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Raccolta di testi in prosa di Daniela Bigottà
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I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Belinda Victoria - Inizio capitolo 6°

Il presagio
Ancora una volta non ci vollero che pochi momenti affinché Ibaz si trovasse in stato di allerta.
Era sera e gli abitanti del borgo, che avevano gozzovigliato per un paio di giorni alla Fiera del Cane, stavano rientrando alle loro case stanchi e un po’ brilli.
Non erano ancora arrivati alle soglie di Ibaz che videro le quarantasei querce scuotersi alle folate di un vento impetuoso che, altrove, non c’era. Trascorse un solo minuto e, nel lembo di cielo che sovrastava la villa, fu un celere radunarsi di nuvole nere trafitte da saette d’oro e d’argento e anche l’uccello più testardo di tutti abbandonò il nido in un lampo per rifugiarsi nel fogliame dei boschetti limitrofi.
“Penso che la contessa sia di pessimo umore” esordì il sindaco, fermandosi in mezzo alla strada.
“Si sbaglia – lo contraddisse don Cenerino – Nessuno dei sibili che udiamo si origina dalle sue corde vocali, ma dalla furia della tempesta”.
“L’eterno riposo dona a lei, oh Signore! – recitò Terpeka - Dopotutto aveva un’età venerabile”.
“Non meni gramo, suvvia! – la redarguì l’uomo più vecchio di tutto il paese – La contessa potrebbe essermi figlia”.
“Si sarà indignata vedendo Nereo vestito da donna: da lì il suo umore a tinte fosche, cui la volta del cielo ha fatto da specchio” insinuò il tintore, suscitando un coro di risate sommesse.
“Osservate! – esclamò Dix – Ogniqualvolta un lampo lacera la cupezza del cielo, la villa appare con i muri intonacati di nero, gran brutto segno!”
“Come ha fatto ad accorgersene? – domandò il fattore - Non si vede che il tetto!”
“Basta stare in punta di piedi” fu la risposta.
“Sarà!” commentarono uno via l’altro senza aver fatto caso a un bel niente. Rimasero quindi in silenzio finché Terpeka congetturò:
“Se la villa si è messa a lutto da sola, è ancor peggio di quel che ho pensato: sono morti tutti, purtroppo!”
“La smetta con queste profezie sinistre, da indovina del Mercato dei Derelitti – saltò su a dire il sindaco – Anche le nostre case erano diventate color della pece, ma non è morto nessuno”.
“Si vede che alla villa è approdata la Colpa” ribatté lei, perseverando nella sua tesi funesta.
“Forse Nereo ha dato troppa corda al direttore della Fiera Canina” azzardò sottovoce qualcuno.
“Anziché continuare a fare illazioni, andiamo a vedere quel che è successo” esortò il sindaco, coi nervi pronti a saltare.
“E i marmocchi? Li conduciamo dritto filato nel vortice della tempesta?” domandò una madre in tono apprensivo.
“Dovranno pure farsi le ossa!” considerò lui.
“In tal caso saranno le ossa a farsi i reumatismi - osservò la donna - Almeno passiamo da casa a prendere qualche cerata”.
“Neanche per sogno: dobbiamo affrettarci” andò lui per le corte. E imboccò la scorciatoia seguito dalla frotta dei compaesani.

“Dovrebbe tempestare giorno e notte per anni – diceva Brunilde Kablinski, parlando ai suoi servi - Con un tale tempaccio nemmeno il più incallito dei temerari oserebbe inoltrarsi nel bosco”.
In quel momento qualcuno agitò insistentemente il batacchio e fu presto un battere di nocche che fece rimanere tutti di sasso o di sale. Al di là di quel tamburellare inquieto non si avvertivano suoni poiché i fischi della bufera cancellavano sia invocazioni sia suppliche.
Emilia e Nereo si presero immediatamente per mano e soffiarono sugli stoppini delle candele. Erano infatti convinti trattarsi della signora Mentavskova, sopraggiunta sin lì insieme ai concittadini per reclamare la restituzione del cane corredato dello scintillante collare che Belinda aveva però ficcato in chissà qual nascondiglio.
La contessa si limitò a tapparsi le orecchie ma, quando quel batter di nocche si tramutò in uno scalpitare di calci, si rassegnò all’idea che dietro la porta ci fosse il mago Ardullà accompagnato da una congrega di fattucchiere e stregoni radunata d’urgenza al fine di rapire Belinda.
