucinazione uditiva.

 

“Phil, fammi il sacrosanto piacere di non sparare cazzate: non è aria. Sono le otto di sera e c’è una donna da favola che, fra un’ora, starà per sedersi ad un tavolo dell’Hilton Garden Inn a Downtown. Sai che, in questi fottutissimi sei anni qui a Detroit, è la prima volta che riesco a prenotare lì? Sai quanto mi costa e cosa mi farà quella delicata signora se non mi faccio trovare lì? Chiederà al maître, con soave raffinatezza, il mio capo  su di un piatto d’argento. Quindi ora, Phil, tu mi dici che sei un brutto bastardo e che era solo uno scherzo.”

 

Un minuto di risentito e denso silenzio.

 

“Christian, vorrei potertelo dire. Scendi dall’Olimpo e vieni a vedere con i tuoi occhi: Sid cola sangue. E sbrigati perché, ai piani alti, c’è qualcuno molto più pericoloso della tua bambola che mozzerà  la tua brutta testa di legno!”

 

Ma di che diavolo stava parlando! Scendere per vedere cosa? … il suo caposquadra che stava dando di matto? Avrebbe chiamato la neuro, ecco cosa avrebbe fatto. Ma Phil non era uno qualunque. Sei anni prima, li avevano prelevati da New York e deportati a Detroit per questo progetto; ci stavano dentro insieme ed, insieme, gestivano quel manicomio.

 

Addolcì i toni.

 

“Phil, dai. Avrai inalato qualcosa. Guarda bene: sarà vernice oppure qualche maledetto cretino avrà ordinato hot dog trasbordanti ketchup.

 

Mentre lo diceva, la bocca dello stomaco gli si chiudeva per il disgusto. Aborriva i pasti fast e furiosamente grassi, grondanti ignominiose salse e puzzolenti come un pollo morto.

 

Questa volta, in cuffia, la voce di Phil si fece dura.

 

“Senti, yuppie di merda. Non sono un geniale fighettino di trentasei anni che spende la fortuna che guadagna in scarpe italiane. Ho quasi cinquant’anni e tre figli maschi.: ad ognuna delle loro bravate, di sangue ne ho visto uscire a fiotti e ti assicuro che questo non è pomodoro. Quindi, alza il tuo palestrato culo e scendi!”

 

Bestemmiando, uscì dal suo ufficio-palafitta postmoderna, prese l’ascensore e pigiò sul pulsante “ground” con una tale violenza da incastrarlo.

 

Quando le porte automatiche si spalancarono, la squadra ne vide uscire un Achille, ben intenzionato a farsi una collana con le budella del nemico. Una ciocca di capelli biondi era sfuggita al rigido controllo imposto dall’invisible gel e sbatteva, ritmica, sulla fronte corrugata. Gli occhi grigi erano divenuti due feroci fessure ed i muscoli, ai lati della mascella squadrata, guizzavano pulsanti.

 

Si faceva avanti urlando.

 

“Se la mia prozia Teresa, che ha novantatre anni, nel cuore della notte, mi telefona dall’Italia per confidarmi che la cugina Carmela, durante la Messa, ha visto la statua della Madonna buttare sangue, le rispondo che prenderò il primo volo per vedere il miracolo. Ma, se trenta fra i migliori tecnici e uomini di scienza degli States mi spifferano che Sid sanguina, gli dico che sono dei maledetti tossici!”

 

Lo staff si aprì, come il Mar Rosso di fronte a Mosè, formando due ali di svolazzanti camici bianchi.

 

Chris, l’ingegnere più pagato di Detroit, si avvicinò all’auto, spalancò la portiera e si chinò sul passeggero alla guida per, poi, ritrarsi come avesse visto un mamba nero.

 

La situazione avrebbe richiesto una roboante quanto vendicativa sghignazzata ma il silenzio assoluto continuò ad aleggiare nel laboratorio.

 

Phil gli si rivolse pietoso: “Allora?”

 

“Cristo, Philip, non sanguina e basta: ora sta piangendo!”

 

Mentre tutti, in processione, si affacciavano sull’abitacolo per contemplare il fenomeno, i due erano già con gli occhi fissi sullo schermo gigante che, quasi, sostituiva la parete di destra e rivedevano ogni singolo fotogramma della ripresa. Niente di niente. Il protocollo era stato eseguito alla perfezione, i dati elaborati erano, a dir poco, esaltanti per la loro precisione ed, apparentemente, nulla, di umano e non, aveva interferito con le procedure standard.

 

La melodia di “Fix You” li fece sobbalzare. Il cellulare di Christian suonava già da un po’, senza che se ne avvedessero.

 

“Pronto, Johanna…”

 

“Sei un bastardo!” la voce sconvolta e rotta dal pianto “Tre ore, tre ore da sola ad un tavolo per due…”

 

“Johanna, abbiamo avuto un grosso problema.”

 

“Non parlarmi di problemi: ho continuato a chiamarti incessantemente.” – Singhiozzi. – “Ti immaginavo con la faccia sfracellata contro il parabrezza, come uno dei tuoi maledetti manichini e già vedevo gli scagnozzi della Motors imbrattare del tuo sangue i loro asettici guanti candidi. Ah, un’opportunità del genere non se la sarebbero persa per nulla al mondo. Il primo crash test della storia con un essere umano, vivo e vegeto, alla guida!”.

 

“Johanna, tesoro, senti…”.

 

“NO, SENTI TU! Tre ore circondata da elegantoni occupati a guardare una strafica in abito da sera che grondava mascara nero, al solo pensiero di cosa ti fosse accaduto. Quindi, ora, prendi una delle tue Sid II e portatela a letto, perché è certo che non sarò più io a scaldarlo” La brusca interruzione della chiamata sembrò un tuono.

 

Chris incontrò lo sguardo di un preoccupatissimo Phil e scoppiò in una fragorosa, isterica, risata:

 

”Phil, ci è sfuggito un particolare: alla guida c’era Sid II!”.

 

“E con questo?”

 

“Crabi era accanto a lei, idiota. Uno squallido youppie deve spiegare ad un integerrimo padre di famiglia cosa succede ad una donna che vede il suo neonato di sei mesi spiaccicarsi contro il parabrezza? L’avevo detto a quei geni del settantatreesimo piano che dovevamo fermarci al prototipo maschile!”.

 

*

Memorie di una pentita

Sono cresciuta in una famiglia cattolica praticante che prendeva molto sul serio la fede di appartenenza. Non era il classico cattolicesimo all’italiana, quello che esce fuori il giorno del matrimonio perché “in Comune è squallido”, del battesimo dei figli dato che “è tradizione”, della Prima Comunione altrimenti “poverino, si sente diverso” e, nel migliore dei casi a Natale “dato che il giorno in cui nasce Gesù siamo tutti più buoni”.

Nella mia casa si respirava Cristianesimo: si pregava, si accoglieva l’ultimo, si perdonava, si parlava di esempio, di conversione e di peccato. I miei genitori credevano che il matrimonio fosse una vocazione di pari dignità rispetto a quella sacerdotale e che ognuno di noi fosse chiamato ad essere Re, Profeta e Sacerdote cioè “Servo” degli altri e del Signore. Ciò li conduceva a vivere la Carità come un assoluto categorico: nessuno era escluso ed in nome di questo facevano scelte, spesso, scomode ed assai sciocche rispetto al senso comune della giustizia.

Mio padre avevauna fede semplice, lineare, serena; mia madre, invece, era sempre “tentata” dal dubbio e ossessionata dai sensi di colpa che, un’educazione estremamente rigida e un po’ veterotestamentaria, le aveva radicato dentro. Questo, spesso, li portava a discutere per ore, anche in toni piuttosto accesi. Erano, però, convinti che la loro comunità era dove il Signore li aveva messi: la famiglia, il quartiere, il posto di lavoro sapendo, però, che c’era un intero universo, terreno ed ultraterreno, con il quale erano in comunione ed al quale non potevano né volevano sottrarsi.

Così, sono cresciuta cattolica e praticante.

Arrivò il “mitico ‘77” che rimetteva in gioco tutte le mozioni del ’68, attualizzate ed, in parte, ampliate. Fu così che mi ritrovai a vivere un’esperienza nuova: quella della “Comunità di Base”. La ventata di impegno politico, la novità della teologia della liberazione e un impressionante numero di giovani che premeva alle porte delle chiese, in alcuni casi, riuscirono ad aprire varchi all’interno delle parrocchie, “complici” alcuni sacerdoti che volevano riuscire a coniugare la loro appartenenza ad una Istituzione secolare, tradizionalista e lenta nei cambiamenti con l’impulso, dettato dalle loro coscienze, di ascoltare e dare risposta agli input di questo “nuovo popolo di Dio”.

Ebbi la fortuna di capitare in una di queste. Vivevo a Cinecittà e la Basilica di Don Bosco era la parrocchia di più di novantamila abitanti. I giovani erano tanti, frutto degli anni del baby boom: erano tutti figli della classe operaia o piccolo-borghese, tutti studiavano, tutti manifestavano, tutti cercavano, anzi, esigevano risposte. Fu così che il Centro Giovanile annesso, si trasformò in un maxi laboratorio attivo di ricerca sociale e religiosa ed in un importante nucleo di aggregazione. Nacque la nostra Comunità di Base. Certo, in molti storcevano il naso, ci consideravano comunisti, blasfemi, teste calde. Ma ci furono tanti che si lasciarono contagiare. Così, ottenemmo anche una grande cripta (d’altra parte le catacombe come luogo di culto non le avevamo inventate noi) dove celebravamo il nostro vissuto. Quattrocento giovani che si riunivano, si preparavano leggendo la Scrittura, scegliendo i canti e gli strumenti musicali più idonei alla liturgia, preparavano il pane azzimo per l’Eucaristia, le tovaglie ed i fiori con i quali avrebbero adornato la Mensa. Erano gli stessi giovani che affollavano le piazze con continue manifestazioni, che animavano i Comitati di Quartiere, che frequentavano i Collettivi Politici. Poi, si ritrovavano perché questa “rivoluzione” diventasse sacramento. Erano in molti ad affacciarsi e scappare scandalizzati: i preti che non indossavano paramenti medioevali e luccicanti ma una tunica ed una stola, spesso ricamata da noi ragazze con disegni di frutta, fiori o simboli, la confessione dei peccati che introduceva il peccato “sociale” come vera pietra dello scandalo andando a spostare l’attenzione delle coscienze dal sesso verso i peccati di omissione contro l’umanità e la persona, “l’omelia partecipata” che nasceva dall’esegesi e dalle risonanze di tutti nella convinzione che a tutti parlava lo Spirito e che tutti eravamo Popolo di Dio, le preghiere dei fedeli non standardizzate che portavano al cospetto di Dio i bisogni della Comunità ma anche quelli di popoli lontani ed oppressi come il Cile od il Nicaragua.

Quello che più turbava o, addirittura, indignava gli “ortodossi” erano le affermazioni che fede e politica non fossero due cose avulse, la politica non coincidesse con le attività dei partiti ma dovesse essere agita dal popolo consapevole, organizzato e partecipativo, la Democrazia Cristiana non dovesse essere considerata il partito della Chiesa anzi che la Chiesa non dovesse avere un Partito in questo o quell’altro Stato e, soprattutto, che si potesse essere di sinistra e, al tempo stesso, cristiani, anzi, cattolici, dissenzienti, ma cattolici.

Non era una posizione facile la nostra: buona parte dei parrocchiani ci consideravano, quasi, degli emissari del demonio, degli eretici e degli infiltrati; i compagni di lotta ci guardavano con sospetto perché non eravamo stati colpiti da scomunica ed eravamo troppo poco inclini all’uso della brutalità.

Ricordo ancora quando, in occasione di un’assemblea contro la violenza sulle donne, entrammo con un gruppo di amiche ed il moderatore ci accolse con uno stentoreo e microfonato: “Compagni. Accogliamo le femministe cattoliche: so’ tutte vergini!”. Ci sedemmo fra gli altri, mentre scoppiava una sonora risata collettiva, pronte a partecipare malgrado, in quel momento, ci sentissimo un po’ violentate anche noi.

Furono anni importanti per la nostra formazione: anni di studio, di lotta, di volontariato. Ma, poi, arrivò la Controriforma: il sacerdote che ci sosteneva fu costretto a lasciare l’ordine d’appartenenza perché gli era ormai impossibile convivere con le scelte dei superiori, la nostra cripta fu chiusa e noi fummo chiamati a scegliere: o dentro alle loro regole o fuori. In molti decidemmo: fuori.

Per quanto mi riguarda, cercai altre comunità ma, non trovandone alcuna nella quale riuscissi a riconoscermi senza scendere a compromessi troppo severi con la mia coscienza, piano piano, mi convinsi che il mio destino era quello di essere, come Silone, “una socialista senza partito ed una cristiana senza chiesa”.

Malgrado ciò, per tutta una serie di “casi della vita”, continuavo a ritrovarmi a stretto contatto con strutture cattoliche. Sempre di più aumentava l’insofferenza verso le palesi contraddizioni che le contraddistinguevano e la sofferenza per questo “esilio” volontario e necessario che, se da un lato rappresentava la mia affermazione di libertà di pensiero, dall’altro si traduceva in un senso di solitudine e di non appartenenza. La società stava scivolando, sempre di più, nel liberismo sfrenato che ci ha condotti all’attuale situazione, la Chiesa tornava a posizioni intransigenti ed invasive rispetto alla libertà dello Stato, l’individualismo rassegnato prendeva il posto della partecipazione democratica.

Pian piano, si è fatta strada in me la convinzione di appartenere alla “comunità degli uomini di buona volontà”, che non aveva altri templi se non quello della solidarietà, che non faceva distinzioni di genere, credo, razza o qualunque altra categoria rigidamente inclusiva ed esclusiva. Se Gesù Cristo aveva affermato che egli stesso era Amore e che solo sull’amore saremmo stati giudicati (nel senso che solo quello era "l'unità" sulla quale basare la misura della propria umanità e della propria fede), quando mi trovavo a condividere con altre persone che, per i motivi più differenti, cercavano di vivere la solidarietà e la giustizia, tentavano di comunicare onestamente o, semplicemente, vivevano la propria quotidianità nella ricerca del bene comune, in quel momento facevo esperienza di Chiesa.

So che questo può apparire assurdo o idealista ai più: come si fa a fare chiesa in modo silente, insieme ad atei, agnostici od appartenenti ad altro credo?  Non posso certo dare spiegazioni teologiche, non ci sono dogmi che sostengano la mia esperienza, né mi interessa fondarci un’Istituzione intorno. Anzi, essa vive proprio grazie all’assenza di istituzione. E, assurdo nell’assurdo, è sempre tale assenza che mi permette di confrontarmi anche con Cattolici osservanti, cercando di superare per prima i preconcetti per arrivare, se dall’altra parte incontro buona fede, ad un dialogo costruttivo pur nel mantenimento delle posizioni che sono proprie ad entrambi.

E’ un percorso difficile: ricercare i punti di incontro invece che quelli di divisione. Non sempre sono all’altezza nel mantenimento di tale proposito; devo combattere contro la mia indole passionale e polemica, contro la voglia di lasciare che “tutto vada come deve andare”,  contro lo sdegno che, a volte, mi assale e mi porterebbe ad assumere posizioni intransigenti piuttosto che necessariamente assertive.

E non pretendo neanche di essere nel giusto: il dubbio mi è compagno in ogni istante della vita.

Ma sono cristiana e, che questa sia una benedizione od una maledizione, ho smesso di cercare sia una soluzione più agevole sia di divincolarmi, come una lepre tra i lacci, nel tentativo di negare a me stessa questa realtà.

Sono quel che sono, con tutte le mie contraddizioni: una cattolica "pentita", una cristiana praticante.

*

E se...

dedicato a Giuliano

“Ma cosa diavolo…”.
Mi guardo intorno ma non è che ci veda proprio bene. Due minuti fa pioveva così forte che i tergicristallo non riuscivano a portar via l’acqua dal parabrezza: sembrava di andare in barca. Quando ho visto quel tir venirmi incontro, ho pestato sul freno come se dovessi sfondarlo ma la vecchia Rossa non voleva saperne di fermarsi. E adesso, all’improvviso, esce questo sole accecante. Non è normale: dal diluvio da foresta amazzonica al sole di mezzodì in un deserto africano… deve essere colpa del buco nell’ozono o di tutte le diavolerie atomiche che continuano a sperimentare e dei quintali di rottami che gravitano nello spazio.
Ma la mia auto? Stavo guidando ed ora mi ritrovo fuori dalla macchina… ed anche dalla strada, direi. Ma dove sono e come ci sono arrivata? Aspetta un attimo. Qualcosa, proprio davanti a me, luccica: è… è… un grande cancello d’oro che si sta schiudendo. Sto sognando.
“Pizzicati, pizzicati. Devi svegliarti subito. Un colpo di sonno alla guida. Così ti ammazzi!”.
E no, non è un sogno e, quanto all’ammazzarsi,… già fatto. Sono morta, o meglio, sono morta ma viva perché ragiono, vedo, sento persino gli odori. Inutile indugiare: entro e vedo cosa succede.
Non ci crederete ma è tutto come ce lo raccontavano: luce perfetta, una sensazione di armonia e pace che aleggia ovunque come brezza leggera e cori che innalzano cantici di immensa eufonia in una lingua che non conosco ma comprendo benissimo.
E ci sono angeli, maestosi ed alati.
Mi avvicino ad un uomo anziano e barbuto.
“Pietro, suppongo. Come devo rivolgermi a lei? Non so quale sia il titolo più appropriato”.
Il vegliardo, da dietro una sorta di leggio su cui è adagiato un enorme libro, mi guarda con l’aria di uno che si è stufato di sentirsi dire sempre le stesse cose. “Puoi usare le parole che la tua mente ed il tuo cuore ti suggeriscono.”
Bene, posso provarci malgrado, ora, sia un tantino contrariata dal fatto di essere morta e, ancora di più, da quello che vedo. E sì, perché uno passa una vita a credere o a non credere e a pensare che certe rappresentazioni iconografiche siano frutto di tradizione, proiezioni dell’inconscio, colpa di Dante Alighieri ed altre cose di questo genere e, poi, si ritrova in una vignetta. Ma dai. Comunque, considerando che Lui può leggermi nel pensiero, è proprio il caso che smetta di rimuginare e agisca.
“Santità, penso che quello che avete davanti sia il libro dei buoni e dei cattivi e che dobbiate dirmi a che piano sono stata destinata: attico, pianterreno o scantinato?”
“Veramente, questa è La Recherche di Marcel Proust. L’eternità bisogna pur occuparla in qualche modo, n’est pas? Comunque… non è con me che devi parlare: sono solo il custode, il portiere, diciamo, visto che ho tutte le chiavi. Vai, ti sta aspettando.”
Questo è un colpo basso: San Pietro che legge Proust. Ma non c’è tempo di stupirsi: meglio non farLo attendere. Chissà come sarà: un roveto ardente, un triangolo dorato, una bianca colomba, avrà la forma del Sole o della Stella Polare? Sarà solo Luce o solo Voce?


“No, non è possibile: è una Donna… sono fregata!”.

*

Coming out

Lettera aperta a larecherche.it

 

A firma di

Maria Musik

Cittadina del mondo, in attesa dell’uscita di “Nella frequenza del giallo” per ottenere la cittadinanza dell’Universo.

 

Carissima Redazione e amatissimi scrittori e lettori,

benché cosciente di quanto oggi sia inflazionata la pratica del coming out, sento il bisogno di uscire allo scoperto e dichiararmi.

Sono omnisessuale.

No, non ho sbagliato a digitare: sono proprio omnisessuale.

So che in materia sono stati scritti ben pochi trattati specifici e esaustivi, quindi, porterò qualche esempio che possa spiegarvi la mia condizione.

Ad esempio, ho una frequentazione, purtroppo poco assidua ma di lunghissima durata, con il mare. Gli amplessi con lui sono fra i migliori che ricordo. Pur essendo donna, sono io a penetrarlo e lo faccio con tutto il corpo e il mare risponde generoso insinuandosi in ogni anfratto, lambendo ogni centimetro di pelle, carezzando i capelli, sostenendo il mio corpo in una consolante assenza di peso.

Mi sento attratta in maniera imbarazzante dalle querce. Quando, completamente bagnata, arrivo sotto le fronde di una bella quercia mi accomodo, schiena a tronco, e lascio che mi asciughi, fino a che i brividi mi invadono il corpo.

Che dire, poi, dei miei rapporti orali con la torta décadence: la mordicchio lentamente, lasciando che mi si squagli fra lingua e palato e, quando ingoio, mi sento pervadere da un calore inenarrabile. Capita, poi, che lo chef, un po’ voyeur, stia lì a godersi lo spettacolo: ménageà trois!

Sapeste, poi, cosa provo se leggo certe poesie: fremiti, pianti, risolini. Mi lascio andare ed è un’ondata di emozioni, anzi uno tsunami.

La mia gatta, poi, la adoro. Si accoccola ai miei piedi e me li scalda. Mi lecca e strofina il suo muso contro il mio viso e io la gratto dietro le orecchie e le titillo le vibrisse. Se piango, lambisce le mie lacrime con la sua lingua rasposa e io, grata, le accarezzo la schiena che s’inarca.

In questo momento, poi, sono innamorata di un etero, di una donna, di un gay e di una lesbica.

E, ancora, di: una mimosa (dendrofilia?), un paio di scarpe (feticismo?), un pigiama (efefilia?), un lupo (zooerastia?), svariate sculture, molteplici quadri, un numero impressionante di pagine di libri, un cd, centinaia di canzoni, non so quanti film, delle stazioni ferroviarie, dei porti, di mio padre (complesso di Edipo?) che è morto (necrofilia?).

Con ciascuno ho avuto od ho rapporti fisici, quindi, essendo un animale sessuato, per forza di cose, sessuali anche se non genitali.

E, quindi, sono un’omnisessuale!

C’è qualcuno che penserà che dovrei essere messa al rogo per questo. Ma dovrà mettersi in fila: prima sarò costretta a essere arsa viva perché sono una strega! Ed ecco un altro “salir del armario”.

*

Cronaca nera come il carbone

Roma – Quartiere Esquilino, Via Napoleone III. Ore 02:00

 

Me ne sto seduto per terra, le spalle appoggiate al portone grigio. Sono troppo sbronzo per alzarmi. Certo che questo quartiere è una merda. Negri e cinesi, cinesi e negri.

Aveva ragione mia madre: che bisogno ha, uno che abita a Firenze, di andare a Roma per studiare filosofia?  Già, è per questo che sono qui. Quindi, ecco che arriva una profonda filosofica agnizione. L’unica cosa buona dei cinesi è che hanno fregato agli ebrei una marea di negozi. Non sono, però,  sicuro di quello che mi sto dicendo. Forse, erano meglio i rabbini: almeno, quelli erano italiani. Mentre scuoto la testa che mi scoppia, arriva Mario.

“Lorenzo: che stai a fà a sede sur marciapiede? Noi semo annati a Ostia. Dai, arzate, che a piazzale Gasparri ho trovato er Pesciarolo: quello c'ha la robba bona. Ma nun se potemo fa pe’ strada. Annamo a Colle Oppio che, a 'st’ora, pure la madama è ita a dormì. A proposito: lo sapevi che pula in rumeno vor dì cazzo? Guido, er milanese, quello che c'ha er cantiere, l’altro giorno se preso ‘n coccolone: dajè che sentiva li muratori che diceveno “Pula! Pula!”. S’è penzato che era arrivata la finanza o li caramba… Su ‘na cosa, armeno, semo d’accordo co’ ‘sti zozzi: si arriva la pula so’ cazzi!”

Mi alzo, barcollo e il Nero (così lo chiamiamo perché, anche se non è un’intellettuale, ha abbastanza palle da girare armato) mi acchiappa, mentre mi prende bellamente per il culo dicendo che sono un frocetto che non regge l’alcool.


 
 

Roma – Colle Oppio, Parco di Traiano. Ore 03:30

 

Andiamo ai giardini e ci mettiamo a cercare una panchina un po’ nascosta.
Sobbalzo. Qualcuno, che ancora non ha cambiato il calendario, ha lanciato una serie di rauti. Che nome fantastico per i botti! Il Nero pare che non abbia le orecchie, perché neanche s’è voltato. Ha puntato un posto niente male per rilassarci, immersi nella nostra nuvola “der mejo fumo de Ostia Beach”.

Mario, all’improvviso, si immobilizza. Sembra un enorme mastino che ha fiutato il pericolo: mi solleva di peso e mi sbatte dietro un grosso albero.
“Aspetta, qui.” ordina perentorio.
Non è più allegro e, all’improvviso, si è messo a parlare in perfetto italiano. Mi mette una paura fottuta quando fa così: freddo, ogni muscolo teso, lucido di testa e pericoloso come un serpente pronto a scattare. Lo sento muoversi veloce e, poi, urlare: “Zingara. Brutta ladra di merda. Hai rubato pure in casa mia, schifosa? Che c’hai dentro a quel sacco? Hai perso la lingua? Ma io te le taglio quelle mani; ti taglio le mani e, poi, ti do fuoco, vecchia strega, così il malocchio lo vai a fare all’inferno”.
Si sente un colpo sordo e, poi, più niente.

Mi metto a correre verso l’ombra che, nella nebbia, sembra quella di un gigante. Il Nero sta in piedi, le gambe lievemente divaricate, accanto a quello che sembra un mucchio di stracci. Continua a biascicare: “Così imparate a restarvene a casa vostra: zingari e negri. Bestie, selvaggi!”.

Lo sposto con una spallata e, mentre lui ridacchia, mi chino sul corpo a terra, reprimendo il vomito che mi sale in gola.

“Mario, Cristo, questa non era una zingara!”

“Zingara o barbona, che cambia. Una lurida zecca in meno. Nessuno sentirà la sua mancanza. Vedrai che mi ringrazierai: da domani può smettere di grattarti!”.

Mentre i capelli biondi di una bambola, che fa capolino dall’orlo del sacco di juta, s’intridono di sangue, mi giro verso il Nero che, intanto, seduto in terra, s’è acceso un cannone.

“Cazzo, Mario: hai ammazzato la Befana!”.

 

 

*

La metà del mio cuore

Marcella aveva indosso una camicia da notte di flanella azzurrina, cosparsa di minuscole mammole, con il colletto tondo, ornato da un sottile passamano viola. Ricordava l’illustrazione di un suo libro dell’infanzia, che ritraeva la saggia Wendy mentre spiccava il volo dalla finestra della sua casa londinese, tenendo ben stretta la mano di Peter Pan.

Se ne stava raggomitolata su un divano, avvolta in una calda trapunta colorata, una delle tante che Anna faceva saltar fuori dall’armadio come fossero conigli nascosti nel cilindro di un prestigiatore.

Fissava, al di là dal vetro, San Luca che illuminava di un rosso aranciato la vetta del Monte della Guardia.

Dalla cucina, giungevano rumori di piatti e bicchieri che, urtandosi, tintinnavano ed il martellamento della caldaia che, ad ogni apertura di rubinetto, attaccava e staccava. Infine, fu il silenzio a cui facevano da contrappunto il sordo ronzare della lavastoviglie in funzione ed il lieve russare di Camilla, che sonnecchiava accanto a lei sul sofà, emanando calore amico dal pelo color miele.

Anna le si lasciò cadere accanto, spalancandole contro quei grandi occhi autunnali, che si celavano dietro a palpebre rotonde e perfette come cupole.

La sua mano, con dita affusolate e ricoperte di stravaganti anelli d’argento, andò a cercare quella gelata dell’amica.

“Sai, Anna, credo di aver vissuto tutto quello che c’era da vivere ed, ora, sono stanca, molto stanca. Non si dovrebbero mai fare pensieri come questi all’inizio di un nuovo anno ma sento, oramai, di non riuscire ad immaginare nulla di nuovo o di diverso. Un piatto della bilancia, gravido di passato, sembra non poter scendere più in basso di così, mente l’altro, dondola vuoto, in alto, quasi potesse librarsi in volo se non ci fosse il braccio meccanico a tenerlo ancorato. Il presente ha confini sbiaditi ed il futuro è nostalgia per ciò che non potrà mai essere”.

La snella figuretta dell’altra donna fu scossa da un brivido accondiscendente e complice mentre il viso si protendeva in avanti , quasi a cercare una maggiore vicinanza per poter ascoltare meglio.

“Insomma, se credessi davvero che esiste un Paradiso, un luogo di pienezza, strabordante beatitudine di perfetto appagamento e se potessi liberami dal dubbio che, per chi si toglie la vita, non esiste eternità ma solo l’Inferno dell’annullamento, forse, potrei trovare il coraggio di suicidarmi. Il fatto è che, quando ho rischiato di morire, non mi è passata tutta la vita davanti agli occhi  e non ho visto alcun tunnel con in fondo la luce. C’erano solo freddo e dolore fisico.” Alzò il viso, andando a cercare lo sguardo liquido e dolce dell’altra. “Se avessi fede, vorrei morire e se avessi coraggio, mi ammazzerei!”.

Anna si alzò e la condusse nella camera da letto. La invitò a distendersi nel lettone che condividevano quando andava a trovarla e, con passo lieve ed elegante da danzatrice, uscì dalla stanza. Tornò dopo pochi minuti, portando una tazza fumante che le offrì.

Mentre Marcella beveva a piccoli sorsi, la guardò seria come non mai.

“Io la fede ce l’ho. Credo nel Paradiso e sono fermamente convinta che sia un luogo dove non esistono inadeguatezza, rimpianti, insofferenza, negazioni. E se c’è l’Inferno, ti amo abbastanza da correre il rischio di andarci al posto tuo. Stai bevendo il tuo trapasso,  ma non aver paura: non soffrirai e non sentirai freddo. Ti veglierò sino a quando tutto sarà finito. Buona Morte, amica mia”.

 



Un profumo di neve arrivò a stropicciarle la faccia. Si svegliò e vide Anna, completamente vestita e pronta per uscire.

