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Raccolta di testi in prosa di Annalisa Scialpi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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L’incantesimo del castello

L’incantesimo del castello:

una fiaba sul potere della parola.

Introduzione

     La parola incantesimo deriva da “in-cantare” e allude a un canto che, dotato di una particolare forza, produce degli effetti: l’incantamento, appunto. E in effetti una delle definizioni[1] di incantesimo presente nel dizionario etimologico Zanichelli è “recitare formule o compiere atti che producano effetti soprannaturali”. Tra gli ‘effetti soprannaturali’ è annoverato uno stato di ‘assenza mentale‘ o vuoto della mente che permette, appunto, all’incantesimo, di agire.

    In riferimento a queste formulazioni è chiaro il rischio, sempre presente, che la storia collettiva possa svolgersi secondo un incantesimo o ipnosi di massa. Ne sono una drammatica testimonianza tutti i periodi storici dominati dagli  –ismi (fascismo, nazismo, comunismo) e dalle varie ideologie ‘religiose’ e politiche, ancora imperanti, che hanno causato morti fisiche e non solo,  recidendo alla sorgente l’evoluzione della civiltà.

       ‘Guide’ politiche e religiose, strateghi degli affari e oratori sano benissimo che la parola crea. Ma la parola può anche uccidere, distruggere, attraverso la menzogna, l’inganno e l’intenzione di nuocere: ecco l’incantesimo negativo che asporta, con un diabolico atto di chirurgia verbale, l’autostima, fino a immobilizzare. Occorre, quindi, un contro-incantesimo. Una fata buona o sciamana può, allora, riuscire a ricucire la trama di una vita sclerotizzata nella prigione del vecchio sortilegio. E quello che cerca di fare, in questo racconto, una stella: riportare alla memoria una storia spezzata, rimetterne insieme i pezzi attraverso un racconto capace di esercitare un contro-incantesimo, rompendo l’ipnosi. 

*****

     C'era una volta un bellissimo castello disabitato, che si ergeva sopra una collina fiorita. Nelle limpide notti la luna faceva risplendere la sua porta d’oro sulle quattro torri, svettanti come cime di cipressi. Tuttavia, il ponte levatoio era sollevato ed il castello era inaccessibile. A poca distanza da esso sorgeva un piccolo villaggio, ma nessuno degli abitanti conosceva la storia del castello: chi lo avesse abitato o quando fosse stato eretto. Alcuni raccontavano che fosse stato la dimora di un cavaliere, morto durante le sue gesta. Pare che qualcuno avesse visto il cavaliere ergersi come una statua di neve, in un gelido mattino d’inverno, proprio innanzi alla porta d’oro. Qualcun altro asseriva, invece, che il castello fosse stato abitato da una maga.

     Tutte quelle voci arrivarono al castello, che si stancò delle dicerie sul suo conto. Per quanto riguardava la sua storia, egli non la ricordava, come se il tempo fosse trascorso al di fuori della sua consapevolezza. E mentre le dicerie aumentavano (c’era chi parlava anche di orchi e mostri mangia bambini), il castello rimaneva lì, con la sua verità inesplorata. Nessuno, infatti, aveva osato di abbassare il ponte per aprire la porta d’oro e inoltrarsi nelle sue stanze.

     Gli abitanti di quel piccolo villaggio erano completamente assorbiti dai traffici commerciali e dal disbrigo delle faccende quotidiane e avevano una gran paura dell'ignoto. E diffondevano dicerie sul suo conto quando non erano indaffarati, solo per non morire di noia.

     Il castello soffriva molto per questa incomprensione, mischiata all’indifferenza. Si sentiva molto solo e in segreto desiderava che qualcuno bussasse alla sua porta dopo aver attraversato il vecchio ponte levatoio, che tanto avrebbe voluto abbassare. Ma qualcosa lo fermava. E poi nessuno sembrava veramente interessato a entrare nelle sue stanze. Egli era, semplicemente, per quella gente, il bersaglio di critiche e pettegolezzi. Nelle tristi sere, ricordava i tempi in cui la natura era tanto rigogliosa che, attorno a lui, si svolgevano incontri e banchetti con creature alate, fate e animali selvatici. Desiderava ancora quella compagnia, che il rapido processo di urbanizzazione aveva allontanato. Ben presto l’isolamento esteriore produsse un più profondo isolamento interiore. Nonostante si sentisse solo e ferito, non desiderò più la compagnia di alcuno e una patina di ghiaccio iniziò a circondarlo.  

    Ma una sera qualcosa cambiò. Quando il cielo si faceva scuro e le stelle iniziavano a brillare attorno ad esso compariva una stella mobile, simile a una pallina luminosa. Questa, dopo aver esplorato le sue torri e sorvolato le sue mura, se ne tornava in alto, scomparendo nel cielo di velluto. Il castello iniziò a cercarla tutte le notti e il giorno non pensava a nient’altro che a quelle strana stella e al momento in cui l’avrebbe rivista. La stella era apparsa, la prima volta, in una notte di luna rossa.

Quando la stella scompariva, il castello tornava alla sua immobilità glaciale. Ma la stella, pian piano, si affezionò moltissimo al castello. Anche a lei arrivavano le dicerie della gente, ma erano di poco conto per un astro così brillante e alto. Ella venne a visitarlo di nascosto, in pieno giorno, violando l’ordine celeste e vide con i suoi stessi occhi la patina di gelo che lo circondava. Capì subito che si trattava di un incantesimo!

 La stella pianse quando comprese dell’incantesimo e decise di liberare il castello dalla maledizione, che aveva bloccato il suo ponte. Cercò di parlare al castello, gli suggerì di ricordare il motivo di tanta solitudine, ma questi non le rispondeva e la sua immobilità la riempiva di tristezza. Allora chiese aiuto al gran consiglio delle stelle ma queste si rifiutarono di offrirle sostegno adducendo, come scusa, che le stelle non possono intervenire, di proprio arbitrio, nelle vicende umane. In realtà, molte tra queste erano invidiose della sua iniziativa.

     La stella andò ogni notte a trovare il suo castello, ma nulla cambiava e lei non sapeva come aiutarlo. Col tempo, però, iniziò ad accadere qualcosa. Man mano che la distanza tra la stella e il castello diveniva più piccola, lei sentì una musica diversa da quella a cui era abituata e che derivava dal moto di rotazione degli astri. Capì che quella musica era pregna della tristezza del castello e in essa, era incisa una richiesta d’aiuto. Fu così che, in una di quelle notti passate accanto al suo castello, vide un'altra piccola stella errante. Cercò di fermarla, prima che scomparisse, perché è difficile raggiungere le stelle erranti: esse vengono per un preciso scopo e lasciano i loro messaggi sotto forma di scie luminose, prima di riprendere il loro viaggio. La stella riuscì a fermare la sua ‘collega errante’ e non si stupì del fatto che sapesse tutto di lei e di quanto fosse importante, nella sua vita, il castello. Prima di riprendere il suo viaggio, la stella errante le lasciò una parola incisa in una chiave magica, che le consegnò. Sulla chiave era incisa una parola: RACCONTA. La stella lesse e dopo aver sollevato la testa per guardare la sua amica, questa era già scomparsa, lasciando una lunga scia luminosa e brillante nel cielo.