Ascoltata l’ipotesi col fiato sospeso, Nereo si convinse di botto che, oltre quell’uscio che sembrava esser lì lì per venire sfasciato, ci fossero sia gli abitanti di tutta Cancaani, sia il conciliabolo del Mago Ardullà. Vittima di un panico sempre più ingovernabile, strinse la mano di Emilia con tale forza che le conficcò nel palmo l’unghia lunga del mignolo. Lei non fece nemmeno caso al dolore e si rintanò con lui in un armadio, entrambi incuranti del loro agire vigliacco.
“Non si può certo dire che, con voi, ci si senta al sicuro! Come esser lasciati in pasto ai leoni” considerò la contessa, rodendosi di rabbia e terrore. E, pur di rimediare un po’ di conforto, accese la candela posata sul comodino. Si strinse poi nelle spalle e, mentre lottava contro l’intensificarsi della paura, vagò con lo sguardo per il locale.
“Barabba, svegliati!” esortò con voce così disperata che i chicchi di grandine si strinsero gli uni agli altri per farsi coraggio, tramutandosi in blocchi di ghiaccio della stessa grandezza di un uovo.
“Lasci perdere il cane!” raccomandarono Emilia e Nereo, tremando a tal punto da far traballare l’armadio.
Barabba, destato dal richiamo della contessa, non dal frastuono che c’era stato, le si avvicinò con passo cauto e si mise a fissarla in un mutismo ansimante da cui si distolse solo per leccarle la mano abbandonata sul copriletto.
“Proprio non percepisci il pericolo – lo riprese lei, ritraendo la mano – Invece di riservarmi smancerie fuori luogo, fronteggia il nemico, fallo a pezzetti o fa’ in modo che si dilegui alla svelta!”
Nulla successe.
“Perché non ubbidisci? Parlo forse slovacco?” gli chiese, senza supporre che lo slovacco era l’unica lingua che il molosso potesse comprendere. Per tutta risposta lui inclinò la testa da un lato e riprese a fissarla senza mutare espressione. Sentendosi ancora più inerme, Brunilde Kablinski lanciò un’occhiata apprensiva alla porta e, quando osservò il cane con la coda dell’occhio, notò che la stava guardando nello stesso identico modo. Non sapendo come mettersi in salvo, si tirò le coperte fino sul naso e, abbassate le palpebre, attese che un sonno provvidenziale la sospingesse in un mondo inventato, dov’era finalmente silenzio.
A quel punto Barabba andò a infilarsi sotto il suo letto e neanche s’accorse che Lollo stava percorrendo il locale con le zampe contratte, camminando pressoché rasoterra.
Dal canto suo Belinda, scavalcò frettolosamente la sponda del letto e, raggiunta la porta, tirò il chiavistello.
“Non farlo!” le aveva raccomandato Nereo, sbirciando da una fessura del mobile.
“Sì!” aveva risposto lei con voce squillante.
“Anche il suo primo ‘sì’ appartiene ad un moto di ribellione” era stato il commento di Emilia.

“Cos’è successo?” domandò il sindaco quando entrò nel locale insieme ai compaesani, tutti fradici fin nelle ossa.
“Avevo ragione!” esclamò Terpeka, osservando Brunilde Kablinski impietrita nel letto.
“Purtroppo…” considerò don Cenerino e, imposto il silenzio, invitò i presenti ad inginocchiarsi sul pavimento nonostante l’avessero invaso di sei centimetri d’acqua.
“Non poteva morire in un periodo di siccità?” domandarono in molti.
Ciononostante si genuflessero tutti e, congiunte le mani, chinarono il capo in segno di rispetto per la defunta. Don Cenerino, posato l’aspersorio sul copriletto, rivolse lo sguardo al soffitto bisbigliando una breve orazione. Ma come recitò “De profundis clamavi ad te, Domine”, Brunilde Kablinski si scoprì il volto poco alla volta e si mise a fissarlo con occhio impaurito. Si guardò poi d’intorno e, poiché i servi se ne stavano rintanati dentro l’armadio e Belinda giocherellava con Lollo e Barabba, dedusse che era lei, non altri, ad essere considerata morta e quasi sepolta. Rimase dunque di sasso e, mentre la rabbia arrancava, avvertì un dondolio sospetto sotto di sé e pose subito fine all’invocazione del prete e al coro di amen che la accompagnava.