“Com’era la Morte?”

“Non diversa dalla notte o da un treno che parte… non diversa.”

“Allora alzati: ce n'è uno, fra un’ora, che ti aspetta. Ti accompagno in stazione, poi, vado al lavoro”.

“Anna?”

“Sì?”

“Ti ho mai detto che sei la metà del mio cuore?”

 

 

*

Scrivi al Direttore

Caro Direttore,

le scrivo avendo fiducia che il giornale da lei diretto voglia prestare attenzione alla mia condizione.

Sono molto anziana, benché tutti mi dicano che ho l’aspetto di una procace adolescente. Questo dono di natura mi ha causato non pochi disagi: infatti, malgrado vi siano innumerevoli evidenze scritte di provata autenticità che attestano la mia età, non mi viene riconosciuta la pensione di anzianità.

Non ho diritto neanche a quella di invalidità, benché sia totalmente inidonea alla deambulazione. Anni fa, facendo seguito alla mia domanda di riconoscimento dell’inabilità, fui convocata dalla ASL di appartenenza ma, nonostante il mio stato apparisse evidente a tutti i membri della commissione, la mia pratica fu archiviata con parere negativo. Nella certificazione si legge che l’Azienda Sanitaria, quantunque si fosse rivolta anche ai maggiori distretti ospedalieri del territorio ed alle strutture di altre Regioni, non aveva trovato un solo specialista in grado di valutare con cognizione di causa il mio caso e suffragare con un’attendibile diagnosi il mio diritto al vitalizio.

Lei mi risponderà che, in un momento come questo, che vede gli Italiani costretti a rassegnarsi al triste pensiero di essere condannati al lavoro duro a vita e la maggior parte degli invalidi o diversamente abili che si sono visti privare del sussidio o hanno subito la drastica riduzione dei contributi statali per l’accompagno, mi conviene rassegnarmi e continuare a lavorare.

Purtroppo, sono disoccupata da lungo tempo. Di professione ero cantante lirica e, grazie al mio timbro vocale unico ed all’eccezionale estensione delle mie capacità canore, avrei dovuto trovare una degna collocazione presso i più prestigiosi Teatri dell’Opera. Mio malgrado, sono incorsa in uno dei più vieti e biechi luoghi comuni che affliggono il mondo dello spettacolo. Da tempo immemore, circola la voce che io sia una iettatrice. Ci sono vere e proprie leggende che circolano sulla mia persona: pensi che sono arrivati ad affermare, anche in forma scritta e pubblica, che quando canto causo la morte della maggior parte del mio pubblico. Le uniche offerte per delle serate, mi sono giunte dal Circo Togni e dalle pro loco della riviera adriatica per spettacoli legati all’animazione estiva ma anche le loro proposte contrattuali contenevano la clausola che mi era fatto divieto di aprire bocca.

Ora, chiedo a lei che è persona colta e di mondo, le pare credibile che qualcuno possa essere spinto ad ammazzarsi solo ascoltando una mia performance? Direttore: non vi è traccia di suicidi seguiti all’ascolto della canzone “Felicità” di Al Bano o dei cori della Lega sulle rive del Po ed io, con una breve esibizione, sarei in grado di provocare una strage? Ma andiamo, suvvia!

Oltretutto, sono sola: non ho un compagno né figli. Le assicuro che ho avuto molti pretendenti ed ho suscitato l’invidia di un numero impressionante di femmine. A causa di quella che posso ben definire una manifesta diversità, ho visto scomparire i presunti pretendenti, a volte sin dal primo rendez-vous. La maggior parte li ho conosciuti in spiaggia o presso il porto (devo confessare la mia ossessiva predilezione per marinai e pescatori). Vivo in Sicilia e da noi, complici il sole ed un mare irresistibile anche a mezzanotte, è facile che scocchi una scintilla proprio fra le onde. Il problema è che oggi basta un appuntamento e già si passa all’azione. Gli uomini, anche i più romantici, di fronte all’impossibilità di avere un rapporto completo, se la danno a gambe.

Riassumendo: sono vecchia, sola, disoccupata, senza sostentamento alcuno. Spendo cifre enormi di condomino per il consumo dell’acqua e, a causa della particolare dieta che sono costretta a seguire, l’impegno economico per la spesa alimentare è divenuto insostenibile (ma la gente lo sa quanto costa al chilo il Plancton bio?). Sono affetta da gravi forme di intossicazione da mercurio, diossina, pesticidi, cromo, cadmio, idrocarburi, detergenti tossici e addirittura da Cesio 137 ma non godo di alcuna esenzione per le spese mediche e farmaceutiche. Sono non deambulante ma non ho accompagno né alcun mezzo utile a favorire i miei spostamenti.

Cosa devo fare: ammazzarmi? Le assicuro, se potessi, lo farei. Non sto qui a spiegarle i motivi… non ci crederebbe neanche lei.

Ora, le domando solo un favore. Ho smesso di rivolgermi ad autorità ed associazioni per la difesa dei diritti e, persino, per la tutela ambientale. Chiedo solo che lanciate questo mio appello:

Ho accettato la mia terribile condizione ma, vi prego, almeno non chiamatemi MOSTRO!”

Nella speranza che vorrete pubblicare questa mia nella vostra rubrica “Scrivi al Direttore”, porgo cordiali saluti.

 

                                                 Aglaope Mermaid


*

Insalata di riso

Non c’è nulla di meno originale di un’insalata di riso, n'est-ce pas?

Eppure, in estate, diventa un imperativo categorico. «Che vi preparo?» Coro (perfettamente all’unisono): «Una bella insalata di riso

Ingoiando tutte le mie velleità creativo-culinarie e masticando amaro, mi metto all’opera.

Riso, riso… ah, sì: dispensa. Allora, vediamo. Venere:  cinese ma coltivato in Padana, colore marrone scuro, quasi nero, molto nutritivo… no! Ha proprietà afrodisiache e a tavola ci sono mia figlia col ragazzo. Meglio non incentivare: ci manca solo di dover mantenere anche il “frutto del peccato”… e,  poi, decisamente non sono pronta a diventare nonna!  Mia madre, alla mia età, aveva già due nipoti. Ma erano altri tempi. I giovani trovavano lavoro, il marito di mia sorella era già un uomo e, magari con un piccolo aiuto, si poteva affrontare un affitto. Si pagava in lire e c’era corrispondenza fra ciò che si guadagnava ed i prezzi. Oggi il mio stipendio è  l’espressione della conversione da lire ad euro di quello che percepivo (più qualche spicciolo perché gli scatti di anzianità li hanno soppressi un anno dopo la mia assunzione), con il piccolo, trascurabile particolare che quando finisce nel mio portafoglio, il suo valore si dimezza. Un esempio: al mercato, il banco dei vestiti “d’accatto”, per intenderci quelli che i negozi o le aziende di distribuzione svendono perché fuori moda o con minime falle, che se sei fortunato, peschi il “pezzo di campionario” e ti porti a casa un capo firmato al costo di un etto di prosciutto San Daniele. Fino al 2001, esponeva orgoglioso il cartello “TUTTO A LIRE 6.000”. Il 2 gennaio 2002, due pennellate, ben assestate, avevano effettuato la dovuta correzione ed il cliente poteva constatare che nulla era cambiato: seimila lire prima, sei euro dopo. Aspetta un po’: ma no, non torna! Moltiplica che ti moltiplica… 11.618. Fregati!

Ma guarda dove sono arrivata con il pensiero: quasi dieci anni ed ancora ragiono in lire. Brutto segno: invecchio!

Torniamo al riso. Fammi vedere che altro ho. Patna. Thailandese, esotico, tiene bene la cottura. Però, mi sta antipatico. Non mi piace la forma dei chicchi, allungati e sottili. Anche il colore così bianco. Candeggiato: come i denti di certi politici. Un sorriso smagliante, abbagliante ispira fiducia. Quanto mi irritano quelle file di denti perfettamente allineati, senza una macchia od un’imperfezione, candidi. Ti parlano di eterna giovinezza ed appartengono, certo, ad una persona che non fuma, perché è rispettosa dell’ambiente e della salute pubblica. Una persona affascinante: che bocca tutta da baciare, con quelle arcate di antibatterico marmo statuario. Ma i denti non sono lo specchio dell’anima. Guardalo un po’ negli occhi quello che, suadente e spiritoso, ti sta parlando. Brivido! Sguardo da pescecane (quando ti va bene: a volte è quello della iena o dell’avvoltoio).

Meglio lasciare stare. Almeno di domenica, voglio riposarmi il cervello e risparmiare un po’ di fegato. Torniamo alla scelta del riso. Ecco: Parboiled! Mi piace questo suo colore ambrato. Ma perché, poi, lo chiamano riso? Sarebbe meglio “Pianto”. Questi grani fanno pensare a lacrime cristallizzate, che il tempo ha ingiallito alla maniera di un’antica pergamena. Come quelle che non ho pianto ma sono rimaste nascoste fra le ciglia del cuore. Alcune di dolore, altre di rabbia. Perché, poi, non le ho piante? Perché non gridare la sofferenza, la vergogna, il rimpianto, la ribellione ed annaffiare il tutto con abbondante acqua e sale? No, non io. Dovevo essere forte e sana e virtuosa per chi non lo era e per quelli che amavo. Sono nata per questo: spalle larghe per sorreggere pesi, mani grandi per curare, occhi asciutti per non portare scompiglio nelle vite altrui.

Eccole qui tutte le mie lacrime, sottovuoto, chiuse in una scatola, etichettate, prezzate e con la data di scadenza.

E voi, vorreste mangiarvele in insalata, ben camuffate fra verdurine fresche, tonno, mais, saporoso formaggio e profumato basilico?

Ma non ci penso proprio: oggi pizza con consegna a domicilio! Fate gli americani… che io faccio l’indiana.


*

Domenica ho un appuntamento.

Al diavolo… un’occasione simile non me la perdo! A pensarci bene, non me ne sono mai fatta scappare una.

Questa volta, però, è diverso. Mi sto preparando da mesi e l’ho raccontato a tutti; si può dire l’abbia gridato dai tetti!

Ma domenica sarà diverso, diverso da tutte le altre volte.

Aspetterò che si faccia sera ed il caldo di questo giugno rovente scemi.

Indosserò il mio abito più colorato e mi truccherò: le palpebre di verde, all’interno degli occhi un bel po’ di kajal indiano e mascara abbondante sulle ciglia.

Profumerò l’interno dei polsi, la nuca, le orecchie e l’incavo dei seni con ambra.

Metterò pendenti d’ametista ed un punto luce al terzo buco sul lobo sinistro.

Andrò a piedi, godendomi il tramonto ed il fresco del viale alberato.

Varcata la soglia abbandonerò tutto sul tavolo, specie il cellulare.

Poi, finalmente, mi lascerò andare.

E sarà energia pura, acqua limpida che sgorga inarrestabile da una polla, escludendo qualsiasi pensiero di ricavarne un guadagno, senza nessun impedimento.

 

SÌ! SÌ! SÌ! E, ancora, SÌ!”.

Perché, cavoli, aveva ragione la nonna: “Ogni lasciata è…. PERSA!”.


*

Vivi!

Ormai s’è fatta sera: sono andati via tutti. Domani è Pasqua e c’è da preparare. Ma non è ancora ora di chiusura ed io mi prendo ciò che mi appartiene. La vasca, finalmente, vuota. Mi lascio andare ed il corpo viene su, senza più peso, senza più pesi. Inalo la calda, sulfurea umidità perché si annebbi anche l’ultimo pensiero e rimango lì a galleggiare. Le bocche degl’idromassaggi creano strane correnti ed il bacino diviene poppa, la testa prua. Solo il naso è fuori dall’acqua, come una polena e gl’occhi rimirano un cielo di mattonelle lattee costellato da ghirigori d’ombra e luce che mutano colore durante la navigazione. Forse, questa è la vita oppure la morte. Non mi importa: la sola cosa che conta è galleggiare, lucida, calda, pronta ad uscire incontro alla notte.
Nelle chiese si fanno veglie: io veglio il cielo gonfio di nuvole. Aspetto che una stella si mostri. Se vedrò una stella, allora saprò che siete vivi, non so dove, né quando, né quanto. Ma se vedrò il mio astro, allora vuol dire che ci siete. Tolgo gli occhiali e come per miracolo, eccola che compare. Un intermittente azzurrognolo punto luminoso. Siete voi che mi dite: “...- .. ...- .. -.-.--”.

*

Pensieri e Parole - I giardini dell’8 Marzo

Premessa: non sto giudicando nessuna delle persone coinvolte nella vicenda da cui traggo spunto, prima che tutto sia stato accertato; le mie riflessioni scavalcheranno la cronaca perché il pensiero va oltre il fatto e lo elabora sino a cambiarlo per passare dal piano della realtà circoscritta di un singolo evento a quello dello stato delle cose.

 

Il fatto. Roma - Quartiere Don Bosco - Cinecittà: una donna, madre single, ruba abiti in un negozio. Arrestata, viene condotta presso la caserma dei Carabinieri Quadraro, in attesa della convalida dell'arresto e data l'indisponibilità della camera di sicurezza. Dopo l'udienza di convalida, denuncia di essere stata violentata da tre militari ed un vigile urbano. Non si sa se sia vero che tutti gli accusati abbiano abusato di lei, ma ciò che è certo, è che tutti sapevano ed affermano, unanimemente, che fosse consenziente.

 

Pensieri dell’8 marzo 2011. E' possibile, a mio avviso, che la donna abbia fatto intendere che avrebbe concesso favori sessuali. Mi metto un attimo nei suoi panni. Sono una donna sola, ho una figlia, non ho fonti di reddito. Sono una disperata, per di più, ormai avvezza a dovermela cavare da sola ed in qualunque modo. Sono stata sfortunata: all'Oviesse mi hanno beccata mentre fregavo qualche vestito. Forse, per una volta, la fortuna (se così vogliamo chiamare una gran sfiga che si oppone ad un'immensa sfiga) mi offre un'opportunità di tornare libera. Alla stazione dei Carabinieri dove mi hanno portata, la camera di sicurezza è già occupata. Così mi ritrovo a trascorrere la notte nella caserma del Quadraro. Ci sono solo quattro uomini, la cella è aperta (ma non ero in arresto?) ed io penso che se "gliela do" converrà loro lasciarmi andare. Non è che mi vada ma il fine giustifica i mezzi. Ed uno (o due o quattro... poco importa il numero!) ci sta. Ma non cambia nulla. Resto dentro e arrivo all'udienza dove convalidano l'arresto. Allora parlo: li denuncio. Forse saranno più clementi nell'infliggere la pena, altrimenti, "quelli" me li porto dietro con me.

Adesso, al di là della pubblica riprovazione delle Autorità competenti, parte il linciaggio morale. Non lo troverete sui giornali ma sulla bocca della gente.

"E che doveveno da fa? Si me la sbattono in faccia devo dì de no? Mica che l'hanno violentata, 'sta mignotta".

"Eh, caro mio, lo disceva mi' nonna: tira più 'n pelo de fica che 'n carro de buoi!".

"Ahò, vanno 'n giro co' tutto de fori: cosce, sise, culi. L'omo è omo! Mica semo de marmo. Che gliel'ha detto er dottore de annà a rubà e de tojesse le mutanne?"

No, decisamente non gliel’ha detto il medico. Forse, gliel’ha detto un carabiniere. Di sicuro, gliel’ha detto l’Italia.

Questa Italia del bunga bunga insegna a tutti, non solo ai ricchi (che già lo sapevano), che se hai il potere, anche un piccolo potere, puoi ottenere tutto. Così, i quattro uomini dell’ordine, hanno avuto ciò che volevano: un’orgetta da poveri, in una villa recintata, con il filo spinato sui muri, incuneata in un quartiere periferico fatto di casette e palazzoni. Solo che alla fine non hanno “offerto” proprio nulla, convinti che la divisa basti a garantire l’impunità. E perché non dovrebbe? Quanti di “Quelli” colti in fragrante reato di favoreggiamento della prostituzione, per giunta di minorenni, è stato tradotto in una camera di sicurezza? Rubare vestiti è reato, rubare l’anima e comprare un corpo? Peccato veniale, perché la lei di turno è sempre consenziente! Per inciso, l’ipotesi che un uomo possa dire “NO!” non è contemplata, neppure immaginata. Al sesso forte nessuno ha insegnato ad usare questa parolina. Solo un fesso, un impotente od un omosessuale rifiuterebbero una scopata. Persino molte donne la pensano in questo modo. Grazie a Dio, non tutti gli uomini!

Ma torniamo alla violenza. Quando si parla di violenza sessuale conclamata? Al di là di ciò che recita il codice, passiamo attraverso il pensiero comune. Esaminiamo qualche caso.

La violentano…

Caso uno. Fa la puttana (la ladra, la barbona, la tossica) … un rischio del mestiere.

Caso due. Era vestita in maniera provocante e succinta… è connivente perché ha provocato.

Caso tre. Usciva in strada da sola alle due del mattino… è inammissibilmente imprudente: se l’è cercata.

Caso quattro. Non si è opposta… in fondo, in fondo gli piaceva. Tutte le donne fantasticano sull’essere prese con la forza.

Caso cinque. È stato il marito… era il marito, mica uno sconosciuto: lo sposa e, poi, non gliela dà?

Insomma, se ti massacrano di botte, riporti lesioni interne, hai tracce di pelle sotto le unghie (preferibilmente spezzatesi nel tentativo di difenderti), indossavi jeans anti stupro e maglione ampio a collo alto e camminavi a mezzogiorno in una strada affollata, potrebbe darsi che abbiano abusato di te.

Sempre che non ti sia inventata tutto affinché la sinistra possa cavalcare lo scandalo per turpi fini propagandistici, dando evidente testimonianza di come strumentalizzi le donne per vituperare la maggioranza!

Oggi è l’8 marzo: non festeggiate, non regalate mimose, non uscite a cena fuori, non fatevi una serata da single stile “Sex and the City”.

Parlate, leggete, scrivete. Accendete una candela e mettetela ben in vista, che la sua luce traballante si veda da fuori. Oggi non è un giorno di festa ma un giorno di memoria. Insieme, donne e uomini, facciamo in modo che la memoria buona diventi mappa sicura, disegnata con mano ferma e si possa, finalmente, uscire fuori da questo lurido pantano.

*

La tratta

Strappate alla loro terra, portate per  chilometri di distanza, a bordo di camion, poi di aerei, poi ancora di camion.

Infine, stipate per giorni al buio e al freddo, legate l’una all’altra.

Olandesi, keniote, colombiane, ecuadoriane, etiopi, indiane, cinesi…

Poi, sono state prese, tutte. Trasferite ovunque: locali d’ogni tipo, gente d’ogni tipo. Spogliate, maneggiate, esposte come un trofeo, con un’unica certezza: sarà questione di ore o di giorni ma, alla fine, moriranno tutte.

Una sopravvissuta ha raccontato la sua incredibile storia.

“Era un uomo giovane, con l’aria gentile, eppure mi ha tenuta in pugno per ore. La sua stretta diveniva  di minuto in minuto più insopportabile. Incredibilmente, più il tempo passava e più provavo per lui una strana pena. Mi hanno spiegato che la chiamano “Sindrome di Stoccolma”.

Alla fine, mi sono ritrovata sul marciapiede, insanguinata. Ma quel sangue non era il mio: era del mio rapitore. Mentre mi stringeva, l’ho ferito. Poi, una ragazzina mi ha raccolta e mi ha condotta in casa sua, mi ha dato da bere ed un posto in cui riposare”.

San Valentino… che giornata di merda per una rosa!


*

Verrà la morte

“Tesoro? Tutto O.K.?”

“Vattene!”

“Non ti senti bene? È mezzora che stai nel bagno.”

Silenzio.

Improvvisamente si sente il rumore dell’acqua che fluisce da un rubinetto aperto. Una risposta in codice: tranquillo, sono viva, lasciami in pace. Ma queste finezze, lui, proprio non le coglie. E si può fargliene una colpa? Perché dovrebbe? Lasciato dietro una porta, con il suo fare premuroso e le sue buone intenzioni, meriterebbe una risposta tranquillizzante e non di doversi mettere a decodificare questa  improvvisata  forma di linguaggio non verbale.

Per cui, caparbio e preoccupato, comincia a bussare all’uscio.

“Amore? Dai, aprimi.”

Ancora silenzio. Poi, un pianto sommesso.

L’uomo è sconcertato: l’aveva vista alzarsi dal letto, al primo trillo della sveglia. La ricerca della giacca in pile gettata, la sera prima, sulla sedia, il passo trascinato sino in cucina, il solito armeggiare con la macchina del caffé, il tintinnio del cucchiaino contro la tazzina e, di nuovo, lo scalpiccio svogliato delle pantofole, il cigolio dell’uscio del bagno, lo scatto un po’ inceppato della mandata nella serratura. Tutto uguale ad ogni altra mattina feriale.

Che cosa può essere mai successo dentro alla toilette?

“Mi rispondi, per favore? Perché piangi? Ti senti male? Allora, ti decidi ad aprire questo cazzo di porta?”

Non sa perché ma è passato da un tono moderato e gentile all’essere cafone ed aggressivo. Questi suoi cambi d’umore da bipolare li detesta. Nel passato non aveva mai avuto dubbi: capiva sempre ciò che le frullava nel cervello. O, almeno,  ne era convinto così come poteva asserire, con assoluta certezza, di conoscerla. Ora, non era più sicuro di nulla. Ma chi era veramente? Si mostrava cambiata oppure  era stato sempre un illuso, non volendo vedere oltre ciò che credeva di vedere?

Mentre la rabbia gli sale dentro, ecco la chiave girare nella toppa.

Apriti Sesamo! Finalmente!

“Posso?” Entra e la vede. Seminuda, accucciata sul bidet, che tira su col naso ed asciuga, col dorso delle mani, le guance.

Si accoscia di fronte alla donna, le prende le mani.

“Ma cos’hai?”

Gli occhi di lei si spalancano, terribilmente tristi, eccezionalmente verdi come diventano sempre se piange o è appena uscita da un tuffo in mare. E le iridi sono proprio come il Mediterraneo in tempesta, le pupille due buchi neri che si dilatano.

“Morirò!”

“Che cosa?”

“Ho detto che morirò.”

“E quando l’avresti raggiunta questa incredibile e folgorante agnizione?”

Non avrebbe voluto essere sprezzante e sardonico ma questa stronzata proprio non se l’aspettava. Morirà! Che scoperta! Pensava, forse, di essere Highlander oppure Gesù Cristo?

“Mentre facevo pipì.”

Ora sì che l’ha spiazzato.

“MENTRE PISCIAVI HAI SCOPERTO CHE NON SEI ETERNA?”

L’urlo esce, incontrollato, dalla strozza. Ma si è bevuta il cervello?

“Lo sapevo che non dovevo dirtelo. Tanto per te sono i vaneggiamenti di una pazza. Oppure gli ormoni. Prima erano le “mie cose”, ora è colpa del climaterio. Se non sono paziente, rassicurante, logica di sicuro è colpa del mio sistema endocrino. Non può essere che io sia diversa da te, che pensi in un altro modo, che senta in un altro modo?

Ero lì, seduta, sentivo scrosciare il getto dell’urina, il senso di piacevole liberazione della vescica che si svuota ed ho capito che, quando sarò morta, anche una simile banalità mi sarà negata. Non ci sarò, quindi, non piscerò, va bene?”

“Oddio, amore, ma che dici? Pensa che io non dovrò neanche aspettare di morire. Ancora un anno o due e la prostata comincerà a non fare più il suo dovere. Ma che pensieri fai? Avrei capito se mi avessi detto che non potrai più scaldarti al sole o camminare lungo la riva o fare l’amore o… guarda, persino mangiarti un’arancia succosa. “

Adesso è la donna che rimane attonita. Ma che sta dicendo?

E quando sarebbe stata l’ultima volta che ha avuto il tempo e la voglia di sdraiarsi al sole o raggiungere il litorale per passeggiare?

Fare l’amore? Ma se lo sarà scritto sull’agenda quando è successo l’ultima volta? Comunque, quella dello scorso anno l’ha buttata da un pezzo.

Un’arancia? Da quanto sono sposati: venti anni? Ed in tutto questo tempo non ha ancora capito che lei detesta gli agrumi?

“Hai ragione, scusa. È come dici sempre tu: ormoni impazziti. Non ci pensare più: vado a vestirmi che altrimenti faccio tardi in ufficio e anche a te, poi, tocca recuperare!”

“Ma sì dai. Sono momenti! A proposito: scusa: ma che sono tutti questi peli in terra?”

“Ma nulla: volevo mettere la gonna e mi sono depilata. Ora spazzo via tutto.”

Di certo non sarà lei a raccontargli che, quando ha visto un pelo bianco spuntare come gramigna albina proprio nel bel mezzo della suo pube, le è preso il panico. Ha afferrato il rasoio e fatto piazza pulita.

Il calendario basta e avanza: ci manca solo un “memento mori” che ti cresce addosso come edera velenosa!

 


*

Amici

“Pronto. Ciao: come stai?… sì, sì... tutto confermato. Tu esci con Sandra?... Sì, come finisco mi vedo con Salvi, beviamo una cosa insieme… non ti preoccupare, quando arrivo mi arrangio… no, non faccio tardi: domani ho la riunione alle otto… ci vediamo a casa… sì, anch’io! Ciao!”
Anch’io cosa? Perché continuo a risponderle “Anch’io?”. È diventata una forma di saluto: “Ti amo!” “Anch’io!”. Ce lo diciamo anche se entrambi sappiamo benissimo che non è vero. Oppure è vero ma non è la stessa cosa di venti anni fa. È diverso… tutto è diverso!
Il flusso del pensiero viene interrotto dall’anonima suoneria del mio cellulare.
“Pronto. Sì, scendo. Il tempo di spegnere il computer.”
Chiudo tutti i file aperti, controllo che la scrivania sia in ordine, indosso il giaccone e mi dirigo verso l’ascensore.
Spingo “ground” e, mentre i piani scorrono, mi guardo nello specchio. Occhiaie, barba trascurata, la stempiatura che comincia a farsi notare. Tiro avanti le ciocche… meglio!
“Ohi, ciao: finalmente ci si becca!”
“Già! Scusa per l’altro giorno: soliti casini.”
“Dove si va?”
“Andiamo al pub dietro piazza Pitagora: non mi va di spostare la macchina.”
“Ottimo. Neanche io posso fare troppo tardi. Poi, fa freddo. Non ho voglia di congelarmi.”
Pochi passi è raggiungiamo il bar. Entriamo e mi sento sollevato dal mortorio che ci accoglie. Il chiasso mi infastidisce. E, poi, quando si resta in zona si finisce sempre per incontrare qualche rompiscatole che si piazza al tavolo senza aspettare l’invito.
“Dove ci sediamo?”
“Mettiamoci là!”
“Vicino al bagno? Certo, che sei particolare… tutti i tavoli liberi e tu vai a scovare quello vicino ai cessi!”
“Oh, va beh. È più appartato ma uno vale l’altro…”
“No problem: va benissimo quello.”
La cameriera si avvicina.
“Che prendi?”
“Una birra: piccola, chiara, alla spina.”
“Allora, due. Grazie.”
Silenzio. Uno, due, tre minuti. Giocherello con il portacenere: che, poi, mi chiedo, cosa ce lo mettono a fare se non si può fumare.
“Che faccia? Ma che hai? Sembra che non dorma da notti e notti.”
“Niente. È un periodo un po’ così. Mi vengono certi pensieri… Ad esempio: ma siamo davvero convinti che sia un bene essere nati dotati di comprendonio? Non era meglio essere idioti, non accorgersi di nulla, non stare lì a farsi tutte ‘ste seghe mentali? Oppure, essere una bestia: scopo quando mi viene l’estro, mangio quando ho fame, dormo se mi prende sonno e, se un’automobile mi tira sotto, fine dei giochi!”
“Quali seghe mentali?”
“Ma, non lo so… è difficile. Ad esempio: tutto questo amare, pensare, rodersi… tanto, prima o poi, devo morire, no? Allora, perché mi sbatto tanto? Chiuderò gli occhi e sarà finita. Tutto sarà finito: il mio pensiero, la mia creatività, i miei amori, i miei ricordi, i desideri. “
“E se esiste la reincarnazione, come dice Rossella?”
“E cosa vuoi che me ne sbatta? Rinasco cavallo, filo d’erba o, magari, pesce in un vivaio di trote! E, anche se mi risveglio uomo o donna, cosa cambia? Tanto non mi ricorderò nulla di chi ero, di quelli che amavo, di quelli che odiavo. Magari, ti ripeto tutti gli stessi errori: mi trovo un lavoro sicuro, mi sposo, faccio un figlio… tutto uguale alle altre volte. E, comunque, non lo saprei di essere nato una seconda volta e avrei la stessa paura della morte, la stessa coscienza che tutto finirà.”
“Certo, che detta così! E se esiste il Paradiso?”
“Di certo, io non ci vado. Sono uno stronzo e tu lo sai benissimo. Perché mai Dio dovrebbe volermi là: non prego, non vado a Messa, odio preti e monache, sono allergico all’incenso!”
“Cazzo: un vero mostro. Brucerai all’inferno! No, sul serio. Me lo dici cos’hai? Di nuovo liti con Chiara? È per la storia di tuo figlio?”
“Ma, sì, forse… o, forse, no! Mi sento uno scemo… mi vergogno anche a raccontarla.”
“E, dai: lo sapevo. Chi è, come si chiama?”
“Ma chi? Possibile che tu debba pensare subito… non lo so come si chiama!”
“Ah, ecco, mi pareva… allora?”
“Allora, niente! L’altra settimana ero in ufficio. Avevo fatto tardi. Ho ordinato un panino e una birra giù al bar. Mi sono alzato, ho aperto la bottiglia e ho cominciato a berla mentre guardavo fuori. La finestra dirimpetto alla mia lasciava trapelare una luce fioca. C’era una donna dietro il vetro. Se ne stava dritta in piedi e mi sono accorto che mi fissava.”
“E…?”
“Nulla. Sono rimasto fermo a guardarla. Lei ha cominciato a carezzarsi lievemente una guancia, lo sguardo fisso verso di me; poi, la mano è scesa sul seno sinistro. Lo palpava, lenta: prima lo strizzava, poi lo lambiva tutto intorno, poi tornava a strizzarlo.”
“E…?”
“Che palle! Ha suonato il telefono interno: il custode diceva che era tardi, a breve sarebbe arrivata la ditta delle pulizie. Quando ho attaccato, la luce si era spenta e le tende erano state chiuse. Fine della storia!”
“Se è finita così, cosa c'è che non va?”
“Non è finita così. I giorni a venire sono stati un inferno. Mi alzavo ogni dieci minuti a guardare fuori sperando di rivederla. La notte, quel viso così triste, così concentrato, mi compariva davanti. È diventata un’ossessione! Ho avuto un’apparizione…”
“… Eh, come no! L’apparizione di una grandissima mignotta!”
“Ma possibile che tu debba essere sempre così svilente? Se una donna si fa vedere mentre si accarezza un seno, allora è una puttana!”
“No, è una puttana se prende settanta euro a botta. Metà del mio piano c’è già stato con quella… pure due o tre colleghe. E la mia è una constatazione, non un giudizio. Immagina… con i tempi che corrono. Fa quel che può e, considerato che è stata così fortunata da trovare un appartamento di fronte al palazzo della nostra Ditta, non ha neanche bisogno di pubblicare gli annunci. Basta aprire le tende e mettere in mostra la merce. Visto che dirigi il comparto marketing, potresti fare tesoro dell’insegnamento!”
“Oh, Cristo: sono un vero deficiente! Un’idiota, un demente, un…”
“Una splendida persona. Uno che ancora sogna, che ancora si chiede che fine faranno tutte le belle cose che pensa, che prova. Uno che, quando vede una donna, ancora riesce a guardarla in faccia, invece di fermarsi alle tette!”
“E no: le tette le guardo… altrochè se le guardo!”.
Scoppio a ridere di cuore, menando una pacca sulla sua coscia. Mi fermo basito e, arrossendo, balbetto:
“Scusa, davvero, scusa!”
“E di che?”
“Siamo amici da talmente tanti anni che, a volte, dimentico che sei una signora!”.

