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Raccolta di testi in prosa di alessandro venuto
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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La sindrome di Proust, estratto dal romanzo di A. Venuto

«Conosce Proust, professore?»
«Non di persona» rispose Aurelio, cercando di smorzare la propria tensione. L’uomo scoppiò a ridere mentre posizionava la sedia a rotelle vicino al tavolo dei liquori.
«Molto divertente, davvero. La prego, si sieda qui sul divano. Che cosa beve? Scotch?»
Adesso sì che la cosa si faceva interessante, si disse Aurelio mentre si avvicinava e prendeva posto. L’uomo pensò per qualche istante, soppesando le bottiglie con lo sguardo, sembrò risolversi, ne scelse una, svitò il tappo, prese un bicchiere di cristallo che riempì per metà con del liquido ambrato e lo passò ad Aurelio prima di riempirsene uno per sé.
«Lo provi, è eccellente: me lo spediscono ogni anno da Edimburgo. C’è mai stato? Pensi che ogni volta che ci vado alloggio nello stesso quartiere dove Sean Connery da bambino vendeva il latte. Mi dirà lei, assaggi.»
L’uomo chiuse gli occhi, prese una sorsata di scotch e se la gustò a lungo in bocca prima di fissare su Aurelio uno sguardo acuto.
«Giovanni Macchia scrive che può apparire strano che un’opera come la Recherche, in cui la volontà umana ha avuto una delle esaltazioni più imponenti, frutto di una decisione tenace, continua, sostenuta per anni e anni contro il dolore, sia stata scritta da un malato. Eppure, Proust sosteneva che noi malati, nel suo caso i malati di nervi, siamo il sale della terra. È raro, scrive Proust, che le grandi malattie non alberghino a lungo nel malato prima di ucciderlo e che non si facciano conoscere da lui, una conoscenza terribile non tanto per le sofferenze che causano quanto per le restrizioni definitive che impongono alla vita. Per un uomo nella mia condizione, uno scrittore come Proust è di un’importanza inesauribile. Come un buon liquore, dopotutto. Entrambi lasciano un aroma che… ma senta da sé il gusto dello scotch, lo assaggi, lo assapori. Che emozioni prova? Magari un ricordo? Non ci sente la Scozia dentro?»
Aurelio se ne restava fermo col suo bicchiere in mano: forse era un test, come nel Kgb. Prima lo facevano ubriacare, e poi… no, non aveva senso, il suo ospite stava bevendo per primo e di gusto e non sembrava Ivan Drago.
«Non mi segue, vero? Già. Non tutti capiscono. Vede, quando leggo la Recherche, provo tutto quello che potrebbe mancarmi nella mia situazione, capisce? Il gusto dà adito a sensazioni, un rumore a ricordi, la musica si fonde con le immagini che si fanno metafore e la Bellezza che viene inseguita e appena intuita in quelle pagine stordisce, mi crede? Mi sembra di vivere una vita normale, ecco.»
Gli occhi azzurri erano adesso accesi di una luce diversa, quasi ispirata.
«Le faccio capire cosa intendo, ascolti.»
L’uomo estrasse da una tasca laterale della sedia un libriccino, lo aprì, fece scorrere alcune pagine poi, dopo aver trovato un punto preciso, si schiarì la voce e prese a leggere:
“Qualche goccia di pioggia cade senza rumore sull’acqua antica ma, nella sua divina infanzia, rimasta sempre color del tempo, perennemente dimentica delle immagini delle nubi e dei fiori. E dopo che i gerani, intensificando il contrasto dei loro colori, hanno inutilmente lottato contro il crepuscolo oscurato, una bruma viene…”
Se potessi mi alzerei in piedi a declamare; suppongo mi perdonerà se non posso. Senta il resto.
“Una bruma viene, dicevo, ad avvolgere l’isola che s’addormenta: si passeggia nell’umida oscurità lungo la riva dove tutt’al più, il passaggio silenzioso di un cigno ci stupisce come in un letto notturno gli occhi spalancati e il sorriso di un bambino.”
Aurelio fissava il suo ospite senza capire dove volesse andare a parare: era venuto per una missione o per una lezione di letteratura francese?
«Non può sapere quante volte me ne resto così, immobile, a gustare a occhi chiusi le parole che ho appena letto. Come questo scotch, d’altronde. La Recherche è come un viaggio nella realtà aumentata; del resto, come scrisse Marcel ne I Guermantes, ogni uomo è figlio della propria idea.
Ma lei non ha ancora bevuto, non è cortese.»
Aurelio si sentì quasi obbligato a bere e portò il bicchiere alle labbra, prese un sorso con sufficienza ma nulla lo aveva preparato all’esplosione di gusto che gli invase prima il palato e poi la gola, scendendo piano nello stomaco in un canto di angeli.
«È eccellente» disse al suo ospite che si accese in un sorriso gioviale. Adesso sì che sentiva qualcosa: il desiderio di portarsi via la bottiglia.
«Lo sapevo. Nessuna gioia è tale se non la si condivide. A proposito, sono il dottor Revelli. Molto lieto. Mi dispiace solo di doverla incontrare in circostanze poco piacevoli, oserei dire drammatiche; spero solo di essere riuscito a metterla a suo agio. In effetti, questo lungo preambolo serviva anche a me. Sono tempi dal cielo chiuso, professore.»
Gli occhi di Revelli si fecero improvvisamente seri.
«Voglio sperare che sia stato informato del livello di sicurezza nel quale questa conversazione avrà luogo e che richiede, quindi, una segretezza di massima priorità. Bene. Va da sé che lei non è mai stato qui e noi non ci siamo mai parlati.»
Il tono di voce si era fatto del tutto impersonale, asettico, e il poeta vagamente strambo aveva lasciato il posto, in un battito di ciglia, a un funzionario capace nel pieno delle sue funzioni.
«Il mio lavoro di funzionario governativo di alto livello fa sì che io mi interfacci costantemente con i Servizi segreti italiani, così come con quelli di altri Paesi del mondo e ho spesso collaborato con un nostro contatto comune. Ora, quando tale contatto, sa di chi parlo, ha compreso la portata e la natura del lavoro da svolgere, mi ha fatto il suo nome. Coincidenza fortunata, il fatto che lei fosse già in Svizzera e per di più a Ginevra. Se lei non fosse stato qui, avrei dovuto mandarle un elicottero.»
Aurelio prese un secondo sorso di scotch, curioso di sentire il resto tanto quanto era desideroso di andare via, finire la propria vacanza con Sophia e tornare in Italia. Aveva una strana sensazione e non gli piaceva. Buttava male. Per lui, di sicuro.
«Lasci che arrivi dritto al punto, vedremo il resto dopo. Circa un’ora fa, abbiamo saputo che un prete è stato investito e ucciso da un’auto pirata non molto lontano dal Santuario di Santa Maria Maddalena nel Bosco nei pressi di Taggia, a pochi chilometri dalla Valle Argentina dalla quale, se non erro, lei proviene. Il corpo del religioso, nudo e privo di vita, è stato ritrovato sulla strada da un automobilista di passaggio.»
Sentendo il nome della sua valle, lontana chilometri e millenni da lì, Aurelio sgranò gli occhi per un attimo, come se Revelli avesse fatto quello di sua madre, prima di chiedersi come la morte di un prete nudo potesse mai riguardarlo al di là della mera questione geografica.
«Immagino che si stia chiedendo che cosa ha a che fare questo fatto con lei e con l’ONU. Prima di risponderle, però, mi permetta di aggiungere un’informazione. Ecco chi è il prete che hanno ucciso.»
Il funzionario prese il proprio cellulare, lo sbloccò con il riconoscimento facciale e digitò qualcosa prima di girare lo schermo verso Aurelio.
Adesso sì, che aveva tutta l’attenzione del professor Armato: l’uomo che sorrideva nella foto, in piedi davanti a una vecchia chiesa, era Revelli in persona.

LA SINDROME DI PROUST, DI ALESSANDRO VENUTO
Disponibile online negli store delle migliori librerie italiane

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Dio ama la pietra e il legno, estratto dal romanzo Triora di

Se si voleva immaginare il borgo di Triora come un vascello adagiato tra le onde della Valle Argentina, il campanile della Collegiata ne era l’albero maestro. In qualsiasi foto del paese si ergeva dritta ed evocativa come una torre, svettante sulle case basse come il collo di un cigno tra i germani reali. Affacciata su un sagrato di pietra stretto tra le case e costruita in origine su quello che restava di un tempio pagano, la Collegiata aveva la facciata intervallata da quattro colonne tra le quali si intravedevano tre tabernacoli chiusi e un portale in legno massiccio. L’esterno della chiesa era in pietra come il resto del paese, evocativo e medioevale, mentre il suo interno era stato modificato nei secoli mantenendo ben poco, come la maggior parte delle chiese, del progetto e della fede originari che ne avevano posato le fondamenta. Aurelio faticava a nascondere la delusione ogni volta che, dopo aver ammirato l’esterno romanico di una chiesa, ne scopriva l’interno Barocco o Roccocò; quando aveva smesso l’uomo di riuscire a costruire il bello?, si chiedeva scuotendo la testa di fronte a quello che considerava uno scempio. Per non parlare delle costruzioni religiose moderne, più simili a discoteche che non a istituti spirituali.
Se, come scriveva Victor Hugo nel suo Notre Dame di Paris, l’architettura era una forma di linguaggio dell’epoca e si esprimeva massivamente nelle grandi cattedrali, l’uomo tecnologico doveva aver ricominciato a balbettare o semplicemente, avendo affidato il pensiero all’immagine virtuale, aveva perduto la capacità di tradurre con le mani quello che sentiva in virtù di quello che vedeva; la spiritualità era diventata una realtà immersiva tra le altre, digitale, che non aveva più bisogno della pietra e del legno per costruire ma di pixel e giga.
Gli architetti avevano lasciato il posto ai disegnatori, i mastri carpentieri ai grafici. Era un’umanità diversa quella che aveva smesso di strappare pietre dai fianchi delle colline per edificare case e chiese, che non intagliava più nel legno le forme dei suoi dèi. Aurelio ne era convinto fino in fondo ma non capiva perché questo doveva per forza tradursi nel brutto, “macerie e non rovine lasceremo ai nostri posteri”, diceva un sociologo, roba senza valore e senza storia. Gli scheletri dei palazzi abbandonati di tutto il mondo non valevano nulla al confronto dei resti di una sola piccola casa romana e questo per un unico, semplice motivo: gli uomini di oggi non avevano nulla da dire.
Secondo Aurelio, Dio amava la pietra e il legno, le valli boschive e le cime dei monti non i grandi palazzi e lo sfarzo degli ori: ne era convinto nel profondo. Dio amava quello che non sembrava avere valore, per cui nessuno avrebbe litigato, anzi, il non reclamato, il non voluto. Quello che resta. Dio era con ciò che restava sul fondo, con gli ultimi. Dio era quello legato al palo nei roghi, non tra chi li aveva comandati e nemmeno tra la gente che si radunava per assistervi, tutta pigiata nelle piazze per una visione gratuita dell’orrore. Dio era nei campi di sterminio e saliva al cielo attraverso i fumaioli dei forni crematori. Nonostante non credesse più da tempo, Aurelio sperò che Dio fosse anche con sua figlia e con le sue amiche in un giorno come questo e magari, perché no?, un po' con lui, qualora avesse avuto un momento libero.
Si sarebbero fumati un sigaro insieme. Sarebbe stato bello.
Prima di salire al borgo passò dalla macchina e si sorprese, chissà perché, di trovarla ancora lì intatta. Almeno lei era a posto. Ci aveva viaggiato l’Europa con Sophia e Wendy, su quel Duster e non voleva risolversi a cambiarla nonostante gli oltre duecentomila chilometri rivendicati sul cruscotto. Era fatto così.
Tirò fuori dallo zaino i due telefoni, un carica batterie con due prese, una seconda pistola, controllò che fosse carica e la assicurò alla caviglia attraverso l’apposita fondina, verificando che il pantalone la ricoprisse in modo omogeneo. Nascose un serramanico vicino alla cintura e lasciò il resto nell’auto, controllò di avere in tasca il ricevitore di sorveglianza e il portafoglio del finto poliziotto con sé, bene, riaprì la portiera e prese un secondo documento fittizio, non si sapeva mai, quindi chiuse l’auto e prese la via verso il paese.

Brano estratto dal romanzo Triora, di Alessandro Venuto, vincitore del VI concorso nazionale BookTribù e disponibile online negli store delle migliori librerie italiane.

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In direzione opposta, estratto.