“Se non se ne stesse a guardare il soffitto bofonchiando eresie in una lingua a me sconosciuta, s’accorgerebbe che la predella del letto sta galleggiando sull’acqua con cui lei e i suoi complici mi avete inondato la casa”.
Lui si umettò brevemente le labbra e le rivolse uno sguardo interdetto.
“Mi scusi! – esclamò – Notandola talmente pallida e rigida, ci si era convinti che fosse volata tra… gli angeli”.
Brunilde Kablinski non soppesò la sua buona fede e gli disse:
“Badi a non schizzare nemmeno una goccia d’acqua, per quanto benedetta essa sia. La situazione è abbastanza precaria”.
“Non esageri!” replicò lui, arrossendo.
“Ricordi che è sufficiente una sola goccia affinché il vaso trabocchi. Non sarebbe stato più ragionevole venirmi a trovare in una tranquilla giornata di sole?”
“Siamo venuti sin qui proprio perché sta intensamente piovendo” spiegò il sindaco, confondendola ancora di più.
“Se ogniqualvolta il cielo fa bizze vi precipitate alla villa, mi domando cosa accadrà durante la stagione delle lunghe piogge, ormai più che prossima. Vi trasferirete tutti da me?”
Pur di evitare altre tensioni lui si astenne dal dirle che, altrove, era sereno. Prese invece ad aggirarsi per il locale con passo inquieto. Dopotutto, pensava, l’imperversare della tempesta sul Bosco delle Quarantasei Querce era il segnale piovuto dal cielo che annunciava il sopraggiungere di chissà quale catastrofico evento.
“Dove sono i servitori?” chiese d’un tratto.
Lei emise un sospiro profondo ma nulla rispose, poiché si sarebbe vergognata di renderlo partecipe della verità.
“Perché sta zitta?” fu la domanda.
“Dal momento che sono resuscitata, niente posso sapere di quel che è successo mentre me ne giostravo in tutt’altro mondo”.
“A questo punto, contessa, penso lei nasconda qualche scheletro nell’armadio”.
“Di già?” trasalì lei, voltandosi a guardare la sveglia.
Lui assunse un atteggiamento ancor più circospetto e, senza buttar lì mezza parola, fece cenno ai compaesani di controllare la stanza.
Bastò che uno di loro sollevasse i lembi del copriletto perché tutti trasalissero per lo spavento. Mai si sarebbero infatti aspettati di trovarsi alla mercé di un molosso nero come il carbone, con la bava alla bocca e gli occhi che brillavano come tizzoni. Mentre indietreggiavano o si perdevano in fughe inconcludenti per il locale gridando come pazzi e inciampando in quel che era sparpagliato per terra, il cane prese a rincorrere uno via l’altro finché una frotta di gente andò ad ammassarsi su cassapanche e cassoni.
Deluso per l’interruzione del fuggi fuggi, Barabba emise un ringhio talmente funesto che si spaventò lui per primo e, mugolando per la paura, andò a raspare le ante del mobile dov’erano chiusi Emilia e Nereo, sperando gli facessero spazio.
“Faccia qualcosa, contessa!” invocava il gruppo che s’era assiepato al suo capezzale per far sì che il molosso non osasse l’attacco.
“Se non mi rendete immediatamente il mio spazio di aria ordinerò al cane di divorarvi senza pietà, parrucche e dentiere comprese” fu la minaccia.
“Qui il problema non è tanto l’apparizione di un molosso bavoso, quanto la scomparsa di Emilia e Nereo” disse affannosamente Terpeka, tremante accanto alla statua della madonna.
“Un attimo! – esclamò il fattore, tornando a guardare Barabba – Questo cane è tal quale il molosso vincitore discusso e indiscusso della fiera che si è svolta a Cancaani!”
“E’ lui, senza dubbio! - confermò Dix – Dunque, nessun timore: ha la stessa ferocia d’un pupo di pezza”.
“Non era stato chiuso in una gabbia e destinato al canile?” chiesero alcuni, scendendo da cassapanche e cassoni.
“Smania di libertà” si limitò a dire Brunilde Kablinski.
“Non dica scemenze! – s’inalberò il sindaco – Vorrebbe far credere che il molosso abbia abbandonato chissà come la sua prigionia per trovarne una peggiore?”
“E’ la stessa cosa che farà lei quando sopraggiungerà il periodo delle lunghe piogge, suppongo”.