*

A mi’ padre »
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*

Nonnobisnonno ha deciso di partire.

Nonnobisnonno ha deciso di partire. Ha richiesto un titolo di viaggio ma, si sa: i vecchi dimenticano gli occhiali dappertutto, senza non vedono da vicino e, così, s’è preso un cancro.
Non c’è rimasto male più di tanto perché, alla fin fine, qualunque cosa va bene per raggiungere la meta. La sua, poi, è così agognata che, anche se il bagaglio pesa tanto, lo porta lamentandosi dei dolori, ma solo un po'.
Non sa bene dove andrà: in un posto bellissimo o, forse, nel Nulla.
Ma se sarà il Nulla, è lì che troverà ad attenderlo la sua Linda sposa.
E quando si abbracceranno, ci sarà una tale emissione di energia che esploderà un nuovo Big Bang, così ardente e denso che il Nulla diverrà Tutto. Una Nuova Creazione.
Lo guardo mentre, curvo e claudicante, si muove lento per raggiungere la stazione di partenza. Lo accompagno e tento di aiutarlo a portare la borsa ingombrante: un manico lui, un manico io ed il peso è più sopportabile.
Non posso fare a meno di pensare a come sarà difficile dirgli addio ma non posso essere egoista: mia madre è più di due anni che aspetta.

*

Dire Salute! non è educato. Ovvero...

Dire "Salute!" non è educato. Ovvero: cronache di normale malasanità.

Premessa.
Credo sia giusto rivolgermi a quanti, fra i lettori, esercitino la professione medica od infermieristica. So bene che fra loro vi sono persone degne, umane e professionali. Ma posso assicurare che quanto narrato non è frutto di fantasia o stereotipo.
Ogni riferimento a fatti e persone è voluto perchè i fatti raccontati sono realmente accaduti.


Anime perse nei corridoi degli ospedali, pietiamo i nostri diritti a testa bassa, trascinando le catene della malattia e del dolore, sperando che il loro patetico rumore infastidisca gli dei in camice bianco ed i loro illegittimi figli verde acqua che, in nome della nobile parentela, ardiscono beffarsi degli uomini. Varcando la soglia del nosocomio, negli occhi l’illustrazione di Gustave Doré, sapevamo bene che per quella porta s’entrava in Dite: abbiamo lasciato la nostra identità nel portaombrelli perché non sgocciolasse qua e là, indispettendo i Signori della Cura preoccupati di scivolare e cadere in un’imbarazzante pozza d’umana pietà.
Da quel momento in, poi, si cambia registro di comunicazione: per prima cosa il “lei” è abolito. Non fraintendiamo. Non siamo in Inghilterra. Tutti ci daranno del tu mentre noi continueremo ad usare la terza persona di cortesia. Inoltre, è bene ricordarsi che i vocativi muteranno: gli anziani saranno apostrofati con “nonné”, i giovanissimi con “regazzì”; per le donne di età media variano a seconda dei casi: “cocca mia”, ”bella”… Per una sorta di parità di genere, questi ultimi valgono anche per i maschi. In corsia, si cambia ancora: vocativo e cognome sono sostituiti con il numero del letto o, nel peggiore dei casi, con la patologia da cui si è affetti.
“Mi scusi?”
“Che nun sai legge'? C'è scritto de nun sonà”
“Ma al Pronto Soccorso mi hanno detto mio padre è stato ricoverato qui da voi. Devo lasciare i suoi effetti personali”.
“Ma chi er “21”, quello co’ l’infarto? O er nonnetto che se deve rioperà?”.
“Sì, il signore anziano che deve ripetere l’impianto del pacemaker”.
“Allora è er 34. Ultima stanza. Solo cinque minuti!”.
“Grazie, la ringrazio tanto”.
“La borza la metti nell’armadietto, quello voto. Basta er piggiama. Le mutanne riportale che tanto cià er pannolone, che più robba lassi più se ne rubbano”.
“Ma come, scusi? Mio padre non è incontinente!”
“Cocca, mica che potemo core ‘gni vorta che je scappa! Semo solo in tre e ciavemo du’ mano!”
Ingoio, come fosse fiele risalito, la voglia di prenderla per i verdi baveri della casacca e sussurrarle, a mezzo centimetro dal viso, guardando proprio dentro quei due occhietti cattivi:
“Per intanto me chiami S i g n o r a perché nun so tu’ sorella e n’avemo mai magnato ‘nzieme. E, poi, Cocca, mo vai de là, je levi quer cazzo de pannolone e je rimetti le mutanne, si no prima te meno e, poi, chiamo li carabbigneri! E, domani, scrivo a tutti li giornali e je ricconto quanto fate schifo!”
Ma, purtroppo, sono una persona civile e, soprattutto, perfettamente conscia che, quando me ne sarò andata, mio padre resterà loro ostaggio.
D’altra parte ci sono passata anch’io: “Partorirai con dolore, figlia di Eva” fu scritto. Si vede che avevano già inventato gli ospedali e le Regioni! Quando sei in sala travaglio ognuno che entra, tira via il pietoso lenzuolo che ti copre e, dopo aver detto la fatidica frase “Vediamo a che punto sei”, ficca dentro minimo tre dita e spinge. I medici li riconosci dal camice bianco, gli altri… mah… ostetriche, infermieri, tutti uguali: potrebbe essere pure l’inserviente che vuole giocare a fare il dottore. Quello che capisci in fretta è che la tua vagina è un’acquasantiera: chiunque entra, ci mette una mano!
E, comunque, non c’è bisogno di un ricovero per capire al volo il meccanismo. Basta recarsi in ospedale per banalissime analisi del sangue. Il medico di famiglia e lo specialista ti hanno detto che non si fidano dei centri convenzionati e, poi, perché pagare di più quando c’è il servizio pubblico? Così vai. Prima c’è il CUP. Fai la fila presso la macchinetta per prenotare il turno di accettazione, quindi, passi nel gruppone che aspetta, davanti al display, che esca il numero tanto atteso: se riesci a fare Bingo in un’oretta, sei fortunato.
La signorina al di là del vetro è palesemente scocciata (ne ha parlato per venti minuti con i colleghi, al di là del vetro, lasciando che il contatore facesse le ragnatele), perché ha dovuto sostituire un collega malato e è stata costretta al turno doppio. Tu la capisci: con tutti i tagli sulla Sanità. Ma lei, ahimè, non capisce te. Quel vetro che vi divide è antiproiettile e antisuono.
“Per cosa fa gli esami?”
“Amenorrea.”
“COSA? PARLI PIÙ FORTE!”
“AMENORREA”
Ritorna a guardare il monitor e a far ticchettare le dita inanellate sulla tastiera.
Si blocca, di nuovo.
“Qui ci sono dosaggi ormonali. Ha le mestruazioni?”
“No”
Parli più forte!”
“NOOOOOOOO; STUPIDA OCA IGNORANTE: AMENORREA VUOL DIRE ASSENZA DI FLUSSO MESTRUALE!”.
Ma, ovviamente, questo accade solo nella tua testa: in realtà ti limiti a negare a voce più alta, perché ti hanno insegnato che non è educato urlare ed offendere, anche se provocati. Nel frattempo,ovviamente, dietro la linea di cortesia atta a garantire la privacy, ci sono almeno venti persone che oramai conoscono il tuo codice fiscale, il tuo stato di salute nonché quello della tua fertilità svanita. O, dimenticavo: sanno, anche, che hai pagato € 55,20 per fare analisi del sangue… già, quelle che il centro privato dietro casa avrebbe eseguito per l’esorbitante cifra di € 60,00, con un’attesa media di quindici minuti.
Ti avvi verso la sala prelievi: non ci sono indicazioni. Grazie al cielo, una folla di rassegnati habitué, ti indica la giusta direzione. All’accettazione ti è stato comunicato di tenere il “numeretto” assegnatoti dal dispenser perché è quello con cui verrai chiamata. Stanno facendo passare il paziente 28. Guardi lo stazzonato fogliettino che hai fra le mani insieme a tre ricette, due ricevute, un foglio per il ritiro, uno per l’eventuale delega a terzi ed uno per l’ospedale, alla faccia dell’informatizzazione dei dati e della deforestazione globale. Sei il numero 78. Rapido calcolo mentale: sullo scontrino c’è l’ora di ritiro dal distributore automatico, ore 08:24:00. Per fare la pratica hai impiegato circa un’ora perché erano aperti solo due sportelli. Nell’ambulatorio ci sono quattro persone addette ai prelievi che sono in servizio dalle 07:30:00. Come è possibile che alle 09:25:31, siano stati effettuati solo 28 esami? Una simpatica, anziana signora mette subito a tacere le tue elucubrazioni matematiche.
“Aho! E, che famo? È da più de n’ora che quella poraccia s’è ‘ntesa male. Ariva sto dottore o no?” Una signora, che parla un perfetto italiano ma con uno spiccato accento calabro, risponde:
“L’avete rivoluto il Duce? E adesso, aspettiamo senza tante storie, che con tutto questo urlare creiamo ancor più disagi”.
Un corpulento signore interviene:
“Si era mi madre, avevo fatto venì giù puro li Santi, antro che er dottore! Stamo sotto al Pronto Soccorso: che je ce voleva a scenne, l’invito?”.
Poi, si avventa sulla porta e bussando a gran forza, urla:
“Allora? Nun ce sentite da ‘sta recchia?”.
Una voce da dentro:
“Nun è corpa nostra se er medico nun scenne: c’avrà le urgenze”.
La porta si dischiude cosicché tutti si possa vedere la donna, cerea, la mascella contratta come nei morti, inerte sul lettino con accanto la figlia in lacrime.
Di fronte alla scena il popolo insorge. Il popolo ha un cuore, non è come la casta.
“Ancora stamo così? E mica potemo sta qui tutta la matina!”
“Ma basta. È due ore che aspetto. Portatela via!”
“Se uno non regge la vista del sangue, non dovrebbe accompagnare!”
Finalmente, una giovane signora, indignata, si rivolge all’Erinni:
“Ma cosa dite. La signora è svenuta qui, nel corridoio. Ci saranno almeno 30° e non c’è aria!”
“Si uno sta male, cara Signora, se ne resta a casa e non viene a creare problemi alle altre persone!”.
Dopo una lunga serie di sbuffi e commenti, cala il silenzio.

Mi lascio andare a fantasie morbose, in barba agli insegnamenti della mia povera nonna che ripeteva sempre che il male non si augura a nessuno. Immagino che tutta la Giunta Regionale, con a capo il Presidente, cadano in disgrazia, perdano ogni favore e prestigio, vengano colpiti da morbi vari e siano costretti a rivolgersi come anonimi, comuni ammalati alle loro strutture pubbliche.
“Ahchoo!”
Meccanicamente, mi rivolgo al ragazzo che ha starnutito:
“Salute!”
L’attempato gentleman seduto accanto a me, mi confida a voce bassa: “Ho letto che dire <<Salute!>>, non è educato.”
Comincio a ridere. E rido, rido, rido… sino alle lacrime.
Ancora piango!

*

Venerdì Santo in Darfur

Mi chiamo Miryam. Sono una donna Masalit. Il mio villaggio si chiamava Balla. Oggi non esiste più. La notte in cui vennero i Janjaweed fu la notte dei demoni. Nel villaggio eravamo rimaste noi donne, i nostri bambini e pochi vecchi. E per noi, solo per noi, fu fuoco in cielo e terra. Mentre dall’alto piovevano bombe, i demoni abbattevano le nostre case, bruciavano gli abiti, le coperte, le provviste. Il pozzo fu fatto saltare.
Gridando, scappavamo, senza vedere dove, fra fumo e polvere. Mi sentii prendere per le caviglie e, mentre cadevo in terra, cercavo di spingere avanti i miei due figli. Risucchiata sotto il corpo di un uomo, fui violentata. Poi, mi strapparono i vestiti e mi presero, uno dopo l’altro. Non so dire in quanti: svenni o morii, non so come, non so perchè mi risvegliai; intorno solo rovine, carogne d’animali e i corpi straziati della mia gente. L’odore di carne bruciata mozzava il fiato.
Vagai, rovesciando piccoli cadaveri, folle ed incurante del dolore e del sangue che mi colava giù dal ventre.
Poi li trovai, abbracciati l’uno all’altro, dilaniati dagli artigli dei demoni.
In un angolo, accovacciato nella polvere, un vecchio piangeva, dondolandosi avanti e indietro, come portato dal vento e le lacrime lavavano l’urina con cui avevano profanato i nostri Corani.
Allora e solo allora, urlai, urlai con quanto fiato avevo in gola; urlai contro il cielo, urlai contro mio marito che combatteva non so dove, urlai contro mio padre e mia madre, contro il Profeta.
Come richiamate dalle mia grida, comparvero dal nulla poche, povere ombre. Raccogliemmo quel nulla che riuscimmo a trovare rovistando fra le macerie e ci mettemmo in cammino. Qualcuno diceva che c’era un posto dove ci avrebbero aiutati.
Arrivammo al campo dopo giorni di cammino. Ci accolsero ma non c’erano tende per tutti.
Cominciai a dormire sotto ad un telo tenuto su da quattro rami secchi. Con le altre donne, mi mettevo in fila, per ore, per una ciotola d’acqua e un po’ di cibo quando ce n’era.
Intanto i giorni passavano ed il mio ventre s’ingrossava. I miei figli erano morti ma nel mio utero cresceva quello di un demone. E mi succhiava via quel poco che riuscivo a trovare. Quando ero, ormai, all’ottavo mese, un gruppo di uomini si avvicinò al campo. Erano guerriglieri del Movimento per la Liberazione del Sudan. Quando scoprirono i volti per bere la nostra acqua, riconobbi mio marito. Mi avvicinai piangendo ma lui mi guardò, sputò in terra davanti ai miei piedi e mi voltò le spalle. Da allora non volle più sapere nulla di me e non chiese a nessuno cosa fosse successo ai nostri figli.
La vita nel campo divenne insopportabile: sola, ripudiata e madre di un bastardo.

Oggi sono tornati i Janjaweed. Hanno saputo del campo e sono venuti a finire ciò che, più di un anno fa, avevano iniziato. Ci hanno ammucchiati al centro dell’insediamento ed ora sono intorno a noi, imbracciano armi e fra un minuto inizieranno a sparare.
Non so cosa o chi mi spinga a farlo, ma mi alzo e vado verso uno di loro. Con le braccia alzate, tendo verso di lui il bambino che piange. Urlo: “Questo non è mio. Prendetelo: è vostro. Non ha sangue Masalit o Fur. È un arabo come voi: prendete vostro figlio, salvate vostro figlio!”.
Il primo colpo mi fa scoppiare fra le mani, come un’anguria colpita da un sasso lanciato da una fionda, il bambino ed il secondo è per me. Mi centra in pieno petto.
Mentre cado, strane parole mi attraversano la mente: “Tutto è compiuto!”.
Sprofondo e tutto intorno è un crepitio di spari. Sento il sangue scivolare via insieme ad una vita che non voglio e confluire, in un rigagnolo, con quello bastardo di questo bambino che, più degli altri, mi fu figlio e con quello delle mie sorelle.
Il deserto non ha acqua ma potrà fiorire di papaveri.

*

Asma

Quando ero bambina soffrivo d’asma. Era terribile: all’improvviso sembrava che l’ossigeno non volesse più passare dalla bocca aperta ed ogni respiro era un sibilo. Avevo paura, specie quando arrivava la notte: pensavo che se avessi smesso di controllare la respirazione, che ritenevo fosse divenuta per me un atto volontario, sarei morta. Era a quel punto che arrivava mio padre. Stanco morto, provato dalle ore in fabbrica, mi prendeva la mano e mi prometteva che sarebbe rimasto lì a controllare: se ci fosse stato pericolo mi avrebbe svegliata. Poi, mi baciava e diceva che così la malattia se la sarebbe presa lui, almeno un pochino, quel tanto che bastava a darmi un po’ di fiato.
Spesso gli dicevo di aprire la finestra perché mancava l’aria. Allora, si alzava, faceva finta di smanettare con la maniglia e, poi, tornava sorridente: “Ecco, ora è spalancata.” Lentamente, mi abbandonavo al suo amore, mi arrendevo perché capivo che era preoccupato e mi lasciavo andare.
Poi, arrivò il menarca e si portò via l’asma.
Dio, quanti anni sono passati da allora.
Ora che mi avvicino al climaterio mi accorgo che, dopo avere vissuto tenendo tutto sotto controllo, pensando che se non mi fossi spesa sino all’ultima cellula per quelli che amavo o che mi amavano, se non avessi fatto sino alla fine tutto il mio dovere, se non mi fossi assunta tutte, ma proprio tutte, le mie responsabilità, avrei perso il controllo ed, insieme al controllo, l’anima.
Sapete, in questo lungo breve viaggio, cosa mi è più mancato? Un uomo che con un bacio si fosse fatto carico di un pochino di questo peso enorme, che mi avesse teneramente ingannata dicendomi che la dannata finestra chiusa l’aveva aperta lui per me che non potevo farlo, inchiodata al letto della mia abnegazione. Un uomo che, invece di addormentarsi, fosse stato disposto, non dico a vegliarmi ma, almeno, a vegliare insieme a me.
A voi, uomini della mia vita, dico: “Vi perdono, nel nome di mio padre, ma non vi amo più”.

*

Er barcarolo e la ranocchietta

Ve vojo ariccontà ‘na storiella. Ve siete messi a sede? Allora state boni che principio.
“Cera ‘na vorta ‘n omo che co ‘na chiatta attraversava ‘n lago, granne granne.
Sulla barca portava ‘na donna che ciaveva er dono de fa crollà li farzi templi e mannà in pezzi l’idoli de pietra solo co ‘na guardata. A tutti li dei minori, st’idea nun j’era piasciuta. Così l’aveveno punita: nun je poteveno toccà lo sguardo, perché l’anima nun era robba loro, però j’aveveno levato la forza de movese. Così, nun poteva più annà ‘n giro a fa danni.
L’omo, che faceva er barcarolo, aveva deciso che, alla facciaccia loro, se la sarebbe presa ‘n collo e, finchè la farce nun fosse venuta a miete, sarebbe stato le braccia e le gambe sue. E quanno che doveveno sta ‘n barca, sur fonno j’apparecchiava un materazzo de ferci profumate, ce la faceva distenne e la copriva co’ tutte le paggine delli mejo libbri che riusciva a trovà.
Quer giorno, l’omo stava propio male: la fiaràta* se lo magnava, le gambe je formiccicaveno** e li remi je pareveno de piombo.
Però, spigneva e remava, perché abbisognava arrivà su l’antra sponna prima che er sole s’annasse a fa ‘n sonno.
A ‘n certo punto, s’accorze che ‘n mezzo alle canne, drentro a ‘n govijo de fanga e arghe, ‘na ranocchietta cercava disperata de sortì fora. Sartava, sartava, voleva vedè er lago sbrilluccicà.
L’omo accostò la chiatta, acchiappò la ranocchietta piano piano e la poggiò sopra una larga foja. Poi, ricominciò a remà.
Da quer momento, la ranocchietta aspetta che l’omo passi e, quanno che lo vede, zompa più in alto che po’ e fa li versi più strani che la sua voce roca è capace d’nventasse.
Je strappa ‘n sorriso e ciò j’abbasta.
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* fiammata
** sentire formicolio

*

Breve romanzo rosa macchiato d’unto

Qualcuno apre le tende e fa filtrare la luce. Contemplo, con gratitudine, la giovane donna bionda che mi pone accanto un vassoio ricco d’ogni bendiddio, poi, lascio che lo sguardo trapassi i tersi vetri della finestra e illanguidisca, a lungo, sull’oceano che, azzurro e schiumoso, mi si offre generosamente.
Questa pensione, ricavata in una vecchia casa isolata, quasi lambita dalle maree, è calda e semplice, proprio come piace a me. Sono sicura di esserci già stata oppure l’ho vista in un film. Ora, il ricordo si fa più denso e netto: era una dolciastra pellicola, abbastanza recente, che trattava, che so, di maremoti od uragani. Bah, che importa: sono qui soddisfatta, direi appagata. Mi tiro due cuscini dietro la schiena, avvicino il plateau della colazione quel tanto che basta a far sì che la mano vi cada dentro per estrarne, a caso, le profumate delizie e pongo il mio portatile sulle gambe.
Mi assicuro che le adorate, indispensabili, sigarette siano sul comodino insieme al mio accendino a forma di gatto e penso, godendo della mia incoscienza, che in questo angolo sperduto di mondo non esiste il divieto di fumare nelle stanze.
Posso iniziare la mia giornata. Che bello lavorare senza dover andare al lavoro! La notte, con i suoi dolci sogni gremiti di passioni rese profumate dal mare, mi ha ingolfata di idee che ora fanno a gara per essere impiegate: si spingono, salgono l’una sull’altra, si accalcano, giocano a salta cavalla. Bisogna cominciare con ordine. Butterò giù qualcosa di bello, ne sono certa.
Le dita frenetiche corrono sulla tastiera; gli occhi guizzano dal monitor all’azzurro paesaggio e scrivo, scrivo, scrivo.
La brace della sigaretta, che si sta consumando senza che l’aspiri, cade su la gamba nuda. La scottatura mi scuote dal torpore e ritorno cosciente. Davanti a me il lavello, stracolmo di pentole unte, piatti, bicchieri, posate ed ogni altro possibile utensile. Una montagna di quotidianità sporca.
Il caffé nella tazzina si è freddato ed io, in ciabatte, mi guardo intorno con aria ebete. Uno sguardo alla finestra: un’altra finestra che mostra un’altra donna che riordina la cucina.
Vorrà dire che farò come al solito: due pentole e una sbirciata a larecherche, posate e il commento ad una poesia, una bella passata di spugna intrisa di lisoformio al bidet e scriverò qualche ispirata rima, pronta per essere corretta alle quattro del mattino seguente, quando il pensiero della sveglia puntata sulle sei e del lunedì che incombe, mi desteranno anzitempo.

*

All’osteria della Sora Maria

“Aho, Sora Mari’, l’avete visto come piove? Stamatina mi moje s’è presa ‘no spavento? Pareva che er vento se portasse via casa. Er Tevere, poi, sembra che sta a bollì!”
“Che v’affannate a fa’! Nun l’avete letti li giornali? Er Sinnaco, ieri, ha detto che dovemo da sta tranquilli: tutto sotto controllo!”
“Sotto controllo ‘n par de palle!” disce Mario “Mi’ cognato tiene er barcone ancorato a Ripetta, casa e bottega: n’antro mezzo metro e nun c’avrà più né ‘n tetto né er lavoro!”
“Mi' sorella m’ha telefonato: ha detto che mi madre se la dovemo annà a riprenne: sta ricoverata dalli frati a Tiberina. Dicheno che c’hanno er piano d’emergenza. Ma chi se fida! Puro a L’Aquila ce l’aveveno, o no?”
“Come se disce, Sora Lella mia, fidasse è bene… Che ve posso servì?”
“Me riempite er boccione de rosso, quello dorce, che si me porto a casa mamma, armeno je fa sangue.”
“Eccolo pronto. Fanno cinque euri. E a voi, Sor Mario, che ve porto?”
“’na fojetta e ‘na palletta, come ar poro nonno: ve lo aricordate, poro nonno?”
“Si me lo aricordo? Er mio baccajava sempre perché er vostro nun pagava mai li debbiti. Se vede che è ‘n vizzio de famija! Comunque li tempi so’ cambiati: er vino nun è schietto come quello de ‘na vorta e la gazzosa nun c’è sta più. Mo c’avemo ‘a Spraite!”
Debbotto s’apre la porta e entra uno, vestito come er fijo der cane de ‘n siggnore. Qui nun c’aveva mai messo ‘n piede ma lo conoscemo tutti: fa er deputato.
“Ol Signor, el gh'a inscì de pioeuv!” borbotta “Buon giorno, dove posso sedermi?”
“E me dispiace tanto, Sor Maestro, ma nun ve potete mette a sede.”
Er poretto, tutto frascico, me guarda co’ du’ occhi e barbetta:
“Scusi, e perché?”
“Perché prima de aprì bottega facevo la maestra! Anzi, ho riaperto l’osteria proprio pe’ quello. Nun ce magnavamo cor mensile che me daveno. Mi marito, ‘nvece, porello, ancora fa er professore!”
“Ol Signor, e cosa c’entra?”
“C’entra eccome si c’entra. Nell’osteria mia valgono le regole della scola, quelle der Ministero, perché alla scola ce so rimasta attaccata. Nun li vede li quadri sui muri? Qui nun se bestemmia, nun se dicheno parolacce, nun se butta la robba pe’ tera e nun se fuma. Qui, oltre che a beve, imparamo puro l’educazzione!”
“Scusi ma io non fumo, non ho imprecato né, tanto meno, bestemmiato…”
“Allora se vede che nun legge li giornali e manco li cartelli! Ce n’è uno proprio sulla porta: “In questo locale si serve solo il 30% di stranieri!”
“Ma io sono Italiano!”
“E a me, me scusi tanto, chi me lo disce. Quanno è entrato parlava ‘nantra lingua!”
“Ma che lingua e lingua: è dialetto milanese.”
“Allora lo vede che è forestiero?”
L’uomo spunta de acido.
“E tutti questi signori, invece, da dove vengono?”
“Se guardi intorno che je spiego… semo in diesci: sette semo romani. Er Sor Mario, la Sora Lella, Richetto, Augustarello, Romolo e io. Gli antri tre so stranieri. Quinni… Mohamed, accompagna er Signore alla porta!”
“Mohamed, MOHAMED?” comincià a urlà er malcapitato “E questo sarebbe romano?”
“E certo ch’è romano: è er fijo de mi fija. Peccato, si nun c’era lui poteva da restà. È er settimo… er settimo Re de Roma, bello de nonna sua!”

*

Riflessione der primo a matina

Che ve devo da di’: a me ‘sto Capodanno nun me piasce. Me mette ‘na tristezza, ‘no sgomento.
Si fossi stata ‘n antra (e, forse, lo so stata prima de reincarnamme in quella che so’), ieri a notte, sarei annata co’ l’amichi a magnà e beve.
Doppo, un po’ ‘mbriaca, sarei scesa giù ar Fiume, all’Isola Tibberina, l’isola mia, e avrei fatto l’amore sotto alla pioggia e alli fochi, senza temè né botti né toni, fregannomene artamente de nun riuscì a vede’ le stelle e de nun ricordamme manco er nome der moraccione de Borgo che me chiamava “Nina” e me se abbraccicava. Eppoi, avrei ballato insino a matina e avrei zompato e girato tanto che la sottana me se sarebbe asciuttata cor vento.
Invesce, me ne so’ stata rintanata drentro casa, co’ la voja de scenne giù ‘n cantina, ‘che me sembrava de sta a San Lorenzo sotto a li bombardamenti.
Me so’ stretta drentro alla scialletta e me so’ turata le recchie pe’ nun sentì quer conto all’incontrario che me fa aggriccià la pelle. “Diescinoveottosetteseicinquequattretredueuno…Evviva!”
Peppè peppè peppè - peppè peppè peppè – peppè peppè peppè –peppè.
Madonna mia, sarvace da sto supplizio der trenino!
Non è che so’ snobbe, bada bene: è che proprio me ce so ‘ntesa male. Le lingue de Menelicche, li cappelletti, le mutanne rosse, er bascio sotto ar vischio.
Ecco, parlamone der vischio. E lassatelo ando’ sta che fra ‘n po’ lo dovemo fa de’ plastica. Si proprio devo, me ce vado a ‘nfrattà drentro: assai mejo de ‘n bascetto e nun faccio estinguè la spescie (der vischio, ‘ntenno, che io ho già dato)!
E parlamo puro de le mutanne rosse. Io me le so messe nere, va beh?! Nun so’ vorgari, so’ secsi (pe’ chi, poi… boh?) e tengheno mejo lo zozzo. Nere, capito, come li misci neri che n’è vero pe’ gnente che porteno sfiga, così com’ è ‘na bufala che li slippe rossi porteno fortuna.
Comunque, sarvoggnuno e senza giudizio pe’ l’antri che se so scarmanati, me so ariletta er maestro e ve lascio co ‘n pensiero suo.
Bon'Anno e, pe' piascere, nun me dite che oggi me devo da divertì perché quello che fai ar primo lo fai tutto l’anno. Che tanto ce lo so: si va come quello passato, faccio schifo pe’ li prossimi 364 giorni.