Sharon si mise a studiare l’arte dell’Ikebana, arricchendo la comunità di composizioni floreali grazie a quello che riusciva a far sbocciare nella sua rinata serra. Nelle lunghe serate di inverno, dopo le lezioni di danza con Tony, saliva in biblioteca con Stephen e condivideva con lui il tempo della lettura e dello studio. Spesso, prima di immergersi a sua volta in qualche libro, amava infastidirlo prendendo dei volumi a caso e declamandone ad alta voce alta alcune pagine.
In quelle occasioni Stephen si limitava ad alzare appena gli occhi dalla scrivania e a sbuffare, ormai abituato alle incursioni della compagna. Una sera però accadde qualcosa di speciale.
Sharon era salita con il panda Emanuele in biblioteca e, mentre il ragazzo si era messo a disegnare degli schizzi per una mostra che, in accordo con il suo care Massimiliano, avrebbe tenuto nell’atelier della Dioniso a dicembre, si era come sempre cimentata nella raffinata arte di disturbare Stephen che provava a leggere.
Prese un piccolo volume giallino e, senza nemmeno guardare il titolo, proclamò a gran voce:
‘Gli altri esseri umani li trovai nella direzione opposta in quanto non andai più..’
Si fermò un momento mentre qualcosa di caldo le scattava dentro.
Riprese a leggere, questa volta a bassa voce.
‘Per anni e anni avevo passato la mia esistenza tra i libri e le cose scritte.. ma adesso esistevo nel presente e mi immergevo in tutti i suoi odori e gradi di difficoltà.’
‘Beh, che succede? Ti sei mangiata la lingua?’
Stephen la fissava, stupito per quel silenzio inaspettato.
‘No, è che forse.. penso di aver trovato qualcosa.’
Sharon si avvicinò a una delle scrivanie libere e, dopo aver accesso la lampada, sedette senza staccare gli occhi dalle pagine ingiallite del libriccino.
Mentre scorreva veloce le parole sentiva dentro di sé una commozione profonda come se l’autore di quel testo, tale Bernhard, stesse parlando direttamente a lei, in quel momento, in un modo in cui nessun altro le aveva mai parlato prima di allora.
‘Volevo andare nella direzione opposta, questa nozione, andare nella direzione opposta, me l’ero ripetuta di continuo ad alta voce..
Volevo andare non soltanto in una direzione diversa, ma proprio nella direzione opposta.’
Esatto. Questa era lei.
Questa era sempre stata lei, fin da quando aveva memoria di sé. Si era sempre sentita scomoda ovunque e non aveva mai potuto aderire a qualche ideale, a un movimento di gruppo, a una cultura di appartenenza particolare. Si considerava apolide e rifiutava ogni tipo di opinione perché pensava che l’unica coerenza possibile con sé stessi fosse l’incoerenza più assoluta, sempre in cerca di una prossima ex verità da confutare. Amava il dubbio più delle certezze e godeva profondamente della sensazione selvaggia di sentirsi l’unica viandante sul sentiero che aveva scelto per la propria vita. E adesso sapeva che si era sempre mossa nella direzione opposta, non in una contraria o diversa ma proprio opposta.
Opposta a tutto e a tutti.
Opposta persino a sé stessa, in certi momenti, quando sarebbe stato più comodo arrendersi e omologarsi.
E adesso sentiva con forza che, così come quel giro che aveva iniziato molti anni prima muovendosi nella direzione opposta l’aveva allontanata da sé, a sé l’avrebbe riportata infine una volta completato.
Sharon si immerse profondamente nella lettura e tutto sembrò sparire intorno a lei.
Non si accorse di quando Emanuele, sbadigliando rumorosamente, si alzò facendo cadere la sedia e, senza raccoglierla, uscì dalla biblioteca seguito dalle maledizioni di Stephen e solo a malapena e di malavoglia rispose al compagno quando questi la informò che stava andando a letto e quindi le avrebbe lasciato le chiavi per chiudere la biblioteca.
Sharon si limitò a un cenno distratto mentre Bernhard narrava e si raccontava, spiegava e incantava, guidandola come il Pifferaio magico per le vie di Salisburgo attraverso quel suo particolare stargate creato dalla Cantina.
‘Il quartiere di Scherzhauserfeld era l’estremo punto di questa direzione opposta e io ho deciso di assumere quel punto estremo come la mia meta.’
Non era forse stata per lei la Dioniso, il suo punto estremo? Non era questa la meta che corrispondeva nello stesso tempo all’inizio e alla fine del suo viaggio fuori dalla dipendenza?
Pensò alla forza delle carpe koi che risalgono la corrente dei fiumi, caparbie e tenaci, fino alla sorgente e che, una volta arrivate alla meta, si trasformano in draghi. La fine della carpa è solo l’inizio del drago, meta e partenza si equivalgono e ciò che conta è il viaggio che porta da un punto all’altro dei propri desideri.
‘Qui potevo essere me stesso. E tutti gli altri potevano essere se stessi. Qui le persone non venivano strette di continuo, e in una maniera sempre più raffinata, in una morsa di artificiosa esteriorità..
Si poteva non solo pensare quello che si voleva, si poteva anche esprimere quello che si era pensato, ciascuno quando e come voleva, a voce più o meno alta.’
Sharon sentì un nodo alla gola mentre ripensava con gratitudine a Nicole e a tutti gli operatori della Dioniso, agli specialisti, a Raphael e ai compagni di percorso che aveva incontrato nel tempo; ciascuno di loro le aveva donato qualcosa con generosità e altruismo, persino Alessia, ed era grazie a loro se adesso iniziava a intravedere ciò che sarebbe potuta essere. Le venne in mente la storia di quel negriero che, dopo una vita passata a catturare schiavi neri in Africa da deportare nei campi di cotone in America, era quasi morto durante una tempesta che aveva sorpreso la sua nave affondandola. Disperato, quasi annegato, era riuscito a toccare terra in qualche modo e, come San Paolo sulla via di Damasco, aveva rivisto alla luce dei fulmini ai quali era sopravvissuto quello che era stata la sua vita e, provandone disgusto, l’aveva cambiata diventando un difensore per i diritti civili e battendosi contro la schiavitù. Ma, prima di tutto questo, aveva composto un inno meraviglioso alla grazia divina, Amazing Grace. A volte è necessario che una tempesta ci lasci quasi morti perché si possa volere a tutti i costi vivere, si disse.
E aveva anche pensato a quello che le aveva raccontato Raphael un pomeriggio quando, vedendola piangere in giardino, le si era accostato per poche parole gentili.
‘Vedi, Sharon, non ho molto da dirti in questo momento ma posso donarti un racconto al quale tengo molto, se me lo permetterai.
Vedi, si dice che Michelangelo, lo scultore, andasse a scegliere personalmente nelle cave i blocchi di pietra da intagliare per le sue opere meravigliose. Un giorno si diresse quindi alla cava come suo solito e decise di prendere per il suo atelier un enorme masso, uno tra i molti che aveva guardato quel giorno e fu da quella massa informe che tirò fuori la sua Pietà. Ebbene, si racconta che uno dei suoi discepoli gli abbia chiesto: Maestro, perché ha scelto proprio quel blocco di pietra tra tutti quelli che c’erano? E sai cosa ha risposto Michelangelo?
Che la Pietà era già presente in quel blocco, doveva solo limitarsi a farla emergere. Capisci il punto, Sharon? Tu non sei nata malata e dentro di te c’è un essere speciale che aspetta il suo momento per emergere, sta lottando per venire fuori da tutta la massa informe di cose che ci hai buttato sopra. Ma è lì e vive e scalpita mentre aspetta di essere liberato. Devi solo trovare la tua forma d’arte.’
La sua forma d’arte, esatto. Ma quale fosse quest’arte Sharon proprio non lo sapeva.
Stephen ad esempio aveva trovato la lettura e la boxe, ma lei?
Forse la risposta sarebbe arrivata nelle pagine a seguire.
‘Al culmine della disperazione e del disgusto ero andato istintivamente, anzi, ero corso nella direzione opposta, finalmente ero scappato via dalla direzione sbagliata e di corsa ero andato nella direzione giusta. Ed ero scappato via da tutto quello a cui ero legato (..) ed ero scappato via da tutta la mia confusa storia personale mentre fuggivo dalla storia intera.’
A un tratto le fu tutto chiaro.
Tutto quello che aveva fatto, tutto ciò che era stata fino a quel momento faceva parte di lei, tutti gli errori e gli sbagli e la sofferenza l’avevano forgiata fin nel profondo ed era tempo di accogliere tutto ciò che di sé aveva sempre rifuggito perché, se fosse tornata indietro, a parità di condizioni avrebbe rifatto esattamente le stesse cose. Per la prima volta nella sua vita sentì il senso di colpa sciogliersi e svanire mentre qualcosa in lei si ricostruiva. Forse qualcosa si è salvato, forse davvero non è stato poi tutto sbagliato. Forse era giusto così, cantò Vasco nella sua testa.
Forse ma forse ma si.
Nel punto più lontano da sé era arrivata al punto più vicino a sé ed era adesso o mai più il momento del contatto per non essere nuovamente sparata in orbita, via lontano e forse per sempre.
Avrebbe voluto piangere, ridere e urlare nello stesso tempo.
‘Ero arrivato nel momento giusto dalle persone giuste. Avevo puntato su un’unica carta e avevo avuto fortuna.’
Terminò il libro nel silenzio della Dioniso avvolta dalle braccia di Morfeo ma Sharon quella notte non dormì, arsa viva da un fuoco interiore che la bruciava di un godimento profondo come solo l’eroina aveva saputo darle.
Era un tipo di piacere che non aveva forma né precedenti, non dipendeva dal sesso o da qualche tipo di sostanza: li ricordava entrambi ma ne era del tutto differente.
Dentro di lei l’anima cantava.
‘Crederei solo a un dio che sapesse danzare’, aveva letto da qualche parte.
Distesa sotto le coperte nella stanza buia che adesso condivideva con Liz vedeva dietro le palpebre chiuse un mondo infinito di possibilità esattamente come le aveva predetto Nicole.
Poteva fare qualsiasi cosa, poteva essere qualsiasi cosa, dipendeva solo da lei.

*

Cholula

La morte, per un bambino, è quasi sempre preceduta da attimi di intenso stupore. O almeno così si dice. Ed erano stati davvero giorni di stupore, quelli in cui gli uomini della terra e del cielo avevano incontrato i loro dei.

Una tiepida alba illuminava quel giorno i tetti delle case e la grande piramide a gradoni, ma ben pochi furono quelli che si lasciarono sorprendere ancora nei loro letti. I primi raggi di un sole ancora timido rilucevano sulle ardite costruzioni che l’uomo aveva innalzato verso il cielo come simbolo di grandezza e prosperità e che ora invece ospitavano chi portava in sé i semi del rinnovamento, come piccole gemme in attesa sotto la morbida terra che finisca il freddo inverno. Nelle vie della città così come nel grande viale che la tagliava in due come un immenso fiume di pietra tutto era in fermento e centinaia di persone brulicavano indaffarate muovendosi nell’aria frizzante del primo mattino, in un tripudio di colori. Dipinti erano i corpi muscolosi e i volti degli uomini, variopinte le vesti delle donne, multicolori le penne ornamentali sui dignitari di corte e sui sacerdoti. Giovani donne dai lunghi capelli neri e lucidi come seta provavano in gruppetti danze rituali, sgargianti nei loro vestiti colorati che le rendevano simili a bellissimi fiori: melodiose voci si alzavano in coro, modulando suoni che nessun uomo prima della Grande Distruzione aveva mai sentito. Cantavano lodi alla terra, all’aria, all’acqua e agli dei e nei movimenti circolari della danza omaggiavano e mostravano l’eterno ritorno di tutte le cose. La conoscenza è un movimento circolare, come ogni cosa in Natura

Un meraviglioso spettacolo di luci portava l’alba in trionfo sulla notte della Sierra, come gli uomini avevano chiamato le grandiose montagne che tanto ricordavano quelle lasciate nella lontana Spagna, in un altro mondo.

Una ventina di uomini scivolò fuori in silenzio, avvolti in mantelli spessi che nascondevano i volti sotto scuri cappucci. Tra le pieghe della stoffa brillavano poderose armature. Dieci di loro montarono a cavallo e, con le armi in pugno, si disposero in posizione intorno agli altri quindi si misero tutti in marcia, simili a un gregge accompagnato dai cani pastore. Seguivano a ruota centinaia di indigeni, mercenari affamati e desiderosi di azzannare le carni di chi per anni li aveva obbligati a fornire i loro stessi figli come tributi agli dei.