Mentre Belinda se la stava beatamente spassando, Emilia e Nereo sentivano il fiato farsi sempre più corto. Pur nella ressa, respirarono a pieni polmoni quando l’uomo più vecchio di tutto il paese, l’unico che non aveva ancora trovato un riparo e che di quel cane continuava ad avere paura, spalancò le ante dell’armadio e, sobbalzando per lo spavento, gridò:
“Meglio nelle fauci del cane che a braccetto con gli scheletri che Brunilde Kablinski tiene nascosti dentro l’armadio”.
Detto questo s’avvicinò a Barabba affinché lo tutelasse dai due fantasmi che, sgusciati dal nascondiglio, s’aggiravano furtivamente per il locale.
“Uno degli scheletri indossa il cappello e odora di pollo e frittelle” osservò Terpeka.
“Vergognatevi! – gridò il sindaco, parandosi davanti ai due servi – Trincerarsi in un armadio per un paio di tuoni è davvero puerile”.
“I nostri figlioli hanno attraversato il bosco scosso dalla bufera senza un lamento – considerarono le madri dei tre marmocchi - Hanno purtroppo i golfini infeltriti”.
“Eppoi… – cominciò a dire una di loro, indirizzando a Nereo un’occhiata di puro sconcerto – visto che nell’armadio lo spazio è piuttosto ridotto, non vedo perché si sia tenuto in testa quel ridicolo cappello da cortigiana”.
“Altolà! - la riprese Brunilde Kablinski, pronta a mentire – Si tratta di un copricapo assai raffinato, che ho indossato io stessa ai più prestigiosi gala”.
“Lei è una donna” fece notare il tintore.
“L’armadio è piccolo e il cappello mi è piovuto in testa senza che me ne accorgessi“ si difese Nereo, scagliando il copricapo per terra.
“Qualcuno sveli il motivo di questa incursione, ben più inquietante delle stranezze del mio servitore” esortò Brunilde Kablinski, non solo curiosa di sapere che ci facesse l’intero paese fra le pareti di casa sua, ma anche decisa a sedare la tensione che si andava creando.
“Il maltempo sta imperversando solo sulla sua villa, contessa. Dovunque è sereno” spiegò finalmente don Cenerino.
“Non è possibile!” esclamò Emilia sconvolta.
“Non solo: la villa ha i muri dipinti di nero, non più di rosa” puntualizzò il tintore.
“Baggianate!” si limitò a borbottare Nereo.
“Meglio così - commentò Brunilde Kablinski, apparendo quasi contenta – Il rosa sì, che è un colore da cortigiana” soggiunse, facendo indignare dodici delle ventiquattro donne presenti.
“Si rende conto che si tratta di un fenomeno inconsueto?” le domandò il sindaco.
“Il fenomeno inconsueto è lei, che ha costretto i compaesani ad affrontare questa tempesta per riferirmi un cambiamento che Nereo avrebbe notato al più tardi domani mattina”.
“Veramente temevamo fosse accaduto qualcosa” spiegò lui.
“Non ha sbagliato – confermò Brunilde Kablinski, indirizzandogli uno sguardo infuriato – Se non ve ne andrete entro cinque minuti, dopo aver debitamente prosciugato la casa, s’intende, lancerò il mio urlo più madornale, di modo da far sconfinare turbine e grandine sul soleggiato borgo di Ibaz. Questo finché Noé non risorgerà dalle ceneri, pronto a darvi una mano”.
Il compito che si sobbarcarono gli abitanti di Ibaz fu estenuante ed ingrato.
“L’acqua non l’abbiamo più alle caviglie, bensì alla gola” si lamentava il sindaco, inzuppando canottiera e camicia nell’acqua.
Venti minuti più tardi stanza e corridoio erano lustri come uno specchio e gli ospiti si dileguarono seminudi saltellando nel fango dei tornanti mentre il maltempo si allontanava con loro per imperversare infine su Ibaz.
Il proponimento di don Cenerino
Il giorno seguente l’intero paese se ne stava raggomitolato nel letto a causa di un raffreddore tremendo. Erano arzille solo le monache del convento, che perseveravano nei loro esercizi spirituali sorde ad ogni stimolo esterno e dunque ignare della sorte toccata ai compaesani.
“Che la codtessa se de resti a barcire tutta la vita della sua villa dipidta di dero” borbottava il sindaco, tra uno starnuto e l’altro.
“E’ uda bedagrabo” ripeteva Terpeka, dispiacendosi che la prima delle sue intuizioni non avesse trovato conferma.