Bolla de sapone

Lo sai ched'è la Bolla de Sapone?
L'astuccio trasparente d'un sospiro.
Uscita da la canna vola in giro,
sballottolata senza direzzione,
pe' fasse cunnolà come se sia
dall'aria stessa che la porta via.

Una Farfalla bianca, un certo giorno,
ner vede quela palla cristallina
che rispecchiava come una vetrina
tutta la robba che ciaveva intorno,
j'agnede incontro e la chiamò: - Sorella,
fammete rimirà! Quanto sei bella!

Er celo, er mare, l'arberi, li fiori
pare che t'accompagnino ner volo:
e mentre rubbi, in un momento solo,
tutte le luci e tutti li colori,
te godi er monno e te ne vai tranquilla
ner sole che sbrilluccica e sfavilla. -

La Bolla de Sapone je rispose:
- So' bella, sì, ma duro troppo poco.
La vita mia, che nasce per un gioco
come la maggior parte de le cose,
sta chiusa in una goccia... Tutto quanto
finisce in una lagrima de pianto.

(Trilussa)

*

Cari Roberto e Giuliano

Carissimi amichi,
invece de scrive la lettera a Babbo Natale pe’ ave’ i regali, la manno a voi due che de doni me n’avete fatti tanti e senza chiede gniente ‘n cambio.
Robè, tu m’hai fatto sortì fora. Stavo chiusa ner bunkere, arroccata ‘n su l’Aventino. Me scrivevo addosso e nun scambiavo gnente co’ l’artri cristiani.
Giulià, tu m’hai ‘mparato a legge. Perché, nun ero annata a scola? Sì, ma nun c’avevo avuto ‘n maestro come te che, ‘nvece de vede’ la televisione, te magni ‘n libbro a pranzo, cena e puro a colazzione.
La recherche era vostra e l’avete spartita con me, che nun me la meritavo.
Da quanno ve conosco so’ più bona e puro più brava.
Che ve devo da di’? Grazzie, de core, core de Roma.
La gente è strana: pensate che ner Presepio c’è chi ce ficca Berrusconi cor naso rotto, Obbama co’ le mano ‘n saccoccia, la Germini cor pallottoliere; ce metteno li carciatori, le veline; c’hanno ‘nfilato puro Maicol Gecson (manco li morti…).
Allora sai che faccio: io ve ce piazzo a voi! Roberto legge le poesie a Gesù Bambino e ‘mpara er tango alle pastorelle e alle lavannare; Giuliano cucina pe’ tutti così, pe’ ‘na notte, pure li poracci magneno come li Re Maggi.
E so che nun me sbajo, perché su la capanna ce sta scritto: “Pace ‘n terra all’ommini de bona volontà”. E voi, de bona volontà, ce n’avete da venne.
Ve vojio bene. Fate ‘n Natale bono e l’anno novo… sia novo veramente.

Maria

*

So’ razzista!

Si ringraziano per l'ispirazione alcuni "blogghisti/italioti" ed uno o due "aspettatori d'auto" linea 716.

Me ne sto bona bona, a aspettà l’auto ‘che a Roma li mezzi nun vonno mai arrivà ma ‘nzieme a me, mannaggia alla miseria, ce stai te che nun t’azzitti mai, nimmanco pe’ sputà.
<<Ammazza che schifo: so’ tutti froci. Hai visto quello: se ne annava co’ li transe e li pagava co’ li sordi nostri. E l’avete puro votato!>> disce, portannose la mano alla bocca come er pesciarolo quanno grida: “Venite, donne, che ce l’ho vivo!” e agitando l’antra pe’ sbatte l’aria <<Poi ce fa meraviglia se li pischelli so tutti finocchi: se metteno l’orecchino, se tengheno la manina. Se er mi fijo fosse così, lo gonfierei come ‘na zampogna, lo mischierei come ‘n mazzo de carte fino a che nun se ricorda qual è la parte giusta!
Che, poi, vorrei sapè: a ‘sti transe chi ce l’ha chiamati? Nun se ne potevano sta a casa loro a fa’ li zozzi? Come si de checche e de zoccole nun ce ne avessimo abbastanza: le dovemo pure importà.
E mo, tutti a piagne, sti frignoni: “L’hanno abbruciata, porella”. E che nun ce lo sapeva che a fa la vita se finisce ammazzati. Che je l’ho detto io de venne er culo e de spaccià?>> de novo porta la mano a concolina a fa da megafono << Bella, potevi annà a zappa la terra si volevi magnà!
Tutte le matine, sur raccordo, ne vedo pochi che vanno a riccoglie i pomidori pe’ du sordi. Li carica er purmino… e pasce. Che dico, poi, signò, pure quelli: ma nun potevano restà nella giungla co’ le scimmie? Che se credevano che qui le banane nun le dovemo sbuccià?
È che nun siete più italiani: vergogna!>> ‘sta vorta je parteno tutte e due le mano <<Nun c’è er lavoro pe’ li fiji, porelli, lo annamo a dà a tutti ‘sti negri che vengheno a rubacce drentro alla saccoccia: nun bastavano i giudii, ‘sti cravattari, so arrivati puro li beduini che ce lo sanno tutti, che ce vonno ammazzà!
Se stava mejo, quanno se stava peggio: meno male che mò l’avemo capito. M’orammaiti quelli che se riempieno la bocca de uguajanza e libbertà: armeno questi ce proveno a facce sta mejo, a fa ‘n po’ de pulizzia, a mette ordine drentro a ‘sto casotto. L’antri? Tutti a chiacchierà. So comunisti, però, come je piasce la machina bella. Mica ce vanno in fabbrica. Loro scriveno su li giornali, fanno li giudici. E, noi, a faticà puro pe’ loro.
Noi semo er popolo, i veri italiani e semo dei galantommini!
Continuate a metteve le collanine co’ la farce e er martello, le majiette co’ la foto de quello; tanto fra ‘n po’ annate tutti dove dovete da annà: a spaccà le pietre!>>.
Finalmente pija fiato, giusto er tempo pe’ dije du’ cosette.
<<Scusame tanto? Ma tu nun sei Augusto, er fijo de la sora Maria? E, dov’è che fatichi? A me m’arisurta che tu madre se fa er mazzo a pulì le scale e le case de tutti i lotti e, alla matina, alle cinque e ‘n quarto, te prepara la macchinetta der caffè, così, quanno che all’una t’arzi, nun te sporchi le mano e nun te sciaqqui manco la tazzetta.
E ‘ndo ce l’avresti tutti sti fiji che devono da lavorà? C’hai quarant’anni sonati già da ‘n pezzo e vivi co’ mamma!
Te schifano li negri, galantomo? E, com’è che l’antro giorno stavi a fa er cicio co’ Fatima, la fijetta der kebbabaro, che c'ha puro sedic'anni? A proposito: nun sei sempre te quello c’ha dato li sordi a strozzo a Giulio quanno che j’hanno dato foco ar negozzio?
E tanto pe’ parlà de puttanate: l’antra sera, a Padre Semeria, dietro alla Reggione, vicino a quella moracciona, quella co’ du’ boccie da paura che la chiameno Airbegghe, m’era sembrato de vedè quer sorcio della Smarte tua. Difficile confonnela co’ ‘n’antra. È l’unica co’ li sportelli neri e le fiamme arancio, er rosario che penne da lo specchietto ‘nsieme ar corno e de dietro, la foto de Padre Pio.
Oh, scuseme tanto, Augusto bello, si te saluto. Sta a arrivà l’auto mio>>.
Monto sur mezzo, timbro er bijetto, me metto a sede e sospiro.
Chissà a ‘ndo va sto busse? Me ritroverò ‘n culo alla luna ma armeno nun sento più quer fregnone.
Quelli come Augustarello li metterebbe tutti ar gabbio oppure lo chiuderebbe pe’ ‘na giornatina ‘nsieme a ‘n transe, ‘n negro e ‘n romme o mejo ancora... alla gogna, sotto alla statua de Pasquino, co’ ar collo ‘n cartello “So ‘n Italiano vero!”.
Nun me dite gnente. Ce lo so da me che semo in democrazzia e tutti c’hanno er diritto de parola.
Ma che ce volete fa: so' razzista.

*

La lettera infame

Ma che bastardi gli uomini. Bastardi e vigliacchi. E i più bastardi sono proprio quelli che lo sembrano meno: i più teneri, i più insicuri, i più fedeli.
Tutti, senza esclusione, non ti vogliono tutta intera, ma si scelgono il pezzo, come la carne dal macellaio: vogliono la noce o il filetto. “No, quel pezzo è un po’ grasso e quell’altro ha i nervetti: troppo duro da masticare”.
E, da vere pezze da piedi, noi i pezzi li distribuiamo. “Così, come tu mi vuoi”.
“NO, adesso basta, BASTA: la capite la parola “BASTA”?”
E se vi sembra che sia femminista, vi dico ancora: “E basta!”. Sono femmina, anzi di più, donna, che ho abbastanza anni da potermelo permettere.
Faccio paura perché lo so? Tenetevela la paura, così come io l’ho sposata in uno di voi.
Il mio diritto ad essere l’ho conquistato partorendo ed urlando come una bestia scannata, l’ho ricevuto come pagamento del mio corpo che senza remore vi ho dato e che troppe volte avete violato prendendolo senza accettare il resto, l’ho in mano grazie a una cambiale scaduta ottenuta in cambio di anni passati ad attendervi lungo i binari di una stazione morta, aspettando di partire per fare insieme il viaggio che mi avevate promesso.
Ci sono giorni come questo, in cui vorrei essere lesbica, ancora più donna da volere soltanto una donna. E sono felice di avere una figlia, anche se già piango per lei e scongiuro Dio che non sia uguale a me, che sia inconsapevole e abbandonata ai sogni, che non si svegli mai e che non si accorga che dietro ad una carezza spesso si cela uno schiaffo in pieno viso.
E mi odio per quanto vi ho amato e vi amo. E mi disprezzo perché sono buona e non so fare la guerra come voi, non posso versare il vostro sangue, non posso vedervi soffrire. Nata per dare la vita, non sono capace di fare morire neanche quel pallido fiorellino che offrite in cambio di un mazzo di dalie odorose, stillanti passione e turgide di desiderio.
Allora perché urlo tanto, perché faccio la stronza? Per sopravvivere e perché voi non sentite.

*

Atto III _ Scena V

Atto III _ Scena V

(Il palco è soffuso di una tenue luce gialla, come quella dei lampioni romani aboliti dal Sindaco: solo soffusi, umidi, bagliori squarciano il buio della scena. Le tavole sono coperte di foglie cadute di platano. In alto, un grande telo avorio fa da cielo, descrivendo un arco concavo verso il basso, come se sostenesse il peso di acqua piovana.
La donna, capelli quasi color prugna, sfilzati in ciocche corte e lunghe, è vestita di una tunica bianca. Il tessuto cade come un peplo ma gli orli non sono battuti e la cimosa sfilaccia in qualche piega.
È scalza, non ha monili se non un anello argentato con l’effige di un gatto, che avvolge il medio della mano destra).
SiLENZio.
(La prima donna entra dalla quinta sinistra e si lascia cadere sfinita sul letto di rossiccio fogliame).
“Qualcuno le ha viste?”
(Fruga disperata fra le foglie).
“Non le trovo, non riesco a trovarle. Oddio, qualcuno mi aiuti!”
(La voce si fa acuta e la donna protende il volto verso la prima balconata. Una luce bianca le illumina il viso. È cereo ma non è pallore: non ha labbra. La voce esce da un bianco taglio, quasi indistinguibile in tutto quel candore. Tende le braccia verso il vuoto).
“ Signore, dico a lei: le ha, forse, trovate? E lei, signora, così bella, così elegante, forse colui che le ha rubate gliene ha fatto dono?”
(Girandosi di scatto verso la prima fila in platea).
“Forse lei, signorina. Lei così giovane, così perfetta, porta orecchini rosso melograno. Ne ha, forse, fatto monili per lei?”
(Il pubblico è muto, stordito, quasi agghiacciato. La voce dell’attrice, da stridula, diviene roca, cupa).
“Dove siete, maledette, dove vi ha sepolte?”
(Si getta fra le fronde morte, tagliandosi le mani con le lamine, rotolandosi nel fogliame, guaendo, piangendo. Si accuccia, come una bimba atterrita e abbraccia le ginocchia, dondolandosi).
“Le mie labbra, le mie belle labbra: rendimele, bastardo. Sono mie. Quando la promessa è infranta i doni si restituiscono, si restituiscono, si restituiscono.”
(Singhiozzi e singulti sommessi le scuotono le membra, poi, con furia inaudita, danzando e schiantando, si accanisce, di nuovo, sul purpureo tappeto).
“Lo so che siete qui, qui dove tutto scomparve, inghiottito dai giorni. Ma, ecco, vedo qualcosa. Sì, le vedo, le vedo.”
(Pausa)
“Oh, una dalia, una dalia color sangue, ancora fresca, con turgidi petali.”
(Si leva in piedi, diritta e a tutti mostra, come ostia sull’altare, il gravido fiore. Lo spezza e, con estenuante lentezza, applica le due metà proprio sopra il mento).
Poi, esibisce, novello Arcimboldo, la bocca ricostruita, il dono reso, il volto deturpato eppure perfetto nell’ottico effetto. Si tocca ripetutamente le corolle, lasciando che alcuni petali cadano, a confondersi con le foglie secche).
(Il telo si squarcia e lascia cadere la pioggia).
“Grazie, grazie signori che qui mi avete condotta. Sono salva. Sono salva”.
(Si volta e con la schiena diritta ed il viso rivolto al cielo che la inonda, esce, scomparendo alla vista di tutti).
(BUIO in sala).
Per trenta secondi non si ode un sospiro. Poi, esplode l’applauso. Il pubblico è in piedi e batte le mani, fino a spellarsi i palmi delle mani. Non grida, non fischia, non invoca il bis. Rimane lì, in piedi e il plauso diviene una ritmica ovazione che si mescola al gorgogliare dell’acqua che viene inghiottita dalla buca del suggeritore.
Una spettatrice, arrossata in volto e con gli occhi lucidi, si rivolge alla donna, che accanto a lei, è rimasta seduta.
“Un capolavoro, incredibile. Un vero capolavoro!”
L’altra, fruga nella borsetta, poi porta una mano alla bocca, quasi a coprire un colpo di tosse.
Una dalia risponde, sorridendo:
“Grazie: sono l’autrice”.




*

Cari tutti

Cari tutti,
ma dove siete finiti? Domanda retorica, ovviamente. Ognuno è impegnato a zappare il suo orto, seminare, raccogliere e strappare la gramigna.
Anch’io sono qui a tentar di difendere il poco seme rimasto dagli uccelli e dall’erbacce. Almeno si salvi quell’ultimo pezzo di terra che il fuoco ha risparmiato.
Quando venne l’incendio, suonai la campana ma uno solo venne. Troppo pochi per domare le fiamme.
Nelle successive stagioni, ho liberato tutti i piccioni ‘ché vi portassero i miei messaggi. Ma non avete risposto ed i pennuti li avete mangiati: nessuno ha fatto ritorno al colombaio.
La carestia è brutta: ci fa dimenticare il vicino e la sua fame. Tentiamo di cavarcela da soli.
Con che risultato? Sempre meno raccolto, sempre meno germe da gettare fra le poche zolle arate.
Vi ricordate quando eravamo un piccolo popolo? Marciavamo insieme, come in Novecento.
Ed eravamo belli. Ed eravamo eroi.
Oggi siamo spaventapasseri, con i vestiti di un altro a tener su la paglia. Agitiamo convulsamente le braccia ma i corvi ridono e ci mangiano il grano e ci beccano gli occhi.
E, alla sera, non più accordi di chitarra ed il camino non basta a scaldare. Neanche il vino funziona: ci porta mestizia.
Il silenzio, non innocente, ci fa paura. Non usciamo fuori a guardare le stelle. Siamo, ormai, curvi.
E siamo soli, sempre più soli.
Ieri notte vi ho chiamati: ho gridato forte con tutto il dolore che potevo, con tutta la passione raccolta dai fondi di cuore. Ma nessuno ha risposto e il vento ha disperso la voce.
Oggi sono ritornata al campo ma le mani mi facevano più male ed i capelli li avevo lasciati sul cuscino.

*

Cambiare film

Camilla, dopo un giorno passato a dormire, rannicchiata nel letto sfatto, accompagnata da incubi psichedelici che neanche il migliore LSD d’annata 1970 avrebbe indotto, si svegliò.
Seduta in mezzo al materasso a due piazze, le gambe incrociate come se stesse per iniziare una meditazione, passava ripetutamente le mani sui capelli, mandandoli indietro quasi un vento fastidioso glieli soffiasse sul viso, incollandoli agli occhi.
Lanciò un’occhiata disperata al display della radiosveglia: nel buio, malvagi occhietti verde acido, vibrando le ciglia, segnavano le 20.30.
Dio: un’altra notte di solitudine, davanti all’inutile quanto venefico schermo acceso, a fare zapping per evitare lo schifo degli insensati e guardoni “irreality”, le lacrime dei film d’amore, la noia delle bagarre pseudo politiche, i colori funebri ed il rumore sinistro dei video music.
Il coraggio di mettere quel DVD consunto che sembrava raccontasse la sua vita, le mancava.
Come in Arancia Meccanica, seguendo il Programma Ludovico, si costringeva a guardarlo e riguardarlo e riguardarlo ancora, per espiare, per condizionare il cervello e non ripetere più gli stessi sbagli. Se avesse funzionato, non avrebbe mai più ceduto alla tentazione di amare qualcuno: l’immediata sensazione di soffocamento e dolore l’avrebbero tenuta lontana dai sentimenti.
Aveva scelto anche la musica per il decondizionamento e, alla Nona di Beethoven, si era sostituita la voce roca e potente di Mimì che cantava “Tu, tu che sei diverso, almeno tu nell’universo, un punto, sai, che non ruota mai intorno a me, un sole che splende per me come un diamante in mezzo al cuore”.
Tu che sei diverso? Diverso da chi, da cosa? Dai diamanti non nasce niente. Meglio avere un orologio a cucù nel petto.
C’era, poi, quel sogno che la perseguitava. Orami da un mese, come cadeva in una fase REM, rivedeva la stessa sequenza di immagini, solo pochi insignificanti particolari mutavano.
In un attimo decise che quel cortometraggio onirico l’avrebbe vissuto da sveglia, così si sarebbe dissolto, lasciando spazio ad altre storie.
Aprì le ante dell’armadio e rimase ad osservare gli indumenti. Doveva scegliere bene. Replicare il tutto con la massima precisione era indispensabile. Eccolo lì: un sobrio tailleur pantalone, color prugna scuro. Lo indossò direttamente sulla biancheria intima. Il pizzo del reggiseno occhieggiava malizioso dalla scollatura. Invece di scarpe chiuse, indossò sandali con altissimi tacchi.
Andò in bagno. Sciolse i capelli ricci e gli ridiede volume. Gli occhi sapientemente evidenziati col kajal smeraldo, un velo di gloss arancio sulle labbra. Perfetto.
Uscì e si avviò spedita verso l’angolo fra la Colombo e via Semeria, dall’altra parte della strada in cui abitava. Incurante della possibilità di essere vista da vicini e conoscenti bazzicare l’imbarazzante crocevia della prostituzione, si piantò accanto al semaforo ed attese.
Passò poco tempo ed un’auto scura si fermò. Mentre il finestrino fumè calava si componevano, a veneziana orizzontale, le fattezze di quel volto maschio. Prima discordanza: non era rozzo, né segnato da rughe e gli occhi non apparivano piccoli e lascivi. Non era l’uomo del sogno. Per un attimo pensò di girarsi in segno di diniego ma il sorriso attenuato dalla luce notturna glielo impediva.
“Sali?”. Camilla, senza rispondere, spalancò la portiera socchiusa e si accomodò nell’abitacolo. Seconda difformità. L’interno non puzzava di fumo stantio e non si udiva lo sgradevole sottofondo di una dilettantistica trasmissione sul calcio. Anzi, le casse diffondevano un piacevole cool jazz.
“Dove vuoi andare?” “Casa mia” rispose, risoluta a riportare la situazione a coincidere con il copione. L’uomo annuì e senza chiedere altro si diresse verso l’abitazione di Camilla. La donna era così presa dalla necessità di raggiungere il suo intento che neanche si accorse di quanto fosse strano che uno sconosciuto conoscesse il suo indirizzo.
I secondi trascorsi in ascensore sembrarono un’eternità. Lui, serio ma non troppo, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, guardava dai vetri delle porte, muro e pianerottoli fare la staffetta passandosi il testimone con precisione cronometrica. Camilla fissava lo specchio, opacizzato da fiato e impronte, senza vederci dentro nulla.
Arrivati al piano, non riusciva a trovare le chiavi di casa. Tentò di appoggiarla ad una gamba per frugarvi meglio ma, quella posizione da gru, non era certo un esercizio da praticare con quei trampoli ai piedi. L’uomo rise, senza alcuna malizia:
- “Le borse delle donne! Sono come pagliai e le chiavi il famoso ago! Lascia fare a me”.
Mentre lui trafficava fra zip e tasche, Camilla bofonchiò:
“Le odio queste dannate. Pesano un accidente, in metro le devi tenere strette addosso e rischi di cadere ad ogni fermata. Poi, quando cerchi qualcosa…”
- “Sì, ma non riuscite a farne a meno”.
- “E cosa dovremmo fare: ficcare tutto nelle tasche come voi? Due bozzi sui fianchi ed uno sul sedere!”
- “Trovate. La solita fortuna del principiante!”.
La porta si dischiuse.
Camilla cominciò ad accendere luci, raccogliere indumenti sparsi, rassettare nervosamente cuscini e teli copridivani. Poi, proterva, si rivolse all’uomo:
“Di qua o di là?”
“In camera da letto: sono un tradizionalista e mi piace stare comodo. Il “famolo strano” non fa per me!”.
Ancora una discrepanza. Niente scena di amplessi violenti nel soggiorno. Lui era entrato nella camera e, con una calma snervante, aveva cominciato a spogliarsi riponendo con cura gli abiti sulla sedia.
Poi, le si era avvicinato, le aveva tolto con delicatezza la giacca di dosso e l’aveva appesa ad una stampella. Lei era rimasta immobile, agghiacciata e torva. Aperta la chiusura lampo, i pantaloni erano caduti fluenti lungo le gambe longilinee. Si era chinato e aveva sfilato un piede poi l’altro, come se stesse per mettere il piagiamino ad una bimba un po’ riottosa che non vuole andare a nanna.
Camilla veniva sommersa da ondate di tenerezza e di rabbia. Da anni nessuno si prendeva cura di lei. Ma al tempo stesso, altera e folle, cercava di interpretare questo inaspettato comportamento come fosse il rituale del gioco morboso che accendeva il desiderio di un cliente un po’ particolare che, se fosse stata una vera professionista, avrebbe riconosciuto al volo.
Rimase immobile sui suoi tacchi alti e la coscienza di quanto il suo corpo potesse parlare, in attesa della fatidica frase: “Quanto sei bella!”
Invece, come uno schiaffo in pieno viso, le giunse un messaggio alquanto diverso: “Sono troppo magro, vero?”. Per la prima volta distolse lo sguardo da se stessa e si presa la briga di guardare quell’uomo che se ne stava in mutande di fronte a lei con la stessa semplice disinvoltura di chi sorseggia un caffè al bancone di un bar.
Alto, dinoccolato, con una muscolatura lunga e tesa. Bruno, con occhi marrone liquido, vivaci e guizzanti.
E si spaventò nell’udire uscire dalla sua bocca le parole: “Magro, grasso? Che importanza ha? A me pare che vada bene così come sei!”.
Poi, finirono le parole e venne il sesso e, dopo il sesso, il sonno. Si addormentò fra le braccia dello sconosciuto. Si accorse che, incuneata a cucchiaio nel suo corpo, la quiete assoluta la conduceva verso un rilassato torpore.

La luce che filtrava attraverso le tende, la svegliò. Era sola nel letto e sul comodino scorse, delusa, qualcosa. Si avviò disgustata verso il bagno e fece la doccia più lunga della sua vita, lavandosi con acqua, sapone e lacrime.
Se l’era cercata. Ben le stava. Doveva compiere l’atto finale. Si cinse dell’accappatoio come fosse un’armatura e decisa tornò in camera da letto. Allungò la mano, curiosa di sapere quanto fosse stata valutata la sua prima prestazione. Ma le dita incontrarono una scatola piatta e dura. Un DVD. Il suo DVD “Adele H. - Storia di un amore”. Accanto, un foglio A4 preso dalla sua stampante e piegato in quattro.
Lo aprì. Una scrittura piccola e regolare lo riempiva di fitte righe blu scuro.
“ Dolce, strana Camilla,
non credi sia ora di cambiare film. Perché inseguire, folle, un amore non corrisposto? Perché farsi tanto male?
Non sei una puttana perché non vuoi vendere nulla e nessuno ti può comprare.
La notte ti sento agitarti, riascolto le urla ed i pianti di Adele, le note suicide di Mia. E sento il tuo rivoltarti nel letto, smaniare, i tuoi passi incessanti che calpestano il buio.
Non sono curioso o pazzo. Ma i muri, qui, sono carta velina ed io scrivo di notte.
Sai quanti fogli mi hai fatto stracciare? Quanto file cancellati? Sai quante volte ho scritto la tua storia?
Ma non sono mai riuscito a trovare un finale. La tua morte mi faceva orrore, la follia ti umiliava ed un lieto fine era sempre stonato e banale.
Così ti ho attesa ogni giorno, al di là della parete. Ti accarezzavo col pensiero, ti proteggevo con l’udito.
Basta Camilla, ora basta.
Alzati, Camilla, esci, mangia e dormi. Torna forte Camilla.
Abbandona Adele al suo destino, ‘che tanto è compiuto.
Vivi, Camilla, vivi. E dammi un finale degno di un grande romanzo.
Ti bacio.”
Ripiegò il foglio e lo depose nel portagioie. Si vestì ed uscì.
Al piano terra, la portierà, arrossata in volto dalla fatica del pulire, le rivolse un bel sorriso:
“Come va, signorì? L’ha già incontrato er novo vicino? Ormai è quasi ‘n mese che è arrivato. Com’è? Fa puro lui casino come quei due che se ne so’ annati? Si disturba me lo dica che ce penzo io a parlà cor padrone de casa!”.



*

Er cavallo Filippo

Er cavallo Filippo lavora ar parchetto in mezzo a li palazzoni. Poraccio!
Arcuni amichi sui faticano a Villa Borghese, fra busti illustri e frattaglie(1) de storia.
Filippo, se tira in su l’occhi, vede er bocio(2): ‘n centro commerciale che già s’è magnato ducento botteghe, venti fruttaroli, diesci scarpari, sett’otto pesciaroli, ‘n fabbro,’n so quanti macellari.
Ahò, Scilla e Cariddi je fanno ‘n baffo a torcjione(3).
Er poro brocco nun l’ha mai visto er tramonto ar Pincio: sgobba in periferia indove li bestioni de cemento so così arti che te anniscondono l’ore più belle.
Filippo, nun ce fa caso, che tanto c’ha li paraocchi.
È tutto preso a fa’ er lavoro suo: deve portà i mocciosi a fa ‘n giretto. Siccome è bono je danno i piccoletti. E Filippo, tomo tomo, senza fa ‘no scarto, li prenne in groppa e via.
Co lui er giardinetto polveroso, scippato alli padroni der quartiere, diventa ‘n bosco ‘ncatato, l’arberi stenterelli granni quercie, er nasone(4) ‘na fonte meravijosa.
M’hanno riccontato che ‘na pricipessina è la sua preferita. Nun je dà pena senti quelle manine che tireno la criniera zozza e ‘ngarbujiata come lo spago dopo che c’ha giocato er micio.
Filippo se sente ‘n gran destriero perché lui ce lo sa che porta la Bellezza in su la sella .
Così la ponno vedè tutti e sentì che Venere è sortita fora da ‘na casa de ‘n subburbbio.
E pure si la schiuma è quella della bagnarola, profuma esattamente come si fosse fija delli Dei.
E quanno a sera, ritorna alla rulotte sfonnata che je fa da stalla, se addormenta e se la ‘nsogna.
Propio come famo noi.