Un’esplosione improvvisa di movimento fece scattare le Guardie che puntarono all’unisono i fucili verso la foresta generosa, dalla quale emersero in volo alcuni stupendi pappagalli che fecero alzare agli uomini lo sguardo verso il cielo: striature di violetto, rosa e arancio tingevano l’aria mentre gli uccelli simili a rapidi velieri facevano rotta verso l’orizzonte. Un sole fiero sorgeva in quel momento sull’immensa foresta della sierra che, simile a un placido mare verdeggiante, salutava il nuovo giorno con il canto ritmato delle infinite creature che la abitavano. A differenza degli spagnoli, mossi tutt’al più da una breve curiosità, gli indigeni totomachi non mostravano di temere il mondo fuori dalle mura con tutti i suoi pericoli e si muovevano liberamente e agilmente nella foresta, seguendo sentieri che erano mappati solo nelle loro menti

Negli ultimi giorni gli uomini avevano dormito nella vicina Tlaxcala, ultima roccaforte amica, e adesso proseguivano arditi in un viaggio quasi senza speranza, folle, guidati da un uomo che un giorno aveva sognato di conquistare un impero. Nelle grandi case in pietra avevano meditato sotto un cielo pieno di stelle purificandosi in previsione della cerimonia finchè il sonno non aveva avuto la meglio sui loro sogni di gloria. Per uno di loro l’alba avrebbe portato con sé un giorno che avrebbe ricordato per tutta la vita, per altri invece avrebbe potuto essere l’ultimo considerando il tratto di strada da fare a piedi e tutto ciò che poteva accadere potendo contare solo su dieci cannoni, tredici archibugi, trenta balestre e sedici cavalli. Stretto al caldo corpo della sua donna nahua l’uomo meditava e sentiva il sacro fuoco del suo progetto ardere e consumarlo. Lontana, lontana era la Spagna e i suoi re, lontana la Sierra Nevada, Medellin e Granada, Carlo V era solo un nome e persino Dio era uno sconosciuto da queste parti. Lui e quel corpo caldo di donna straniera erano la sola cosa concreta che conosceva in quel momento. Se non ci fosse riuscito, sarebbero morti tutti. Fine della storia. Eppure lui credeva che un mondo migliore, non solo nuovo, fosse possibile. Aveva assistito alla brutalità della sua gente, alla cupidigia con cui uccidevano gli uomini vendendo Dio per averne le ricchezze, alle loro menzogne. Era tutto da rifare, lo sapeva bene, ma serviva un’altra terra ancora, una dove le barbarie dei conquistadores non fossero ancora arrivate. Lui lo aveva già dimostrato, conquistandosi il favore degli indigeni con la parola e con la diplomazia invece che con le armi. Il suo progetto di un mondo dove indigeni e spagnoli potessero vivere insieme sotto la bandiera del re Carlo V e le benedizioni di Gesù Cristo nostro Signore era ormai a portata di mano, una società dove il sangue e le culture potessero mescolarsi creando una nuova armonia.

Tutto ciò che aveva visto da allora era stato di una tale bellezza..

Persino Tlaxcala o, come la chiamavano gli Indios, Texcala, la grande città che li ospitava, era ‘degna di tale ammirazione che io non posso parlarne’, scriveva al re di Spagna, ‘e il poco che posso dire suona già come incredibile. E’ una città più grande di Granada, più forte e più popolata. Rigurgita di prodotti della terra, possiede un mercato fiorente e frequentato ogni giorno da almeno trentamila persone. Ci si vende qualsiasi cosa. Questa gente ha un grande senso dell’ordine e della vita civile. E’ un popolo dotato di ragione e di saggezza.’

Cortes amava quella gente e se ne stupiva ogni giorno. Malinche, anzi, Marina, si agitò nel sonno e, quando la strinse a sé nel buio, si calmò. Regalata come schiava agli spagnoli, si stava dimostrando la chiave che avrebbe aperto loro le porte dell’impero.

Ma in quella notte di Tlaxcala il cielo era ancora scuro per Cortes: non riusciva davvero a capire il gioco di Montezuma che inviava doni e nello stesso tempo si rifiutava di incontrarlo, pregando anzi tutti gli spagnoli di abbandonare immediatamente il regno azteco, per poi infine invitarli tutti ad attendere sue istruzioni presso la città di Cholula, in teoria alleata di Tlaxcala e nemica dello stesso imperatore. Avrebbe dovuto giocare su più piani, come sempre. Ed era bravo a farlo.

Tototl e Ikschel correvano veloci per le vie tortuose della città in pietra, cercando un varco tra la folla che lentamente riempiva il grande viale. Svettava, in fondo, la piramide dove i sacerdoti avevano già iniziato a sacrificare al dio Quetzalcoatl. Nonostante fossero solo due bambini erano già stati iniziati ai riti sacri come ogni azteco e avevano visto strappare il cuore dal petto a innumerevoli persone, spesso loro coetanei, vibrando di commozione nella folla e dedicando grandi pensieri semplici ai loro dei come ogni bambino sa fare. Tototl ogni volta dedicava quei sacrifici per i commerci del padre e per la salute della madre nonché per il benessere del loro grande impero azteco. L’idea che avrebbe potuto anche esserci lui sul tavolo sacrificale non lo aveva mai sfiorato.

Donne e bambini avevano avuto l’ordine di evacuare la città prima che loro arrivassero, e loro erano ormai a poche marce dalle porte della città. Ma un bambino poteva davvero scappare sui monti invece di assistere a un incontro che avrebbe per sempre rivoluzionato la storia della sua gente? Loro stavano arrivando, per la prima volta dall’inizio del tempo. E lui, Tototl, non se lo sarebbe mai perso. La sua amica del cuore, vincolata a lui da un giuramento sacro, sarebbe rimasta al suo fianco. Dovevano solo trovare un buon punto di osservazione, nascondersi per bene e aspettare. Ci sarebbe stato tutto il tempo per raggiungere le donne sui monti anche dopo.

Gli uomini e le Guardie presero la grande via che portava alla città, prestando grande attenzione nonostante tutto sembrasse immobile e regnasse il silenzio.

Si sentivano come una barca che, dopo aver lasciato il porto, punta decisa verso il mare aperto mentre la costa diventa sempre più lontana, sempre più sottile fino a scomparire del tutto: ogni riferimento è allora annullato e ovunque è l’Ignoto.

I passi risuonavano sull’antico selciato ancora umido mentre numerosi versi di uccelli riempivano l’aria del mattino.

Nonostante la tensione, il morale degli uomini era alto e si guardavano intorno a occhi spalancati, come turisti: nessun uomo bianco aveva mai posato sugli occhi sulle mura di pietra che si stagliavano davanti a loro a protezione dell’immensa città. Ovunque intorno a loro la terra era stata coltivata senza lasciare libero nemmeno un metro in modo così preciso da far risaltare l’opera di una cultura avanzata e intelligente.

Ed ecco che, a un tratto, uno stormo di uccelli si alzò in volo e, seguendone la traiettoria, gli spagnoli ammutolirono improvvisamente quando, alzando lo sguardo oltre le mura, videro scintillare nel cielo terso del mattino la grande piramide di Cholula

Era uno spettacolo che toglieva il fiato e puntava come un dito verso il cielo.

Bellezza. Tutto in quel luogo emanava bellezza, in armonia con una saggezza antica e quotidianamente rinnovata.

Il viaggio stava per terminare, mentre quel giorno glorioso era solo all’inizio.

II

Un corteo festoso venne loro incontro: bellissime ragazze avanzavano danzando in ampi vesti multicolori reggendo corone di fiori, seguite da alcuni musicisti e da uomini imponenti che dovevano essere dignitari di corte e notabili. Gli spagnoli rimasero immobili, colmi di stupore, mentre abbassavano i fucili. Le giovani cantavano con voci di usignolo, producendosi in ampi sorrisi e incantando i nuovi arrivati con sinuosi gesti delle braccia nude e degli esili corpi, ammiccando loro con occhi luminosi e sottili.

Coroncine di alloro adornavano le loro teste mentre lunghi capelli corvini lucidi come seta scendevano liberi sulle spalle, coronando volti gentili e decorati con piccoli tratti di pittura che ne esaltava i bei lineamenti.

Dietro di loro uscirono in ordine circa ventimila persone poi, come era iniziata, la musica cessò. I due gruppi di uomini si fissarono a lungo, poi alcuni sacerdoti ordinarono a strumenti simili a gong di risuonare nel silenzio. Il cielo era terso sopra le loro teste, fresca e pulita l’aria. Da qualche parte nella folla presero a suonare dei flauti, quindi le danze ripresero anche più frenetiche di prima. Cortes guardò per un attimo Marina che ricambiò in un modo che voleva dire ‘è tutto ok, si fa così’. La musica dei flauti era festosa e veloce, capace di riempire il cuore di un uomo di gioia e malinconia a un tempo e si profondeva nell’aria tiepida come una pioggia di benedizioni, invogliando la vita al risveglio.

I due gruppi entrarono in contatto e si fusero, quindi le ragazze azteche o Mexica, come amavano chiamarsi, adornarono gli uomini con una corona di fiori ciascuno, salutandoli in segno di omaggio congiungendo le mani all’altezza del petto e producendosi in un inchino lezioso.

Ogni danzatrice prese sottobraccio un uomo e il corteo riprese la via delle mura.

Quando gli uomini varcarono il portale di ingresso videro qualcosa che andava al di là di ogni più fervida immaginazione: centinaia di migliaia di aztechi erano assiepati ai due lati di un viale immenso che culminava alla base della grande piramide, formando un caleidoscopio di forme e colori in movimento.

La strada era ricoperta di petali di fiori rossi e gialli che rendevano morbido il passo e altri petali e venivano lanciati verso di loro, mentre gli aztechi danzavano e ondeggiavano come onde del mare vestiti di morbide tuniche dai colori accesi accogliendo gli uomini in trionfo che salutavano timidamente con la mano e che si guardavano intorno con occhi pieni di meraviglia e stupore, aggrappandosi alle giovani accompagnatrici in cerca di supporto. Se la filosofia, come diceva Platone, nasceva dalla meraviglia, molta saggezza sarebbe sorta quel giorno.

Quando gli spagnoli, accerchiati dalla folla festante, furono entrati a Cholula, accadde qualcosa che turbò non poco Cortes: i guerrieri nahua ordinarono ai suoi uomini totomachi di non entrare in città ma di accamparsi fuori, in attesa di sviluppi. Con un cenno del capo, Cortes fece capire al capo del suo reparto indigeno di accettare l’ordine ma dentro di sé già elaborava possibili contromisure.

Tototl e Ikschel guardavano avanzare gli dei stranieri a bocca aperta per motivi diversi. Il bambino non riusciva a staccare gli occhi dalle armature che riflettevano trasformavano in lampi di luce bronzea i raggi del dio Sole ed era come ipnotizzato dagli enormi animali che alcuni di loro cavalcavano, senza paura e con una sicurezza che gli invidiava profondamente. Cosa non avrebbe dato per poterci fare un giro anche lui! E chissà come l’avrebbe guardato la sua amichetta Ikschel.. già si vedeva correre su uno di quei mostri in sua difesa mentre lei era assediata da guerrieri nemici e, dopo essersi fatto largo tra loro facendone strage, l’avrebbe caricata davanti a sé e sarebbero corsi via veloci come Vento Notturno, via lontano incontro alla sera. Ikschel era affascinata dalle lunghe barbe e dai capelli color del grano di alcuni tra gli dei, nonché dalla pelle chiara. E che dire del vestito che sfoggiava l’emissaria, sicuramente una donna nahua?

Ma non era tempo di ulteriori sogni ad occhi aperti perché il corteo avanzava verso la fine del viale e i due bimbi sapevano di dover correre se non volevano perdersi il resto dello spettacolo.

Sul fondo della piazza, davanti all’enorme piramide, si ergeva un trono in legno dorato dallo schienale finemente decorato e circondato dalla folla, al quale si accedeva con una scaletta posta sul lato sinistro. Un uomo vi era seduto sopra, riccamente vestito e col capo incoronato di lunghe piume di ara multicolori.

Improvvisamente ovunque scese il silenzio in un’atmosfera carica di energia e aspettative mentre il Grande Oratore del popolo fissava gli spagnoli. I suoi occhi che molto avevano veduto si fermarono soprattutto sul loro capo, un uomo alto dalla lunga barba scura, e su quella che sembrava essere la sua emissaria, o persino la sua donna, una creatura di rara bellezza ma dallo sguardo troppo acuto per essere affidabile.

Quando parlò, la sua voce si levò tonante nel silenzio sceso sull’Unico Mondo, come chiamavano la loro terra.

‘In nome di Quetzalcoatl, espressione dell’energia della Saggezza illuminata che incontra il Metodo e mostra la Via agli esseri e in nome del suo Popolo, vi porgo il più caloroso benvenuto tra noi. Avete compiuto un viaggio pericoloso per essere qui oggi e ve ne siamo profondamente grati’.