La stella si allontanò prima dell’alba, indugiando su quel messaggio. Cosa avrebbe dovuto raccontare al suo castello, per rompere il sortilegio? Ci pensò su qualche giorno. Ciò che desiderava raccontargli era il suo affetto e voleva farlo in una lingua leggera, indiretta, che non scalfisse le sue pareti, già così ferite dal gelo e dall’abbandono: un linguaggio leggero come l’aria. E così, la sera seguente, decise di ritornare da lui con questa speranza luminosa nel cuore, come se questo, come un baule magico, si fosse aperto. Da esso sarebbero fuoriuscite le gemme prescelte delle sue parole nuove. E se non le avesse trovate, le avrebbe inventate, seguendo la musica del suo cuore. Così, dondolando di gioia nel cielo, si lanciò in picchiata come un gabbiano ma, quando tornò dal suo castello, non lo vide più. La collina era deserta e i fiori erano appassiti. Tutto il paesaggio era spoglio e immerso nel gelo. Lo sgomento la paralizzò. Non ebbe nemmeno la forza di chiamarlo. Rimase lì, come paralizzata, fino a quando scorse una lupa. Pensò che potesse aiutarla e le si avvicinò, per interrogarla. La lupa le ringhiò contro, ma lei non ebbe paura. Tuttavia, da questo, la stella intuì che essa non solo non voleva aiutarla, ma che c’entrasse qualcosa con la scomparsa del castello.

Poi, inaspettatamente, la lupa parlò.

“Cerchi il tuo castello? Beh, come vedi, non è più qui… Ah Ah Ah….”

“Chi ha spostato il castello?” chiese, certa, ormai, che lo sapesse.

La lupa, allora, le raccontò la storia dell’incantesimo che aveva subito il castello. Le disse che una donna era stata fidanzata al castello. Ma, un giorno, il castello aveva iniziato a pensare che fosse una donna malvagia. Allora, dopo un lungo litigio amoroso, l’aveva lasciata. Ma ella aveva fatto rimanere in esso le sue unghie, dicendo che sarebbe tornata a riprendersele e avrebbe preso anche lui. La stella inorridì e la natura della lupa si mostrò: essa era, in realtà, la strega del sortilegio e certamente, era responsabile della sua scomparsa! La stella fu cauta, perché temeva che quella folle creatura avrebbe potuto fare ancora più del male al suo amato.

“Ho solo un desiderio da esprimere. Poi, andrò via” disse la stella

“Per non tornare mai più, immagino” aggiunse la strega.

“Va bene, accetto. Ma a patto che tu mi faccia vedere, ora, dove si trova il castello”

La strega sbuffò, poi chiamò il suo corvo malefico, facendo dei segni nell’aria. Questi arrivò immediatamente, guardando beffardo la stella, con una sfera di cristallo tra le zampe. La strega disse alla stella di avvicinarsi alla sfera, deposta dal corvo sull’erba. La stella guardò il corvo e lo temette, ma decise di correre il rischio. Nella sfera, vide il suo castello in un paesaggio meraviglioso, circondato da ninfe dei boschi e ruscelli e fiumi. Quell’immagine le congelò il cuore e per la prima volta in vita sua, provò un sentimento umano: la gelosia.

“Vedi com’è felice il tuo amico castello? Di certo non ha bisogno di te!” aggiunse e ridendo beffardamente, disegnò un cerchio nella neve e pronunciando un rituale, scomparve. Non prima, però di averle urlato, ‘Ricordati dell’accordo e lascia perdere il castello”.  

La stella era confusa: aveva cercato di salvare chi non voleva essere salvato: dunque tutto, persino la musica che aveva sentito, era frutto della sua immaginazione. E come aveva osato lei, che era una stella, affezionarsi a una creatura così diversa e distante da lei? Pensò che le sue colleghe stelle fisse avessero ragione, che c’è un ordine che va rispettato, sia per le faccende celesti che per quelle terrestri. Che lei era una stella sbagliata perché aveva vissuto esperienze che non aveva saputo, poi, giustamente interpretare: da sempre, aveva ignorato i grandi codici delle leggi eterne, che tutte le stelle conoscevano a memoria. La stella ebbe pesanti dubbi su di sé, ma era la tristezza per il suo amico scomparso che non le dava tregua. Ma decise che non sarebbe andata più in quel luogo dove, prima, il suo amico sorgeva. E ogni volta che vi passava accanto, andava più veloce della luce. Fu in una di quelle triste notti che, sedendo sulla cima di una montagna molto distante da quel luogo, sentì ancora quella musica. E quella musica era in ogni luogo perché era dentro sé. Sentii tutta la compassione verso il suo castello e capì che la strega le aveva mentito, che il castello non era felice e che l’aspettava. Con molta probabilità anche la storia dell’incantesimo era stata inventata, per nascondere la verità. Fu così che si ricordò il consiglio della sua ‘stella errante’ e prendendo la chiave con la parola magica, iniziò a raccontare una storia, lasciando che sgorgasse dal suo cuore, qualunque fosse. Poi chiese al vento di portarla al suo amore, dovunque si trovasse.