1 Interiora
2 Orco, “uomonero”
3 Attorcigliati come i mustacchi
4 Fontanella pubblica

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No Man Land (terra di nessuno)

“Ehi, pezzo di merda!”
Stavo lavorando sul davanti della casa: un cappellaccio calato fin sugli occhi ed una palandrana per proteggermi dalla polvere.
“Dici a me?”
“Vedi qualche altro pezzo di merda qui intorno?”
Mi voltai lentamente.
“Beh… ne ho uno davanti!”
Alzai la tesa del mio vecchio Stetson e guardai dritto negli occhi l’uomo.
“Uhm, sei una donna. Allora mi sono sbagliato… puttana!”
“Non più di tua madre, straniero, non più di tua madre. Cosa vuoi?”
“Che cavolo di posto è questo? Dove trovo da dormire?”
“Solo in paese. Emily ha una pensione davanti alla chiesa. Altrimenti, chiedi di Ruth.”
“Chi cavolo è Ruth?”
“Lo sceriffo. È, oramai, da anni che ha stanze libere!”
“Vorrai dire la moglie dello sceriffo?”
“No, straniero, Ruth è lo sceriffo e tiene le celle pulitissime. Dagli solo un’occasione: avrai pasti caldi, gratis e a volontà.”
L’uomo scoppiò in una fragorosa risata.
“Una femmina a difendere la città: ma che cazzo di uomini avete in questo paese?”
“Tutti troppo piccoli per reggere in mano una colt. Adesso vai che devo tagliare la legna: Questa notte farà freddo.”
Lo straniero rimontò a cavallo e galoppò verso No Man Land City
Feci a pezzi un piccolo tronco, portai le bestie a riparo nella stalla e rincasai.
Stavo chiudendo le imposte, quando udii rumore di zoccoli. Abbracciai il mio Kentucky Rifle e mi feci sulla soglia: “Fermo o ti spappolo una gamba.”
“Pace, donna: mi fai entrare? Qui fuori mi si stanno gelando le chiappe!”
“Ah, sei ancora tu. Speravo di non doverti rivedere. Entra.”
Presi il bricco del caffè che bolliva sulla stufa mentre lo straniero entrava, sbattendo gli stivali fuori dalla porta per staccare fango e neve.
“Quelli toglili” – dissi, senza voltami – “non ho intenzione di pulire la tua sporcizia.”
Con mio massimo stupore, ubbidì senza proferire parola. “Siediti: hai mangiato?”. Senza aspettare risposta gli posi davanti un piatto di minestra fumante.
Mangiò in silenzio. Aveva sul viso un’espressione strana. Quando ebbe finito, chiesi “Cosa vuoi sapere?”
“Tutte donne: una città di donne. Il sindaco, lo sceriffo, il maniscalco, persino il becchino. Sono scappato a gambe levate. Che diavolo gli hanno fatto agli uomini?”
“Loro niente: non ce n’era bisogno. Hanno iniziato e finito tutto da soli.”
Mi spostai vicino al camino. “Hai voglia di sentire una storia?”
Lo straniero si alzò e venne a sedersi davanti alla fiamma e, guardando i ciocchi crepitanti, attese che iniziassi a raccontare.
“Fino a tre anni fa questo era un paese normale, come tanti altri. In città negozi, saloon, la locanda, la chiesa, la scuola. Tutto intorno piccole fattorie: per lo più un orto e tante bestie a cui badare. Qui per far crescere qualcosa ce ne vuole. Ma i pascoli sono meravigliosi.
Non voglio dire che ci fosse solo gente per bene. Qualche furto di bestiame, scazzottate nel saloon per una delle ragazze di Roxy, Jacob lo strozzino che viveva aspettando che una gelata di troppo o un’epidemia d’afta mettesse in ginocchio gli allevatori e tanti dollari nelle sue tasche. Però nessuno era mai stato ammazzato, né messo sulla forca.
Un giorno arrivò lui. Si faceva chiamare Giudice Crow. Aveva comprato acri ed acri di terra dall’altra parte del fiume. Aveva convinto le famiglie che più a nord regalavano la terra e che, con i proventi della vendita delle proprietà, avrebbero comprato delle signore mandrie.
Questa storia l’avevamo sentita anche qui, raccontata da qualche ubriacone di passaggio, ma nessuno ci aveva mai creduto.
Il Giudice, però, non era un accattone. Con i suoi vestiti da signorino, i suoi paroloni, il suo sorriso accattivante abbindolava tutti. La gente lo stava a sentire: se al nord era diventato il gran signore che era, perché non sarebbe potuto succedere anche a loro. Il Giudice andava dicendo che quando era arrivato lì aveva due dollari in tasca: ora non c’era banca del West che non gli spalancasse i battenti.
In breve tutta la terra al di là del Freedom River era sua, come sue tutte le bestie al pascolo, le fattorie, i rancheros.
Veniva spesso in città. Pare che di giorno corteggiasse la maestra Molly e di notte si intrattenesse con Roxy, cosa strana perché lei non “riceveva” mai i clienti.
Poi, una mattina, si presentò dal Sindaco e gli disse che era vittima di una grave ingiustizia. Lui possedeva molta più terra e animali di quanti ne avessimo tutti noi messi insieme e che, di conseguenza, i due terzi del fiume erano suoi di diritto. Il sindaco rispose che non s'era mai sentito dire che un fiume potesse essere diviso e, gentilmente, lo congedò. La sera il pastore trovò il povero Jack seduto su un banco della Chiesa. Lo scosse, pensando si fosse addormentato. Ma lui scivolò giù come un fantoccio: in fronte aveva un terzo occhio rosso.
Lo seppellimmo fuori dal Paese, accanto a sua moglie Mary.
Passò una settimana e Crow andò dal nostro giudice Salomon e ribadì il suo pensiero riguardo al fiume. Il vecchio magistrato gli rispose che l’acqua scorreva per tutti e che ce n’era in abbondanza. Tirò fuori tutti i suoi polverosi tomi e dimostrò a Crow che non esistevano precedenti che sancissero i diritti di proprietà su un fiume. Quando, qualche ora dopo, Black il maniscalco si avvicinò all’abbeveratoio, ci trovò il giudice: la testa nell’acqua, il corpo ciondoloni lungo la vasca.
Lo sceriffo andò da Crow; qualcuno lo aveva visto uscire dalla casa del giudice.
La sera tornò solo il suo cavallo, trascinando il corpo di Harry attaccato ad una fune per i piedi.
Gli uomini si riunirono. Mio marito tornò e prese a pulire il fucile. Gli chiesi cosa avesse intenzione di fare e mi rispose che l’unica cosa che capivano i tipi come Crow erano i proiettili.
Noi donne ci trovammo in Chiesa: sapevamo che il Giudice aveva un esercito mentre i nostri uomini erano avvezzi all’uso dell’ascia e della vanga ma non a quello delle armi. Un terzo di fiume ci poteva bastare: Freedom River era lungo e largo, non andava mai in secca. Tornammo alle nostre case e dicemmo ai nostri uomini di lasciare che Crow si prendesse il suo pezzo di fiume: non volevamo avere in casa ritratti d’eroi morti: volevamo uomini caldi nei nostri letti.
Così Crow ebbe i suoi due terzi.
Dopo un mese, gli uomini tornarono bestemmiando ed inveendo contro di noi: la nostra parte di fiume era un letto di sassi e fango. Crow aveva costruito una specie di diga. Erano andati al suo ranch ed il Giudice gli aveva offerto di comprare tutta la nostra terra e di rimanere a suo servizio come ranceros o trappers.
A nulla valsero le nostre preghiere. Si radunarono all’alba, davanti alla statua del giudice Salomon. Mio marito portò con sé Mike, nostro figlio. Lo supplicai, ma lui disse che aveva sedici anni, era un uomo. Tutti fecero lo stesso ed un esercito di bovari e di bambini partì per la guerra. Si sentirono echeggiare gli spari fino al tramonto. Non uno dei nostri tornò vivo. Dall’altra parte non andò meglio. Crow rimase con una decina d’uomini. La sera venne in paese. Uscii di casa con il fucile di mio padre… l’hai visto quando sei arrivato. Lui si fermò, un sorriso beffardo dipinto sulla faccia. Ed io sparai: un bell’occhiello nuovo per la sua giacca di velluto da signorino di città, a sinistra, proprio sopra il cuore. Cadde da cavallo senza fare rumore: il ghigno era mutato in un’espressione di sorpresa.
Seppellimmo tutti gli uomini in un unico campo: i nostri e quelli di là dal fiume.
Da allora vivo fuori del Paese: ho ucciso e non posso vivere a No Man Land City. Quando morirò, mi seppelliranno vicino a mio marito. Non c’è posto nel camposanto per gli assassini. Lo abbiamo deciso insieme noi donne.”
Lo stranierò mi guardò triste: “Come ti chiami?”
“Elizabeth.”
“Piacere Elizabeth: sono Gary, un cacciatore di taglie. Dovevo trovare chi aveva ammazzato Crow… vivo o morto. Meglio se morto!”.

*

Niente prosa: solo una lettera.

Cara Recherche,
hai letto i giornali? I quotidiani li odio: mettono in prima pagina tutti i dolori, tutte le atrocità come se al mondo non vi fosse altro.
Eppure, questa notte, non posso fare a meno di rivedere quei titoli. Una donna rumena e suo figlio muoiono arsi vivi in una baracca allestita dal marito ai margini di Roma: voleva passare con loro il Natale. Un uomo a Napoli, viene colpito da un proiettile vagante come si fosse affacciato ad una finestra sulla striscia di Gaza. Un albanese di ventidue anni viene trovata il primo dell'anno abbracciata al cadavere del figlio appena partorito, morto di freddo o di, sa Dio, cos'altro. Una ragazza viene violentata e massacrata dal branco durante la maxi festa di Capodanno alla Fiera di Roma. Continuo?
No, ho la nausea.
Eppure sono le notizie che chiudono e aprono tutti i santi anni, dovrei esserci abituata.
Non mi abituo, non voglio abituarmi e, se anche volessi, non posso.
Vi prego, unitemi a me, non abituatevi. I Cavalieri dell'Apocalisse continuerranno a cavalcare ma noi non abituiamoci al rumore dei loro zoccoli. Lasciamo che disturbi i nostri sonni, che turbi le nostre coscienze, che nutra le nostre penne.
Restiamo svegli, almeno noi, vi prego.

*

Il canto di un’allodola

Nell’angolo più buio e remoto del ripostiglio, giace il sarcofago nero.
Lo prende: è pesante come il suo cuore blindato.
Apre ed il lucido palissandro viene percosso da un raggio di luce che crea un effetto 3D polarizzato e lo strumento balza fuori dal sottobosco di velluto rosso.
Lo prende, lo abbraccia, accompagna la forma calda, sfiorandola con dita gelide.
Ricorda il forte fremito, l’incanto di armonie incompiute, l’eco di una voce modulata e profonda che si lascia fondere ad accordi arpeggiati.
Ma non tocca le corde.
Il Mi basso, robusto e sonante, è ora una fune tesa sul terrazzo che raccoglie la prima goccia, greve di terra e tossico fumo, avanguardia dell’imminente temporale. Non la lascia cadere: lottando contro la gravità, la tiene sospesa, aggrappata con l’infinitesimale, umido acme, nell’attesa che il vento giunga a spazzarla via.
Così la prima lacrima, gonfia di mattini arsi e di notti senza maree, rimane attaccata alla corda prima di cadere sul La, scivolare sul RE, rimbalzare sul SOL, accasciarsi sul Si ed, infine, brillare polverizzata sul Mi cantino.
Sei gradini per scendere nel silenzio ingiunto da un bavaglio d’amore e paura.
Quella spessa corda non la può toccare: non sopporterebbe di vederla vibrare.
“Se non c’è mano che possa stringere la mia chiave sino a tendere ogni mia fibra ed accordarmi, che voglia lambirmi, pizzicarmi, diteggiarmi; che squagliata la corazza d’acciaio e raggiunta la flessibile anima di nylon mi faccia vibrare, non sarò certo io a ridare voce a questa chitarra.
Pazza: perché mi sono sottoposta a questa riesumazione straziante?
Che giacciano i morti nei loro loculi se per me non c’è alba del terzo giorno!
Le corde bagnate si arrugginiranno nel buio. Forse, questa scatola nera, aperta da mani pietose nel giorno della mia morte, svelerà il mio segreto.
Che il mondo sappia come si sopprime il canto di un’allodola!”.

*

Er fiume Core

Er core nun me batte più. S’è fatto liquido. Score.
Oh, a tratti, è puro navigabbile.
Madonna che dolore, ‘sti corpi de pagaja, ‘sti rombi de motore.
Chi va, chi viene, chi disce:”Ahò ma st’acqua è fredda!” E uno j’arrisponne: “Ma c’è da fidasse?”. N’antro: “Che state a di’, che n’ce capite n’emerito: è troppo cardo! Ma come ce lo fai er bagno drentro a ‘sta pignatta? Che te voi abbruscolì?”
Ariva ‘na zitella tutt’accimata, storce la nasca tanto che j’è s’allargheno le frogge: “Che dè sta vergogna? Ma che se fa così ! Nun c’è più rispetto e nianche educazzione. Ah zozza, che se fa scrore er core così ‘n mezzo alla gente? Er pudore, indove te lo sei messo?”
“Scusate, Signò…” – “Signorina, pe’ favore!” – “Va beh, come ve pare. Ma iersera che ve stavate a vedè ‘n televisione?” – “A parte che ‘n sarebbero li vostra, comunque e sarvognuno, me so’ vista er granne fratello!” – “E ner pomeriggio?” – “Scusate, ma a voi che ve ne frega? Ho visto Maria co li tronisti: me so commossa, se so basciati, carini!”- “Signorì, ma allora com’è che er fiume ve dà tanto cordojo?” – “Aho, bella, ma tu mica lo fai 'n televisione: scori pè strada e nun se po’, nun è descente!”.
Nun fa gnente, nun fa gnente. Ho potuto smette de battè ma devo score, si no so’ morto.
Comunque, c’è ‘n pezzo de sto fiume che fa le rapide. Ammazza si so belle: so potenti.
‘n mezzo alla schiuma bianca s’arimisticano sabbia, sassi, rami secchi e puro ancora ‘n fiore, mondezza e petali de rosa. Peccato che tutti cianno strizza e nun ce vengheno. Ar massimo s’affacceno dar ponte, co’ la pelle che je se aggriccia. Nun ce ‘nfilano nimmanco er ditino. Nun sanno che se perdeno, che meraviglia, che diversità dallo score sempre eguale, lento, sommesso.
Comunque, er core arriva sempre ar mare e li se lascia annà. Li piagne, molla le scorie e libero mischia er dorce cor salato. Diventa immenso e trova pasce.


*

Donna senza danno

Faccio la salita a fatica: colpa dello scirocco o delle troppe sigarette. Ho il fiato corto. La notte è umida, pare respirare goccioline. Mi sento un pesce rosso in una palla d’acqua sporca.
Sono inquieta. Questo nodo, questa cravatta troppo stretta che mi stringe la gola. Ingoio male. Comincio ad avvertire nelle orecchie i battiti cardiaci.
Un altro rumore gli fa da contrappunto. Sono passi, passi di uomo.
Automaticamente, stringo la borsa più forte e accelero, mio malgrado. L’istinto della preda ha acuito i sensi: olfatto e udito, potenziati, si attivano e cercano di intuire l’eventuale pericolo.
Dalle mani, scivolano in terra le chiavi dell’auto. Mi chino a raccoglierle: l’incedere dell’inseguitore si ferma, restituendo il silenzio all’erta di asfalto.
Adesso sono certa del pericolo. Se avanzo mi segue, se mi fermo anche lui si ferma.
Mi prende una rabbia feroce: perché devo avere paura? Perché non mi è concesso di camminare serena per le vie della mia città?
Il Libro della Genesi non la racconta tutta. E Dio disse alla donna: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà» Poi, aggiunse: «Non potrai uscire da sola, la notte non ti apparterrà. Avrai paura, così la festa ti si rovinerà sempre».
No! Non ci sto. Adesso mi volto e lo guardo in faccia. Succeda quel che deve. Basta paura.
Mi giro di scatto. Una anziana signora è china sulle vaschette di alluminio e dispone con cura gli avanzi di una cena consumata da sola, preparata per molti, per i gatti amici.
Alza lo sguardo e mi sorride, sdentata.
Rispondo al saluto alzando una mano.
Mi giro e riprendo a salire.
Non mi sento sollevata: mi sento stupida! E triste. Forse la vera maledizione era un’altra. «Invecchierai, s’afflosceranno i seni, si diraderanno i capelli, ti cadranno i denti, sopravviverai al marito che ti ha dominata e regnerai sui gatti e sulla tua solitudine!».
Afferro le chiavi, salto in auto e viaggio sparata verso il centro, verso le luci.
Andrò a ballare prima che i seni ballonzolino sciatti, mi comprerò le caldarroste prima che i molari non le possano schiacciare e guarderò il Tevere scivolare via nella notte prima che gli occhi siano così pigri da non distinguere più una riva dall’altra.
Infondo, ho già partorito con dolore e servito un marito: voglio dimenticare serpenti e mele.
Oggi mi divertirò ad essere donna senza danno.

*

Carissimo...

Carissimo Lunedì,
mi permetto di darti del tu perché ci siamo incontrati circa duemilacinquecentotrentadue volte. O, meglio, tante sono state le occasioni in cui ti ho visto passare. Probabilmente, in mezzo a tanta gente non ti sei mai accorto di me. Ma io c’ero. Non ho mai voluto mancare all’appuntamento anche se ci sono stati momenti in cui sarebbe stato bene che non mi facessi trovare. Spesso, quando sei arrivato, mi hai trovata sveglia ad attenderti. Erano le domeniche in cui rileggevo nella memoria “Il Sabato del villaggio” ed era un sollievo sapere che tu saresti giunto per tirarmi fuori da quella mancata festa, dal precetto del riposo non rispettato.
Il 3 settembre del 1990 mi hai sorpresa, sposa novella, avvinta al sogno che l’amore sia eterno, immersa tra le braccia dello sposo, cullata dal profumo salmastro dei fiori di Apragopolis, città del dolce far niente. Quanto ero bella mentre, sentendo l’odore della sparita scala fenicia, salivo ad abbracciare Axel, con i capelli lunghi e sciolti che il vento impastava, intrecciandoli alle dita del mio uomo.
Il 26 aprile del 1993 mi hai trovata Eva, a scontare la maledizione ereditata da una curiosa alla quale piacevano troppo le mele, frutto che non ho mai apprezzato. Pare che nel giorno del misfatto con lei ci fossero un serpente astioso ed un uomo succube e spione. Non so bene perché ma, per colpa loro, mentre tu giungevi, stavo urlavo di dolore e terrore. Poi, venne una strega, vestita da dottore che mi disse: “Biancaneve, mangia la mela”. Ancora? “Non mi piacciono le mele”. Comunque, dopo averla addentata, caddi in un sonno di morte. Non fu un bacio a risvegliarmi ma un caldo corpicino tremante che stringeva i pugni appoggiato sul mio cuore, una creatura palesemente scontenta per il fatto che qualcuno, approfittando della mio decesso apparente, l’avesse stanata dal liquido utero e punita con un immeritato ceffone.
Il 25 febbraio di quest’anno sei venuto per me ma non per mia madre. Per lei hai portato due egregi sconosciuti che l’hanno tirata su come un sacco di patate e schiaffata dentro una cassa. Era un bel forziere di legno chiaro, foderato di bianca seta. Il suo vestito a fiori profumava come fosse primavera ed io, di nuovo, ero lì a voler disperatamente credere che l’amore sia eterno.
Baciavo quel viso marmoreo esaudendo il desiderio di una vita, tenuto a bada dai guardiani dei musei, di appoggiare le labbra sui volti delle statue più belle, di accarezzarne i gelidi capelli, di seguirne con puri polpastrelli il profilo, di premere un po’ di più sulle nodose vene per trovarne il battito. No, non c’era battito se non, furioso e soffocante, in fondo alla mia gola.
Domani ancora una volta, sarò all’appuntamento, anche se non ne ho voglia.
Allora, scusa se te lo chiedo, non buttarmi in pasto al traffico e al senso del dovere senza prima avermi salutata, non dico con un carezza ma, almeno, con una schietta stretta di mano.
E, se posso permettermi ed è in tuo potere, tieni a bada le Moire e torna a trovarmi. Poi, per quando arriverà l’ultimo giorno, ti prego, chiedi ad Atropo che recida filo di sabato. Così, finalmente, me ne andrò a ballare.

Sempre tua.

Maria

*

La chiave della felicità

E' notte... il momento giusto per raccontare una fiaba.

Una giovane donna era in procinto di unirsi all’uomo che le era stato destinato. Lo amava e lo rispettava a tal punto da vederlo come un re e per questo, pensando a quale dono potesse offrirgli il giorno del loro connubio, tutto le sembrava inadatto, povero, insignificante.
Allora si recò in cima alla montagna su cui viveva Zule, una donna molto vecchia e saggia, alla quale tutto il villaggio si rivolgeva per avere cure, consigli, conforto. L’anziana veggente proferì il suo oracolo: “L’unico dono degno del tuo sposo è la chiave della felicità. Dovrai trovarla e poi recarti al Tempio della Felicità per ricevere il Talismano, che il tuo uomo dovrà porre sul suo cuore, conservare e rispettare come sacro.”
La giovane disse: “Ma dove trovare la chiave e dov’è il tempio?”
“La prima si trova all’estremo dell’oriente, sulla Roccia della Tigre, conservata in una piccola teca di ghiaccio” - rispose l'eremita –“mentre l’altro è ad Occidente, ma non posso dirti dove: durante il viaggio dovrai provare ad aprire tutte le porte e trovare quella giusta”. Poi tacque e non alzò più gli occhi dalle gialle pietre che continuamente scorrevano fra le sue mani.
La ragazza era quasi disperata: raggiungere l’estremo dell’Oriente non comportava un lungo viaggio, ma trovare la chiave ed il tempio sembravano essere obiettivi irraggiungibili.
Il suo amore era grande, il suo cuore forte, la sua speranza indomita, quindi, partì.
Superò la foresta, il deserto e scalò alte cime nevose. Di giorno il sole bruciava la sua pelle, di notte il gelo la faceva tremare come una leggera foglia percossa da un vento violento.
Un giorno, finalmente, apparve di fronte a lei una grande roccia la cui forma era precisa ed inconfondibile: una testa di tigre. Corse, si arrampicò ferendosi, nella frenesia, mani e ginocchia: la teca era lì e conteneva una minuscola chiave d’oro.
La prese e se la legò al collo con il nastro rosso che le adornava i capelli: strinse il nodo più volte con cura per non correre il rischio di perdere l’oggetto tanto desiderato.
Riprese a viaggiare. Ad ogni porta d’oro, di bronzo, d’argento provava la chiave, ma queste non si aprivano. Cominciò a tentare anche con tutti gli altri usci, anche i più poveri ma nessuno si schiudeva.
Il caldo e l’afa erano sempre più cocenti: presa da una bruciante sete, si chinò presso un limpido laghetto per dissetarsi. Inspiegabilmente il nodo si sciolse ed il nastro lasciò scivolare via il suo prezioso tesoro.
Disperata si sporse sullo specchio d’acqua nel tentativo di ritrovare la chiave e vide, riflessa, la sua immagine: i capelli sciolti, il volto arrossato, gli occhi brillanti che lasciavano trasparire la sua passione e capì.
Era lei il dono prezioso, lei il Tempio, lei il sacro talismano da porre sul petto del suo uomo e, sempre lei, la tanto imperscrutabile felicità.

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A Elissa Didone

Chi ti ha voluta Elissa, chi ti ha chiamata Didone. Anche tu, Regina, non sei scampata al destino delle tue sorelle: o santa o puttana!
Ed allora, eccoti: da una parte fatta dea, assunta al Phanteon, perché ti desti la morte pur di non rinnegare il voto di castità fatto sul corpo del tuo consorte ucciso e, dall’altra, correre impazzita e lubrica come una baccante, perché abbandonata dal tuo amante Enea.
Da donna a donna, credo che potrebbe essere credibile il fatto che tu non fosti né l’una, né l’altra cosa. E, forse, che dotti e storici mi perdonino, neanche sei stata una suicida. Probabilmente ti ammazzarono perché da donna volevi comandare su un popolo di uomini o forse, t’hanno bruciata sulla pira del tuo sposo perché, come usava, il potente lasciava questa terra portandosi dietro tutte le sue cose: la sua armatura, il suo scettro, i suoi schiavi, i suoi cani e la sua donna.
Ma ritornando ai fatti, così come ci vengono narrati, ebbene io preferisco immaginarti scarmigliata e accesa dalla lussuria, disperata al pensiero di ritornare alle tue notti caste, al tuo talamo vuoto. Preferisco pensarti non algida ma spaventosamente bella e torva di passione, incapace d’accettare la volontà di un uomo che, appellandosi ad un improbabile Fato, abbandonava te che gli avevi donato la tua regalità, gli avevi offerto te stessa ed il tuo regno.
Come tutte le donne ti eri fatta porto per il naufrago, terra per l’esule e carne per il negletto per scoprire che ben altro guida il cuore di un uomo e che questi incommensurabili doni sono ben poca cosa per chi guarda altrove.
Allora, benvenuta Didone, lascia che io ti abbracci e ti culli e ti accarezzi i capelli.
Ancora oggi, il fumo che sale dal rogo che avvolge le tue membra sia segno di maledizione per chi disprezza l’amore.

*

Allouì (Halloween)

Ma che dè sto Allouì?
Sta cosa propio nun la ‘ntenno. Sarà fijo de la globalizzazzione che nun me piace puro se sembra fa la rima co’l’integrazzione e, invece, sempre sona co’ la sopraffazzione.
Comunque, co noi romani che c’azzecca? Zucche, scheletri, spruzzi de pommidoro… e che c’avemo bisogno de importà i fantasmi de l’artri?
Ma nun ce lo sapete che Mastro Titta gira co’ na cesta de capocce che gl’urleno li morti, mentre che da Borgo passa er Ponte dell’Angelo e gira pe’ le piazze a riccoglie, co’ ‘na spugna e ‘na secchia, er sangue c’ha versato? E donna Olimpia nun l’avete ‘ntesa, mentre che a Piazza Navona ve ride ‘n faccia e ve fà sbiancà pe’ la strizza?
Ar Portico d’Ottavia, a mezzanotte, Tito e la strega Berenice se basceno e a lui nun gliene frega gniente se la pelle abbruscata puzza de brusciato. Ar laghetto de Villa Borghese, le mignotte beveno vino insieme co’ l’eretici e li ladri e tutti quanti l’altri sconsacrati, compreso quelli che dar Muro Torto, amanti nun riamati, hanno chiuso l’occhi e se so buttati.
E Ninetta che se lascià portà via dar fiume? Nun l’avete mai vista che galleggia, co l’occhi tristi atturcinati ai raggi de ‘n lampione, giallo e tonno, che pare la luna?
Scusate tanto se me fanno ride gli spiritelli ammericani: ar Colosseo se senteno le preci dei cristiani e Cesare compare senza aspettà er trentuno, quando je pare.
Si, poi, è solo pe’ giocà, me piace e puro io me vojo mascherà.
Me vesto da sabbina e, doppo, vedemo si ancora c’è ‘n romano che me viene a rapì, ‘che Roma senza le femmine nun se pò fa!

*

Babajaga

Quando era nata sua madre, nel partorirla, era morta. Vivevano in un minuscolo e sperduto paese che, al tempo, faceva parte della grande URSS. Non c’era un medico che poteva aiutare la giovane donna e la vecchia levatrice non aveva, nonostante la sua esperienza, saputo fronteggiare l’emorragia che l’aveva uccisa. Suo padre, disperato, non aveva incolpato la natura o il caso o Dio per quella tragica morte. Ad uccidere la moglie era stata la figlia, un’inutile femmina che neanche sarebbe stata buona per i campi. Così aveva voluto imporle il nome di Babajaga, “la strega”.
Crescendo, poté sperimentare quanto pesante fosse il fardello che le era stato imposto. Quando usciva di casa, gli altri bambini le tiravano pietre e sterco, schernendola crudelmente.
Persino il pope, non voleva che entrasse nella piccola stanza che il capo del colcos gli aveva concesso per celebrare, di rado e senza troppa pubblicità, le sue funzioni. Quel nome blasfemo e legato a tragiche superstizioni le impediva di venire a contatto con il Sacro.
La comunità umana la rigettava, il padre non le faceva mancare il cibo ma mai le aveva rivolto la parola e non vi era nessuno che avesse per lei una carezza od un gesto gentile.
Così la bambina imparò a vivere nei campi, nel bosco, nella neve. La terra non la rifiutava, anzi sembrava accoglierla benigna. Né il lupo né l’orso l’attaccavano, i sentieri si aprivano davanti a lei e, nella calura estiva, c’era sempre una pianta pronta a coprirla con le sue fronde. Quando era in giro in cerca di legna, sembrava che gli alberi gliela offrissero senza che mai dovesse usare l’accetta per tagliare un solo ramo. Per lei c’era sempre abbondanza di tutto. Crescendo, le cose non cambiarono: le altre ragazze si sposavano, avevano figli ma, benché fosse bellissima, nessun uomo si avvicinava a Babajaga. Anzi, se avveniva qualche tragico evento, tutti la guardavano con sospetto perché il dubbio che fosse stata opera sua era nella mente della gente, seminato nella notte dei tempi e tramandato di padre in figlio.
Un giorno però, successe che una giovane incinta si accasciò nella piazzetta al centro del paese in preda a violentissime quanto premature doglie. Portata in casa, la ragazza urlava stravolta e terrorizzata: il bambino non riusciva a nascere e a nulla valevano gli sforzi delle altre donne. Babajaga, trascinata da una forza invisibile, si recò presso di lei e, incurante degli strepiti e degli insulti delle altre, si avvicinò alla poveretta che era oramai alla fine, in un lago di sangue e sudore. Posò le mani sul suo ventre e chiuse gli occhi. Disse: ”Lo vedo, è un maschio ed il cordone gira tre volte intorno al suo collo”. Tutti ammutolirono. Babajaga tracciò tre cerchi nell’aria e, quindi spinse con tutta la forza che aveva appena sotto lo sterno della partoriente. La levatrice gridò: “La testa!” ed afferrò il bambino, ormai cianotico, traendolo fuori dal grembo materno. Mentre le altre donne lavavano e vestivano il neonato, Babajaga continuò, ad occhi chiusi, a tenere le mani stese sulla madre. L’emorragia cessò ed anche il dolore.
Il suo compito era finito e, senza proferire una sola parola, uscì.
La voce si sparse per il paese ed una processione di persone cominciò a muovere verso la povera capanna di Babajaga. Chi portava uova, chi vino, chi latte, chi spighe dorate di grano. La vergogna ed il rimorso erano sul volto di ognuno. La donna accolse tutti senza un rimprovero ed accettò i doni. A sera, quando gli altri furono rientrati nelle loro abitazioni, venne l’unico uomo del paese che Babajaga non si aspettava di vedere: suo padre entrò, posò il capo in grembo alla figlia e pianse a lungo, in silenzio. Quando ebbe finito, Babajaga si levò, apparecchiò il tavolo di legno, vi pose quanto aveva ricevuto in dono e cenarono insieme, per la prima volta dopo trenta anni.