Il re tese una mano aperta e col palmo verso l’alto in direzione degli uomini, abbassando appena il capo in segno di umiltà: qualunque gesto compisse, sul volto danzava una luce profonda e sottile che si evinceva da un sorriso sempre presente e da quello sguardo continuamente divertito. La sua sola presenza catalizzava naturalmente ogni attenzione, come un potente magnete umano dotato di una qualche misteriosa energia.

Marina traduceva veloce in lingua maya allo spagnolo Aguilar, che per qualche tempo aveva vissuto tra quella gente, il quale a sua volta trasponeva quanto detto nella lingua degli stranieri.

‘Sia benedetto questo giorno in nome della Nostra Signora e di Nostro Signore, godrete dell’ospitalità del nostro popolo per i giorni a venire

‘Sia benedetto questo giorno,

Giorno di nozze della Dea e il Dio.’

Gli uomini si guardavano intorno a occhi pieni: tra gli indios erano molti ad avere i volti rigati da lacrime di commozione, mentre alcuni ad occhi chiusi dondolavano appena come rapiti in estasi o dalle ali di una preghiera profonda. La maggior parte di loro si teneva per mano formando una sorta di catena umana e si muoveva all’unisono nel silenzio del mattino, che adesso profumava di incenso ed erbe aromatiche. Sia gli uomini che le danzatrici presenti avevano strisce ornamentali di colore sul viso, sul petto e sulle gambe.

Il re chiuse gli occhi per alcuni istanti poi li aperse nuovamente e, fissandoli sugli uomini, disse con un tono ritmato:

‘Tutti gli animali si accoppiano e le piante sono impollinate,

Cosí la Madre compassionevole e il Re Padre conferiscano all’uomo

la loro benedizione sulla Terra e sul suo animo

e su tutte le creature della Terra.

Io che sono loro figlio

gioisco con loro e chiedo che

La nostra unione felice diventi l’esempio

per tutte le creature affinchè possano

vivere in amore e armonia.’

Congiunse le mani al petto e così fecero le centinaia di uomini presenti, mentre il clima di commozione generale sembrava crescere a dismisura nella folla fremente: solo gli spagnoli restavano immobili e tesi, ancora incerti sul da farsi.

Quando il Grande Oratore si alzò in piedi il silenzio generale fu travolto dalla ripresa di canti e danze, musica e urla, mentre le danzatrici conducevano il gruppo di stranieri verso la loro nuova dimora e la folla su apriva per farli passare.

‘Quanta bellezza può contenere un’anima senza disintegrarsi? Quanta meraviglia? Dio guida i miei passi con mano sicura, affinchè io non mi sbagli. Dio ascoltami, Dio del cielo e della terra, Dio degli uomini, ascolta la mia supplica perché io che ho molto peccato adesso ho molto potere. Guida i miei passi con mano sicura, affinchè lo usi con saggezza. Qui si fa la storia.

Quanto amore può contenere un cuore confuso? Perché amo questa gente e desidero fondermi con loro secondo i Tuoi insegnamenti.’ Cortes guardava lontano sulla grande terrazza della casa che li ospitava, assorto e pensieroso.

I primi giorni presso Cholula furono un susseguirsi di sorprese per Cortes e per i suoi uomini. Furono accompagnati da dignitari e uomini della corte per le vie della città e per giardini lussureggianti bagnati in abbondanza da canali artificiali. Ovunque posassero gli occhi era abbondanza di ogni cosa: acqua, colori, luce, piante, animali e vita. Giovani cervi si aggiravano liberi nelle corti dei nobili e si lasciavano accarezzare come docili cani, mentre pappagalli multicolori volavano ovunque nelle case. Piante, fiori e alberi si mescolavano alla pietra delle abitazioni creando un insieme biotecnologico del tutto nuovo agli spagnoli. Nessun Dio aveva creato l’uomo padrone del mondo, ma molti dei lo volevano inserito nell’ordine naturale delle cose. A destra della Grande Piramide, che come una torre di pietra lanciata nello spazio stava a significare come solo la conoscenza posata sulle solide fondamenta della Terra sia in grado di squarciare il velo dell’ignoranza, si apriva un sentiero che i Mexica avevano lastricato in pietra e che scendeva verso il Parco dei Cervi, un ampio bosco che ospitava al centro un ampia radura. Giovani guerrieri si allenavano nell’arte della guerra con diversi strumenti tradizionali.

Snelli per natura, avevano corpi definiti e agili che rilucevano di sudore sotto i primi raggi del mattino mentre lentamente compivano movimenti nei quali ricercavano la perfezione dello stile e uno stile che li portasse alla perfezione. A torso nudo, portavano solo morbide gonne di cotone bianco che copriva le gambe fino alle caviglie e ai piedi morbidi sandali in cuoio.

Un gruppo si esercitava con grande attenzione nell’arte della spada, compiendo ampi e calcolati gesti dove ogni millimetro era frutto di una grande perizia; poco distante, altri guerrieri tendevano grandi archi in morbido legno fissando bersagli lontani decine di metri e, dopo aver meditato sul respiro, rilasciavano infine la corda che dava vita a una rapida freccia sibilante nell’aria tersa.

L’arciere assorbiva con attenzione la traiettoria che essa compiva e sembrava arrivare al bersaglio a sua volta, gustandolo immobile e assorto. Solo dopo un po’ di tempo, quasi tornando a sé stesso, scioglieva quella posizione elegante che ne aveva fatto da un corpo di carne e sangue una statua di pietra levigata e con calma, agganciando il respiro a ogni passo, si dirigeva a riprendere il proprio dardo. Altri uomini lottavano con la spada o col giavellotto corto mostrando una perizia che nulla aveva da invidiare agli occidentali. Guerrieri temibili e temuti, si preparavano per quelle che definivano Guerre Fiorite, combattute non per territori o sete di potere ma per bagnare di sangue la terra e le loro Piramidi in onore agli Dei affinchè garantissero il normale svolgimento della vita sul pianeta.

Ogni aspetto della vita a Cholula fu come un sogno per gli spagnoli dove niente era conosciuto, cibo compreso: ogni frutto, ogni pezzo di carne era qualcosa di mai sperimentato prima. Ma, come ogni sogno, era destinato a finire.

III

Com’è difficile dormire quando sembra di vivere in un sogno! I due bambini, stretti uno all’altro, provavano a lasciarsi scivolare nel sonno sotto la luna piena di quelle notti incredibili con grande fatica. Incuranti delle loro famiglie che probabilmente li stavano cercando, avevano seguito gli spagnoli in tutto quel vagare per la città, non meno ammirati di loro. Quando guardi quello che già conosci con gli occhi di chi non lo ha mai visto, partecipi del suo stupore. Soprattutto se sei un bambino. Eppure, come sembravano bambini quegli uomini dalle lunghe barbe che si lasciavano guidare timidamente per le strade dell’Unico Mondo..

Durante la sera, dopo aver consumato un pasto veloce gentilmente donato loro da qualche negoziante, Tototl e Ikschel avevano giocato impersonificando i loro eroi: lui era il grande Cortes dalla spada del Dio della Guerra, lei la bella Malitzin, dolce amante oratrice, che combattevano con le armi e con la parola contro i malvagi aztechi di Tenochtitlan per la gloria di Cholula.

Una mattina però, mentre stavano camminando a passo svelto in direzione del palazzo dove erano ospitati gli spagnoli, sentirono il Dio del Tuono squarciare l’aria con una potenza tale da farli accucciare istintivamente al suolo. Tototl guardò la piccola Ikschel e lesse nei suoi occhi la stessa paura che doveva albergare nei suoi.

La bambina era sbiancata in volto e Totol istintivamente le prese la mano, guidandola poi deciso verso la loro meta ma, non appena svoltarono nella piazza sulla quale si affacciava la residenza spagnola, dovettero riparare nuovamente nel vicolo.

Quello che videro sembrò squarciare come un lampo la realtà che fino ad allora avevano conosciuto. Ci sono cose che un bambino non dovrebbe vedere. La casa in pietra vomitò a un tratto nugoli di spagnoli inferociti che, armi in pugno, si gettarono sulla folla di guerrieri assiepata intorno alla piazza. I primi indios cadono senza un grido irrigando di rosso sangue la pavimentazione di pietra ma un attimo dopo gli altri sfoderano le armi e si lanciano con urla selvagge sugli stranieri. Il dio Cortes, fino al giorno prima luminoso nella sua armatura di sole, sembrava adesso un demone tremendo mentre affondava la sua spada nelle carni degli avversari lasciandone diversi al suolo. Gli occhi di Tototl sembravano troppo piccoli per contenere tutto quell’orrore mentre Ikschel li aveva coperti con la mano, incapace di guardare ancora. A pochi passi da loro uno spagnolo recise con un colpo deciso di spada la testa di un giovane guerriero, il cui corpo si riversò a terra versando sangue come una giara rovesciata. Il denso liquido scuro arrivò fin quasi a lambire i piedi dei due bambini e fu a quel punto che Tototl decise di portare via la sua piccola amica.

Strattonandola per la mano corse veloce con il cuore che sembrava impazzire nel petto, incurante di dove stessero davvero andando a patto che fosse lontano da quell’inferno. Svoltarono più volte a destra e a sinistra in quel dedalo di vicoli di pietra tra le case di Cholula mentre i suoni della battaglia si allontanavano sempre di più alle loro spalle. Tototl capì che dovevano lasciare la città perché, qualunque cosa sarebbe seguita a quel massacro, non sarebbe stata buona. Ed era responsabile anche di Ikschel, rimasta in città solo per lui e per quella stupida promessa. Come due piccoli pesci di fiume che si gettano in un lago dopo aver seguito la corrente di un ruscello, raggiunsero veloci il Grande Viale correndo verso le porte della città. Ma come quando il grande fiume, gonfio per le piogge della stagione in cui tutto è acqua, rompe gli argini e allaga tutta la terra circostante distruggendo ogni cosa al suo passaggio, allo stesso modo una marea di guerrieri selvaggi irruppe urlando da quello che restava delle porte tra le mura di Cholula, abbattendo qualunque uomo si trovasse sul loro percorso. Tototl capì in un attimo che si trattava delle truppe di cani traditori totonachi, rimaste fuori dalla città in attesa di ordini dagli spagnoli. Agili come gatti i due bambini girarono su loro stessi e corsero con tutto il fiato che avevano in direzione opposta, verso la grande piramide che assisteva, impotente, allo scempio della città e del suo popolo.

Un giavellotto fischiò poco distante dalla testa di Tototl e poi picchiò sulla pietra della Grande Via scivolando lontano, mentre la Guardia della città accorreva dalle strade laterali per creare un solido muro sul quale avrebbero dovuto impattare, come il fiume su una diga, gli assalitori. Ma fu chiaro fin da subito che gli uomini di Cholula erano davvero troppo pochi per avere qualche speranza di vincere contro i totonachi. Avrebbero, forse, potuto ritardare un po’ l’inevitabile per permettere a chi fosse rimasto in città di mettersi in salvo. Forse.

I due bambini si infilarono in una grande casa dal portone aperto e salirono veloci le scale che portavano alla terrazza, meravigliosamente ornata da un giardino pensile. Tra alberi e fiori variopinti scorreva, in un canale artificiale, un ruscello di limpida acqua corrente. Tototl e Ikschel raggiunsero il parapetto della terrazza giusto in tempo per vedere l’orda di guerrieri stranieri impattare con violenza sul piccolo esercito di Cholula. Le urla degli uomini che combattevano si mescolarono a quelle strazianti dei feriti e dei moribondi e al suono secco e metallico delle armi. A un tratto ecco di nuovo il dio del Tuono risuonare forte nell’aria e non solo una volta ma due, tre, quattro. Ikschel puntò il dito verso un punto alle spalle del muro di uomini creato dai soldati di Cholula e Tototl vide alcuni spagnoli che puntavano verso le loro schiene lunghi bastoni di metallo. A un tratto i bastoni tuonavano e un uomo cadeva a terra e non si muoveva più. Gli dei hanno armi di tuono che gli uomini non possono contrastare, si disse con un filo di voce. Cortes dai lunghi capelli scuri guidava gli spagnoli dai bastoni tonanti, indicando con la spada in pugno la resistenza di Cholula. Aggrediti su due fronti, i pochi guerrieri sopravvissuti abbandonarono il grande viale per provare a resistere per le vie della città. Come un branco di predatori che, dopo aver diviso un branco di cervi, si appresta a inseguirli nella grande foresta, allo stesso modo conquistadores e totonachi si diedero alla caccia dei loro avversari. Mentre il sangue scorreva a fiume nella grande città il Sole, ebbro di tante offerte, saliva sempre più in alto nel cielo e, quando raggiunse lo zenit, come un ubriaco che ha davvero ecceduto , iniziò a declinare mentre gli uomini ancora si uccidevano in una lotta senza quartiere. I cittadini di Cholula venivano fatti a pezzi nelle strade e nelle case, uccisi come animali ovunque avessero tentato di trovare riparo. Come giaguari si aggiravano famelici i loro nemici, battendo ogni centimetro della città ormai indifesa, stuprata.