“Dopotutto il dero è il colore che più si addice alla sua adiba” farfugliava il tintore, col termometro in bocca.
“Vada all’idferdo” si ritrovò a maledirla don Cenerino.
“Vergognati!” lo rimproverò una voce sibilante, parlandogli prima in un orecchio, dopo nell’altro.
“Vergognati!” stava dicendo la medesima voce, un quarto d’ora più tardi. Lui, turbatissimo, scostò le coperte e andò ad inginocchiarsi davanti al crocefisso implorando perdono. Stava per risollevarsi quando riascoltò quel ‘vergognati’ che sembrava provenire dall’alto, proprio da dov’era appesa la croce.
“Non avrei mai supposto che Gesù avesse una voce così stridula” pensò, ancor più inquieto. Infilò poi la tonaca sopra il pigiama e, incurante della bufera, raggiunse velocemente la chiesa. Certo che nessuno potesse sorprenderlo nelle vesti del peccatore che chiede d’esser redento, si prostrò davanti all’altare ma, ancor prima di recitare il mea culpa, si sorbì lo stesso rimprovero.
“Visto che oggi è festa di precetto e sono certo di non essere il solo ad avere trasceso, ogni parrocchiano dovrà presenziare alla funzione, sia pure col raffreddore” decise.
Fece quindi suonare la campana maggiore e, al secondo rintocco, la Mosca Bianca volò frastornata oltre l’inferriata della finestra.
Era trascorso un quarto d’ora e gli abitanti di Ibaz, tutti imbacuccati in scialli, cappucci e pastrani, se ne stavano inginocchiati nei banchi sperando che don Cenerino usasse la misericordia di abbreviare la predica, tenuto anche conto che doveva celebrare messa al convento.
Invece, come entrò nell’ambone, sgranò due occhi lucenti e, respingendo la tosse, si mise a fissare gli astanti con occhio severo.
“Fratelli assai cari! – esordì con insolita flemma, visto che cercava di tenere lontana ogni parola contenesse la ‘emme’e la enne’ – Ieri ci è stata riservata l’offesa più… davvero la più….”.
“La più ubiliadte” suggerì il fattore.
“Esatto! – confermò lui, tirando su con il naso ma fingendo di farlo a causa di una commozione profonda – Vi esorto tuttavia a passarci sopra”.
“Deadche per sogio” fu il commento di molti.
“Aspettate a parlare! – consigliò quasi subito – Quello cui dovete badare è che, al di là di... di quello che ci ha riservato la vecchia, la casa dove vive la piccola… la piccola…”.
“Belidda!” esclamò Terpeka.
“Sì, certo…. – proseguì lui - la casa dove vive la piccola è triste se resta di quel tetro colore … Per cui io e voi… cioè voi... – rettificò dopo una pausa, pur di evitare l’impatto con la prima persona plurale – dovreste restituirle al più presto il vecchio colore e questo perché la povera piccola possa vivere…”.
“Sa cosa le dico? – l’interruppe il sindaco, alzandosi in piedi – Visto che, a quadto pare, lei è il solo ad essere sado cobe ud pesce, è adche l’udico id grado di ritidteggiare quei buri, se proprio ci tiede” E uscì dalla chiesa seguito dalla frotta dei compaesani.
“Andate all’inferno! – pensò don Cenerino, senza più rammaricarsi per aver ceduto all’impulso – La prima notte di luna piena giuro che ridipingerò quei muri di rosa, di modo da mostrare a questi sfaccendati, a questi miserabili, a questi screanzati, com’è facile far rifiorire il sorriso sul volto di quattro anime in pena”.
Intanto le nuvole avevano infilato il loro più cupo mantello e, stringendosi l’una all’altra per farsi coraggio, s’addormentarono senza versare una lacrima.

Id: 76 Data: 19/03/2008

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Le profondità dell’amore

LE PROFONDITA’ DELL’AMORE
Come aveva spiegato egli stesso nel tramonto di una tranquilla sera d’inverno e di un’esistenza per buona parte inquieta, era stata la necessità ad averlo sospinto laggiù, in quel paese di marinai profumato di pesce e di cedri, roso dal sole e dall’acqua del mare. Gli ci erano voluti degli anni e l’intercessione del cielo perché rivivesse nella memoria la prima volta in cui aveva percorso quelle strade fatte di polvere e spesso deserte, il riccio del violino che gli spuntava dal tascapane e un silenzio rotto soltanto dal rumore del suo bastone che batteva il terreno.