“C'era una volta un bambino dagli occhi chiari come acqua di fonte, che viveva con i suoi genitori in una casa di campagna. Sin da piccolo, il bambino aiutò suo padre nella scuderia di famiglia. E imparò ad amare molto quegli animali nobili e fieri, dai quali si sentiva tanto compreso.  Soprattutto, amava quella comunicazione silenziosa, così vera, autentica. Non era possibile, infatti, barare con i cavalli, che conoscevano le emozioni e i sentimenti. I cavalli lo facevano sentire compreso e amato. E quando li cavalcava e i loro corpi si incontravano lui sentiva fiorire e vibrare, assieme alla natura selvaggia dell’animale, la sua. L’animale intuiva lo stesso amore per la libertà e questo creava, tra di loro, un legame magico, indissolubile.  Un giorno una strega che abitava a qualche metro di distanza in un casolare diroccato vide il bambino cavalcare, robusto e fiero, un bellissimo cavallo baio. E siccome non aveva avuto figli, decise di chiedere ai genitori di affidarglielo. Sua madre, una donna fiera e volitiva, si oppose quando la strega bussò alla sua porta con una cesta stracolma di diamanti e pietre preziose. Allora la strega, per vendetta, fece al bambino un incantesimo: “Quando crescerai, sarai un senza/terra! Il piacere ti legherà a diverse donne, ma sarai incapace di amare. E così vagherai, senza alcun legame importante, viandante solitario nella terra di nessuno, in cerca di amore ma incapace di darlo e di riceverlo. Il ghiaccio che io porrò sopra al tuo cuore suggellerà l’incantesimo. E il ponte rimarrà chiuso, per congelarti nella tua solitudine. E sia!” Così dicendo, fece scendere un lampo che lasciò un segno nella terra. Quel giorno, il bambino fu in preda ad uno strano torpore, tanto che sua madre si spaventò. E chiamò il dottore, ma il bambino si risvegliò. E per poco, sua madre non trasalì: il suo sguardo sembrava esser divenuto di ghiaccio. I suoi occhi erano ancora belli, ma sembravano fari spenti. Il bambino crebbe ed ebbe molte donne, ma nessuna riuscì a sciogliere l’incantesimo. Così, superata la fase della gioventù, divenne un uomo solitario, dedito soltanto alla cura dei suoi cavalli e del suo giardino che, a discapito dell’incantesimo, rivelava la sua sensibilità d’uomo. Fu in un tardo pomeriggio di giugno che, proprio mentre si prendeva cura del suo giardino, dall’altra parte del muro a secco dove vi era una casa rimasta per parecchio tempo disabitata, vide una donna. Aveva lunghi capelli neri e labbra rosse di melagrana e indossava un vestito bianco. La donna aveva tracciato un cerchio innanzi alla sua casa e all’interno, vi aveva acceso un fuoco, attorno al quale danzava, facendo volteggiare i suoi capelli neri come piume di corvo. Mentre pensava che fosse una donna bella, ma parecchio strana, sentì approfondirsi la ferita nel suo petto e dovette premere per non sentirla dolorante. La donna si accorse di essere osservata e si voltò nella sua direzione. I loro occhi si incontrarono e in quelli scuri della donna gli occhi dell’uomo parvero acquistare uno scintillio. La donna si rivelò audace e gli si avvicinò, porgendogli la mano. L’uomo, che non aveva perso le sue abitudini da seduttore, le prese la mano e la baciò ma, subito pentito, tornò indietro. La donna rimase turbata e un poco offesa da quel gesto e tornò indietro un po’ pensierosa. Ma quell’uomo l’aveva colpita e ad ogni passo, si voltò indietro per vedere se lui avesse cambiato idea. Nel frattempo, la strega, da una sfera di cristallo, vide tutto ed ebbe timore che quella donna riuscisse a sciogliere l’incantesimo. Quella donna, infatti, possedeva un segno e sapeva benissimo, la malvagia, che quel segno apparteneva alle sciamane. Perché solo le sciamane sono in grado di sciogliere gli incantesimi. Così convocò l'assemblea delle streghe che, visto il caso eccezionale, organizzarono un sabba. Qui, cercarono di avere informazioni sulla donna, ma nessuna riuscì a vederci chiaro. Tutto quello che compresero era che era di stirpe regale e il mistero che circondava la sua vita la rendeva, in qualche modo, impermeabile alle loro trame. Un osso duro, dunque. Il sabba si svolse con invocazioni e danze sfrenate. Dopo, decisero di far morire la donna. Ma una stella errante vide e sentì tutto e lo riferì alla donna che, ossedendo poteri straordinari, non solo riuscì a schermirsi, ma conobbe anche il perché dell’odio feroce di quelle streghe. E la stella, così, gli riferì dell’incantesimo. E lei sentì tenerezza e amore per quell’uomo dal cuore di ghiaccio e capì che avrebbe potuto liberarlo solo liberando l’Eros, la forza che è al principio. Fu così che una sera di eclissi lunare, lei accese il fuoco e iniziò a danzare attorno ad esso. La sua pelle d’alabastro, rischiarata dalle fiamme sanguigne, disegnava la luna nuova del suo corpo morbido, flessuoso che danzava mentre il vestito aderiva alle morbide curve. L’uomo l’osservò, fino alla fine, nascosto dietro una siepe. E lei danzò ogni sera e danzò solo per lui. Danzò con la luna e senza luna. Danzò a piedi nudi. Poi, una sera, lei lo vide o lo invitò. Si amarono e per lui, fu come se una calda bufera si abbattesse sul suo corpo, risvegliando l’antico dolore sopito. L’uomo non rimase con lei, ma fuggì, nello stesso modo in cui fuggiva dalle altre: come un ladro. Si incontrarono altre sere ma sempre, lui, fuggiva. Ma, in una delle sue solitarie sere lui sentì qualcosa una fiamma salire lungo la spina dorsale e sentì tutto il dolore che, in tutta la sua vita, aveva represso. Corse a cercare quella donna, sapendo che aveva qualcosa di diverso, che era importante. Quella stessa sera, la donna aveva pianto sul letto di rose dove, dopo aver disegnato un cerchio, aveva visto un uomo confuso con, alle spalle, un’ascia spuntata. Per terra, c’erano dei giocattoli rotti, un cavallo di stoffa, sfere di vetro appannate e un camino con della brace già consumata. Le pareti erano spoglie e su di esse, vi si riflettevano figure angoscianti che paralizzavano al solo guardarle. Lei sentii questa tristezza senza fine ed entrò in quella stanza. In quell’istante lui entrò nella sua stanza. Fu allora che lui capì il suo amore e per la prima volta in vita sua, pianse. Pianse sui suoi capelli. Pianse sul suo profumo e le sue lacrime sciolsero il gelo sul suo cuore, rompendo del tutto l’incantesimo. Lei, senza staccare la mano dalla sua, andò alla finestra e la aprì. Erano in un castello, ma il ponte era abbassato e una vegetazione lussureggiante e festosa lo circondava. La donna aveva sciolto l’incantesimo, perché era stata l’unica ad essere entrata nella sua stanza segreta, sfidando il dolore e la morte, anche col ponte sollevato. Con il suo amore aveva eliminato il sortilegio della strega e guarito il suo cuore. Per un attimo, l’uomo tornò il bambino dagli occhi chiari di fonte. Lui la strinse a sè e, subito dopo, udì qualcosa: il cavallino di stoffa si trasformò in un unicorno alato. E l’uomo e la donna volarono verso un paesaggio nato dalla sua sfera di vetro, che ritornò brillante. Un paesaggio che solo i veri amanti conoscono. Un paesaggio che è il paradiso di quanti hanno avuto la forza dell’amore. 

Quando la stella finì di raccontare la storia e il vento l’ebbe diffusa alle quattro direzioni, riapparve, innanzi a sé, il castello dalla porta d’oro. Il ponte levatoio era abbassato e la patina di ghiaccio si era disciolta, formando un fiume rigoglioso. Qui si intravedeva l’immagine di un bambino con occhi di fonte. La porta d’oro del castello, aperta, spandeva intorno un profumo di festa. Sul ponte un uomo e una donna danzavano, tenendosi per mano. E tutto il villaggio accorse per visitare il castello, trasformato dalla musica portata dalle parole della stella: erano state le parole giuste il vero ponte, capace di rompere l’incantesimo.



[1] Manli Cortellazzo e Michele A, Cortellazzo (a cura di),L’Etimologico minore, Zanichelli, pag.572

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La donna nella stanza di Annalisa Scialpi

 nella stanza di Annalisa Scialpi

La stanza è ordinata. C’è un letto, bianco, con le inferriate. Alla parete, il quadro di una finestra aperta, sul cui davanzale è appeso un geranio rosso. La donna è rivolta alla finestra, protetta da grate di ferro. E’ giorno e un passero si posa sul cornicione, per poi riprendere il volo.  C’è un tavolinetto con dei mandala. Lei ci ha scarabocchiato su. Ha colorato solo un cerchio azzurro, al centro. E’ sotto effetto di sedativi e tiene le mani sopra le orecchie.  Entra un medico. Ha i capelli bianchi. Sembra gentile. Lei si mette la mano al cuore. Indossa una vestaglia bianca, i capelli sono scompigliati, bruni e le ciocche le scendono, anarchiche, sulle spalle.

  • Io penso che dovrei mettermi seduta a starla ad ascoltare, giusto? dice, voltandosi.

Il medico siede accanto al tavolino rivolto alla donna, senza dire nulla.

Lei ride.

 

  • Io sono una brava ragazza, io sono una brava donna educata, io sono cresciuta dalle suore. E lei, cosa vuole sapere? O vuole che mi sieda in una posizione, magari che in un’altra?