Tototl e Ikschel capirono che, ormai, nemmeno il loro piccolo nido era al sicuro e ogni secondo era utile se volevano provare a lasciare la città incolumi quindi, facendo attenzione a ogni passo, scivolarono silenziosi lungo le scale fresche della casa silenziosa fino all’uscio e, dopo essersi accertati che la strada fosse deserta, si lanciarono veloci in un volo disperato. Ci sono cose che il cervello vede prima ancora che la coscienza ne prenda atto e muove il corpo prima del pensiero. Tototl non seppe mai spiegarsi come il suo istinto lo spinse a frenare di colpo la corsa per poi farlo gettare su Ikscel per proteggerla. Ma per proteggerla da cosa?

Una spada era balenata nell’aria come un lampo di luce e adesso puntava diritta verso di loro, in attesa degli ordini di chi la stava impugnando. Una mano ferma e decisa usciva da una veste riccamente decorata e da un volto deciso incorniciato dalla lunga barba due occhi scuri fissavano i bambini. Quando Tototl fissò il suo sguardo negli occhi dello straniero sentì il tempo fermarsi e l’universo contrarsi su se stesso, mentre tutto cessava di esistere intorno a loro. Anche il respiro si fermò mentre il bambino di Cholula guardava Cortes, il dio venuto da lontano per portare la distruzione. Tremava l’uomo quanto il bambino, tremava Ikschel sotto di lui. Poi una mano leggera e scura si posò su quella del conquistador e il volto meraviglioso di Malitzin si accostò al suo, sussurrandogli qualcosa all’orecchio. Come riscuotendosi da un brutto sogno, Cortes si sciolse e sembrò riprendere vita e movimento. Anche Tototl riprese a respirare poi accadde l’incredibile. Cortes rinfoderò la spada e, dopo essersi chinato su di lui, accarezzò il volto del bambino. Era quindi di carne lo spagnolo? Poteva quindi essere ferito e ucciso come loro?

Si dice che la morte, per un bambino, sia quasi sempre preceduta da attimi di intenso stupore. O almeno così si dice. Ed erano stati davvero giorni di stupore, quelli in cui gli uomini della terra e del cielo avevano incontrato i loro dei. Ma, mentre un tramonto di sangue scendeva pietoso sulla terra straziata dagli uomini, Tototl e Ikschel avevano avuto salva la vita proprio da chi aveva portato la morte sulla loro gente. Mentre raggiungevano la vetta del monte dal quale avrebbero potuto vedere la città sul fondo della valle, non si voltarono. Giurarono a sé stessi che sarebbero sopravvissuti.

Altrove. L’avrebbe portata in luogo sicuro, il cuore dell’Unico Mondo, Tenochtitlan, capitale dei fieri guerrieri Mexicatl.

*

Drake

C'è qualcosa di più bello di un veliero che maestoso si dirige verso l'assoluto blu? Si, cinque velieri che fanno delle vele ali al folle volo fendendo le onde in una meravigliosa mattinata inglese. Direzione: Nuovo Mondo. Obiettivo: acquisire quante più ricchezze possibile in nome di Sua Maestà Elisabetta.
Elisabetta..
Francis Drake, appoggiato alla murata di prua, chiuse gli occhi per un momento aspirando l'odore tanto amato del mare, una fragranza che sapeva di sale, pesce e brezza notturna e lasciò che il vento giocasse con i suoi capelli e con la lunga barba del viso abbronzato. Elisabetta. L'odore del mare fu sostituito grazie alla sua mente da quello degli incensi mentre un gusto dolce di idromele gli invase la gola: si ritrovò per un attimo nella grande stanza da letto della regina, nella luce fioca delle innumerevoli candele. C'era della musica, forse un'arpa. Il ricordo era così vivido che Drake tese la mano nell'aria davanti a sè e gli sembrò di poter toccare la Regina, ritta in piedi davanti a lui, e di giocare con le dita tra le trame rosse dei suoi capelli. Elisabetta..
Con il fuoco negli occhi, prima di lasciarlo partire, Elisabetta si era fatta dare la spada di Drake e, dopo averla portata al petto, aveva sussurrato fissandolo negli occhi: 'Drake, chi vi tocca mi colpisce.' Aveva quindi baciato la spada, infine il suo pirata.
Chi vi tocca, mi colpisce. Ma Drake non era uomo facile a colpirsi. Il figlio di un prete di Crowndale ne aveva fatta di strada e da semplice marinaio adesso comandava una flotta rapace. Cresciuto sotto il segno di Magellano e Colombo sognava la gloria di Cortes e Pizarro sule rotte del Nuovo Mondo. L'Europa era troppo stretta per uomini come lui e l'Inghilterra solo un coccio di vetro in mezzo al mare. Drake sognava battaglie navali e grandi tesori, praterie sconfinate e città piene d'oro. Gli Spagnoli, i cani inquisitori, avrebbero conosciuto e temuto il suo nome da Siviglia fino a Città del Messico. Poco importava se fino a qui la fortuna non gli aveva arriso. Quanto anni aveva impiegato Cortes per scoprire il Messico? Drake era giovane e aveva tutto il mare della vita davanti a sè.
Riaprì gli occhi giusto per vedere giovani focene rincorrersi intorno alla prua della nave, quasi a volerla sfidare in velocità e destrezza. Animali intelligenti, quelli. Si raccontava di numerosi marinai salvati dai delfini dopo un naufragio, scortati a terra o difesi dagli squali. Il mondo dei pirati era quello: storie, avventure, miti e leggende. Ogni giorno qualcosa di nuovo sotto il cielo da scoprire e ogni notte nuove stelle a cui affidarsi e, quando sei fortunato, nuove donne per scaldare un pò il letto. E sopra ogni cosa Dio Onnipotente, il Grande Timoniere, padrone del Cielo e della Terra. Le navi gli ricordavano la fede in Dio, se ci pensava: erano fatte con il materiale creato da Lui ma forgiato dall'uomo per viaggiare incontro al proprio destino. Amava le navi, il legno, il rumore delle corde, il tendersi delle vele, il vento sul viso e il rumore delle onde sullo scafo ardito. Adorava il canto degli uomini al lavoro sotto il sole, l'adrenalina degli arrembaggi e le scazzottate che finivano in boccali di birra. Non amava uccidere, ma faceva parte del mestiere. Insomma, godeva di ogni giorno di quella sua strana, vagabonda vita.
Ma qualcosa non era andato come avrebbe dovuto.
Prima c'era stata la faccenda dei viveri, che li aveva obbligati a rientrare a Plymouth per rifornirsi nuovamente. Già da lì avrebbe dovuto capire molte cose ma si sa, al cuor non si comanda e Drake non era ancora pronto a mettere in discussione l'operato dell'unico amico che avesse mai avuto al mondo, Thomas Doughty. Si era sbagliato, succede. Doughty non era un pirata e nemmeno un marinaio ma un nobile, un fine letterato e un diplomatico che aveva avuto il coraggio di salire a bordo di questa impresa. Istruito, elegante e inserito nel mondo che conta aveva persino investito dei soldi nel viaggio solo per l'affetto che gli tributava. Drake chiuse gli occhi e rivide il loro primo incontro quando, bevendo e chiacchierando, avevano condiviso il grande sogno di avventurarsi, primi tra gli Inglesi, nel grande oceano Pacifico di Magellano. Lì non c'erano Spagnoli, dazi, controlli e violenze, non c'erano confini, leggi ma solo il grande e vasto mondo blu che li avrebbe portati a incontrare il loro destino per la gloria di Dio e della Regina. Senza rendersene conto Drake e Doughty avevano parlato fino al mattino e l'alba li aveva sorpresi ebbri di vino e di voglia di avventure. Ma adesso tutto questo non contava più. Drake sentì il cuore farsi di nuovo pesante per il duro compito che lo attendeva. Stregoneria. Appropriazione indebita del tesoro. Insuburdinazione. Nel piccolo mondo del veliero non c'era nulla di più pericoloso di un capitano che non sapesse mantenere ordine, controllo e disciplina tra i suoi uomini. Nessun iceberg, nessuna balena, nessuna risacca erano più letali di un solo uomo sleale a bordo. Il malcontento era come un virus tropicale che si impiantava in un marinaio e a poco a poco ne cambiava i pensieri e, attraverso le parole, iniziava a diffondersi ad altri mutandone gli animi. In pochi giorni la nave era in balia dei dissidenti e il mare diventava la tomba silente di una spedizione abortita. Persino il Nuovo Mondo aveva rischiato di non esistere per colpa di una sedizione.
Drake aveva dato il comando di una nave al suo amico Doughty e lui per tutta risposta aveva osato mettere le mani sul bottino incolpando niente di meno suo fratello, Thomas Drake, dei propri crimini. Ma gli uomini, poco disponibili a farsi abbindolare da un damerino, lo avevano smascherato e avevano chiesto il suo intervento. Ma Doughty era un amico e meritava una seconda chance.
‘Se vuoi imparare a comandare devi per prima cosa saper obbedire!’ gli urlò in faccia, livido di rabbia. ‘Se tu non fossi chi sei ti avrei già dato in pasto agli squali, hai capito?’
Doughty non gli aveva risposto, immusonito e altezzoso. Come osava quel rozzo pirata usare quel tono con lui? Gli uomini a bordo della Pelican avevano visto Drake camminare per giorni sul ponte della nave in silenziose meditazioni, che a volte erompevano in accanite dissertazioni con sé stesso o con il Cielo misericordioso. Poi era pervenuto a una decisione: avrebbe preso lui stesso il comando della Mary lasciando quello della Pelican a Thomas Doughty.
Non fare ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te e prima di recarti al Tempio corri a riconciliarti con tuo fratello, aveva pensato. Quello che farete al più debole dei vostri fratelli lo avrete fatto a me, non diceva così? Padre nelle tue mani io raccomando il mio spirito.
Era stato un errore clamoroso.
Il Brasile si mostrò ai loro occhi avidi come una donna procace distesa su un letto di azzurro. Terra! Terra! TERRA!
Quei monti ricoperti di tutte le sfumature del verde promettevano ammiccanti avventure, ricchezze e sesso. Gli uomini dopo tanti giorni di digiuno su tutti e tre i fronti non vedevano l’ora di scendere dalla nave ma per Drake furono di nuovo problemi. I bollettini provenienti dalla Pelican erano disastrosi: Doughty aveva trattato male l’equipaggio e volutamente ignorato gli ordini di Drake. Poi ci si era messa la bonaccia e i velieri erano rimasti immobili sulla tavola del mare come giocattoli abbandonati da un bambino capriccioso.
Per evitare ulteriori tensioni, Drake aveva fatto richiamare Doughty e lo aveva privato del comando, mandandolo a bordo della Swan.
E la situazione peggiorò. Una volta a bordo, Dougthy prese a dire a tutti di essere un potente mago che poteva evocare il diavolo dall’inferno e avvelenare un uomo facendolo morire tra mille tormenti. Gli uomini, che già odiavano il damerino, presero a temere lo stregone e rivolsero a Drake il proprio malcontento. Non aveva scelta: doveva imprigionare il suo miglior amico e processarlo a tempo debito. Ne andava della spedizione e dell’amore che provava per Elisabetta.
Drake sentì che lei lo stava guardando e lo proteggeva da lontano, aspettando il suo ritorno. Non poteva esitare. Non davanti a lei, non davanti agli uomini, non davanti a Dio.
‘John Sarocold!’
Un uomo di mezza età corse veloce e si piazzò davanti a Drake in attesa di ordini.
‘Traducete agli arresti Thomas Doughty e legatelo all’albero maestro.’
‘Agli ordini, capitano!’
Tre uomini emersero dal ventre gonfio della nave come spiriti infernali, reggendo per le spalle una figura emaciata e dalle vesti, un tempo eleganti, stracciate. Eppure manteneva, nello sguardo, qualcosa di fiero e altezzoso che nessun uomo poteva imparare ma che si acquisiva per diritto di nascita, un lume nobile e coraggioso che dava alla scena una luce epica simile a quella dei quadri che amava dipingere. Tutti i presenti erano consapevoli che quanto stava accadendo sarebbe stato cantato nelle corti d’Europa nei secoli a venire. Era uno scontro non solo tra due uomini ma tra una classe dirigente in declino e l’uomo nuovo, nato sotto la stella della Regina Elisabetta e destinato a colonizzare il mondo. Francis Drake e Thomas Doughty si ergevano solitari come le colonne d’Ercole tra la marmaglia di marinai che rideva, cantava e sputava addosso al prigioniero e nei loro sguardi scorreva la storia.
Il fuoco. Drake doveva purificare col fuoco e offrire qualcosa a Dio in olocausto.
‘Bruciate la Cristopher’ bisbigliò, ondeggiando il busto come un serpente mentre fissava Thomas Doughty.
‘Che cosa ha detto, capitano?’
Drake riempì i polmoni d’aria e gridò l’ordine nel modo più perentorio che gli riuscì di trovare:
‘Bruciate la Cristopher!’
Una nave che brucia è uno spettacolo imponente, di quelli che non si dimentica facilmente. Due elementi così lontani tra loro, il fuoco e l’acqua, si trovano improvvisamente a contatto mentre l’aria si riempie di un fumo nero, grasso e denso che sale fino al cielo oscurandolo. Mentre i velieri rimanenti puntavano le prue decise verso il porto di San Julian, un insenatura selvaggia di terra brulla e nera battuta dal mare e dai venti, circondata di foreste fitte, la Cristopher affondava lentamente, pira di sé stessa, mentre il legno avvolto dalle fiamme rosse crepitava e scoppiava e schioccava, ultimi gemiti di qualcosa di morente che soffocava avvolta in spire di fumo.
Signore, tu hai guardato le mie lacrime, non allontanarti da me perché si avvicina il dolore.
Il porto di San Julian, tra mille possibili proprio quello. La storia ha il senso dell’umorismo, pensò Drake tra sé. Solo sessant’anni prima Magellano, il suo eroe, l’uomo del quale seguiva la rotta, aveva fatto impiccare su quella stessa sabbia decine di marinai che avevano tentato di disertare.
Drake fissava la terra avvicinarsi veloce e si chiese se, in qualche modo, rimane traccia in un posto di quello che gli uomini vi hanno fatto; si rispose di si e loro erano la prova di quella verità. Ancora una volta, San Julian sarebbe stato il testimone silenzioso della giustizia sommaria dell’uomo.