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La donna del deserto

In una zona desertica del Messico viveva una donna. Il corpo nervoso, la pelle bruna, capelli corvini, selvaggi ed incolti. Incedeva con passo a volte così lento che chi s’era nascosto per spiarla tornava sui suoi passi perché era impossibile per chiunque attendere tanto tempo ed altre, invece, correva come la leonessa: un attimo era lì accovacciata in terra ed una frazione di secondo dopo, era scattata così in avanti che chi s’era nascosto per spiarla tornava sui suoi passi perché era impossibile rincorrerla né carpire con lo sguardo dove sarebbe finita la sua corsa.
Eppure, nel villaggio, c’era chi diceva di averla vista in volto. Chi la descriveva vecchia e rugosa, chi giovane e bellissima. Ma tutti ripetevano la stessa cosa: i suoi occhi erano terribili, un pozzo nero che chissà dove avrebbe potuto condurti, uno sguardo penetrante che ti spogliava fino alle ossa e oltre, fino all’anima, un bagliore feroce di luna nel buio dell’ iride che ti lasciava senza fiato né coraggio.
D’inverno vestiva di pelli d’animale e d’estate di foglie rubate chi sa dove.
I più anziani solo sapevano la verità. La donna era una curandera mazateca. Era una potente sciamana. Fin da piccolissima era stata scelta dal suo maestro perché, appena partorita, non aveva pianto e sua madre non aveva cacciato un solo urlo quando lo sciamano le aveva tagliato il ventre perché quella figlia non voleva nascere come tutti gli altri figli. E la ferita, quando gliel’avevano messa accanto si era richiusa da sola.
Quella bambina sarebbe diventata una sciamana. Per lei non c’era stata infanzia, né spensieratezza: l’apprendistato era stato lungo e difficile, le iniziazioni dolorose e, spesso, pericolose.
Ma alla fine era diventata una potente curandera: poteva ingerire i niños sagrados(1) in grande quantità e i suoi viaje erano bellissimi: quando cantava per entrare in trance dalla sua bocca uscivano meravigliose poesie.
“Donna che tuona io sono, donna che suona
Donna-ragno io sono, donna colibrì io sono…
Donna aquila io sono, donna aquila importante io sono.
Donna mulinello del turbine io sono, donna di un luogo sacro, incantato io sono,
donna delle stelle cadenti io sono…”(2)
Per completare la sua velada, danzava: l’ingestione del San Isidro(3) doveva essere accompagnato dal canto e dalla danza perché guarire è un’arte e un'arte che non è in grado di guarire è inutile.
Poi, iniziava la lotta mortale con gli invisibili alleati da cercare nell'altro mondo: non tutti erano disponibili e lei doveva combattere e sopravvivere per costringerli ad aiutarla a guarire o a leggere nel futuro.
Era divenuta potente sapeva invocare fuoco, terra, acqua e cielo. Poteva guarire gli inguaribili e vedere dentro le anime, passando attraverso gli occhi.
Al di là dell’aspetto spaventoso che poteva assumere era una donna buona, invisa ai brujos che, avidi di guadagno, se pagati compivano ogni sorta di maleficio. Non chiedeva denaro ma solo il rispetto della sua gente.
Poi, arrivavarono i bianchi: americani, europei. Carichi del loro sapere, della loro medicina, dei loro soldi e della loro religione: non potevano ammettere che qualcuno potesse guarire il corpo passando per l’anima, parlando con invisibili entità abitanti altri mondi. Erano interessati al potere dei niños sagrados perché potevano venderli spacciandoli per felicità. E non la ascoltarono: i funghi non dovevano essere sottovalutati, non potevano essere ingeriti per scopi superficiali. La sciamana lo sapeva bene: notti e giorni di digiuno ed astinenza avevano nella sua vita sempre preceduto l’assunzione del San Isidro, perché se non si è puri il fungo può ucciderti. E cosa c’era di puro in quegli uomini tronfi, ignoranti, che la trattavano con tanto disprezzo? Eppure lei li aveva messi in guardia, persino di fronte a tanta superbia non aveva potuto fare a meno di tentare di guarire.
Ma i bianchi dissero che era pazza e la rinchiusero in un manicomio. E la interrogarono e fecero su di lei esperimenti. Ogni tanto uno di loro veniva e la attaccava ad una strana macchina. Un pezzo di cuoio fra i denti e, poi, le scariche elettriche. Ma cosa poteva fare la macchina a chi aveva mangiato fulmini e danzato nei turbini del vento?
Finalmente, un giorno, la misero fuori e fuori tutto era cambiato: il villaggio, la gente. Il potere aveva ucciso la fantasia ed i soldi la vera fede.
Così la sciamana aveva lasciato il suo popolo ed aveva scelto il deserto come dimora.
È ancora lì, non si lascia accostare se non dalle bestie e non cura più nessuno, ma solo perché nessuno la va più a cercare.

1) Funghi allucinogeni
2) Canto mazateco di Maria Sabina, curandera mazateca
3) Psilocybe cubensis mazateca

*

Prostituzione

La macchina si avvicina, il finestrino si abbassa con un impercettibile sibilo, dal nero abitacolo la voce sconosciuta, sbrigativa, chiede: <<Quanto?>>.
Mi scuoto dal freddo che mi intorpidisce i piedi ma non i pensieri.
<<Dipende da quello che vuoi? Cosa ti vuoi scopare: il cervello, il cuore o vuoi “il solito”? La tariffa cambia.
Oppure sei di quelli che vogliono un servizietto veloce: perché c’è il sovraprezzo per lo schifo! La pretesa che paia che mi piaccia ha un suo prezzo.
Per favore, ho bisogno di sapere se sei già esperto o devi imparare tutto. Se sei qui per imparare non posso aiutarti. Questo è lo statuto della nostra cooperativa sociale “W.O.R. – Women On the Road”. Purtroppo, non abbiamo avuto l’autorizzazione per fare formazione. Risorse umane adeguate e tecnologia a posto ma la ASL non dà i permessi per i locali: automobili, fratte e camere di hotel non hanno la giusta cubatura e non rispondono alle norme sulla sicurezza. Tieni, leggilo.
Se sei minorenne, ho bisogno dell’autorizzazione dei tuoi genitori o tutori, se sei “over 65” del certificato dei servizi geriatrici con annesso elettrocardiogramma sotto sforzo, altrimenti basta un certificato di sana e robusta costituzione.
Se vuoi usufruire dei servizi in un ambiente confortevole questo è l’elenco degli hotel: min 30 euro/max 150 euro.
All’albergo “Exstacy” c’è il sovraprezzo per il servizio in camera. Questo è il listino. La direzione si fa garante della qualità della roba. Attento, perché quella segnata in blu potenzia, quella in rosso sballa e non è detto che dopo ti ricordi. Se scegli la rossa mi devi pagare in anticipo.
All’ “Energy” puoi usufruire della “Suite California”, accessoriata con vasca Jacuzzi “kin size”, cromoterapia ed aromaterapia in dotazione.
All’”Eden” puoi trovare ceste di frutta (mele col bollino) e camere da letto dotate di camino e pelle d’orso (ecologica… la cooperativa è ambientalista).
Il “De Sade” offre letti di pietre roventi o ad aghi, abbigliamento in ecopelle, manette, frustini all inclusive. Se vuoi la Suite “Fetish” paghi un extra di 100 euro ma puoi avere scarpe, tacchi a spillo, ciabattine, calze con riga, collant e, a fine serata, un rito di adorazione piede.
Se hai scelto, questa è la scheda cliente: sei il numero 1034. Indica bene la prestazione, sai, per la fattura.
Intanto questo è il modulo per la privacy: due firme, una a pagina uno l’altra all’ultima, in fondo.
Dimenticavo: questo è il questionario di gradimento cliente. A fine serata dovrai restituirmelo compilato. Siamo certificate. Il nostro motto aziendale è “Il tuo piacere è il nostro piacere”. Aiutaci a migliorare la qualità dei nostri servizi. Se, poi, manderai un SMS con scritto “VENGO” al numero 899 144 166, potrai partecipare all’estrazione mensile di un viaggio in Thailandia. Contento? >>.

*

E’ cascata mamma!

Mi scuso con voi che leggerete e con mia madre che da lassù scuoterà la testa perchè ho scritto tante parolacce e l'ho fatta parlare in romanesco. O, forse, chissà, ora sorride di questa testa calda di sua figlia.
M.M.

S’è ‘nteso ‘n botto, senza manco ‘n fiato. “Oddio… mamma!” La cucchiarella m’è cascata dalle mano, so corsa e l’ho trovata a terra.
Sembrava Gesù Cristo quanno l’hanno tirato giù, sotto alla croce. ‘Na goccia de sangue giù pe’ la tempia, l’occhi spauriti, le braccia e le gambe abbandonate, poggiata ar muro come quer sordato che ito piano giù doppo che l’hanno fucilato.
È viva, me so detta, e piano piano me so messa a sede puro io. “Che hai fatto ma’? Pecchè nun hai chiamato?” - “C’era er pescetto drentro a quella boccia e quanno so passata ha fatto ‘n sarto e m’ha salutato… carino, dorce… m’ha salutato” – “Cazzo, ma’… er pesce… te saluta… Fatte vede, dove te fa male?” Dove gliè fa male! Er core gliè fa male se se commove perché no schifo d’animale gl’ha fatto ciao. A ma’, ma quanto sei sola chiusa drentro alla nebbia degl’anni già passati, dei ricordi che se mischieno, dei posti che nun arriconosci più?
“Nun te spaventà che nun è gnente, fra ‘n po’ me tiro su”
Lo sai, ma’, chi mai ricordato? Quella della storia, quella della canzone: sì, insomma, quella… la madre del bastardo che doppo aveje aperto er petto, gl’ha strappato er core e poi s’è messo a core perché doveva da portallo alli cani della troja sua, pe’ daje da magnà. Poi, mentre che correva era cascato e er core della mamma aveva parlato: “Te sei fatto male, fijo?”
A ma’: tu caschi, sanguini, ‘n sai manco ancora se te poi riarzà e penzi a me? No, ma’, così nun va: devi penzà ‘n po’ a te, almeno adesso piantela de’ mette sempre innanzi l’altri. Incazzete, urla, bestemmia. Lo so nun sei capace: nun te l’hanno imparato. Puro adesso che sei rincojonita, quando che soffri te preoccupi che l’altri nun se ‘ncomodino troppo.
E io te sto a guardà come ‘na stronza: stai pe’ terra, te la sei fatta sotto per dolore, ciai l’occhi languidi e annaqquati, te vergogni ‘n po’ de fatte vede, così ridotta, dai fiji e dai nipoti. Solo mi padre nun te porta scanto. Lui ce lo sa, lui te capisce: è vecchio e stanco e mo gliè viè puro da piagne, che nun lo po’ vedè l’amore suo, la più bella der monno, buttata sur pavimento come ‘na cartaccia ciancicata.
Adesso me direte: “Ma che ce stai a riccontà? Che c’è de’ strano: i vecchi cascheno, i vecchi moreno. ‘Ndo sta la novità?” La novità è che quella è mi madre e puro se ve sembro antica o strana, nun me ne frega gnente. Glie vojo dedicà ste du’ parole stentate prima che sia finita la storia della vita.

*

Fuga

Lasciatemi andare, fuggire. Correre, correre fuori da questo letto, fuori da questa casa, fuori da questo corpo.
Le vostri mani si aggrappano alle braccia, alle gambe, cingono le ginocchia, non mollano la presa.
Mi divincolo come un unicorno caduto nei lacci di bracconieri impietosi. E, urlate: sei mia, mia, mia, mia.
Come caduta in un’orrida fiaba, scritta da un pedofilo che gode a spaventare i bambini, sono ghermita dai rovi della magica foresta e le mie vesti si impigliano ovunque. Le strappo, lacero gli abiti e la pelle ed ogni spina è una goccia di sangue e di sale.
Dormite e nel sonno diventate potenti, più forti tendete le corde, sognando ch’io resti, mettete pesanti catene a polsi e caviglie.
E come siete tragicamente belli, inconsapevolmente crudeli.
Pietà: io non posso restare.
Lasciate il mio corpo che l’anima è fuori e grida che rivuole occhi e mani.
Gridando io fuggo, mi svincolo e fuggo.
Ed eccomi fuori, oltre tutto, oltre tutti.
Nella mia capanna mi spoglio , mi lavo, mi accuccio tremante davanti al mio fuoco.
E dentro al silenzio mi tocco, percorro il mio corpo per capire se sono una donna o una bestia. Il ventre, i fianchi ed il seno.
Poi arrivo alla bocca: che cosa nasconde la bocca? Denti aguzzi, ferini che stringono forte un brandello di carne.
La mia.

*

L’oscuro sacrificio.

Ero lì sulla ghiaia. Distesa a pelo d’acqua, godevo il filtrare dei raggi di sole attraverso il turchese salmastro. Sfuggita al caos delle località sarde amate dai vip, potevo gustare la fredda corrente di questa piccola baia rocciosa.
Sono in Paradiso, pensavo. Niente faceva presagire che fossi, invece, finita all’Inferno. Un’ombra minacciosa oscurò il sublime connubio cielo/mare ed ebbi solo il tempo di sentire la paura fluire in ogni mia fibra.
Mi ritrovai legata, impossibilitata a difendermi.
Non so quanto tempo passò: ricordo mani nodose e puzzolenti afferrarmi. Riuscivo a vedere ombre bianche in continuo movimento fra piccoli fuochi accesi. Poi, inorridita, mi resi conto che il demone candido mi sodomizzava con qualcosa di scricchiolante e ruvido.
Perché questo oltraggio, questa tortura?
Quale rito satanico stavano celebrando?
Ma il mio tormento prevedeva ben altra atrocità.
Venni innalzata su un calderone e, poi, immersa dentro ad una specie di lava giallastra. Il dolore era insopportabile. Tentavo di emergere ma una mano mi spingeva sempre più in fondo, premendo violenta il mio capo sul fondo. Il liquido bollente passava di strato in strato fino a raggiungere ogni mia cellula. Un supplizio lento e feroce mi stava uccidendo.
E nell’istante in cui seppi d’essere morta accadde l’imprevedibile. Staccata dal corpo, mi libravo nell’aria e potevo vedermi distesa, immobile e paonazza, su un letto di legno.
Quale peccato avevo commesso perché neanche la morte potesse donarmi il ristoro ed evitare che assistessi allo scempio?
La blasfema liturgia continuava. La mano crudele alzò un affilato coltello e squarciò il mio corpo senza vita in senso longitudinale. Estrasse le viscere e, quindi, le tenere carni.
L’orrore era infinito.
Eppure, la stessa mano, come quella di un sacerdote egizio, riprese le carni, ridiede forma al corpo, pietosa lo compose e l’ornò di verdi fronde. Infine, lo depose in un prezioso sarcofago.
Una commozione mi prese: piansi sul mio martoriato corpo, consolata dall’atto finale.
Ma questo conforto durò ben poco.
La salma venne sollevata e posta di fronte ad un mostro vorace che ne divorò ogni singolo pezzo, succhiando oscenamente le membra.
Finito il suo pasto, si deterse la barba atra ed unta e, sghignazzando con i giganti suoi commensali, levò un calice colmo di vino, osannando la perizia del mio assassino.


RICETTA
In una pentola capace mettete acqua, sale, pepe, cipolla, carota, prezzemolo, due foglie di alloro e tre cucchiai di aceto.
Con un pezzetto di carta arrotolata otturate il foro posteriore dell'aragosta viva e, quando l'acqua bollirà, immergetela con forza dalla parte della testa.
Coprite e fate cuocere per 30 minuti.
Lasciate raffreddare l'aragosta nel brodo di cottura, scolatela, asciugatela, dividetela in due parti infilando il coltello nella parte superiore della testa facendovi un taglio nel senso della lunghezza fino alla coda.
Eliminare il budellino, togliete la carne, tagliatela a fette, rimettetela nel guscio e riempite il vuoto della testa con ciuffi di prezzemolo.
Decorate i due mezzi gusci con maionese e foglie di lattuga.
Decorate il piatto con fette di uova sode e con pomodorini crudi ripieni di maionese.

*

Un giorno memorabile

Si sentono i soliti rumori in questo giorno d'estate: il vento, le cicale, il ritmico tonfo delle pietre con le quali colpisco il tronco dell'albero.
Sto attento a non mirare dove ci sono i nidi. Gli altri ragazzi mi prendono in giro per questo e mi chiamano "femminuccia" A me non importa: non li ammazzo gli animali! Solo la faina perché viene a fare strage nel pollaio.
Entro nel capanno degli attrezzi per cercare un po' di fresco. Intanto, mastico una foglia di citronella.
Una folata più forte delle altre mi porta un odore diverso: è acre, cattivo, sa di fuoco.
Mi precipito fuori. Da lontano si vede una striscia giallo arancione, una retta esemplare che sembra l'abbia tirata con la riga e la squadra un gigante geometra.
Urlo: "Che succede?" Dal nulla una voce risponde: "Il vecchio scemo s'è ubriacato e ha incendiato l'erba secca!"
Mi prendono la paura e la frenesia. La linea viene avanti, perfettamente perpendicolare ai due filari di pioppi che fiancheggiano una lunga e larga lingua di terra che passa davanti alle fattorie.
Di fronte alla nostra c’è la vigna di Malvasia. È la più antica del nostro vigneto: la piantò il padre del padre di mio padre.
“Pa’, corri, corri. Il fuoco!”
Niente, pare che in casa non ci sia nessuno.
“Pa’. Il fuoco, arriva il fuoco!”
Mentre continuo a chiamare, corro dentro ed attacco un lungo tubo al rubinetto della vasca dove mia madre lava i panni. I manicotti grossi, quelli che pescano nel pozzo, li usano i grandi. Anche io, però, voglio fare la mia parte.
Adesso il miagolio lontano delle fiamme è divenuto un ruggito.
“Pa’, corri ti dico!”.
Apro l’acqua e mi precipito fuori.
Due colonne di uomini armati di pale costeggiano i filari d’alberi tenendo a bada la vampa con la terra e il fuoco gli ubbidisce. Va avanti lento, senza lasciare sbavature.
In mezzo agli altri c’è mio padre.
“Che fai lì fuori ad infradiciarti i piedi. Entra dentro, scemo, che il fumo fa male!”.
Gli altri contadini ridono. Lui, si tira su il bavaglio e ricomincia a spalare terra.
Ormai la vigna si contorce e geme. Rimango atterrito come se stessi guardando la pira che divora il corpo martoriato del prode Ettore. È come il disegno sul libro di scuola.
Mia madre, intanto, chiude l’acqua che continua a schizzare dal tubo che ai miei piedi si muove rapido come un serpente.
Mi prende per le spalle e, senza dire una parola, mi porta in casa.
Non riesco a calmarmi. Mi vergogno della magra figura che ho fatto: doveva essere un giorno memorabile, eroico, una specie d’iniziazione ed è diventato la giornata nazionale del babbeo. Questa sera, in osteria, avranno un altro zimbello. Ora siamo in due: lo scemo del paese ed io.
Ma anche l’orrore non mi abbandona. Serpi, topi, insetti schizzavano fuori di sotto i pampini come avessero visto il demonio in persona. Le foglie si accartocciavano, gli acini acerbi friggevano, le piante cadevano l’una sull’altra e tutti quegli splendidi colori si annientavano tingendo il rosso di nero.
Non mi accorgo che si è fatta sera. Mio padre varca la soglia, sporco come uno spazzacamino e soddisfatto come l’anno in cui, del raccolto, non si perse neanche una spiga.
“È fatta. Vado a lavarmi”. Mia madre annuisce e comincia ad apparecchiare la tavola. Non mi muovo: questa sera lascerò che faccia tutto da sola. Almeno in questo voglio prendermi la mia rivincita di uomo.
A tavola mio padre racconta mentre io, senza ascoltarlo, disegno circoli con la forchetta nel piatto che rimane pieno. Ad un tratto si interrompe.
“Non hai fame? Stai male?”.
Non rispondo, non alzo neanche gli occhi ma già so che i suoi sono diventati foschi ed il sangue gli è salito ad irrorare le guance.
“Ti ho fatto una domanda?”.
Ma riesco solo a rispondere con un’altra domanda. “Perché?”.
Mia madre lo guarda dritto negli occhi. Tace ma sa essere eloquente.
Ancora con l’ira che distorce la voce, inizia a spiegarmi che di lì passerà una grande strada, che tutti hanno preso bei soldi e che ora verrà tanta gente. Dovrà pure mangiare e dormire. Un funzionario della Regione gli ha promesso un contributo per aprire un agriturismo. Saranno altri soldi, soldi sicuri che non basta una grandinata per portarseli via.
Più calmo, riprende a mangiare.
Non ha capito, come sempre non ha capito. Credo di urlarglielo contro ma lo sto solo gridando a me stesso: “Perché non me l’hai detto? Perché mi hai trattato da imbecille davanti agli altri uomini? Perché non mi hai lasciato il tempo di dire addio a quel poco che rimane della mia infanzia? Non ti sei accorto che non sono più un bambino?”
Mia madre si avvicina, mi toglie il piatto da davanti e mi versa due dita di vino.
Alzo la testa fiero: lei lo ha capito che sono cresciuto.
Subito, però, la riabbasso paonazzo. “Certo che lo sa, cretino. È lei che cambia le lenzuola in cui dormi e ti lava le mutande!”

*

Céleste

Voi che visitate la Cattedrale, che a capo scoperto ed in silenzio contemplate, siete i benvenuti.
Il mio nome è Céleste e vivo qui. Mio compito è accogliervi, aprirvi le porte del Tempio.
Non vi è stato facile arrivare sin qui; la Cattedrale si può scorgere soltanto di notte: all’alba scompare, per ricostruirsi magicamente al prossimo imbrunire. Solo chi è capace di vegliare potrà immergersi nell’eterno compiuto/incompiuto. Agli altri è dato solo di vederne la riproduzione.
Monsieur una notte mi disse: "Vedete, Céleste, io voglio che, nella letteratura, la mia opera rappresenti una cattedrale. Ecco perché non è mai completa. Anche se già innalzata, occorre sempre ornarla d'una cosa o l'altra, una vetrata, un capitello, una piccola cappella che si apre, con la sua piccola statua in un angolo"
Ah, Monsieur: non posso dimenticare il vostro grido. Era come se mi diceste: “Céleste, ma chère Céleste, mi avete tradito. Non volevo accanimento terapeutico. Niente iniezioni, Céleste, avevo detto niente iniezioni” Ma come lasciarvi con quella enorme, orribile donna venuta a ghermirvi? Come non tentare di oscurare la vostra telescopica vista che vi infliggeva quest’ultima visione mostruosa? Sento ancora il dolore alla mano che mi stringevate con tanta forza.
È un dolore amico perché mi tiene unita al dolore di Monsieur, il dolore di una vita.
Pardonnez-moi, mes amis, perdonatemi se il pensiero ritorna agli ultimi attimi dell’esistenza terrena e mi distoglie dal mio compito.
Ma anche questi miei ricordi vi aiuteranno a capire, comprendere, per prima cosa, il perché questa visita cominci dall’ultima vetrata posta a decoro della Cattedrale.
Ecco. Qui potete ammirare il Tempo Ritrovato. Mirabile il cesello, incredibili i suoi colori.
Dopo aver guardato con meraviglia l’insieme, osservate il particolare: una parola, una sola. Fine.
Monsieur, benché pensasse alla sua opera come ad una delle grandi chiese che tanto amava, era terrorizzato dall’idea di non avere il tempo di concluderla.
In questo, almeno in questo, è stato esaudito.
Alle tre mi mostrò il manoscritto e disse: “Ora posso morire”. Quella stessa notte, l’orrenda donna, che nessuno poteva scacciare, venne a cercarlo.
Otto anni, una lunga notte durata otto anni. In quella stanza dalle pareti strappate alla quercia, Monsieur scriveva e si consumava: per la sua arte è vissuto ed è morto.
A me il compito d’essere l’unica sua confidente, di vegliarlo, di stare in pena per lui, di rimanere in piedi nel corridoio, appena fuori dalla porta della sua camera, pronta a rispondere al tintinnare del campanello, pronta ad adempiere il suo ultimo comando: “Sarete voi che mi chiuderete gli occhi”.
In seguito, credendo di aver fatto tutto ciò che dovevo, tornai alla mia vita, serbando nel cuore la cronaca di quelle notti.
Ma il mondo non è una Cattedrale, non vi regna il silenzio.
Fuori dal Tempio i mercanti svendevano la morte di Monsieur: bugie, invenzioni, fantasie.
Per questo, dopo anni di silenzio, decisi di consegnare alla storia i miei ricordi.
Per questo, ora, mi è concesso di abitare le notti della Recherche perché anche voi conosciate la verità sugli ultimi anni di Monsieur Proust, perché impariate che la sua grandezza non si disseziona come foste un anatomopatologo né si osserva al microscopio. La Recherche si contempla dalla cima di una ziggurat, con l’amore e la mente aperta all’infinito dell’astronomo, con l’umiltà del sacerdote. Ma, nello stesso tempo, come davanti ad una tela di Monet, la si percepisce socchiudendo le palpebre.
La notte volge al termine e devo separarmi da voi.
Un’ultima cosa, la Cattedrale conficca le sue fondamenta dentro tutti coloro sappiano amarla. In voi è la Recherche, in voi il tempo perduto, in voi il tempo ritrovato. Nelle vostre mani il caleidoscopio degli amori di un amore di Swann.
Ed ora, dimenticate Céleste, ché il calice è stato svuotato.











Si ringrazia Gabriella Alù, autrice del sito www.marcel prou

*

Una donna senza corpo

UNA DONNA SENZA CORPO
Ovvero “Sul come mettere un corpo attorno ad un cervello”


Per anni mi sono sentita come un cervello abbinato ad un cuore e null’altro.
Ogni specchio, ogni superficie riflettente, persino ogni fantasia o sogno mi restituivano un’immagine sfocata , intuibilmente goffa ed inadeguata.
Come per un aborigeno, ogni foto mi rubava l’anima perché ritraeva quel corpo che non era mio, che non mi rappresentava e me lo imponeva, me lo consegnava malgrado il mio rifiuto.
Una tortura: come in “Arancia Meccanica”, venivo punita per il crimine di non essere bella attraverso la costrizione a guardarmi. Legata e nell’impossibilità di abbassare, pietose, le palpebre dovevo guardarmi perché altri conservassero il loro diritto a fissare nel tempo i ricordi.
Troppo intelligente ed orgogliosa per confessare a chiunque che quel corpo non era il mio, mi condannavo alla castità ed al solipsismo, pur di non dover scoprire quella disarmonica composizione di arti.
Così cervello e cuore crescevano a dismisura, elaborazione ed abnegazione facevano di me una persona da includere, malgrado il mio aspetto.
E il corpo sfumava sempre di più, si allontanava da me, viveva un’esistenza autonoma esercitando il sacrosanto dovere di tenermi in vita.
Gli concedevo l’indispensabile: un adeguato numero di pasti, di lavaggi, di ore di sonno. Ogni tanto un contentino: una superflua permanente, una veloce depilazione, qualche palliativo per aggiustarlo quel tanto che bastava.
Ero favorita in questo: una solida educazione cattolica e sessuofoba ed un inprinting adolescenziale di sano femminismo tenevano a bada lo scomodo involucro.
Ma lo scriteriato, a volte, impazziva e voleva ricongiungersi a me, chiamandomi a gran voce: voleva essere accettato.
“Sei brutto: nessuno ti vuole! Al massimo puoi essere considerato un optional non richiesto ma, comunque, compreso nel pacchetto”.
Poi, inaspettato, è comparso lui, al quale bastava guardare quel corpo ridondante, morbido, pannoso per salutarlo nel più esplicito dei modi. E le sue generose e subitanee risposte convincevano cervello e cuore che quel corpo andava ripreso in considerazione.
A lui piaceva con tutte le sue curve, i suoi rilievi, i suoi soffici avvallamenti.
L’ho riammesso al mio cospetto e l’ho curato, perché piaceva a lui.
Finalmente riuniti perché amati, il mio corpo ed io viaggiavamo insieme.
E, per anni, è andata bene così, anche se rimaneva il dubbio che fosse qualche strana perversione a guidare il gusto e la scelta di quest’uomo che desiderava il mio corpo. Ma tant’è…
Un giorno, fulmineo, lo squasso: l’ammasso di carne mandava segnali sempre più forti al cervello. Dolorosi e continui input conducevano mente e cuore nel tunnel del panico. Ed in fondo al tunnel c’era ad attendermi la morte.
Il ribelle non voleva cedere all’imperativo categorico della volontà.
Vibravo scossa da un virtuale elettroshock per, poi, sentire il corpo lasciarmi pezzo a pezzo: prima le labbra, poi il resto del viso, una mano, l’altra, un piede, la gamba…
“Ci sei, ci sei: lo so, ti sento. Ma lasciami in pace, per pietà, lasciami riposare. Oramai sei tornato con me da anni”.
Ma, ormai, il corpo non aveva più remore: poteva possedere il cervello ed, attraverso il cervello, far giungere il suo urlo sino al cuore.
Così, costretta dal mio padrone, ho cominciato il mio viaggio. Sono tornata indietro raccogliendo ogni pietra, ogni lacrima, ogni goccia di sangue versato, ogni minuto sottratto, ogni piacere negato. E, dopo, di nuovo, ho rifatto la strada, ho superato il punto dove il corpo mi aveva inchiodata alle mie responsabilità. E, finalmente, sono andata avanti.
E più camminavo e più cambiavo e più cambiava il mio corpo.
Oggi non sono arrivata e nemmeno felice ma il mio corpo ed io stiamo insieme e, finalmente, lo riconosco: è mio, anzi, lui è me.
E se mi guardo, mi piaccio.