     

    Siede a gambe incrociate sul letto. Poi, si alza di scatto. Fa una voce da bambina.

     

  • Oh, mi scusi dottore,  mi sto comportando proprio come una bambina. Lei con quello sguardo severo mi sculaccia. Vero? Ah… Sporcaccione… Lei mi sculaccia. Ma, vede, io sono rinchiusa qui e per il fatto di essere rinchiusa qui, posso fare e dire tutto quello che voglio.

     

    Torna la voce squillante, da bambina, momentaneamente abbandonata.

     

  • Lei è venuto qui perché vuole farmi delle domande? Deve compilare le sue carte? Bene… Io devo dirle che sono stanca (fa la voce da vecchia). Sono stanca, dottore, moooolto moolto stanca, vede, siedo nel mio lettuccio d’ospedale, sono stata abbandonata dai figli che non ho mai avuto e dal nipoti. Vede… Sono in completa apatia. Dormo… Sono la Bella Addormentata e nessuno mi sveglierà.

     

    Entra un’infermiera con delle medicine. Il dottore le fa cenno di andarsene. L’infermiera, dopo  un’occhiata fissa e interrogativa, lascia la stanza.

     

  • Mi dica, lei pensa che sia pazza, vero? E cos’è, secondo lei, un pazzo? Lei si reputa ‘normale’? Non lo è, se ha scelto di essere quello che è.

Il medico continua a tacere.

Lei gli si siede accanto.

  • Lei ha mai amato, dottore? Lei è mai morto di felicità per uno sguardo, solo per uno sguardo, per poi cadere giù, nel vuoto più vuoto? Lei ha mai visto Inferno e Paradiso insieme? Ha mai visto il Paradiso e l’Inferno tutto in due occhi? E’ come se gli ormeggi saltassero via. Lei vede il Paradiso… e poi l’Inferno e poi… Il Paradiso e l’Inferno… Insieme. E capisce che quello che ha vissuto finora non era né il Paradiso, né l’Inferno, ma il nulla supremo. E allora l’altra sé, quella che non è mai nata, inizia a scalciare come una bambina ribelle e poi vede quegli occhi e sente bruciare ancora, dentro… E capisce… Che la fiamma dell’Inferno, del Paradiso è la stessa fiamma…

     

    Guarda nel vuoto, come se avesse avuto una visione.

     

  • E allora, finalmente, vede. Vede un Regno, completamente nuovo. Un Regno che sta in due occhi chiari. Un Regno che trema sul vecchio regno e allora lei vorrebbe salire, ma sente che le sue gambe sono fragili e il corpo le si sforma e quindi capisci… Lo senti… Che tu non sei il corpo e sai che nessun corpo ti perdonerà questa consapevolezza e il vento ti frusta, manciate di sabbia, violente, ti fanno lacrimare e tu… Non sai più chi sei. Non sai più se quegli occhi appartengono a un uomo o a un dio. E non vuoi più sognarli, quegli occhi e non sai più, insieme, il confine tra sogno e realtà. E allora vorresti ferire colui che ti ha tolto ciò che il mondo, assassino, ha costruito in te: menzogne, ipocrisie, maschere. E sai che tu non sei più del mondo, ma quegli occhi, nonostante tutto, volano via. Annegano nel loro stesso mare. E tu sei nuda. Senza più ancore. Senza più capire chi sei. E non sei del mondo. E dio e i demoni ti hanno abbandonato.  Lei può capire, dottore? Lei, DAVVERO, può capire?

     

    La donna va verso il medico, lo fissa senza indugio.

     

  • Prenda quella penna. Prenda quel foglio bianco. E scriva, dottore, scriva qualcosa che nessuno le ha detto mai. E allora saprà. Saprà cos’è follia. Saprà che Amore è follia. Saprà cos’è. Vivere. Morire. Cos’è.

     

    Si volta verso la finestra. L’uccellino le si posa tra le sue dita. Il cielo è azzurro. Come il cerchio dipinto al centro del mandala.

*

Domani

 

     Cos’era accaduto? Credevo di saperlo; o forse no. No... Perché lei non era lei. Non era, non poteva essere lei. Nonna Santina che scavalcava i muretti come un’adolescente. Nonna Santina dagli occhietti lucidi e furbi che diceva sempre… Domani, vedrai. Nonna Santina… Che non c’era più.

La vidi. No, non era lei quella creatura esanime adagiata sul letto come una canna vuota. Per sempre spenta. No… Non era lei. “Nonna, nonna, sono io, rispondimi, nonna nonna!!!”. Mi afferrarono per un braccio, non potevo toccarle la testa, stringerla. Non potevo più toccarla. Mi liberai dalla stretta, incazzato, brancolando tra tutta quella gente, urtando chiunque. - Che cacchio avete da guardare – stavo per urlare. Ma uscii dalla stanza, sgusciando tra quelle facce da convenienza. Fuori. Verso l’aria. Lei era lì.

Martina, dalla valle, mi parve uno scrigno di diamanti lucenti. La bellezza se ne infischiava della nonna che non c'era più. Sui campi ancora illuminati dagli ultimi bagliori del tramonto le balle di fieno emanavano piccole luci che guizzavano nell'erba come tanti pesci d'oro. Sentii quella poesia trapassarmi l’anima, brutale come uno schiaffo in pieno viso. Mi fermai, guardando in faccia l'oro degradante dei fili di fieno. Il vuoto, però, mi prese alle gambe. Mi sedetti. Chiusi gli occhi.

******

          “Ti vengo a pre… Cioè, posso passare a prender…”.

“Ci vediamo domani”, tagliò corto Nadia, con la sua aria impertinente, girando la bella testolina bionda.

“ Nonna... Stasera esco” le avevo detto, con la testa in una miscela di mondi sovrasensibili impastati di emozioni e di paura insieme. Nonna Santina era venuta subito da me, con la sua vestaglia grigia  con le margherite. “Mi raccomando, le donne oggi sono tutte uguali”, bofonchiò. Poi, prese per un braccio e ancora mi domandai come mai quella mano così piccola fosse capace di una stretta così forte ed emanasse tanto calore. Tanto fuoco. Dopo quella rivelazione mi aveva detto di  aspettare. E, tornata in fretta, mi aveva messo in mano dei soldi. “Paga tu, eh! Non fare lo spilorcio o, come si usa mò, il cafone che paga alla romana!” mi aveva ammonito, contraddicendosi. Poi, era corsa. A preparare qualcosa. Lo sentii ancora il calore di quella presa, sul polso, quasi bruciante. Un bruciore più forte del gelo estivo.

     Sentii le mie lacrime. Ma non erano lacrime. Era un fiume. Un fiume incontenibile. Scendeva sulla camicia, sulle mani. Sui polsi. Scendeva e si spegneva col sole che andava a coricarsi, oltre le nuvole. Il fuoco della sua manina sul mio braccio. La nonna era morta. Ma la pellicola della memoria continuava. A srotolare ricordi portati dal vento. Appena soffiando l’ultima brezza di luce.

*****

        “La verità ha mille, forse infiniti volti. Ma questi, per nostra ottusità, sono spesso destinati a non incontrarsi mai”, ci aveva detto in aula il professor Gigli. Rividi lui, la sua figura autorevole, sentii la sua energia, il suo carisma. Sentii il mio amore per lui. La prima volta in cui ammisi di amare un uomo come avevo amato Nadia. Senza differenza alcuna. Gli avevo scritto, finito il corso, una lunga lettera, lasciandola latitare dalla giacca alla mia stanza per qualche giorno. Fino a quando la nonna, un giorno, prima di uscire di casa, mi aveva chiamato.