L’attacco arrivò improvviso dal folto degli alberi e per un attimo Drake sentì che tutto sarebbe finito lì, quel giorno. Non appena gli uomini scesero dalle scialuppe e presero possesso della spiaggia, un nugolo di frecce sembrò oscurare il sole abbattendosi su di loro come una pioggia mortale.
Gli inglesi, presi di sorpresa, cadevano come animali al macello e chi ancora si reggeva in piedi, per istinto, si raggruppò al centro della spiaggia impugnando armi e scudi nel tentativo di individuare da dove arrivassero le frecce. ‘Restate uniti! Restate uniti, per l’amor di Dio! Urlava il loro capitano dal centro dello schieramento, con la spada in pugno. Proprio alla destra di Drake un uomo stava cercando di caricare il proprio archibugio ma una freccia gli trapassò l’occhio uscendo dal retro del cranio, abbattendolo come un albero al suolo. Un altro prese il suo posto ma fu trafitto due volte, al petto alla gola, finendo sul corpo del compagno. Era una battaglia disperata. Qualcuno alle sue spalle sparò un paio di colpi che detonarono come tuoni in quel cielo selvaggio ma i selvaggi, ben nascosti nel fitto della vegetazione, continuarono a scaricare decine di frecce sugli invasori bianchi.
Ovunque gli uomini, come tanti San Sebastiano, erano crivellati dai colpi ma resistevano con la forza dei disperati. Drake capì che non aveva scampo: se c’è una cosa che un conquistador non può permettersi di fare è di perdere uomini in territorio straniero perché sono l’unico capitale che ha a disposizione e va impiegato con attenzione. Il suo stava rischiando di essere speso tutto quel giorno in una stupida battaglia per una spiaggia e no, non gli risultava che la sabbia avesse un mercato. Non avevano fatto tanta strada per morire su una terra straniera. E poveri. A Dio non piacciono i perdenti.
‘Ritirata! Tutti a bordo!’
Come pecore che vedono avvicinarsi il lupo da lontano e, dopo essersi ammassate in un punto, si danno alla fuga non appena vedono una via libera, così gli inglesi ruppero la formazione e si trascinarono, feriti e sanguinanti, alle pinacce per tornare ai velieri. In quel momento decine di indiani sbucarono fuori dalla foresta veloci e letali come le loro stesse frecce, urlando e agitando lance e bastoni. Era uno spettacolo maestoso e terribile a un tempo vedere quei corpi nudi lanciarsi all’inseguimento della preda mentre l’aria si riempiva di urla e canti di guerra. Ma non era il momento per la bellezza e Drake doveva portare in salvo i suoi uomini. Mentre correva si avvide che uno dei marinai uccisi stringeva ancora in mano il suo archibugio e, senza pensarci su, si arrestò nella sabbia e corse di nuovo indietro di alcuni metri. Con il cuore che batteva a mille si lanciò sull’arma e dopo averla strappata dalle mani del morto si rimise in piedi, puntandola davanti a sé. Correva, primo tra tutti, un guerriero indiano enorme e dal viso quasi completamente tatuato di forme rosse e nere; roteava sulla testa una grossa mazza di legno che terminava in aculei di pietra acuminati. Perdonali, perché non sanno quel che fanno.
Drake fissò l’uomo, trattenne il respiro e fece fuoco. Il guerriero fu spinto indietro con forza, come se una mano invisibile lo avesse colpito al petto dal quale iniziò a sgorgare un fiume di sangue nero e denso. Dopo il tuono dell’arma, un urlo lacerò l’aria del Nuovo Mondo mentre il ferito crollava a terra portandosi le mani sulla ferita. Come quando un branco di lupi vede uccidere il proprio capo e si arresta, indeciso sul da farsi, allo stesso modo gli indiani si bloccarono di colpo, terrorizzati dallo sparo e dal fatto che uno di loro era stato scaraventato a terra da una potenza invisibile. Quella era una magia che non avevano mai visto fare a nessuno e non potevano combatterla in alcun modo. Erano davvero dei quelli che vedevano davanti a loro?
Uno ancora si ergeva fiero con i piedi ben piantati nella sabbia, reggendo in mano un bastone grigio e fumante dal quale era partita la magia mortale. Aveva il viso coperto di peli gialli come i capelli che portava sulla testa e uno sguardo azzurro e freddo come il mare. Dietro di lui gli altri uomini fuggivano ma non il capo, dio del mare venuto da lontano.
Un silenzio irreale, rotto solo dallo sciabordare delle onde sulla riva, calò come un sipario sulla scena. Drake indicò ai selvaggi con il fucile il corpo dell’indigeno agonizzante, permettendo loro di raccoglierlo e portarlo via. In silenzio, due di loro lo sollevarono di peso e, insieme agli altri, ripresero la via delle foreste.
Non c’è nulla come aver visto la Morte negli occhi che ridia agli uomini la voglia di vivere: quella notte a bordo di ogni veliero Drake diede un ordine molto semplice, fare festa come se fossero già in Paradiso circondati dagli Angeli del Signore.
Ovviamente, diede per scontato che in Paradiso l’alcol sarebbe scorso a fiumi e si sarebbero cantate canzoni sconce fino all’alba.
Drake passava tra i suoi uomini ubriachi dando pacche sulle spalle e condividendo con ogni gruppo un boccale di birra rancida, intonando di tanto in tanto il ritornello di una canzone sulle gambe della bella Mary o su un pendaglio da forca.
Si cantava con la disperazione dei naufraghi e con la gioia selvaggia dei risparmiati, della preda che senta ancora vita scorrere sordida nel corpo lacero per i denti del predatore. Tra i marinai molti avevano rammendato le ferite come avevano potuto, come vecchi vestiti laceri. E chi più era ferito più aveva bevuto, e più cantato. Ci si stringeva sotto un cielo di stelle infinito, nella notte del Nuovo Mondo, e non era forse quello il Paradiso? Drake, nonostante tutto, sperimentò un raro momento di felicità. Ma adesso serviva un segno. Come il lampo che squarcia le nuvole, quel semplice pensiero mutò l’umore del pirata. Era necessario un sacrificio al dio del mare, dei viaggi e delle imprese fortunate. Ma soprattutto doveva dare un segnale chiaro agli uomini, colpire il più debole per educare il branco alla legge del capo. Drake si fece cupo e a un tratto tutto sembrò così privo di senso, lontano. Che cosa ne sapevano le onde del mare del suo dolore? Che cosa le verdi foreste, la sabbia della spiaggia? A chi tra gli uomini avrebbe potuto comunicare il suo dolore? Ogni capo è solo nel momento delle decisioni irrevocabili. Dopo il dolore la mente veloce cercò sollievo nel ricordo e di nuovo vide davanti a sé Elisabetta.
‘Madre, aiutami a vendicare il mio onore offeso.’
Drake Immaginò di essere sulla spiaggia di San Julian ed ecco che lei emergeva dalla spuma delle onde, con i rossi capelli simili a veste sul corpo sinuoso.
‘Madre, aiutami a vendicare il mio onore offeso’ pregava Drake mentre lei gli prendeva il volto tra le mani e imprimeva la sua bocca sulle labbra che sapevano di mare.
Gli occhi di Elisabetta erano porti lontani dalle mille promesse e il suo corpo caldo era l’unica cosa che Drake avrebbe potuto chiamare casa in quel vasto mondo.
‘Figlio, la tua sorte è davvero infelice.
Non solo il destino ti riserva una vita breve, ma ora si accanisce su
di te, facendoti soffrire. Ti prometto che andrò da Dio: sicuramente mi ascolterà.’
E lo aveva abbracciato forte e si erano sdraiati nella sabbia umida mentre ogni dolore svaniva.
Il sole trovò Drake addormentato come un bambino sul ponte della nave, raggomitolato contro alcune gomene.
‘Si svegli, capitano. E’ giorno.’
Un mano forte lo scosse dalla spalla una, due tre volte. Elisabetta non andare via, aspetta.
Tutto intorno a Drake svaniva a poco a poco, la spiaggia, il cielo notturno, lei.
La tenne per mano finchè tra le dita non strinse più nulla e a quel punto aprì gli occhi al nuovo giorno. Sapeva che cosa doveva fare. E lo avrebbe fatto subito. Non si ha coraggio senza paura.
Nessun indiano li prese di mira quando scesero a terra e le vedette inviate nel folto della foresta non trovarono segni di potenziali nemici. La lezione del giorno prima era servita. L’uomo bianco li avrebbe annientati, punto e basta. Era tempo se ne facessero una ragione. I loro dei, stanchi, soccombevano sotto i nuovi idoli arrivati dal mare. Abbandonati dagli dei, era tempo per loro di ritirarsi nel folto della terra sperando di non essere mai trovati.
Drake, soddisfatto, diede ordine di portare sulla spiaggia un tavolo e alcune sedie e che tutti gli equipaggi fossero presenti. Un processo avrebbe avuto luogo quel giorno, sotto l’ombra delle forche erette da Magellano che spuntavano, macilente, dalla sabbia a pochi metri da dove erano sbarcati simili loro stesse a scheletri erosi dal tempo.
Gli uomini attesero in silenzio che Thomas Doughty e Francis Drake comparissero dal ventre delle navi e tirarono fiato quando li videro insieme sulla stessa scialuppa che si avvicinava lenta, inesorabile, alla spiaggia.
Drake aiutò persino Doughty a scendere a terra, impedito com’era dalle catene e da giorni senza cibo.
Il capitano appariva radioso nelle sue vesti eleganti mentre il prigioniero era ormai solo un’ombra di sé stesso. La vita che stava abbandonando il secondo sembrava riempire il primo di gloria.
Signore dammi il coraggio di fare ciò che è giusto e non ciò che mi conviene. Dammi la forza. Dammi la forza. Non allontanare da me questo calice amaro.
I due uomini sfilarono nell’emiciclo formato dagli equipaggi e molti tra i presenti tolsero il cappello in segno di omaggio. Nessuno osava fiatare mentre l’imputato veniva fatto sedere sull’unica sedia disposta al centro della scena e l’accusatore, radioso come il mattino, passeggiava con le mani dietro la schiena fissando ognuno di loro in volto.