Prima di allora aveva volutamente abolito molti ricordi, e il fluire metodico delle giornate era l’anello di una catena che lo teneva ancorato alla sua isola inesplorata e silente, mai spazzata dal vento né assediata dalla tempesta. Un’isola fatta di niente, ma dove tutto aveva un disperato bisogno di esprimersi.
Nell’inconsapevole attesa della rivelazione, i suoi pensieri sembravano aleggiare tra le note delle sue composizioni barocche ma, al calar della notte, i sogni irrompevano nella sua mente in un tamburellare sempre più vorticoso e i ricordi assumevano parvenze inquietanti, si imbrigliavano gli uni con gli altri fino a guidarlo nel labirinto da cui era fuggito allorché, solo e sconfitto, s’era incamminato verso un mondo diverso.
Era sulla spiaggia di quel mondo in declino, fatto soltanto di ventisette casupole, una chiesetta e un cimitero che, giorno dopo giorno, stagione dopo stagione, se ne stava a guardare la plaga del mare infagottato nel bozzolo dei suoi cento stracci che lo facevano somigliare ad un blocco d’ardesia. Tale rimaneva finché c’era della luce nel cielo e dentro di sé ma, prima di rincantucciarsi sul solito brano di spiaggia o tra le rovine del vecchio castello, brandiva il bastone posato lì accanto e, raggiunta la riva, lo intingeva nella sabbia bagnata ricamandovi strani arabeschi, frasi apparentemente sconnesse. Intanto, la sua faccia ossuta da cane acquistava un’espressione di velata follia in cui sembravano fiammeggiare sentimenti diversi che solo il mare, muto al suo cospetto, poteva capire.
Si destava all’alba tra i gridi dei gabbiani e il canto ostinato dell’unico gallo e, senza nemmeno riassettarsi le vesti, andava ad osservare la sabbia levigata dalle acque del mare, dove nulla era rimasto di quello che aveva tracciato. Lui ormai tutto sapeva della rosa dei venti, del movimento delle maree, del loro interagire con la pressione dell’aria e conosceva il momento preciso in cui l’onda più impertinente di tutte si sarebbe appropriata dei suoi messaggi per trascinarli verso un ipotetico mondo di cui nulla sapeva. La verifica mutava colore ai suoi occhi, li rendeva febbrili, sembrava che i voli dei gabbiani vi si riflettessero sotto forma di una pioggia di piccole lacrime trattenute a fatica. Si trattava di qualche momento e, quando il suo sguardo s’impoveriva di quel luccicore, si metteva a perlustrare la sabbia in cerca di una conchiglia grande e lucente, che poi scagliava tra le onde del mare. Per il resto della giornata, eccezion fatta per qualche pausa necessaria, le note del suo violino sembravano inanellarsi tra i flutti, si rincorrevano lungo le vie, volavano nei recessi del cielo e, il suo sguardo, altrimenti inaccessibile come un mare d’inverno, emanava un bagliore nostalgico.

Nessuno era mai riuscito a capire chi fosse e da dove provenisse quel vecchio logoro e ombroso, piegato dal freddo e ferito dal sole, che disdegnava saluti e parole, persino un tozzo di pane.
Per giorni e per mesi, il borgo scontroso dove non succedeva mai niente, sembrava essersi rianimato d’incanto. Il decrepito caffè della piazza s’era ripopolato di marinai consunti dalle bizze del mare che, guardandosi intorno con circospezione, tessevano le trame più suggestive, certi ogni volta di aver afferrato il bandolo della matassa che li avrebbe condotti nel regno dello sconosciuto tra principi dannati, assassini prezzolati e sontuosi balli di corte. Ma, appena lo si vedeva comparire all’orizzonte con il suo mistero celato negli occhi e nei suoi cento strati di stracci, si faceva un silenzio da lutto e si sentiva soltanto il rumore del mare e quello di un bastone che batteva il terreno.
Con il susseguirsi delle stagioni e di quei passi sempre più strascicati, la domanda che aveva turbato il cuore di tutti aveva smarrito ogni interesse e ci si era arresi all’idea che lo straniero fosse soltanto un marinaio ancora irretito da quel mare che gli uomini dei paese avevano amato ed odiato e che avevano infine sepolto nel mare interiore della dimenticanza.
“S’illuderà di udire il canto delle sirene” era stata la sintesi accompagnata da delle risa dapprima sommesse e infine sguaiate.