     “Hai perso questa”, mi aveva detto, avvicinandosi con un'andatura che non era la sua. Aveva la testa bassa. Ma le sue dita tremavano, come le mie. La lettera era caduta. Nessuno si era subito piegato. Poi, però, ci eravamo abbassati insieme. I nostri occhi si erano incontrati per forza. Nei suoi c'era acqua e luce nella stessa misura. Mi aveva preso per il collo, come un cucciolo e mi aveva spinto il volto al suo, con affetto rude. Mi aveva detto che ero uno sconsacrato, che dovevo farmi la comunione e la cresima altrimenti sarei morto nel peccato. Ma mai, mai mi sarei aspettato quelle parole, dette sulla soglia. Quelle parole che mi trapassarono l'anima come una lancia. Una lancia con ali.

“ Non ti dimenticare di dargli la lettera. Il cuore ha sempre ragione”.

La saetta mi bloccò. Mi fece impazzire il cuore. Quando ebbi il coraggio di voltarmi, la nonna aveva chiuso la porta;  io  ero ali.

*****

                                                                     

          Mi ero alzato per passeggiare, ma forse avevo camminato troppo. Dov’ero? Sentii la manica della camicia completamente inzuppata. Spinsi lo sguardo sulla campagna, ma non scorsi più casa di nonna in lontananza. Lontano, latrati sparpagliati, desolanti, a tratti minacciosi. Anche il tramonto si era spento, esiliato ormai in altre regioni. Oltre. Oltre il mio dolore.

Sarei dovuto venire la settimana prima. L’avrei trovata ancora. Invece no: “Poi”, mi ero detto. “Poi, poi…”. Avrei dovuto pensare anche un solo istante al momento in cui non ci sarebbe stato più tempo per dire “Poi”. Ai giorni in cui il poi è già presente, ed il presente è un mai; mai più.

Mi sollevai. Guardai gli alberi, aspettando da quelle cortecce scavate una risposta. Ma il silenzio mi giunse imperturbabile mentre, a tratti, il vento scuoteva i rami più alti che sembravano incidere, furiosi, graffiti nell’aria densa e severa. Chiusi gli occhi.

*****

          “Ho deciso, non voglio più studiare. Lavorerò. Andrà bene qualsiasi cosa: imbianchino, manovale, commerciante. Non importa”.

Mia madre era esplosa in una eruzione di insulti e isterismi. Lei, ragazza madre che aveva dovuto tirare avanti da sola un figlio, senza neanche la soddisfazione di vederlo dottore o, come diceva nonna Santina, professore. La nonna, invece, dopo quelle parole, mi aveva gridato in faccia che ero andato fuori di testa, che qualche donna mi aveva fatto ‘la magia’. Allora prese una ciotola con dell’acqua, vi versò delle gocce d’olio dentro e disse che sì, l’affascino c’era, perché certa gente era molto cattiva. Mia madre aveva continuato a piangere e lei, allora, aveva detto che i fatti nostri erano nostri, che aveva già troppi guai per la testa e, imbronciata e a testa bassa, era corsa a lavare i piatti, ammutolendo, dicendo, ogni tanto: “L’affascino c’è, ma voi, anche… Siete dei rompi…”.

     Cos’era successo? Il mondo, per me, si era spento improvvisamente sotto il peso di tante, troppe  bugie e verità taciute. All'improvviso, era diventato una scatola vuota di senso o un palcoscenico in cui fantasmi in maschera nulla aggiungevano alla mia vita da spento spettatore.

Rividi mia madre, la faccia disidratata e i capelli aridi di tinte strane. La odiai. Per la colpa che aveva lasciato in me, poco prima che mi congedasse dalla sua palude vischiosa. Lei aveva vinto: le sue ansie, paure, morbosità, ossessioni, avevano vinto: ero colpevole. Colpevole di non essere in grado di dare un orientamento alla mia vita. Di replicarle il film odiato, colmo di dolore, risentimento e rimpianto di aver avuto al suo fianco un vigliacco. Un uomo di cartone. Senti, allora, che mia madre aveva ragione: ero uguale al fantasma di padre che intravedevo solo qualche volta, di sfuggita. Come lui ero vapore di maschio. Veliero stanco alla deriva. Bandiera bianca. Il film era lo stesso. Ed io lo avevo proiettato ancora davanti ai suoi occhi cerchiati, neri di realtà.

        L'aroma amaro dei mesi senza senso alla ricerca di un senso s'insinuò, ancora, nella mia mente. E, con esso, l'immagine dei volti incontrati durante il mio randagismo. Anche allora nonna Santina, come sempre, c'era. Presente e lontana. Allontanata dai travagli dei miei turbamenti, dalle inestricabili vie del mio essere confuso, ferito, offeso. In fondo, vilipeso da una vita subita, fino ad allora, per meccanica implicazione. Il sentore di non senso di quegli anni a fare lavoretti sparpagliati sniffando tracce d'amore nel sesso sregolato mi raggelò; avvertì una raffica di vento satura di cocci e schegge taglienti di me salire dagli antri sepolti della memoria. Sollevai gli occhi al cielo, bagnato dagli ultimi soffi della sera. Sentii la sua carezza, dolce come quella di una vera madre. E alla quiete ineffabile, non giudicante, consegnai la mia storia spezzata, accolta dal trancio di luce dopo il lungo campo d'oro e di fieno.

*****

     Nella mia mente poi, all’improvviso, tornò lei. Avevamo un po’ litigato per avere preso ‘in affitto’, come diceva lei, un calice eucaristico che aveva sistemato sulla mensola della cucina. “E’ un buon segno”, aveva detto lei. Allora le avevo detto che mischiava tutto, sacro e profano, che la sua era superstizione: “Cosa?!” aveva risposto, urlando, con la sua espressione burbera e infantile insieme. “Pensa per te, a farti la comunione e la cresima!”. “Mi sono fatto evangelista”, gli avevo risposto per prenderla in giro. “Ora ti do un pugno in testa!”, mi aveva gridato, le piccole mani chiuse che non avrebbero spaventato nemmeno un cucciolo. E, sbuffando e agitando la testa, era andata a sedersi in ginocchio sulla sedia, come se fosse affacciata ad un balcone.

      La rividi poi, sull'inginocchiatoio dell'antica basilica, con me al suo fianco, chiedermi il libricino con le preghiere, quelle che recitava ogni mattina mentre vedeva la messa in televisione col volume così alto da sentirsi fin giù al portone. E, poi, incrociai ancora il suo sguardo, quegli occhi di bambina ferita che avevano imparato a esser duri solo per sopportare la vita. Una vita che le era stata negata da sua madre che aveva scritto per lei uno spartito di dogmi e di servitù. E, poi, i suoi sogni rubati da quel mascalzone che l’aveva messa incinta e abbandonata, costringendola a chiudersi in casa per non sopportare le malelingue di paese. Non era un volto ‘normale’, quello che vidi rivolto al Crocifisso ferito, mentre la sua bocca si muoveva appena, sibilando sillabe incomprensibili ma dense, come se dalle sue labbra strette, che avevano bevuto fino in fondo ogni calice di dolore, piovessero saette in grado di conficcarsi nelle stesse carni lacere del Dio a cui, con fare maschio, si rivolgeva, gesticolando un po’.