*

A Ninetta

Cara Ninetta, o Marinella, o quale che sia er tuo nome,
che te devo da di’? Gnente. Te sei buttata, amen e così sia.
Ma come te capisco!
L’ommini t’hanno scritto canzoni e poesie.
Ma eri morta, che te ne facevi? Perché nun l’hanno scritte mentre che c’eri, mentre che stavi ad aspettà ‘na parola, un gesto, ‘n’emozzione? Perché nun t’hanno presa fra le braccia e t’hanno detto: zitta, nun piagne, viè qua che mo’ t’abbraccio e asciugo tutto er freddo che te scote? Perché nun t’hanno detto che eri bella? Perché nun t’hanno dato quer ber fiore che tu aspettavi sempre, a tutte l’ore? Perché t’hanno trattata da pupazzo? Boh, nun lo so.
Forse hai chiesto ‘n fiore a chi nun c'aveva manco er core, forse nun hai capito che la vita nun te regala gnente, che ‘na sfida, che devi restà viva pe’ te stessa, puro quanno te senti sola e perza.
O forse avevi già capito che tutto é ‘na buscia.
Te sei buttata. Amen e così sia.

*

Catena di Sant’Antonio

Ieri mi è arrivata la solita catena di Sant’Antonio, che come al solito ho cestinato.
Cito testualmente, senza interferire con lo stile e la correttezza grammaticale dello scrivente:
“una notte Enry Batterson , un ragazzino inglese, ricevette questa e-mail , la leggette, e subito dopo, facendo finta che era solo una stupida catena, si mise a letuto, si addormentò, ma lui non stava sognando... non era nemmeno sveglio, e neanche svenuto, era morto... I dottori non capirono mai per quale motivo morì, la cosa strana è che dietro la testa aveva un buco, nel quale, si nascndeva un piccolo fogliettino : DOVEVI CREDERCI! ... c'era scritto... nemmeno la scientifica ce la fece a scoprire questo folle delitto... ma qualche anno fa, venì tutto a galla.... Era stata QUESTA e-mail ad ucciderlo, è come la cassetta di THE RING, dopo averla vista si muore, ma non dopo 7 giorni, ma la notte stessa...
Molti non ci credono a questa storia, e fanno male, perchè in questi anni non è morta solo una persona, ma ben 39 ragazzi, tutti con un foro nella nuca.... Spedisci questa e-mail a 50 persone, non di meno, perchè LUI non risparmia nessuno, sa se l'hai inviata o no a 50 persone, anche solo se la invii a 49 persone sei morto... inviala e basta, non raccontare a nessuno di questa storia... oppure ti accaderà una cosa molto, ma molto spiacevole questa notte
mille scuse io non rischio”
***
questa mattina mi sveglio: un sapore dolciastro, inconfondibile, mi invade la bocca e le nari. Con le mani raccolgo tremante il liquido rosso che cola copioso dal capo. Cerco il buco: è lì, proprio sopra alla nuca. Infilo un dito nell’orripilante pertugio e lenta sfilo un lercio foglietto. Ma non riesco a leggere nulla: è troppo imbrattato di sangue e materia grigia.
Chiamo la scientifica, i RIS, CSI Miami, CSI New York, NCIS, Criminal Minds, Buffy l’ammazzavampiri, Walker Texas Ranger, l’Ispettore Clouseau e la Morgue (bisogna essere previdenti).
Arrivano tutti, tranne Buffy che con un sms mi fa sapere “cioè marì io popo ke t piscio…è trpp una pezza..se vedo sangue sbratto tipo d brutto! C si bekka” (traduzione: “maria scusa ma non ho la minima intenzione di venire perché solo il pensiero del sangue mi dà la nausea”).
Cominciano a versare polverine, spengono la luce ed accendono strane lampade azzurrognole, inseriscono in sofisticati marchingegni termicodinamicoelettroniconucleari capelli, pezzi di cuoio capelluto, brandelli di federa, il laccio di una mia scarpa da ginnastica ed un pelo del gatto.
Nel frattempo, costernata, mi chiedo come mai sono ancora viva.
Una donna poliziotto mi offre una mega tazza di schifoso caffè americano e una frittella al succo d’acero. (Dieta leggera: uova e pancetta sono sconsigliate ad un moribondo non yankee).
Indiana Jones mi dà l’ultimo bacio: decisamente meglio dello sciroppo d’acero!
Dalla mia reazione direi che , infondo, forse non sto morendo. Poi, sono passati tanti anni da quando ricevetti per la prima volta la woodoo mail e la scienza ha fatto passi da gigante, cura del raffreddore e della diarrea a parte.
Finalmente, una raggiante tuta bianca, mi svela il contenuto del foglietto:
“Leggere parole quali <<leggette, letuto, fogliettino, venì, accaderà>> MI HA TRAPANATO IL CERVELLO!”
È chiaro: non è stata la catena maledetta, ho somatizzato il dolore per la morte della sintassi e dell'ortografia.
Chiedo, perplessa, come mai il mio bigliettino non si leggesse e come faccio ad essere ancora viva con un buco in testa.
Henry Batterson nel cranio non aveva nulla, neanche Acqua Paola, quindi la carta non aveva subito danni. La mia testa contiene, seppur piccolo perché femminile, un cervello ed è grazie a lui se sono viva: ha fatto da barriera.
Tiro un sospiro di sollievo per, poi, ripiombare nella più oscura disperazione.
Ho raccontato questa storia a tutti voi: circa trecento possibili lettori al giorno.
Mi accadrà una cosa molto, ma molto spiacevole questa notte… o, forse, domani quando leggerò i commenti!

Si ringraziano:
Google per i nomi dei telefilm
Mia figlia per la traduzione dall’italiano all’smsaggese. A lei dedico questo racconto.

*

Notturno

La luna ha sfondato le chiome del possente platano ed ora illumina i volti, ingialliti dai lampioni, dei miei due amici.
Volti belli ed amati, volti sani ed immacolati, volti soavi.
La notte ospita complice le confidenze che ci scambiamo, i nostri desideri, i nostri progetti, i nostri aneliti di libertà.
Il pensiero, come la pallina di un flipper illuminato, ribalza dagli occhi dell'uno al sorriso dell'altro alle mie mani inanellate e nervose. E sul display i punti accumulati continuano a salire fino ad annientare il punteggio migliore.
I nostri calepin si riempiono di parole senza neanche aprirli.
Passeggiamo. I miei tacchi faticano a tenere il passo elastico delle scarpe da ginnastica ma mi piace inseguire la voglia di vivere.
Ed ecco, di fronte alla Basilica, le campane suonano a mezzanotte, colpite dal batacchio delle nostre risate, svegliando la voglia di vedere il sole del prossimo mattino di luce.

*

La casa del tempo

La strada della metropoli mi corre incontro, mentre anche noi corriamo. Piove, ma neanche ce ne accorgiamo. Corriamo in mezzo ad altra gente, urtandola, schivandola, senza neanche guardarla.
Abbiamo ingaggiato una folle gara con il tempo: abbiamo fretta di arrivare.
Sto sfidando le ore che rincorro sull’angusta pista circolare di un virtuale quadrante. Non frenerò fino al giorno in cui finalmente avrò raggiunto e superata la prima lancetta. Temeraria, mi fermerò per guardare, trionfante, l’avversaria ormai vinta.
Non voglio pensare a quello che succederà nel momento in cui potrò contemplare la mia vittoria: forse, rimarrò stritolata proprio sul mezzodì ed anche le mie urla verranno coperte dal roboante susseguirsi dei dodici rintocchi.
L’acqua oramai mi ha infradiciata, ha riempito gli occhi, la bocca e i vestiti si sono fatti pesanti.
Cado rovinosamente a terra. Gli altri mi colpiscono, mi calpestano, scavalcano questo fagotto bagnato.
Il dolore è acuto, mi prende la bocca dello stomaco ed io dimentico la mia corsa, la gara, la sfida. Non riesco a vedere bene, tutto è sfocato, nascosto dietro la ragnatela tessuta dalle fitte gocce di pioggia. Con le mani tasto il l’asfalto: i miei occhiali sono in pezzi. Cerco di mettere a fuoco la figura dell’uomo che mi è accanto, di riconoscere, nei suoi, i tratti del viso del mio compagno. Ma non gli assomiglia, non è lui.
Non si è fermato: più veloce e determinato di me è andato avanti. Chi si ferma è perduto, anzi ha perduto.
Eppure, accanto a me c’è qualcuno: silenzioso, mi solleva e mi porta al coperto, all’interno di un portone che magicamente ha aperto i suoi battenti, risucchiandomi, portandomi via dalla strada.
Ho freddo e paura: mi sento osservata.
Barba folta e bianca, volto cotto e rugoso, mani nodose e costellate di macchie, chino su di me, mi guarda.
Vergognandomi, mi alzo cercando di rassettare con veloci nevrotici colpetti delle mani gli abiti stazzonati che sgocciolano, bagnando il pavimento.
Sono imbarazzata, confusa, mi chiedo, diffidente, perché l’uomo mi abbia aiutata, cosa voglia veramente.
Nel frattempo mi guardo intorno: sono in una stanza dalle pareti completamente bianche, coperte da ogni tipo di orologio a muro.
Ma sono tutti fermi: non un ticchettio, non un movimento.
Adesso ho veramente paura: sono finita a casa di un pazzo, magari pericoloso.
Lui mi sta guardando con un sorriso strano, un misto di sarcasmo e tenerezza. Ha capito quello che sto pensando, lo so, lo sento. E fra noi inizia la più strana conversazione che abbia mai fatto in vita mia: ci parliamo attraverso la mente. Le parole arrivano nitide, forti, compiute ma non ci sono movimenti delle labbra o gesti, solo un intenso unico sguardo.
È un film, un sogno, un’allucinazione: forse un trauma dovuto alla caduta. Probabilmente sono in coma: ho letto sui giornali che si vedono cose strane, luci, persone morte.
Invece no: è tutto vero.
Sono io, viva e vegeta e sto comunicando col pensiero con uno sconosciuto.
Mi invita a muovermi liberamente nella stanza ed io mi avvicino ad una delle pareti. Guardo uno degli orologi: al di là del vetro di protezione lancette ferme, una piccola farfalla immobile con le ali dai colori sbiaditi e ed un vetrino, di quelli per le osservazioni al microscopio. Accanto un altro, anch’esso immobile, contiene una farfalla ed un pentagramma zeppo di note. Poi, ancora uno: accanto alla farfalla questa volta c’è la foto di un volto femminile perfetto, ma senza età.
Una pena terribile mi assale: che fine hanno fatto le vite delle persone a cui appartenevano questi oggetti? Perché sono rimasti chiusi in un orologio.
Poi, con orrore, mi rendo conto di quanti siano i macabri trofei appesi alle pareti.
Ora sento di nuovo la voce del vecchio.
”Vedi, figlia, sei nella casa del tempo. Non temere: questo è ciò che resta a chi ha sfidato l’infinito, ha sbriciolato l’eternità in secondi e con poca saggezza, ha creduto di poterla calcolare, contare, controllare.
Ma il tempo è stato, è e sarà e, nello stesso tempo, non è mai esistito.
Hai avuto la fortuna di cadere e fermarti: ora puoi smettere di combattere il tempo.
Ogni uomo può fermarsi: non aver paura dei minuti.
Fermati a contemplare, a godere, ad ascoltare. Cogli i frutti che trovi sul tuo cammino: impara a soffrire e a sperare.
Fermati sempre quando è tempo di amare”.

*

A CESARE PAVESE

Perché ti sei ucciso, come la tua Rosetta, in un’anonima stanza d’albergo, ingollando sonniferi come un comune mortale che voglia lasciare la vita senza farsi troppo male? “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.
Ma a me non hai chiesto perdono!
Cosa avevi da farti perdonare da una che neanche era nata quando ti sei ammazzato?
La tua morte, la tua stupida morte.
Mi hai costretto ad amare un morto: i tuoi occhiali, il tuo corpo magro da intellettuale, le tue esili braccia, i tuoi capelli neri. Nulla di tutto questo c’era più quando ho cominciato ad amarti.
Avevo diciotto anni, pazza di te e dei tuoi libri, delle tue poesie. E ti ho difeso da tutti i professori che ti volevano simbolo del neo-decadentismo, che ti facevano incapace di conciliare arte e vita, che parlavano con spregio della tua “inutile” sensibilità, che ti descrivevano incapace di rapporti umani, inadeguato nei confronti della realtà, politicamente inetto.
Per te mi sono giocata il voto all’esame di maturità. Il commissario d’Italiano diceva che eri un vigliacco, perché ti eri ammazzato. Ed io ti ho difeso, come ti ho difeso... come neanche tu avresti potuto perché, forse, ti credevi un vigliacco.
Quella tua incompiutezza, quella dolorosa indecisione, quella edonistica ricerca dell’inutilità del vivere io l’ho amate e le amo ancora… dopo trenta anni, le amo ancora.
Non c’era niente di eroico e perfetto in te e la tua imperfezione mi fa ancora impazzire. Trattavi male le donne? Quanto avrei voluto essere stata trattata male da te.
A diciotto anni pensavo che, se quella fatidica sera avessi chiamato me, sarei corsa a salvarti, non ti avrei lasciato morire.
Ora, che sono donna fatta, so che non avrei potuto fare nulla per fermarti e che ti amerò per sempre, vivo e morto, fragile poeta che ha attraversato la mia vita, segnandola con il suo dolore.
E ti perdono!

*

Pagani (per Fulvio)

C'é il sangue di Marco per terra e dall'asfalto non nasceranno fiori.
In due millenni la svalutazione non è stata poi tanta: trenta denari, tremila euro. Questo è il prezzo della vita di un uomo che muore ammazzato a trentatre anni.
Il velo del tempio è, di nuovo, squarciato.

*

Rivoglio il verbo voglio

Non ho più parole nel cuore
ma ombre e ricordi
ed insano silenzio.

Niente di questo limaccioso e globalizzato litorale romano mi richiama alla mente le limpide acque cangianti lasciate a brillare sotto il sole del Sud.
Le onde mi sembrano un presagio o, meglio, la derisione della mia inanità. Costrette a spingersi a riva e a sciogliersi livide, sembrano dirmi che è inutile cercare vie di fuga. Il destino è già scritto ed il mio è quello di continuare ad infrangermi contro le barriere di una vita non più fatta di scelte ma di obblighi.
I miei sono calici che non posso allontanare: dovrò berli sino in fondo ma almeno avessi una fede che me ne faccia vedere il senso, che mi offra la gioia del sacrificio.
Invece, una parte di me reclama, affamata di vita, uno spazio ed un tempo che siano miei.
Il mio cuore cerca ancora passione, il mio corpo di vibrare di desiderio.
Ma una mano possente, da dentro sale e mi afferra per i capelli spingendomi a fare quello che devo.
Non c’è più il verbo voglio nel mio striminzito vocabolario.

*

IL PROFUMO DELLE CANDELE

Bussò alla porta un po’ impacciato: l’idea di soggiornare nella casa di una donna lo imbarazzava non poco. Ma tant’era. In città non c’era una sola stanza libera: in quegli ultimi giorni d’estate si erano concentrati almeno cinque diversi grandi eventi.
Si sentì ancora peggio quando ad aprirgli fu una ragazzina. “Sei arrivato" – gli disse allegra – "entra, fra un po’ pioverà”.
“Oddio" - pensò, guardando il cielo limpidissimo che volgeva all’imbrunire – "un’adolescente e per giunta balorda”. Non si sentì meglio quando, dopo lo scatto della serratura, udì alle sue spalle almeno due tuoni in lontananza. La biondina, che lo guardava divertita, tentò di tranquillizzarlo dicendogli che lì da loro era normale: un minuto c’era il sole e un minuto dopo pioveva a dirotto. Ovviamente, ottenne l’effetto contrario, perché l’uomo si sentì ancora peggio di fronte alla sfrontata capacità di quella donna in miniatura di leggergli dentro!
“Siediti" – disse – "adesso la mamma scende e ti mostra la tua camera. Sono contenta che tu sia qui. Lei non aveva mai affittato la stanza ad un uomo e mio padre diceva sempre che in una casa un uomo ci vuole perché le donne sono come i cavalli della fantasia e qualche volta hanno bisogno di briglie”. La domanda gli uscì dalla bocca prima che la dovuta sensibilità potesse bloccarla: “Tuo padre è morto da molto?” e mentre lo diceva già malediceva la sua stupidità. La ragazzina rise di gusto. “Non è morto: semplicemente a smesso di vivere qui e viaggia. Ogni mese mi manda una lettera ed un oggetto diverso. Poi, te li farò vedere”.
Finalmente, a toglierlo da quella situazione incresciosa e un po’ grottesca, scese dalle scale la madre.
Un altro colpo per la sua sicurezza: si aspettava una casalinga di mezza età che nulla aveva a che vedere con quella limpida e armoniosa nuvola bionda e violetta che si avvicinava a lui più minacciosa del temporale che, nel frattempo, si era scatenato fuori. “Lei deve essere Gabriele. Sono Erica, senza il K mi raccomando, non mi piace la lettera K: ha un non so ché di sinistro, di violento. Lei è Viola, mia figlia, ma l’avrà già conosciuta”. “Sì, ma ancora non c’eravamo presentati”. La donna rise: “Con Viola è sempre così, ti aggredisce senza darti il tempo di guardarti intorno. Venga, le mostro la sua stanza”.
La camera era come il poco della casa che era riuscito a vedere: luminosa, colorata, con un mobilio semplice vagamente etnico ed impregnata da un gradevole ma sobrio profumo di fiori e agrumi.
“Ti piace?” Erica era passata con naturalezza dal lei al tu come se il solo fatto di essere entrati nella parte più intima dell’abitazione avesse favorito l’instaurarsi di una sorta di confidenza. “Sì, mi piace” rispose lui. “Allora ti lascio. Si cena alle otto. Ti aspettiamo giù”.
Cominciò a riporre le sue cose, trovando con estrema facilità tutti gli spazi necessari, come se avesse già vissuto in quel posto e, mentre lo faceva, si sentiva pervaso da un senso di serenità: quel soggiorno sarebbe stato buono.
Si accorse che era ormai tempo di scendere: trovò Erica e Viola intente ad apparecchiare. La ragazza, come lo vide, corse a rovistare in un armadio e ne trasse una candela. “Ne accenderò per te una diversa ogni sera ed, alla fine, mi dirai quale ti è piaciuta di più. Accese il coloratissimo cilindro e subito si sprigionò nell’aria una fragranza di cannella e cedro. Gabriele si meravigliò quando, assaggiato il pollo che Erica aveva preparato, notò che il sapore di quel piatto si accordava perfettamente con l’effluvio emanato dalla cera che andava sciogliendosi, colorando l’aria di piccoli bagliori arancio ed oro.
Durante la cena poté osservare con attenzione la sua ospite: era difficile indovinarne l’età. Solo delle piccole rughe agli angoli dei grandi occhi e ai lati della bocca, facevano pensare che non fosse più giovane come, ad un primo sguardo, sarebbe potuta apparire. Per il resto era perfetta: né brutta né bella ma tremendamente seduttiva nella sua assoluta incoscienza dell’effetto che poteva provocare in chi la guardava. Continuava con naturalezza ad assaporare il cibo che portava alla bocca con snervante lentezza, assolutamente incurante del fatto che i piatti della figlia e di Gabriele fossero già vuoti.
Lui cominciò ad estraniarsi, pensando a cosa lo aspettava il mattino seguente. Un posto di lavoro nella redazione di un giornale con un’antica tradizione. Nuovo incarico, nuovi colleghi, nuove responsabilità ed in una città così diversa dalla Capitale, dalla sua Roma. Erica ruppe il silenzio: “Le novità emozionano ma portano sempre qualcosa di bello. L’emozione è già qualcosa di bello. Cambiare dovrebbe essere prescritto a tutti come una cura preventiva contro la morte!”
Era un vizio di famiglia leggergli nel pensiero! Dove era capitato? In una puntata di “Streghe”?
Eppure rispose con schiettezza: “Sono abituato ai cambiamenti ma è come se sentissi che in questa nuova esperienza ci sia un che di determinante, definitivo”.
“Un attimo può essere definitivo, una frazione di secondo determinante e, nello stesso tempo, tutto ciò che li ha preceduti e seguiti, essere caduco ed inutile. L’eternità esiste ma non risiede nel quotidiano”. Aveva pronunciato quelle parole simili ad un postulato di filosofia con la semplicità e la leggerezza di chi, pur avendo imparato molto, non vuole insegnare nulla. Gabriele la guardò con gratitudine.
Poi, accadde di nuovo. “Perché non ci suoni qualcosa?” disse Viola che già era accanto al vecchio piano che si trovava sulla parete di fondo della piccola sala da pranzo. Di fronte ai suoi occhi sbarrati, le due femmine si guardarono, un po’ complici e la madre disse: “Le tue mani, Gabriele. Viola ha visto le tue mani.”. I suoi occhi si spostarono immediatamente sulle dita affusolate, curate, su quelle mani un po’ muliebri eppure nervose. Si avvicino a Viola, sedette, accarezzo la tastiera, provò il tono dei tasti: lo strumento era perfettamente accordato. “Chi di voi suona?” – “Nessuno! Vogliamo che la sua voce rimanga intatta… non si sa mai. Inoltre, bisogna rispettare la buona natura delle cose”. Ancora la saggezza di Erica.
Suonò, a lungo, con passione e, a poco a poco, tutta la tensione svanì.
Andarono a riposare.
Il mattino seguente mentre faceva colazione in cucina, accanto ad Erica, Viola entrò agitatissima: “Mamma, mamma, presto o morirà!” Teneva tra le mani un tremante fagottino di piumette arruffate, come batuffoli d’ovatta sporchi: un uccellino caduto da qualche nido. La madre si avvicinò, prese con delicatezza e fermezza il piccoletto e, con voce decisa, ordinò a Viola: “Presto, vai nel frigorifero in cantina e prendi qualcuno di quei vermi che usi quando vai al fiume a pescare!”. Tornò in un lampo ed Erica prese dal brulicante groviglio che portava un verme poi fece una cosa repellente: se lo mise in bocca stringendolo lievemente fra le labbra mentre si contorceva ancora. Avvicinò la sua bocca al becco dell’uccellino che si schiuse: rapida vi lasciò cadere dentro il bigattino. Ripeté l’operazione due tre volte. “Credo sia abbastanza: ora prendilo e mettilo in una scatola che avrai imbottito di bambagia e fili d’erba. Fra due ore lo nutriremo di nuovo.
Gabriele, nonostante la nausea lo avesse costretto a rimandare giù la colazione che non ne voleva più sapere di restare nello stomaco, era raggiante di fronte a quel miracolo della vita ed alla musica perfetta che il disperato pigolio dell’animaletto tracciava nell’aria.
Durante tutta la giornata, ogni volta che si sentiva in difficoltà, gli ricompariva davanti agli occhi la scena del mattino e si sentiva subito più forte, sazio, come protetto da un’invisibile forza cosmica che lo accomunava con tutte le creature.
La sera si ritrovarono di nuovo per mangiare insieme ed il rito di Viola si ripeté. Quale candela avrebbe scelto questa volta? Il profumo che invase le sue nari era di miele e muschio: non avrebbe mai detto che una fragranza tanto dolce potesse armonizzarsi con l’afrore di un cervo in calore.
Dopo il pasto parlarono a lungo, fino a che la candela non si fu consumata.
Continuò così per quasi un mese: ogni giorno una vittoria, ogni sera una candela profumata.
Poi venne il momento: l’agenzia alla quale aveva dato incarico di trovare un appartamento lo chiamò. Aveva visto tante case ma aveva sempre trovato un difetto in ognuna: troppo piccola, troppo grande, troppo centrale, troppo periferica, troppo buia… ma quella di quel pomeriggio era perfetta. Tutto rispondeva a ciò che aveva sempre voluto ed aveva persino un piccolo e curatissimo giardino. Dalla veranda si vedeva scorrere il fiume eppure era a pochi chilometri dal centro della città. Così si ricordò di quando Erica aveva fatto volar via il piccolo merlo, oramai guarito e cresciuto, pronto a spiccare il volo. Firmò il contratto.
A cena erano tutti un po’ più silenziosi. Viola accese una candela: incenso, il profumo delle iniziazioni. Così, a bassa voce, comunicò loro che l’indomani si sarebbe trasferito. Erica portò una torta di mele appena sformata e del vino rosso, frizzante e dolce. Non avevano mai mangiato dolci in quel mese. Festeggiarono l’evento, suonarono il piano e, poi, andarono a dormire sereni.
Il mattino seguente Gabriele, con le mani di Erica fra le sue, le disse: “Ma chi sei? Posso parlare ad una donna come fosse un uomo, uno sciamano e un insetto pungente?”
La donna lo guardò, gli accarezzo una guancia e gli sorrise, ma non rispose. Viola gli si fece accanto e gli consegnò una candela: “Erica e violetta: è il suo profumo”.
La porta si chiuse alle sue spalle: l’estate era finita, il vento portava già il rosso delle foglie di platano e l’odore di terra bagnata. Una nuova stagione iniziava.

*

Eurostar

Trafelata, salgo il predellino e prendo il treno appena prima che le porte si chiudano.
Come sono faticosi i ritorni. Mi sento come il soldato che, finita la licenza, ritorna al fronte, portandosi nella sacca la nostalgia dell’arrivederci ed il presentimento dell’addio.
Incastrata nell’angusto quadrilatero del passeggero, incollo lo sguardo al finestrino. Quelli dei treni moderni paiono uno schermo delle televisioni al plasma. I fotogrammi mi corrono incontro, magnifici, solenni, neutri. Ecco degli operai al lavoro ma non avverto l’afrore del loro sudore, vacche grasse che pascolano e si crogiolano all’ultimo sole ma non sento puzza di letame, il fiume mi inghiotte ma non posso udire il suo gorgoglio.
Galleria: dissolvenza incrociata. Sullo schermo nero si proiettano le immagini girate in interno.
Purtroppo, torna il sonoro e si riattiva l’olfatto. Sostenute dal puzzo del panino Mac Donald's del mio vicino, musiche improbabili di cellulari si intrecciano in una dissonante sinfonia. Gli fanno da contrappunto il ticchettare di almeno venti mani sulle tastiere dei portatili. Irrompono le urla di un bimbo che grida estenuato dalla forzosa immobilità.
Una voce odiosa pontifica sui romani che “non sanno guidare e se ne fregano se ti mettono sotto… a Torino non sarebbe permesso!”. A lui è successo tante volte: mi chiedo indispettita se ad ogni incidente abbia chiesto il certificato di nascita all’incauto guidatore e resto in attesa dello scontato, inevitabile, successivo luogo comune. “Peggio che a Napoli: e ho detto tutto!”.
No, becero razzista, cittadino di chissà quale luogo che non è mondo: non hai detto niente perché meno di niente valgono le credenze che sottendono le tue parole.
In quinta di sinistra una donna mi sorride pietosa: ci capiamo con uno sguardo.
Il becero ciancia, il bambino urla, il cellulare vibra e polifonicamente rompe i coglioni, i plink delle mail in arrivo sono una goccia cinese.
Taglio netto: lo schermo si riaccende.
Dio, ti ringrazio. E sprofondo nell’oblio del cinema muto.

*

Colei che trascina il masso

Il mio nome era, tradotto nella vostra lingua, “Colei che trascina il masso”.
Mia madre era al nono mese e sedeva con le altre donne nel tepee a noi destinato quando il fuoco, al centro della tenda, diventò più sfavillate: entrò in trance. Tutte la udirono parlare con voce tonante e le sue parole furono: “Con la luna nuova partorirai una femmina: il suo nome sarà “Colei che trascina il masso” e quando vedrà il sangue bagnarle le vesti dovrai legarle una grossa pietra alla vita e la dovrà trascinare per sempre.”
Fu così che, quando ad undici anni, ebbi le mie prime mestruazioni, le donne mi portarono alla sorgente sacra, mi lavarono e purificarono aspergendomi d’acqua con rami fioriti presi sul terreno sacro dove giacciono, adagiati sui rami degli alberi, i nostri morti. Poi, mi fecero indossare una veste di pelle di cervo e legarono una fune alla mia vita ed al capo opposto, ben stretto, un masso bianco. Poi piansero, urlarono e danzarono. Infine, facemmo ritorno al villaggio.
Stringevo i denti mentre le lacrime mi scendevano lungo il viso ed il sangue lungo le cosce. Il sasso pesava terribilmente. Camminando mi aiutavo con le mani ma spesso cadevo. Le altre donne, piccole e grandi, non mi guardavano perché io non provassi vergogna. Così, nel silenzio e senza aiuto alcuno, raggiunsi la tenda di mio padre.
Da quel giorno feci ogni cosa trascinando la mia pietra. Ogni anno veniva cambiata con una più grande, perché il peso fosse proporzionato alla mia crescita. Raccoglievo legna, prendevo acqua, cercavo bacche: tutto tirando, come un cavallo da soma, il mio fardello.
L’inverno era il momento più terribile: nella neve il sasso affondava e allora dovevo spingerlo per poterlo spostare. Le mani inerti si coprivano di tagli e geloni, la schiena si spezzava e, al disgelo, tutto si ripeteva con il fango nel quale scivolando, cadevo, imbrattandomi il viso e le vesti.
Anche mentre dormivo dovevo rimanere unita al mio masso che ormai era mia madre, mio padre, mia sorella, il mio sposo.
Poi, dopo tante primavere, una notte sognai un grande uccello che volava verso la cima delle montagne. Il mattino seguente, mentre andavo verso la fonte, un corvo scese su di me e comincio a beccare con l’aguzzo rostro la fune che mi univa al mio sasso. Ma la corda era spessa e strettamente intrecciata. Comparve allora un lupo ed io pensai “Finalmente è finita”. Ma ero terrorizzata all’idea dei suoi aguzzi denti che avrebbero strappato le mie carni. Invece, la bestia si avvicinò anch’essa alla fune e cominciò a morderla con forza. Ma il lupo ed il corvo non riuscirono a romperla. Fu così che giunse un grosso topo, di quelli che vivono ai margini dell’accampamento: non aveva paura né del corvo, né del lupo suoi naturali predatori. Insieme continuarono il loro lavoro: il corvo beccava, il lupo addentava ed il topo rodeva. La corda si spezzò.
Allora le mie vesti si lacerarono ed io, tramutata in aquila, spiccai il volo, mi librai in alto fino alla cima dei monti e volai gridando sull’accampamento.
Da allora, ad ogni luna nuova, mi tramuto in aquila e mi innalzo sopra la terra ed il popolo degli uomini.
Ora il mio nome, tradotto nella vostra lingua, è “Colei che vola in alto”.