Era sopraggiunto l’inverno fuori e dentro di lui e la stanchezza che aveva preso ad intorpidirgli i sensi e la mente non gli permise di accorgersi che non era più solo, su quel lembo di spiaggia. Due occhi blu scuro punteggiati di un pulviscolo d’oro come una notte trapuntata di stelle, lo stavano osservando da dietro uno scoglio. Due occhi puliti e cerchiati d’azzurro, incastonati in un viso smunto e lentigginoso, incorniciato da una cascata di riccioli biondi.
Solo per Taro lo straniero continuava a rappresentare un universo inviolato di cui voleva assolutamente far parte. Allevato da parenti e da amici, o da parenti dei propri parenti, aveva rincorso stagione dopo stagione l’odore dei cedri del suo paese domandandosi quanto povera di denaro e di cuore fosse sua madre per averlo confinato nel borgo di Chissadove quando aveva soltanto due anni e lei e suo padre s’erano lasciati per sempre. Ora era un giovanetto relegato nella fantasia e nell’introversione, racchiuso in una fortezza interiore cementata con la linfa dei suoi tanti dolori.
Era trascorso un mese da quando sua madre l’aveva richiamato a sé per farne un marinaio che l’aiutasse a campare con un po’ più di decoro ma, non avendolo più visto da quand’era bambino, s’era stupita nel trovarsi di fronte un figlio così diverso dai membri della sua razza, un giovanetto efebico e biondo, senza vigore, la statura esigua, la magrezza diafana.
Taro voleva studiare, diventare sacerdote oppure maestro. Ma poiché i libri costavano, si trastullava componendo canzoni da menestrello oppure intrecciava ghirlande di carta per la pallida madonna del borgo e, la notte, leggeva il vangelo.

Nonostante il freddo fosse in agguato, Taro passava le ore ascoltando le interminabili sviolinate del vecchio, lo guardava arabescare la sabbia e raccattare conchiglie che poi gettava tra la schiuma del mare. Intanto la sua mente scivolava indietro nel tempo, raggranellava i frammenti dei pomeriggi in cui, rannicchiato sulla sabbia sottile di Chissadove, fissava la linea che divide il cielo dal mare cercando di indovinare la sua terra d’origine. Non l’aveva mai vista ma, in un’occasione, gli era sembrato di percepire l’odore dei cedri e s’era detto sicuro che fosse stata la clemenza della mareggiata ad averlo sospinto sin lì per dirgli che il suo paese non aveva mai smesso di esistere e non era neppure lontano.
Era dicembre e, anche se il freddo era pungente, Taro continuava a spiare ogni movimento del vecchio e, seppur ne ammirasse il carattere ostico, che rappresentava per lui qualcosa di eroico, non vedeva l’ora che si spogliasse delle sue tante corazze. Conoscendo pressoché tutto delle sue abitudini ma non la loro fonte d’origine ecco che, una mattina, mentre attendeva che si svegliasse, posò poco distante da lui una conchiglia dai riverberi viola, il solo ricordo dei tre lustri vissuti nell’infame patria di Chissadove. S’era appena voltato quando tornò sui suoi passi e, preda del batticuore, s’inginocchiò sulla sabbia e vi impresse il suo nome.
Al canto del gallo il vecchio sbarrò gli occhi di colpo e, percependo ogni minima alterazione del colore e dell’odore del mare, lo sentì prossimo alla burrasca. Ma, come si sollevò per afferrare il tascapane che aveva usato come cuscino, bloccò il movimento e, fissata la conchiglia posata a qualche spanna da sé, la credette un regalo del mare. Molto turbato e persino commosso, la raccolse con un gesto furtivo e al tempo stesso solenne e, mentre la perlustrava più da vicino, i suoi occhi si fecero attenti come quelli un compratore di pietre preziose. Stava per riporla nel tascapane quando vide la sabbia segnata da una processione di impronte e da quattro lettere che componevano un nome.
Che si trattasse di un giovinetto lo comprese d’acchito e fu proprio per questo che non si sentì defraudato della sua solitudine ma, anzi, venne sedotto da una curiosità che si fece ben presto invasiva. Era tale la sua impazienza che nemmeno ricordò di ripulirsi le vesti sporche di sabbia e s’avviò verso il paese ispezionando le vie, gli anfratti, i cortili, i balconi, ogni finestra. Non vide nessuno.