     Ricordai il momento in cui appresi il silenzio. Il silenzio che diviene specchio innanzi al quale non si può più fuggire. Il silenzio immenso come le navate, affacciato agli archi e riflesso nei mille, infiniti archi invisibili sepolti nel tempio immenso dell'essere. Lì, vidi il mio io dolorante, ceppo nodoso, a tratti di stoppa, trafitto dalle mie angosce, la mia tristezza, la dannata paura di vivere ereditata da mio padre, fuggito ancor prima che nascessi. Lì, incontrai il mio Cristo e lo sentii gridare nelle mie stesse carni “Hecce homo”. Hecce Homo. Ecco l’Uomo, fuorilegge come me. Ecco l’Uomo: morire ancora nelle cattedrali, golgota freddi ornati di ori e paramenti dove il dolore, l'insulto, la farneticazione del tempo continuano a gridare intorno, sotto, dentro a un ceppo nodoso e sanguinante. Ecce Homo. Io ero quello. Ero questo.

     Dopo quella rivelazione guardai nonna Santina che, immediatamente, si voltò. Il suo volto era dolorante, oscurato dal quadro della madonna nera con gli occhi stravolti. “Ecco, donna, il tuo figlio”, sentii dentro me. Non so per quanto tempo piansi. Con lei. Aggrappata a lei che sapeva di dolce e d'amaro. Di sapone da bucato e d’incenso. Antica e nuova. Ceppo stopposo e germoglio.

*****

      Mi addormentai. E, nel sogno, la rividi. Era ancora lei, coi suoi filini di capelli argento che non aveva mai tinto in vita, quegli occhi scuri ancora infossati nella pelle scavata, la fronte bassa corrucciata.

“ Nonna, perché te ne sei andata così, senza dire niente?”.

“ E che potevo farci”, soggiunse, scrollando le spalle. Poi, però, sorrise. Ma il suo non era più un sorriso a metà, di quelli che le si arrestavano per dire una parolaccia o qualcosa di amaro. Indossava una giacca grigia e una gonna blu scuro e le pantofole con la pelliccia di lana dentro. Aveva quegli abiti che gli avevo sempre chiesto di cambiare con qualcosa di più allegro. Durò poco, quella visione, che subito la vidi, vestita di una gonna rossa e di una maglia con schegge di luce color argento. Aveva il rossetto rosso, quello che rimproverava sempre a mia sorella di non mettere mai. La pelle divenne, improvvisamente, luminosa, le rughe si diradarono e la bocca mostrò un sorriso che non le avevo visto mai.

“ Nonna!”, gridai.

“ E’ arrivato un momento in cui bisogna lasciarmi andare. E, poi, sai, io qui ho molto da fare. Per prima cosa devo andare a un ballo”.

Le lacrime scorrevano a fiumi ed era gioia, emozione e non dolore.

“ Ci si attacca sempre a quello che crediamo. Della vita. Della gente. Ma non sappiamo quello che siamo”.

Fu allora che vidi una grossa farfalla variopinta e scintillante svolazzarle attorno e poi una seconda e una terza.

“ Da giovane volevo fare la cantante, la ballerina, poi il medico, l’avvocato. Dio sa quante cose avrei voluto fare! Invece mi sono solo preoccupata per la vita degli altri che, tutto sommato, è andata. Perché ogni vita, in fondo, va. Siamo noi che ci crediamo troppo importanti”.

Si fermò un istante, poi riprese.

“Tu la conosci la storia di Cenerentola”.

Annuii.

“Benissimo. Cenerentola, a mezzanotte, doveva rientrare. Ed io sono stata sempre una stupida Cenerentola. Sono dovuta sempre rientrare in tempo per non perdere la carrozza. Ma qui non ci sono carrozze. Ci sono solo farfalle. E le farfalle non si sa mai dove ti porteranno. Posso essere qua e, tre un attimo, essere là, tra voi”.

   Tante farfalle presero a svolazzarle intorno, con più impeto, disegnando col fruscio delle loro ali una luce bianchissima che l’investì. E il suo corpo sfavillò come un astro, per poi dissolversi in mille schegge che si incontrarono, per poi sfaldarsi ancorai. Le schegge più luminose andarono a insinuarsi in quelle più oscure, fino a quando scomparì in quella luce che avvolse tutto, me, come il grembo di una madre.

Sentii solo una frase provenire da quella dimensione beata ed era ancora lei, la sua voce.

“Ricordati di vivere, perché c’è un solo peccato: non vivere. Ricordati di vivere e non aver paura di neinte! Noi non siamo quello che pensiamo!”.

Mi svegliai la mattina dopo, con un cucciolo che mi sniffava il viso, bianco. Lo riconobbi: era Pupo, il cane che la nonna aveva tenuto tanti anni, morto di vecchiaia. Lo presi in braccio e lo strapazzai un po’ sul collo. L’aurora avvolgeva in una luce limpidissima i campi, prima che il giorno li assalisse col suo calore abbagliante. Avvertii il suono di un ruscello che, fresco, scorreva. Mi girai intorno per cercarlo e, nonostante non lo vedessi, ne udivo, sempre più chiaro, il suono. Capii. Quel ruscello non era da nessuna parte e, nello stesso tempo, era ovunque. Era dentro di me. Era la vita che, ancora, chiedeva di essere vissuta. Era l’ultimo, grande dono della mia insopportabile e dolcissima nonna Santina. Lo avrei udito anche domani. E poi ancora. Come lei, sarebbe stato per sempre dentro me.

*

Concettina, pubblicato nel 2004 su Cronache Martinesi

 

    

    Un sole bugiardo filtrava tra gli squarci del fogliame nella villetta comunale del mio paese, mentre io e la signora Concettina sedevamo su una panchina sgangherata. In realtà, mi ero sentita in dovere di farle prendere un po’ d’aria, visto che non usciva da casa da settimane, forse da mesi. Per tutto il percorso Concettina aveva camminato a testa bassa, tenendo le mani intrecciate in grembo.  A tratti, girava verso di me il viso furtivo con un sorriso stupido, per poi continuare a fissare l'asfalto, quasi a voler scongiurare un pericolo dal basso. Circa poi ogni dieci passi si fermava sollevando le mani all’altezza del volto, mormorando parole incomprensibili, forse una preghiera. Allora le chiedevo se avesse bisogno di qualcosa e lei, di rimando, mi rivolgeva sempre il solito sorriso annacquato. Così smisi di farle domande, rassegnandomi allo strano rituale il cui maggior fastidio era dovuto al fatto che attirasse l’attenzione dei passanti divertiti.

     Conobbi Concettina una mattinata di dicembre, soccorrendola per una storta alla caviglia. L’avevo accompagnata a casa intuendo, senza peraltro dispendio di immaginazione, che si trattava di una persona sola. Da allora, si era creata una speciale amicizia. Zia Concetta mi raccontò della morte di suo marito, che l’aveva lasciata sola nella casa grande e fredda. Da allora, aveva indossato sempre il lutto. Sapeva che l’usanza era stata abolita da tempo, ma lei sosteneva che non le importava ‘che', se altre donne avessero avuto la fortuna di avere un marito come il suo, avrebbero fatto per lui questo ed altro. Zì Concetta, infatti, oltre a tenere il lutto, aveva fatto anche altro.