*

822

Giornata particolare. Un vento impetuoso aveva spazzato via il caldo e aveva portato con sé gli spiriti della follia che si erano insinuati sotto le gonne delle donne, dietro le lenti da sole degli uomini, fra i radi capelli grigi dei vecchi, sui candidi denti dei bambini.
Giornata particolare, da non poter star fermi: il vento ti spinge a largo, ma per prendere il largo bisogna raggiungere un porto.
Così successe che un uomo e una donna si fossero ritrovati sulla banchina d’attracco del Porto di Roma.
Se volessi descriverli direi che rassomigliavano un po’ ad una coppia tipo Susan Sarandon/Tim Robbins, con la differenza che erano complici ma non amanti.
Però, non voglio descriverli e, quindi, non lo faccio!
Lei era vestita di verde, un verde che si accordava con la polarizzazione della luce di quel cielo sceso sul mare come un sipario. Non era un verde primavera; piuttosto era scuro, turbolento, limaccioso, tutt’uno col mare. I capelli rossi volavano ovunque lasciando scoperto il dondolio dei monili di conchiglia che pendevano dalle sue orecchie.
Lui, inghiottito dal suo giubbotto, aveva occhi inquietanti che guizzavano ovunque, color verde: limaccioso, turbolento, tutt’uno col mare.
Avevano un numero fortunato, ma ancora non lo sapevano: 822.
Guardavano le barche, vagheggiando una vita un po’ clochard e un po’ boheme. La barca può diventare la casa ideale: un bene immobile, mobile e a costo contenuto.
Se volessi raccontare cosa fecero comincerei con il dire che scrutavano il mare.
Però, non voglio raccontarlo e, quindi, non lo faccio!
Stavano lì a guardare il mare. L’uomo parlava raccontando dei branchi di cefali ed, insieme, cercavano di vedere quella pulsante punta di freccia intenta a risalire l’onda.
Più in là erano ormeggiate barche d’ogni tipo. La più vicina all’attracco era quella con il nome meno scontato: 822 CARABINIERI.
Il vento era passato da WNW8 a WSW5: mare agitato ma non inaffrontabile.
Fu un attimo: un contatto, messa in moto e via, fuori del porto.
La barca saltava sulle onde descrivendo nell’aria le punte e le precipitose discese di un improbabile quanto virtuale grafico. Intanto i due pensavano a quanto tempo avrebbe impiegato la Guardia Costiera per raggiungerli. Nel frattempo il vento aveva cambiato direzione e forza: WSW2.
Bloccarono la motobarca in mare aperto e si guardarono intorno: nessuno.
Le loro risate si persero fra lo stridio dei gabbiani e lo sciabordio dell’acqua.
La donna, continuando a ridere e asciugandosi le lacrime col dorso della mano, disse che aveva sempre sognato di fare una cosa.
Si cinse i fianchi con un largo foulard uscito fuori dai meandri della sua borsa da Mary Poppins, si tolse le scarpe e andò all’estrema punta della poppa.
Tenendosi a mala pena in equilibrio, gridò: “Jack, vieni qua!” Sul volto dell’uomo si dipinse un’espressione interdetta. “Oddio, sei proprio un maschio: possibile che non ci arrivi. Siamo su una “nave”… a prua… è facile da capire!”
Nel frattempo, l’uomo l’aveva raggiunta e schernendola di riflesso rispose: "E tu sei proprio una femmina!”. Intanto la afferrava per la vita.
Lei guardò avanti e lo spronò: “Dai, dillo. Dillo!” – “Ma è ridicolo!” – “E chi vuoi che ti veda. Certo, io non andrò a raccontarlo a nessuno ed i gabbiani, al massimo, spettegoleranno con una sirena e tu ci farai una splendida figura!”.
Poi, si girò e puntò, speranzosa, gli occhi verso il mare. Dopo lunghi istanti si udì una voce bassa, bassa, lievemente strozzata dall’imbarazzo: “Ti fidi di me? Ti fidi di me?”.
La donna allargò le braccia ed urlò con tutte le forze: “Mare mi senti? Sei mio. SEI MIOOOO! Ed ora, posso anche affondare”.
Poi, si voltò, e disse: "Comunque, mi fido di te sul serio”.
Le risate squarciarono di nuovo cielo e mare.
Era ora di tornare e affrontare l’inevitabile arresto.
Se volessi potrei narrare l’epilogo di questa storia nei minimi particolari.
Però, non voglio narrarlo e, quindi, non lo faccio.
Passarono, con il cuore in gola, la barriera artificiale del porto. La banchina era deserta: non c’erano né gazzella né divise.
La 822 CARABINIERI fu rimessa al suo posto e i due scesero scalzi, arruffati e con il volto in fiamme. L’avevano fatta franca! La Guardia Costiera non aveva trovato nulla di strano in quell’uscita fuori da ogni tabella di marcia.
Erano pronti a tornare alle loro vite di tutti i giorni.
Cosa farne di quella bravata? Il giorno seguente giocarono al Lotto. Terno secco sulla ruota di Napoli: 8 - 22 – 17. Vincita? 822.000 euro!
A proposito: il branco di cefali c’era, viaggiava in formazione a punta di freccia.
Erano 822: 411 maschi a destra e 411 femmine a sinistra.

*

Questa notte in città...

La porta si apre, qualcuno mi afferra e mi chiude dentro ad una specie di sacco.
Soffoco, incastrata in mezzo ad oggetti sconosciuti, resa cieca da un buio afoso.
Mi sento sollevare. Il dondolio mi dà la nausea o, forse, è la paura.
Un bip ripetuto ed eccomi, come nelle trame dei migliori triller, bruscamente gettata dentro al cofano di un auto: un sordo rumore e la portiera si chiude sul mio terrore.
Ad ogni brusca frenata vengo sbalzata in avanti per poi rinculare sbattendo violentemente.
Almeno potessi capire chi sono e cosa vogliono da me.
Il tratto percorso, in mezzo a quello che sembra essere il traffico di una grande città, è breve, ma si procede lentamente tra inchiodate e partenze da pole position.
Finalmente, l’auto si ferma. Estratta dall’abitacolo senza troppi riguardi, ricomincio a dondolare in preda al voltastomaco.
All’improvviso tutto si ferma.
Pochi secondi, lo scorrere di una zip e mi investe una serie di umidi odori confusi tra loro: sudore, scarpe, cibo in busta, birra.
La luce artificiale mi avvolge. Il rumore è assordante. Urla ed insulti, come di battaglia, si mischiano a risate e grida di vittoria. Colpi fragorosi mi fanno sussultare.
Una nervosa mano maschile si avvicina, mi agguanta e mi penetra con le dita.
In un istante tutto si svela. Un’innata coscienza si fa strada nella mia mente e, finalmente so chi sono e cosa mi sta succedendo.
Il mio uomo è sull’approache. Forte e agile, percorre repentino un minimo spazio, si china, si flette e mi libera dalla presa.
Ora sono sulla lane, magneticamente attratta dal pin deck.

rrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr.

STRIKE!

*

Endl sung (Soluzione finale)

Stamane c’è il sole. Meno male: almeno non sentiremo freddo. È giorno di festa per i nostri “guardiani” e, quindi, oggi non si lavora.
Nel ghetto, la gente è uscita dalle case. Case… le chiamiamo così anche se viviamo in quattro famiglie in due camere ed il bagno è in comune con tutti gli abitanti del fabbricato: dieci piani, ogni piano sei appartamenti.
Ma noi Mischlinge (Ibridi), come ci chiamano loro, siamo gente forte e non è facile fiaccarci.
Ci hanno messi a lavorare in un campo, dentro capannoni puzzolenti. Falegnamerie, sartorie, calzaturifici, fabbriche del vetro, botteghe orafe, laboratori per la lavorazione del marmo, tipografie. All’inizio è stata dura: molti non avevano mai fatto il lavoro assegnatogli. Ma abbiamo imparato. Le sarte fanno abiti copiando i modelli dei grandi stilisti che erano di moda circa quindici anni fa, i calzolai realizzano scarpe extralusso in finta pelle, i falegnami e gli ebanisti fanno mobili di falso antiquariato, i vetrai copie di cristallerie preziose, gli orafi gioielli con metalli non nobili e pietre finte. Il peggio è capitato ai marmisti ed ai tipografi. Gli uni realizzano busti dei Triumviri che comandano sul paese ed i tipografi stampano il “Giornale del Popolo”.
Dopo la Grande Recessione dell’inverno del 2008 non c’è stato più niente per nessuno: prima la depressione ha colpito gli USA, poi è arrivata in Europa. Ma i nostri Signori non vogliono rinunciare al lusso a cui erano usi. Così noi creiamo per loro la finta ricchezza.
La sera, dopo quattordici ore di lavoro, usciamo passando sotto il cancello che costituisce l’unico accesso al campo. Passiamo sotto alla scritta “Arbeit macht frei" (il lavoro rende liberi) e sghignazziamo in silenzio. Ognuno di noi ha in tasca qualcosa: un pinocchio in legno, un cigno di vetro soffiato, un paio di pantofoline, un abituccio fiorito. I nostri bambini avranno qualcosa con cui giocare al rientro dalla fabbrica dove producono trastulli sofisticati per i figli della razza pura.
Ma i tipografi portano il bottino più prezioso: carta ed inchiostro.
Nel ghetto è reato possedere un libro, un giornale, carta, penna, matita, gomma. Quando siamo entrati ci hanno tolto tutto.
Ma oggi niente lavoro. Nell’unica piazza della città gironzoliamo, scambiandoci occhiate esaurienti, brevi parole. Un’amica scrittrice mi fa scivolare fra le mani, nascosto sotto un pomodoro avvizzito, un foglietto spiegazzato. Che dono: questa sera si legge.
Ci muoviamo lenti, ci sorridiamo tristi, ci stringiamo forte la mano.
Chi eravamo: insegnanti, giornalisti, scultori, pittori, registi, scrittori, poeti, webmaster, musicisti…
Molti di noi non erano neanche famosi. Accudivano alla propria arte nei ritagli di tempo, senza tante pretese, alternando una vita comune ad un’esistenza selvaggia, esaltante, notturna.
Quando sono venuti a prenderci non sapevamo neanche come fossero arrivati ai nostri anonimi nomi. In realtà, eravamo tutti spiati dai satelliti, controllati e schedati.
Ora attendiamo che decidano cosa fare di noi. Qualcuno già parla di “Endl sung”. Potrebbero eliminarci tutti. Forse ci useranno come cavie per i loro esperimenti. Non so se sia una leggenda ma qualcuno mormora che alcuni scienziati del regime abbiano trovato il modo di ricavare energia dalla disgregazione molecolare dei corpi umani. Risolverebbero la crisi energetica: siamo in tanti. Noi siamo nei ghetti rossi, quelli dei criminali politici, gli omosessuali o presunti tali in quelli rosa, gli zingari e gli extracomunitari nei campi neri, gli studiosi di Sacre Scritture sono chiusi in ex conventi tinteggiati di viola.
Se questa storia è vera e la Soluzione Finale verrà attuata noi siamo pronti. Abbiamo nascosto pezzetti di carta sotto ogni mattonella, in ogni intercapedine, dietro ogni mattone. Abbiamo messo messaggi dentro centinaia di bottiglie e le abbiamo gettate nei fiumi e nei mari.
Sono poesie, racconti, pagine di musica, articoli, saggi, parti dei grandi libri del passato imparate a memoria e trascritte, fotografie, programmi scritti in C++ e Java, codici matematici, pagine di diario, i compiti che facciamo svolgere ai nostri figli quando non sono distrutti dalla fatica.
Lo ripeto: se verrà la morte noi siamo pronti.
E ai posteri l’ardua sentenza.

*

Ad occhi aperti

Schiuma bianca lambisce polsi e braccia.
Qualche schizzo raggiunge il viso. Sono affondata in un rigenerante e profumato bagno. Posso pensare a me stessa, posso inseguire l’intenso desiderio di rilassare ogni singolo, contratto muscolo di questo corpo teso sino allo spasimo.

L’acqua è verdognola.
Il mare si insinua nei ricordi e si rende presente con l’intenso odore salmastro.
Le onde raggiungono la riva e si ritirano, in eterna danza.
La luna è alta nel cielo e rifletto sulle maree e sull’utilità dei viaggi spaziali.

Uno scroscio improvviso e parcellizzato.
Sono in piedi, sotto una cascata azzurrina. Non mi muovo e medito. Intorno un verde imbuto coperto di liane, Ebani e licheni.
Ma basta rubare foreste all’Amazzonia. Perché uccidere il Paradiso Terrestre?

Uno squillo acuto, devastante si ripete.
“Qualcuno si degna di andare a rispondere? Ho le mani bagnate: sto lavando i piatti!”.

*

Un bambino cattivo

Mauro era una bambino di undici anni: piccolo di statura, magro, agile come un gatto.
Era considerato da tutti gli adulti un bravo ragazzino, molti compagni lo credevano un mito e lo invidiavano, alcuni lo trovavano antipatico ma lo temevano.
Un giorno, tornando da scuola, vide una lucertola che si scaldava al sole; si girò verso gli amici e disse: “Guardate un po’ che le faccio?” Agguantò la bestiola e le strappò la coda. Una bimbetta dai capelli rosso fuoco si mise a piangere: “Sei un mostro: che ti aveva fatto povera bestia!”- “E a te cosa importa? Poi, tanto, la coda le ricresce”.
Era rientrato a casa: il pomeriggio si profilava lungo e tedioso. Annoiato uscì nel giardino. Scorse una biscia vicino al tubo per innaffiare il prato. Con una pietra le schiacciò il capo, la prese per la coda, la fece roteare in aria e la scagliò oltre la siepe di cinta. Poi, ricominciò a gironzolare. Uno strano scarabeo con una specie di corno camminava sui sassolini bianchi del vialetto. Mauro si avvicinò. “Fai schifo” disse e lo calpestò. Gli piacque lo scricchiolio della corazza che andava in pezzi sotto la scarpa.
Continuò per un po’ a guardarsi intorno e decise di affinare la mira. C’era un bel bersaglio attaccato sul tronco di un albero e freccette a volontà. Ma era troppo semplice. Ci voleva un obiettivo in movimento. Così, al terzo o quarto tentativo, riuscì a colpire in pieno un passerotto che cadde in terra. Sul ramo restò solo il nido. Un bel bottino… Si arrampicò e giù, con tutte le uova dentro. Frantumi bianchi e liquide macchie arancio andarono a confondersi col rosso del sangue che impiastricciava le ali, ormai ferme, dell’uccello morto.
Finalmente, decise di rientrare: avrebbe giocato con la playstation.
Arrivò la sera. Mauro dormiva placido nel suo letto quando qualcosa lo svegliò. Nel buio vide un baluginio avorio, poi due lucette rosso fuoco. Pian piano prese forma una figura terrificante. Era un tirannosauro e parlò con voce terribile: “Perché hai mutilato mia nipote?” Il ragazzino balbettò: “Tua nipote? Ma non l’ho fatto; nemmeno la conosco” – “Sì che la conosci: le hai strappata la coda!” – “Ma quella era una lucertola” – “Era mia, era dei figli dei miei figli, era tanto piccola. Ora ti morderò e ti porterò via un braccio”.
Si levò alta una voce sibilante: “No, è mio!” Una terrificante anaconda si ergeva davanti al letto. “Sono la madre di tutte le serpi, i serpenti e le bisce: hai ucciso mia figlia ed io ti stritolerò fra le mie spire”.
Roboante si fece udire un’altro “ospite” ed, ecco, comparire un enorme rinoceronte: “Ed io come avrò la mia vendetta?” Il bambino riuscì a mugulare: “A te non ho fatto proprio nulla!” - “Sciocco e crudele: hai schiacciato il mio piccolo amico senza pietà. Anche il magico unicorno si è sdegnato. Ora partirò alla carica e distruggerò il tuo letto, ti spiaccicherò contro la parete”
Un vento freddo discese dall’alto: “Fermi!" disse l'aquila "Devo ghermirlo e portarlo via con me. Ha ammazzato la madre e distrutto il nido. Ha profanato la casa e la vita non ancora rivelata nella sua forma compiuta”.
Ormai Mauro urlava: “Non lo sapevo, non lo sapevo. Non mi uccidete, sono solo un bambino: anch’io sono piccolo!”
La madre entrò nella stanza: “Mauro svegliati, stai avendo un incubo!”. Ma il bimbo era ben desto. La donna rimase sino a che ebbe l’impressione che Mauro si fosse riaddormentato.
In realtà non faceva finta: pensava. Se tutte le bestie si erano tramute in grandi animali anche lui, ora che aveva subito, sarebbe diventato grande e, allora, non avrebbe avuto più paura. Al mattino corse allo specchio: era ancora piccolo. Ma ne era certo, sarebbe cresciuto.

Sono passati circa trenta anni. Mauro è un uomo grande.
Dopo la laurea in giurisprudenza è entrato come praticante in un grande studio legale che difende gli imputati nei delitti di mafia e ha fatto carriera, senza mai presentarsi ad un processo: preparava tutto per il team della difesa.
Lasciato il primo impiego si è lanciato in politica: Municipio, Comune, Regione, infine, in Parlamento.
Oggi è Onorevole. La sua immagine compare sui giornali: mentre visita un ospedale, consegna un generoso assegno ad un’associazione benefica, inaugura complessi di case popolari.
Va a Messa e siede sempre ai primi banchi.
Sua moglie è avvocato, la sua amante una modella.
Ogni tanto capita che sia indagato: ma ne esce sempre pulito, non immacolato, ma pulito. L’ultima volta un suo collaboratore e amico è stato condannato. Per la vergogna si è impiccato in cella. Mauro non è comparso al suo funerale ma, tramite amici di amici, ha fatto avere alla vedova un cospicuo vitalizio.
Mauro la sera dorme tranquillo.
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Nota dell’autore.
I riferimenti sono del tutto casuali. Il nome del personaggio principale è di fantasia ma tutto il resto è vero. Quindi, se qualcuno dovesse riconoscersi nel protagonista è bene che ricordi: non tutti quegli animali si sono estinti!

*

Tradita

Se credete che la mia sia una vita comoda e tranquilla, vi sbagliate di grosso!
Oggi siete tutti portati a pensare che basti avere un lavoro ed una casa per essere felici. Ma non è così.
Non ho mai avuto problemi d’impiego o di alloggio eppure sono tremendamente infelice. Sono il tipo che tutti si permettono di schiacciare, tanto io non mi ribello. Sono lì che aspetto di soccombere sotto il peso degli altri.
Vivo da otto anni con un uomo. Quando mi scelse mi sembrò d’impazzire dalla gioia.
Non avrei mai creduto che un tipo come lui, elegante e raffinato, si potesse accorgere di me così semplice, tradizionale.
Quando mi portò a casa sua pensai di aver finalmente trovato il mio posto. Ed, invece, la mia esistenza si tramutò in un inferno.
Lo amo immensamente: quando è fra le mie braccia rabbrividisco. È fantastico rimanere unita a lui ed aderire alle linee del suo corpo così muscoloso eppure delicato. Le spalle piene, la schiena lievemente arcuata, il bacino stretto e compatto, le gambe lunghe e forti. E i suoi capelli, i suoi capelli così folti e lucenti, in cui affondare il viso.
Dio, come lo amo. Ma lui no! Lui, oramai, non si accorge nemmeno di me.
Da anni sopporto tutti i suoi tradimenti. E non crediate che si preoccupi di nascondersi. Le porta tutte in casa: bionde o brune non fa differenza purché siano giovani e belle. E quando ha finito ritorna sempre da me, come se niente fosse. Ed io, stupida, lo accolgo a braccia aperte e lascio che mi si strofini contro malgrado abbia ancora addosso il profumo dell’altra. Mi può anche mettere i piedi addosso, tanto lo lascio fare.
Ma l’altra sera ha superato ogni limite: è entrato in casa con una brunetta sofisticata che si è permessa persino di criticarmi: ”troppo bassa... mal vestita…le fantasie a fiori non sono più di moda” e lui, l’ipocrita, quasi, quasi si scusava per il suo cattivo gusto.
Ma ora basta, me ne vado. E voglio vedere se quella smorfiosa gli lascerà vedere tutte le sere quattro ore di televisione e se lo troverà così “sexi” quando gli si addormenterà addosso.

Che se lo prenda: io non lo voglio più.
Ho la mia dignità: che diamine, anche le poltrone hanno un’anima!

*

Il giro del mondo in due ore

Ci estraiamo a stento dallo scantinato imbrattati di lavoro, fatica e parole, tante parole.
Fuori ci aspetta la pioggia che sembra un fastidioso inconveniente ma, in realtà, è lì proprio per noi. Pochi passi sino all’auto e già le gocce, rade e pesanti, mi danno l’impressione di essere più pulita dentro.
Cosa andremo a cercare oggi? Non lo sappiamo bene, l’importante è che non siano parole.
Ci ritroviamo nell’antico tempio dove il silenzio è amplificato da un lieve sottofondo di musica sacra. Saba, un nome sparito, lontano. Una casa perfetta per l’uomo e per Dio, per l’arte e la storia, per il finito e l’infinito.
Già la bellezza scende a consolare l’amarezza del brutto che mi possiede.
Usciamo e, inseguendo un ricordo e un’assonanza, cerchiamo un altro tempio. Le porte serrate ci sbarrano il passo ma, accanto, un umile uscio di tavole di legno accende la domanda. Cosa celerà l’umile passaggio?
Lasciamo la terra dei secoli e dei millenni passati e, golosi e invadenti, varchiamo i confini della città che non è nostra malgrado noi qui siamo nati.
Stordita mi chiedo se sono in un sogno o se ho dimenticato di essere una malata terminale sotto l’effetto della morfina. Decine di gatti, di tutti i colori e gli umori. Vorremmo toccarli: a me, poi, non basta guardare. Devo possedere col tatto tutto ciò che mi attrae.
L’amico al mio fianco non sa quante volte avrei voluto ad occhi chiusi, come se mai avessi posseduto il dono della vista, seguirne il profilo, assaporare con i polpastrelli le morbidezze e le asperità del volto, per essere certa che esiste. È questo il pensiero che si riaffaccia quando il vecchio ci caccia lontano dai mici perché non si disperda l’unico universo d’amore che possiede. Lo faccio per lui che mi rinnova nel cuore un profondo dolore ma soffro per non aver potuto affondare le mani in tutto quel folto pelo, per non aver lasciato che le raspose lingue mi lambissero piedi e caviglie, per non aver placato in un abbraccio animale la mia sete di tenerezza.
Intorno il volto del degrado e della demenza senile: una foto di mia madre.
Lasciamo la terra dei vecchi, dei gatti e dei balordi.
Non basta e, senza saperlo, varchiamo la soglia dell’Eden. La giungla, l’oriente, il giardino dei ciechi, il bosco e l’orto del cuoco o della fattucchiera ci accolgono ospitali.
La pioggia ne esalta gli odori, dalla terra sale un primordiale sentore di patria: il giardino è mistico e carnale. Siamo, forse, Adamo ed Eva? Eppure non ci vergogniamo di essere nudi, consci dell’assenza di peccato che accompagna il visitatore in questo magico luogo. Anzi, ci sentiamo fieri della nostra incivile nudità ‘che l’occidente vestito in doppiopetto blu sa solo ingoiare e distruggere il Paradiso Terrestre.
E il Dio che ha creato ed abita il Giardino è come mi immagino Dio: accoglie tutti, ti ingoia ed aggancia con il suo sguardo seducente, difende il suo Eden dalle brame del Serpente e dei suoi adepti.
La Bibbia la scrivono gli uomini che hanno visto Dio.
E noi cosa vedremo? La luce più pura e pulita, compiuta in ogni sua indistinguibile particella che svela l’eterno custodito da Roma.
Questa inconcepibile luce è l’armatura che mi offre in dono l’amico mentre mi lascia andare verso il mio destino: mi prega di indossarla perché almeno si rimarginino le ferite prima che altri fendenti squarcino la carne.
Ed io, per una volte umile, ubbidisco: mi vesto di luce perfetta e sopravvivo all’insulto dell’abitudine.

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L’uomo magnetico

(Dedicato ad Anna ed al poeta)

“Venite siori e siore: il circo vi aspetta”. Ma non c’è tendone, né luci, né voci, né scalpiccio di zoccoli e piedi.
Stanotte il circo, a Bologna, si apre soltanto per noi, soltanto per noi si esibisce “l’uomo magnetico”, la “calamita umana” di Castiglione.
Se vi aspettate lustrini, cerone o strani cappelli resterete delusi: non c’è trucco, non c’è inganno. L’uomo magnetico è tutti e nessuno: è uno ieratico stilita, un bicchiere di vino che si lascia bere, una densa nube di fumo che nulla nasconde, un roveto ardente, le tavole della legge, un libro aperto ed una lettera mai letta.
Ma, soprattutto, è sguardo.
È lì la bravura dell’uomo magnetico: ti guarda e ti porta dentro ai suoi occhi, oltre il viso, oltre il cuore. Ti attrae con la forza dei suoi vividi magneti e non puoi più staccarti. Inutile opporsi con forza: è una legge della natura. I poli opposti si attraggono e si uniscono senza mai diventare uguali. E l’uomo magnetico ti orienta e tu puoi guardare solo verso il suo nord. Un luogo improbabile e scarno, scevro d’ogni comodità come la cella di un monaco, un unico spazio ove danza una bellissima donna, una nuvola azzurra che fa volteggiare i suoi veli di cangianti colori, sottile figura di tumido fiore d’acciaio.
E l’orizzonte del nord ti attira con le sue parole antiche, con l’assenza di rime e di strofe, con la forma perfetta della sua Naiade, Apsaras che scorre nel cielo d’Indra (1).


(1)Apsaras Nella mitologia indiana, esseri femminili semidivini di grande bellezza, spesso rappresentati come musiciste o danzatrici alla corte celeste di Indra.

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Dal paese delle favole

La mia, cari signori, non vuol essere una giustificazione, che non posso e non voglio darne, ma è la ricerca ad alta voce di un senso.
Come tutte le principesse ho vissuto, sin dal principio, in un “paese lontano - lontano”, cosa sommamente scomoda, come immaginerete, visto che non è segnato sulle carte geografiche ed è così “lontano – lontano” che nessuno viene mai a trovarmi.
Oltre tutto, nella mia terra, non si coltivano piselli, tale è la paura di ritrovarseli sotto il materasso e soffrire d’insonnia.
E, come se non bastasse, non sappiamo mai che ora è visto che, in base non so a quale cretina superstizione, sono stati messi al bando tutti i fusi, compreso quello orario.
Scusate, mi sto perdendo in digressioni.
Dunque… dicevo che abito in questo paese e, da brava principessa quale sono e fui, ricevetti a tempo debito la visita dell’immancabile strega, la terribile Coscience. Così fu che ricevetti la mia prima, vera maledizione e mi misi ad attendere il Principe Azzurro.
Ovvio che nel frattempo non conobbi uomo, in senso biblico e letterale. Le mie damigelle ciarlavano, notte e giorno, di robusti cavalieri e dolci paggi ed io, da vera Principessa di sangue blu cobalto, commiseravo le poverine.
Esse non avrebbero saputo mai quale fosse il vero amore: un amore paziente che sa attendere, un amore intransigente che vuole tutto o niente.
Nel frattempo, però, mi annoiavo a morte e, oltre tutto, mi irritava un po’ sentire tutti quei discorsi: anche le principesse hanno un cuore… e con tutto il resto intorno!
Quindi, pensai di superare l’empasse mettendomi a dormire. Nel frattempo sognavo il mio bel principe.
Così venne il gran giorno: mentre sonnecchiavo beata mi parve nel sonno di sentire uno strano rumore ed un leggero puzzo di diesel, poi lo scatto di una portiera.
Era Lui, appena sceso, azzurro come non mai, dalla sua fiammante “Ritmomilleeseiturbodieseltuttiglioptionalchiaviinmanorivalutiamoiltuousato”.
Mi si avvicinò e, prima di ogni altra cosa, mi colpì il suo inconfondibile profumo “per l’uomo che non deve chiedere mai”.
Lo guardai, mi guardò. Gli dissi: “Beh, che è quello sguardo ebete ed un tantino lubrico?”
Risposta (con ammiccatina ahum, ahum): “Ho fatto l’amore con Control!”.
Adesso credo sia possibile trovare il senso della mia reazione, capire perché, dopo aver scritto con la vernice rossa sulla capote della sua ritmo “scemo, maschio fallocrate”, sia andata nel fienile con lo stalliere delle scuderie del Re mio padre e mi sia data alla pazza gioia.
E adesso ho deciso di fare un viaggio: mi trasferisco, armi e bagagli, nel bosco, mi vesto di rosso e vado a cercare il lupo cattivo.
Ah, il fascino del perverso!

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Al di qua del muro - Lettera »
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Una favola che dura una vita »
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Poeta di notte »
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