‘Thomas Doughty, voi avete cercato in molte occasioni di togliermi l’onore e di minare la mia autorità di capo. Per questo vi accuso e vi ordino di giustificarvi e se lo farete saremo amici come prima, altrimenti òla pena prevista per voi è la morte.’
La voce di Drake risuonò potente e straniera sulla spiaggia di San Julian. Dal fitto fogliame della foresta un coro di uccelli e scimmie faceva da eco alla strana commedia che gli uomini stavano recitando a pochi metri dagli alberi.
Doughty fissava l’amico con una sorta di compianto, consapevole della farsa che stava avvenendo sotto gli occhi di tutti. Non aveva dubbi rispetto al proprio destino. Ecco l’agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo. Decise di non sprecare fiato ma di preparare la sua anima all’incontro con l’unico Giudice di cui gli interessava il parere.
Drake accolse il silenzio dell’imputato come una prova di colpevolezza e, dopo aver raggiunto il tavolo, gli chiese come e dove avrebbe voluto essere giudicato.
Non si rese conto dell’errore.
‘In Inghilterra e con le leggi della Regina che entrambi serviamo e alla quale dobbiamo obbedienza.’
Un osservatore attento avrebbe notato serrarsi la mascella di Drake e un fremito percorrerne lo sguardo.
Avrebbe dovuto stare più attento, molto ma molto più attento. Gli uomini ascoltavano, guardavano e giudicavano. Avrebbero soppesato ogni parola e solo se non avesse commesso sbagli lo avrebbero seguito dopo l’olocausto. Altrimenti sarebbe stato lui il vero colpevole.
Respirò a fondo mentre fissava Doughty come un rapace con la sua preda, tracciando segni nell’aria con le dita.
Attento, uomo, attento. Il topolino può ancora scappare ma il falco ha pronta la picchiata. Lasciò che il silenzio esaurisse l’attesa poi rispose.
‘No, questo non è possibile. Sarete giudicato qui secondo le leggi di Inghilterra e della Regina che noi tutti serviamo.’
‘Ma allora avrete di certo un legittimo mandato per tale evenienza.’
Doughty buttò lì quell’affermazione letale quasi senza darci peso, con la scaltrezza e l’esperienza dell’uomo che aveva parlato nelle più grandi corti d’Europa. Se il risultato di quella partita era comunque segnato, si sarebbe goduto almeno il gioco.
Drake strinse i pugni sul tavolo fino a farli diventare bianchi e lasciò che l’aria uscisse piano dalle labbra serrate per permettere al cuore di ricominciare a battere. Ok amico mio, se vuoi giocare giochiamo pure ma a questo punto con le mie regole. Il topolino che era stato afferrato dalle grinfie del falco e portato a centinaia di metri di altezza stava cercando di liberarsi nonostante una morte comunque certa, eppure preferiva morire schiantandosi al suolo che non divorato. Ma il falco capace non glielo avrebbe permesso e Drake si preparò a mordere.
‘E’ proprio così, amico mio. Nessuno di noi sfugge al giudizio di Dio e alle leggi della Regina, come voi sapete.’
‘Posso quindi vederlo?’
Drake a quel punto fece qualcosa che nessuno si sarebbe aspettato. Saltò in piedi sul tavolo da giudice e allargò le braccia al cielo, fissando con sguardo rapito la platea che ormai aveva occhi solo per lui.’
‘Vedete fino a che punto arriva la mente subdola del traditore, uomin? Vedete fino a che punto il Diavolo parla attraverso le sue parole?.’
Silenzio. Onde del mare. Brezza leggera.
‘Ho portato con me un amico, l’ho messo a capo delle mie navi, ho dato fiducia e come sono stato ripagato? Con odio e furti e infine con atti di stregoneria.’
Drake abbassò le braccia e fissò la preda con un malizioso dolore.
‘Ma se mi chiedete: Drake, tu odi il tuo amico? La risposta è no. Drake, tu giudichi con rabbia il tuo amico? Ancora no. Drake, tu condanni a morte il tuo amico per vendetta? No, no e ancora no perché l’uomo che ho davanti non è più l’amico che era partito con me per sete di avventura e guadagni ma il Diavolo in persona ed è il Diavolo che, io Francis Drake, in nome di Dio nostro Signore e della Regine Elisabetta odio, giudico e condanno per purificare il nostro mondo e le creature che lo abitano!’
Lasciò che ultime parole si levassero alte nell’aria come il grido del falco vittorioso.
Urla di giubilo si alzarono dagli uomini mentre le mani applaudivano quel numero da teatro di prim’ordine. Shakespeare, guardami, non avresti fatto di meglio.
Doughty guardava il suo ex capitano con un misto di sorpresa e disprezzo, stupito lui per primo della vena tragicomica che avevano preso gli eventi. Si limitò ad alzare le spalle scuotendo la testa incredulo poi si lasciò scappare le parole che lo avrebbero condannato definitivamente.
‘E pensare che lord Burghley mi aveva avvertito di non mettermi in questa impresa.’
Fu come se un fulmine avesse colpito Drake che, preso dalla scossa improvvisa, saltò dal tavolo e, inciampando nella sabbia e rimettendosi in piedi, corse contro Doughty con il viso paonazzo.
‘Tu! Tu hai osato venderci al nemico! Tu, Giuda, finalmente ti riveli per quello che sei!’
Drake afferrò Doughty per il bavero della camicia lacera e lo sollevò di peso, scuotendolo con forza.
‘Vedete ora signori che cosa ha fatto questo criminale? Dio svela il suo tradimento attraverso le sue labbra.’
Drake fissò la preda dritta negli occhi, consapevole di averla finalmente portata in alto, lontano sullo sperone roccioso dove il falco aveva il nido. Adesso poteva divorarla con gusto.
Con un’espressione di disgusto e compiacimento a un tempo, come chi ha fame di mangiare una cosa morta, lasciò ricadere Doughty sulla sedia e, dopo aver fatto due passi indietro, puntò il dito contro di lui alzando la voce perché tutti sentissero:
‘La Regina aveva dato ordini severissimi perché del nostro piano non venisse detto nulla a nessuno e soprattutto al cancelliere, lord Burghley. Voi, Thomas Doughty, siete una spia al saldo del cancelliere e il vostro preciso compito è stato quello di compromettere la missione fin dall’inizio, come questa corta ha esaurientemente provato, utilizzando metodi umani e diabolici. Avete fatto in modo che non avessimo cibo per sfamarci né un mare calmo per viaggiare sicuri, avete fatto in modo che gli uomini litigassero tra loro, minato la mia autorità e, non contento, avete creato nebbie che disperdessero i nostri velieri. Signori che siete qui presenti, cristiani, sudditi di sua Maestà, datemi una sola buona ragione perché io non debba condannare, per i crimini commessi, quest’uomo alla corte marziale!’
Il fulmine che aveva colpito Drake si diffuse elettricamente all’equipaggio che prese a mormorare sommessamente, indeciso sul da farsi. Un nome echeggiava sopra gli altri: la corte marziale.
Doughty aveva parlato con il cancelliere e li aveva venduti tutti. Se il cancelliere avesse fatto sapere che la Regina Elisabetta era implicata in atti di pirateria contro gli Spagnoli sarebbe stato un duro colpo per lei e per la Nazione, se non il preludio per un conflitto mondiale.
Tradimento, sedizione, stregoneria. Orrore. Morte. Espiazione. Sacrificio.
Giustizia.
Era il momento per Drake di chiudere la partita.
‘Signori vi prego, necessito della vostra attenzione.’ Drake riprese posto dietro la scrivania da giudice, battendo il pugno più volte sul tavolo.
‘Io mi rimetto a voi, uomini di mare e di vita, per il verdetto. Quelli tra voi che pensano che l’accusato meriti la morte, alzino la mano con me. Quelli che sono contrari tengano la mano abbassata.’
Drake alzò la mano piano, in modo plateale, e abbassò lo sguardo sul tavolo. Poi attese.
A uno a uno tutti gli uomini dell’equipaggio alzarono la mano, prendendo coraggio mentre il loro numero si accresceva. Dopo un silenzio che sembrava eterno Drake, come Dio nel giorno del Giudizio Universale, alzò lo sguardo sugli uomini e prese atto del loro voto.
Drake e Doughty se ne andarono sulla stessa scialuppa con la quale erano venuti solo poco tempo prima e svanirono nuovamente a bordo della loro nave. Si racconta che quella sera cenarono insieme e conversarono a lungo, brindando più e più volte alla vita, alla giustizia, al mare e ai viaggi. Nessuno avrebbe potuto immaginare, vedendoli insieme, che allo stesso tavolo mangiavano e bevevano vittima e carnefice.
Calò un sole pietoso sulla riva, quasi come se Dio avesse voluto anticipare la notte e l’alba e affrettare il tempo dell’esecuzione. Due uomini sarebbero morti quel giorno sulla spiaggia di San julian, uno fisicamente e uno nell’anima.
Drake attese l’alba vegliando sul ponte della nave, incapace di prendere sonno, disgustato dal bere, dal mare e dalle stelle che stavano lì, fisse nel cielo, incuranti del dolore degli uomini.
Mai più avrebbe permesso a un uomo di avvicinarsi così tanto al suo animo. Mai più si sarebbe permesso di avvicinarsi tanto all’animo di un uomo. Simile a un veliero, un capitano è fatto per navigare da solo e aprire la strada alle altre barche ma anche per resistere ai colpi della tempesta e delle onde feroci, vacillando, rollando, inclinandosi e lottando per restare in superficie. Come il suo veliero, Drake sarebbe uscito vittorioso da quella lotta feroce.
All’alba gli uomini si trovarono di nuovo in piedi sulla sabbia fredda della spiaggia di San Julian e di nuovo Doughty e Drake li raggiunsero insieme. Prima di consegnarlo al boia Drake disse qualcosa all’orecchio dell’amico e infine lo abbracciò.
Qualcuno giurò poi, in segreto, che il capitano aveva occhi rossi e gonfi quando si girò e prese il suo posto nel cerchio degli uomini.
Doughty appoggiò la testa sul ceppo, mite come un agnello, quindi chiuse gli occhi per sempre mentre la scure calava su di lui.