     La vedova tagliava i capelli solo quando la grossa treccia grigiastra raccolta a spirale le appesantiva il cranio. E lei sembrava farsi ancor più curva sotto il peso di quell’impalcatura monumentale. Inoltre, teneva sempre le persiane abbassate, schiudendole solo di qualche centimetro e un lezzo nauseabondo si infiltrava nelle pareti, alimentando l’atmosfera sepolcrale. Eppure, a giudicare dall’ampiezza della casa e dall’arredo, si poteva benissimo intuire che zì Concetta fosse tutt’altro che povera. E di questa opinione era anche la gente che l’aveva conosciuta ai famigerati tempi verdi. Vox populi, vox dei…

    Terribile poi, vederla prima della toaletta. La chioma fuligginosa inghiottiva, come una nube, il viso giallo e ossuto, sul quale spuntavano baffi neri e spessi come setole.

Concettina, in realtà, usciva ogni mattina per andare a messa e lasciava la chiesa poco prima che passassero col cestino delle offerte. Questa abitudine, diffusasi come un vapore dal cenacolo delle devotissime, era diventata di dominio pubblico. Persino il sagrestano, a voce del curato, aveva espresso le sue lamentele. Ma… Che fare?  Concettina era un mostro di coscienza critica e non confondeva lo spirito con la materia. “Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”.

    Da qualche tempo aveva una specie di canarino che, per i processi di adattamento all’oscurità, sembrava più che altro un pipistrello. Se qualcuno le portava della lattuga lei mangiava le foglie verdi e all’animaletto riservava quelle ingiallite.

“Nulla è da buttare, figlia mia. Peccato! Peccato!” diceva sgranando gli occhietti lucidi come olive galleggianti. E si faceva due volte il segno della croce rivolta all’altarino sulla credenza con l’icona del Volto Santo e la foto del caro Tonio. Se, per caso, mi scappava un’espressione poco ortodossa, vedevo i suoi occhi infiammarsi di uno strano scintillio e il suo volto irrigidirsi come quello di una statua. In quei terribili momenti sembrava quasi non respirare più. Allora, spaventata, le chiedevo scusa scuotendola un po’, e lei m’imponeva di giungere le mani e chiedere due volte perdono vicino all’altarino. Uno a Dio, e l’altro? Il fastidio delle sue dita artritiche sulle mie, che mi aiutavano a compiere il gesto, m’impediva di trovare subito una risposta.

   Concettina mi raccontava che suo marito teneva la cassetta dei risparmi col lucchetto. E che i soldi glieli dava lui, solo per il necessario. Né una lira in più né una in meno. Diceva inoltre che era stato un galantuomo e che, se l'aveva battuta, lo aveva fatto per raddrizzarla, sennò le femmine diventano sfacciate e se ne vanno in giro come donnacce a lavare i panni sporchi in piazza. E poi dimenticano che l’uomo lavora, e deve mangiare, e deve trovare la moglie a casa quando torna, e la mattina le scarpe lucidate sull’uscio, soprattutto a quelli che, come il suo Tonio avevano il commercio e dovevano comparire. Gli occhi le lacrimavano mentre lo descriveva col cappello a tese larghe e il sigaro in bocca il suo Tonio che, a quei tempi, era forse l’unico in paese a possedere la Belvedere. Benediceva a voce alta suo marito che le aveva insegnato ad essere femmina, ripetendo che le busche le prendeva per sua negligenza perché, in effetti, le meritava. Qualche parolaccia, aggiungeva, gli sfuggiva di tanto, ma solo lui poteva dirle che, se le lo avesse imitato, l'avrebbe subito sistemata come un vero maestro. Non avevano avuto figli benchè a quei tempi mancasse la televisione ma, nonostante tutto, erano stati una coppia  felice, perché lei era stata sempre al suo posto, e lo giurava vicino all’altarino. Certo, ripeteva, suo marito era un uomo di società, girava, e può darsi che qualche scappatella l’avesse avuta. Ma, in fondo, ripeteva, lui era o non era un uomo vivo come quelli di un tempo? Bello, di certo, e mica fesso... Ma le scappatelle erano un conto, la famiglia un altro. In quel momento mi venne in mente la regola aurea dell’impero romano ”dividi e comanda”, ma non glielo dissi, tanto non avrebbe capito. E, poi, guai a biasimare l’anima del defunto che le aveva insegnato a diventare femmina.

     Mi sollevai dalla panchina per prendere qualcosa dal bar, visto che era a due passi. Zì concetta, però, mi afferrò per la manica del giubbotto. Estrasse dalla tasca due confetti ingialliti e me li porse quasi con violenza. Li osservai e, per un attimo, ebbi come l’impressione che, su di essi, si proiettassero le stesse immagini sull’altarino e un fremito di mistero scosse il mio corpo. Ne ficcai comunque uno in bocca. Nel frattempo, passò una comitiva di ragazzi, fatta eccezione per una signorina bruna, slanciata, che si agitava dalle risate posando ora la testa sulle spalle di un giovane biondiccio, ora agganciandosi a un altro. Concettina lanciò alla ragazza un’occhiata luciferina. E, con la voce ansante per l’eccitazione della rabbia disse:

 

“Di femmn d joscia regghiè ( Riguardo alle donne moderne)

na s capsc chiu nodd: ( non ci si raccapezza più:) 

su lor ca s men’n ngudd all’umm, ( sono loro che “seducono” gli uomini,)

l’umm hann alluccsciot. ( gli uomini sono allocchiti.)

Ahm, fegghia maje! N’ng ston chiè l’umm d na vot, ( Ah, figlia mia! Non esistono più gli uomini di un tempo)

m n’ng sapn né di jugghie né d sel. ( ora sono insipidi.)

A mgghier desc no, e chiechn a chep. ( La moglie dice di no e loro chinano il capo.)

I femmn d joscia regghie ( Le donne moderne)

nng sapn fa manc i rcchietedd. ( non sanno fare nemmeno le orecchiette.)

Rcchietedd?! C t la dà? (Orecchiette?! Non se ne parla nemmeno!)

Accattn a past già cuscnet iend i sacchitt (Acquistano la pasta precotta)

e n’tusschescn mart e fel. ( e intossicano marito e figli.)

Nng sapn fa nu litt a crstien: l’abboc’cn (Non sanno fare un letto come si deve: lo rivestono solo esteriormente)

e i materazz l’aggr’n na vot all’ann ( e i materassi li rigirano una volta all’anno).

N’ng i ver na vot d strca n’terr ( Non le vedi una volta strofinare il pavimento)

com fasciamm nogg ( come facevamo noi donne di un tempo)

ca s spzzavn i ren sop i chiangul ( a cui si spezzavano le reni sui mattoni rustici)

e l’era strca tott a ion a ion ( e dovevi strofinarli tutti singolarmente).

Fatgghien, sen , ma… Cià fasc’n? ( Lavorano, ma in sostanza… Cosa fanno?)

Ston sop u computer, ( Utilizzano il computer,)

acchiang’n nu rsct, ( pigiano un tasto,)

e i ver semp esaur’t. ( e le vedi sempre esaurite.)

S mett’n do resct d stocc, ( S’incipriano abbondantemente il viso,)

iess’n pi culleg mascul, ( escono con i colleghi maschi,)

s fomn a sgarett, Crst megghie a d’amm arrvet ( fumano, Gesù a che punto siamo giunti, )

e ciò ca uaragn’n spen’n: ( e il guadagno lo spendono intero:)

na so sot ca l’avastn. ( i soldi non bastano mai.)