*

Geordie

‘Raccontami ancora quella storia sul vostro nome.’
‘Sono solo leggende.’
Distesi nell’erba alta sulle sponde di un ruscello, i due giovani scaldavano la pelle nuda sotto una coperta fatta di pelli di cervo nonostante il sole del mattino splendesse già alto nel cielo. L’inverno era stato duro e si era lasciato dietro una scia di morti per la fame e il freddo. La coltre di neve che aveva ricoperto il mondo aveva tardato a mollare la presa e la morsa del ghiaccio aveva costretto la gente dei villaggi a chiedere aiuto ai Longobardi chiusi dentro le mura di Papia, pur sapendo che l’avrebbero pagata cara in termini di usura su quanto dato loro per arrivare alla fine dell’inverno. Geordie si era indebitato come gli altri con il re Alboino e, una volta che questi era stato ucciso, avevano sperato di vedersi cancellare i debiti ma la delusione era stata forte quando il suo successore Clefi, salito al trono per volontà dei 35 duchi longobardi, aveva deciso che non sarebbero stati amnistiati. Le colpe del governo precedente non dovevano pesare su quello successivo, aveva proclamato. Alla miseria appena scampata si era quindi aggiunta quella aggravata dal debito e la miseria ha un brutto muso per chi come Geordie viveva facendo il porcaro in un momento storico nel quale tutti i maiali della gente fuori dalle mura erano stati mangiati ben prima che il lungo inverno fosse arrivato a metà del suo corso. Come molti ragazzi della sua età non gli era restato che cercare lavoro dentro le mura di Papia nonostante la diffidenza con la quale i Longobardi invasori guardavano la gente del posto. Eppure, nonostante tutto, era riuscito a trovare un impiego come pastore di pecore e questo gli aveva permesso di sopravvivere mentre molti intorno a lui morivano per il freddo. Aveva seppellito gli anziani genitori e numerosi amici nel villaggio nonostante avesse tentato di aiutare chi poteva dividendo le sue magre scorte di cibo finchè aveva capito che, se voleva avere una minima chance di sopravvivenza, avrebbe dovuto pensare a sé stesso e così aveva fatto, lavorando sodo per il nuovo padrone nel gelo che spezzava il respiro e congelava il volto. Come si possono pascolare animali quando il mondo è coperto da strati e strati di neve e ghiaccio? Ogni giorno doveva procacciarsi fieno e ortaggi da portare agli animali che, al caldo della stalla, stavano meglio di lui. Ma Geordie si prendeva il suo riscatto quando, non visto, riusciva ad attaccarsi alla mammella di qualche capra per rubare poderosi spruzzi di latte caldo. Come godeva allora della sensazione che ricavava da quel liquido tiepido che gli scendeva in gola e da quella, ancora più importante, del vigore che sembrava riacquisire nel corpo stanco e della lucidità che per un attimo tornava nella mente appesantita dalla stanchezza, dal sonno e dalla denutrizione. Per un po' era persino riuscito a portare del latte, ben nascosto sotto i vestiti in una bisaccia di cuoio, alla bambina del capovillaggio, un angelo biondo di circa quattro inverni che lottava come loro contro il gelo. Poi, un giorno che ne aveva preso più del solito e che tutto contento si stava avvicinando alla capanna più grande dove la bimba abitava, era stato fermato dal capovillaggio in persona che, con gli occhi gonfi e rossi, si era limitato a dire che lo ringraziava per quanto fatto fino ad allora ma che il latte non serviva più. Geordie aveva sentito il cuore fermarsi per un attimo sotto gli strati di vestiti e stracci che aveva indosso e, non sapendo cosa dire, si era limitato a mettere nelle mani del capovillaggio il sacco di cuoio con dentro il latte. Si era quindi girato e aveva preso a correre verso il bosco che circondava le loro capanne di legno e paglia e aveva corso, corso finchè non aveva creduto di morire per lo sforzo e la debolezza. Come si può piangere una bambina morta di fame e di freddo? Da quel momento fece un voto con sé stesso: sarebbe sopravvissuto a qualunque costo. Non importava altro.
Poi un giorno, in modo del tutto inaspettato, i primi raggi del sole avevano fatto capolino tra le nubi spesse e si erano fatti via via sempre più caldi. Ogni tanto era possibile sentire rumori come di un corpo morto che cade a terra ed erano immensi cumuli di neve che crollavano dai rami degli alberi liberandone i rami secchi che tendevano verso il cielo plumbeo simili a braccia di scheletri; ovunque, dove prima una sola eterna distesa di neve immota accompagnava lo sguardo, era possibile adesso scorgere l’emersione di radure erbose e, gonfi d’acqua, dei corsi dei fiumi. La vita tornava cavalcando i raggi del sole. I campi vennero nuovamente seminati mentre le gemme che adornavano i rami di pietre preziose diventavano fiori e promettevano frutta abbondante. Chi era sopravvissuto all’inverno si risvegliava alla vita in una primavera abbagliante di colori e fragranze che il vento portava con sé. Sui prati si rincorrevano saltellanti coppie di lepri dal pelo bruno e farfalle variopinte volteggiavano sul pelo dell’erba tra i fiori, mentre le api si posavano con maestria sulle loro corolle in cerca di nettare. Il sole aveva ormai preso pieno possesso del cielo ed ebbro del suo potere andava ormai a coricarsi sempre più tardi, rubando tempo alla notte. Era il tempo della semina, della musica e degli amori. Tutto invitata a rincorrersi, a vivere la vita per come era, senza chiedersi il perché, al suono del liuto e alle romanze cantate sotto le stelle. I sopravvissuti del villaggio di Geordie, esseri umani simili alla pietra e al legno della loro campagna, gente di mestiere, contadini, fabbri e artigiani, non si erano persi nello sconforto per chi non c’era più ma avevano accettato l’invito della vita che si risvegliava e si ritrovavano ogni sera intorno al fuoco accesso nello spiazzo centrale, davanti alla capanna del capo, per dimenticare almeno per un po' le fatiche dei campi e delle officine e per bere e cantare insieme.
Poi, insieme alla primavera, era arrivata lei.
‘Ti prego, racconta.’
Geordie, disteso su un fianco, stringeva a sé il corpo esile della ragazza e lo osservava una volta di più con quel misto di piacere e sorpresa che dà sempre il contatto con qualcosa di nuovo ed esotico: la pelle chiara come la neve sembrava in qualche modo una tonalità del biondo sottile dei capelli lunghi che, sciolti, ricoprivano di un velo d’oro la terra bruna e l’erba verde. Le labbra rosse e morbide risaltavano su quel viso pallido così come gli occhi castani nei quali sembrava che un pittore esperto avesse inserito pagliuzze di filigrana, le stesse che aveva usato per dipingerle il pube. Oh, si sarebbe mai stancato di guardarla?
Geordie non aveva mai visto niente di simile.
La ragazza sorrise e si girò a fissarlo negli occhi verdi quindi con un gesto veloce gli scompigliò i capelli scuri, già arruffati dopo l’amore.
‘Ok, adesso mammina ti racconta la storia che ti piace tanto.’
La sua voce gentile si esprimeva in un volgare stentato, connotato da un forte accento straniero che evocava in Geordie fantasie sulle terre lontane dalle quali quella gente era venuta, le pianure dell’Elba e poi ancora più a nord, terre di sassoni, gente dura armata dei lunghi coltelli dai quali prendeva il nome.
‘Tanto tempo fa il mio popolo, guidato dai re Ibor e Aio, si mise in marcia per cercare nuove terre da abitare e arrivarono nelle terre dei Vandali, guerrieri poderosi e nemici temibili.’
‘Certo che ovunque andiate portate pace e prosperità.’
Geordie rise di gusto per la sua uscita mentre la ragazza assunse un finto broncio.
‘La mia è una razza di esploratori, non solo di guerrieri. Gli dei.. Dio ci ha creato così, non si può sfuggire al proprio destino. Siamo lupi e come tali siamo sempre in cerca di nuovi territori di caccia. E se vuoi che finisca la storia devi fare il bravo bambino e stare zitto.’
‘Come ti permetti!’
Geordie prese a farle il solletico poi la immobilizzò sotto di sé e, mentre la penetrava di nuovo, si perse in quegli occhi scuri come la terra fertile dalla quale venivano.
Teodolinda era la figlia del nobile che gli aveva dato il lavoro. Si erano piaciuti da subito, senza troppi perché, e avevano iniziato a frequentarsi ben sapendo i rischi ai quali la loro relazione li esponeva. Da settimane ormai bastava loro sellare uno dei cavalli del padrone e galoppare via lontano da tutta quella gente, dai popoli divisi tra loro da una palizzata di legno e pietra, dalle ingiustizie e dal potere, per perdersi in boschi senza padrone e tramonti che sembravano fatti apposta per l’amore.
Quando si ritrovarono di nuovo sdraiati uno vicino all’altra, ansimanti e sudati, Teodolinda riprese il racconto.
‘Il capo dei Vandali chiese ad Odino di concedere loro la vittoria contro la mia gente ma Lui rispose che avrebbe concesso la vittoria a quel popolo che sarebbe apparso per primo sul campo di battaglia. Noi invece chiedemmo aiuto a Freya, moglie di Odino e dea dell’amore e della fertilità.’
‘Lei mi piace molto’.
‘Non ne dubito. E comunque zitto.’ Teodolinda guardava assorta un punto lontano nel cielo, dove alcune rare nuvole bianche si muovevano lente nel vasto azzurro. Il rumore del ruscello sembrava essersi alzato di tono nel silenzio che era sceso proprio mentre il sole raggiungeva il suo zenit: uccelli e api sembravano essere andati a riposarsi e la corrente del ruscello cantava argentina a pochi metri da loro nella tarda mattinata.
Geordie avrebbe tanto voluto che qualcuno suonasse per loro un liuto per accompagnare quel momento così meraviglioso. Allungò un braccio e cercò con le dita, nella tasca interna del mantello che giaceva accartocciato tra i vestiti buttati nell’erba, la forma dura di qualcosa al quale teneva molto e che fu felice di trovare dove lo aveva lasciato quindi si strinse di nuovo al corpo di lei.
‘Freya ordinò che uomini e donne si presentassero insieme, al sorgere del sole, sul campo di battaglia e che le donne legassero i capelli intorno al volto, sotto il mento, come fossero barbe. In questo modo avrebbero ingannato i Vandali. La mia gente si dispose prima degli altri sul campo di battaglia e al sorgere del sole Freya fece in modo che gli occhi di Odino si posassero su di loro. Stupito, il dio chiese alla moglie chi fossero tutti quei guerrieri dalle lunghe barbe. Da quel momento noi siamo i Longobardi, ovvero il popolo dalla lunga barba.’ Geordie raccolse con dita tremanti i capelli sciolti di Teodolinda e li dispose tutti intorno al volto di lei, quindi si allontanò un po' per guardare divertito l’insieme.
‘Si, niente male, non c’è che dire. La barba ti dona davvero.’
‘Almeno io ce l’ho!’ rispose lei prima di saltare addosso a Geordie atterrandolo. Lui la guardò senza opporre resistenza. ‘Sei bellissima, Teodolinda. E c’è una cosa che devo dirti.’
Lo sguardo di lei si fece serio. Era persino più bello. Geordie le chiese di mettersi a sedere e lei si mise al suo fianco, coprendosi il corpo nudo con la pelle di cervo. Sembrava una bambina dell’antico popolo. Geordie cercò qualcosa nel mantello e lo tenne chiuso nel pugno.
‘Chiudi gli occhi. Bene. Apri questa mano. Perfetto.’
Qualcosa di freddo le era scivolato lungo un dito della mano sinistra.
‘Adesso aprili.’
Un anello d’oro decorato con motivi arborei di pregiata fattura faceva bella mostra di sé e Teodolinda si potò una mano alla bocca per soffocare un grido di sorpresa. Era bellissimo. Bello ogni oltre immaginazione. Ed era forgiato dalla sua gente. Longobardo. Gli occhi si riempirono di lacrime.
‘Ma come hai..’
Geordie si mise in ginocchio davanti a lei, nudo come un satiro, tremante più per le emozioni che provava che non per il freddo.
‘Teodolinda, so che è una follia ma vuoi..’
Fu allora che, troppo tardi, sentirono il rumore degli zoccoli di numerosi cavalli in avvicinamento.

Geordie non aveva mai visto tanta gente riunita insieme in una piazza. Non pensava che Papia potesse contenerne tanta ed eccoli tutti lì, assiepati intorno all’esile piattaforma di legno dove era stata montata in modo del tutto approssimativo una forca.
Uomini, donne e persino bambini si spingevano tra loro per avere il posto più avanti, quello da dove vedere meglio; avevano per lo più visi sporchi, vesti lacere, occhi spenti accesi di tanto in tanto dal gusto per quel macabro spettacolo. Quel giorno un uomo sarebbe morto. Niente attira di più la gente semplice che lo spettacolo della morte. Il boia, grasso e sudato, attendeva l’arrivo degli uomini del re per procedere all’impiccagione e quando questi arrivarono tirò un respiro di sollievo. Per fare le cose bene devi farle in fretta, soprattutto sul patibolo. Un uomo magro e ben vestito salì sulla piattaforma e con modi affettati impose il silenzio alla folla berciante, un mare di persone che ondeggiava nel calore del pomeriggio. Reggeva in mano una pergamena che srotolò davanti al volto dopo averla liberata dal cordino fissato da un sigillo di cera rossa quindi lesse con voce perentoria:
‘Popolo di Papia, a nome del re Clefi condanno a morte per impiccagione quest’uomo, Geordie, per aver rubato sei cervi dal parco reale. I cervi non sono stati rubati per fame, cosa che il nostro amato re avrebbe capito e perdonato, ma per denaro.’
Un coro di offese e fischi si alzò dalla platea, ben ammaestrata dal dominatore sul modo di comportarsi in simili occasioni. L’emissario del re alzò una mano per chiedere silenzio. Geordie, in ginocchio vicino al boia, si guardava intorno per cercare, tra quei volti sconosciuti, l’unico che avesse mai amato; tra quegli infiniti occhi gli unici due che, come stelle, lo avrebbero guidato sereno dalla Nera Signora. Allo stesso tempo sperava però di non vederli, di non incontrare il volto di Teodolinda nella folla, lei non meritava di assistere a quello spettacolo. Era tutta colpa sua. Lui aveva rubato i cervi e sì, li aveva venduti e non per fame, è vero, per fame aveva lavorato e patito la fame e il freddo, per fame aveva seppellito la bambina del capovillaggio e i suoi stessi genitori, no, conosceva la fame e non aveva rubato per questo. Aveva rubato per amore. Per amore aveva venduto i cervi e col ricavato aveva fatto forgiare dal miglior fabbro di Papia un anello longobardo con il metallo fuso dei monili appartenenti ai suoi stessi genitori, tutto ciò che di loro gli rimaneva.
‘La cupidigia ha spinto quest’uomo a rubare i cervi e da essa sarà punito. Il nostro re ha decretato che il condannato sia impiccato con una corda d’oro, un privilegio raro.’
Un secondo uomo si avvicinò al patibolo e passò al boia un cuscino sul quale era deposta una corda dal colore simile alla paglia. Geordie si sentì mancare. Non era corda normale. Conosceva bene i capelli con i quali era stata intessuta. No, non lo stavano punendo per il furto dei cervi. Ma per amore.
Dalla finestra di una torre che dava sulla piazza principale, Teodolinda mordeva con forza le lenzuola del suo letto per non urlare mentre passavano la corda intorno al collo di Geordie. Si passò una mano sulla testa rasata, poi chiuse gli occhi e pianse.