Po’ von a ches ( Poi vanno a casa,)

 p’gghien a vaporett, ( utilizzano la vaporetta,)

ti tà, ti tà e hanna spccet. ( e in un baleno hanno terminato.)

I mar’t, cdd povr Crst, ( I mariti, poveri Cristi,)

fatgghien, s rtrn murt, ( lavorano, tornano esausti)

e n’ng l fascn acchia manc na gramm d past n’callsciot. ( e non gli fanno trovare nemmeno un po’ di pasta scaldata.)

N’ng sapn manc attaccà nu button. ( Non sanno nemmeno attaccare un bottone.)

E i robb? ( E i capi?)

Bianc, gnor, ross, vird, ( Bianchi, neri, rossi, verdi,)

i scaff’n iend a lavatrsc e i fascn a pgnul. ( li infilano in lavatrice e li infeltriscono fino a ridurli a un pugno.)

Lavà a men? ( Lavare a mano?)

C t lè dà? ( Non se ne parla nemmeno!)

Quann i robb so dlchet, ( Quando i capi sono delicati,)

sobt a tintori. ( subito li portano in tintoria.)

T li dtt: ( Lo ribadisco:)

n’ng sapn ammnstrà na ler… Vulev dsc nu cntes’m. ( non sanno amministrare una lira… Volevo dire un centesimo.)

I fegghie femm’n po’ su com i mamm. ( Le figlie, poi, sono tali e quali alle madri.)

E cià putev assè da sott? ( Non poteva essere altrimenti.)

Von à discotec, ( Vanno in discoteca,)

maledett a c’la nvntet, ( maledetto chi l’ha inventata,)

iess’n pi uagnon, na s’mmen i ion natas’mmen i nat, ( escono con i ragazzi, uno alla settimana,)

e all’ atten l scatt u cor. ( e al padre gli scoppia il cuore.)

Na s capsc chiu nodd ( Non ci si raccapezza più,)

d sti femm’n d joscia rgghie! ( riguardo a queste donne moderne!)[1]

 

Un piccione si avvicinò alla panchina. Sollevò la testolina tremante e, subito dopo, cadde al suolo stramazzato.



[1] La trascrizione del dialetto martinese è, qui, approssimativa e legata all’ironia del racconto. Questa verrà fatta seguendo le regole di trascrizione dello stesso successivamente, nella prospettiva della pubblicazione del racconto  in una raccolta.

*

L’acchiappanuvole.

 

Mamma, sai cosa voglio fare da grande? - irruppe il piccolo Sandro mentre giocherellava con le posate per non concludere la cena.

Cosa Sandro? Oh si: il medico come tuo padre, non è vero?

No, non voglio fare il medico: voglio afferrare le nuvole e metterle in grossi barattoli colorati. Sì, sì, voglio afferrare le nuvole!

La signora Desartis sorrise imbarazzata. Rivolgendosi ai commensali disse - Vi prego di scusarlo : è solo un bambino. Anche se, presto, dovrà imparare a pensare in maniera più concreta. E dico presto, per evitare che gli insegnamenti e la disciplina familiare precipitino nel vuoto, dando vita a una personalità squilibrata e priva di solidi ancoraggi. Soprattutto in questi tempi così difficili…

Certo Katia, sono perfettamente d’accordo - rispose la professoressa Sileni.

L’educazione deve avere, come dire, la massima presa. Deve inserirsi in un contesto spazio-temporale ben definito. La famiglia e la tenera età del fanciullo sono, diciamo, le coordinate essenziali affinchè il processo possa giungere… Scusate, volevo dire giungere ad una sua attuazione in maniera fecon…

Mamma, hai sentito ciò che ho detto?!!! - gridò questa volta Sandro. - Da grande voglio fare… L’acchiappanuvole! Si dice così non è vero? Non è vero?!!!

Smettila adesso, Sandro! Finisci la tua cena senza inutili chiacchiere. Sono già le diciannove e trenta, quindi tra mezz’ora dovrai lavarti i denti e infilarti il pigiama. Alle venti devi essere a letto! Potrai farlo nei sogni l’acchiappanuvole, se proprio ci tieni. E fa le tue scuse alla signora Lucrezia per averla interrotta: lo sai che è segno di cattiva educazione. Su, avanti: fa’ le tue scuse.

Il piccolo Sandro ammutolì, fissando la brodaglia rimasta nel piatto sulla quale galleggiavano pezzettini di carne simili a relitti preistorici. Il padre, di solito, non interveniva quando la madre lo riprendeva, nonostante non condividesse i bruschi atteggiamenti: era arrendevole.

Sandro, dopo aver levato lo sguardo dal piatto, osservò i commensali che sollevavano ostentatamente i calici. Notò che le donne avevano la curiosa abitudine di trattenere le risate, portandosi le dita alle labbra. Qualche parola sconosciuta attirava la sua attenzione: concretezza, stabilità, ripristino, riequilibrio.

Osvaldo, direttore amministrativo di una nota azienda, gli faceva un’impressione particolare per via della voce roca e delle sopracciglia nere perennemente aggrottate. E, soprattutto, non capiva perché sua moglie continuasse a mangiare con quel colore rosso sulle labbra. In realtà, le picchiettava soltando, riproducendo la comica scena di un film muto. La persona più loquace e sorridente del gruppo era sua madre, sempre pronta a prodigarsi per assecondare le richieste e assicurarsi che le pietanze fossero gradite.

Tesoro, devi andare adesso. Se vuoi, magari, per addormentarti tuo padre potrà terminare di raccontarti la favola di Pinocchio. La parte più interessante, quella in cui il burattino si trasforma in bambino e…

Odio Pinocchio che diventa bambino, è più simpatico il burattino!

E, così dicendo, si alzò mandando giù la sedia con uno scossone, e corse per le scale.

Entrò nella sua stanzetta illuminata da stelline fluorescenti sulla tappezzeria. Chiuse con due mandate la porta, aprì l’enorme finestra frontale e, riprendendo fiato con tutta la capacità dei suoi piccoli polmoni, disse a gran voce:

Luna, te lo prometto: da grande farò l’acchiappanuvole, l’acchiappanuvole, l’acchiappanuvole!

*

La sigaretta e la mela,

 

 Mangiavo la mia mela, a grandi morsi. E guardavo in essa la polpa incisa dai denti, fino alle gengive.

Lui entrò. Fumava una sigaretta. Osservai la peluria della sua barba. Lui abbassò gli occhi verso di me. Smisi di mangiare la mia mela. La mano rimase sospesa. A mezz’aria.

‘Vuoi fumare ancora’, gli chiesi.

Non avevo sigarette. Lui non rispose, ma si avvicinò al mio tavolo. Si sedette. Gli occhi erano bassi, scrutavano il piano del tavolo. Poi, prese un’altra sigaretta.

Gli domandai se fosse stanco. Lui sollevò appena lo sguardo. Quel tanto che serviva a rispondermi che era così. Era stanco.

‘Cristo continua a morire’, dissi.

Fu allora che lui alzò gli occhi. Galleggiavano in un liquido fermo e trasparente. Come la morte.

Accesi il mio torsolo di mela. Che arse, vicino alla sua sigaretta.