Quando raggiunse la piazza inghirlandata di luci, si mescolò a una torma di gente che rincasava da messa ma, per quanto a lungo guardò da tutte le parti, vide soltanto una moltitudine di volti indistinti.
Le strade s’erano appena svuotate quando un’improvvisa tempesta di neve scompaginò la sceneggiatura, richiamando il popolo alle finestre.
Fu allora che il vecchio intuì, oltre un uscio dischiuso, un primo piano un po’ biondo che si confondeva con l’oscurità retrostante. Fermo a guardare con la mano poggiata al bastone, stava cercando di imprimersi la fisionomia nella memoria quando la porta si chiuse di colpo. Riprese allora a il cammino tra il turbinare dei fiocchi e, strada facendo, s’avvicinò a un bidone e frugò tra i rifiuti. Trovò quasi niente e, mentre il gelo gli intesseva cristalli tra la barba e i capelli, s’avviò verso la plaga del mare. Le acque erano gonfie e agitate e avevano ridotto la spiaggia a un nastro ondulato e lucente. Intanto, il sibilo del vento si mescolava al fragore dei marosi, rendendo indecifrabile ogni altro rumore. Stanco e infreddolito, si raggomitolò nel cantuccio di sempre e cominciò a cibarsi degli avanzi che aveva riposto nel tascapane, miseri tozzi di pane raffermo che gli si sbriciolavano tra le dita che l’età aveva reso tremanti e indecise. Intanto, il suo umore pareva rispecchiare quello del cielo e, nonostante i suoi occhi avessero assunto un’espressione inquieta, sembrava non vedessero nulla. Quel malcontento aveva una causa legittima: ogniqualvolta il tempo si faceva inclemente, per evitare malanni che temeva fatali, si costringeva a passare la notte nella tetraggine del vecchio castello, quattro mura sbocconcellate e decrepite, per buona parte a cielo scoperto dove, per un sano meccanismo della natura, cresceva tutta la vegetazione del luogo.
Stavano calando le tenebre quando si raggomitolò in un anfratto muschioso ma, stentando a prendere sonno, ascoltò i cani abbaiare nel buio e attese che la follia del vento scemasse. Invece, il vento fischiò tutta la notte e lo costrinse in quella nicchia fino al mattino.
Verso le sette le onde del mare si riappropriarono di un movimento pacato e, nonostante spirasse un venticello brumoso, l’aria era impregnata di un vapore logoro e giallo, che non prometteva niente di buono. Non s’era ancora accorto di nulla quando percepì un rumore simile ad uno stropiccio e il suo istinto gli disse che non si trattava di un brusio della natura, ma di qualcuno che lo stava osservando.
Turbato e incuriosito, si risollevò poco alla volta e, senza sapere il motivo, si ravviò barba e capelli e si riassettò sommariamente le vesti lanciando d’intorno una serie di occhiate apprensive. Preda di un’emozione che non provava da tempo, si chinò per radunare le sue povere cose ma, come si rialzò, rivide quel primo piano un po’ biondo incastonarsi nella sola finestra risparmiata dal tempo: un volto simile a un dagherrotipo virato in seppia e vagamente nebbioso. In quel momento fu come se il passato si sovrapponesse al presente in un formicolare bruciante di ricordi e ciò che gli si affacciò alla memoria fu un’immagine ritoccata dalle mani del fotografo per rendere riconoscibile un volto su cui aveva versato così tante lacrime che i colori s’erano stinti, lasciando visibile nient’altro che il volto di uno sconosciuto, un volto contraffatto. Capo e collo dentro la sua apocalisse, chiuse gli occhi e si premette i palmi sulle orecchie, cercando di respingere l’assalto dei ricordi ma, risollevando le palpebre, s’accorse che la finestra incastonava soltanto un ritaglio di cielo zolfigno graffiato dai rami dei rovi. In quel momento si domandò se l’età non gli avesse giocato un tiro mancino ma, mentre raggiungeva l’uscita, pronto a rimettersi in marcia, su uno spuntone di roccia scorse un foglio di carta da zucchero dov’era posata una pagnotta croccante. Subito, sentimenti diversi fecero ressa nella sua mente senza riuscire a trovare un’intesa, una sana alleanza. Sebbene comprese la gentilezza del gesto, era sempre vivido in lui un certo sussiego, lo stesso che lo tratteneva dall’accogliere ogni elemosina. Lui, che un tempo era stato un musicista inquieto e controcorrente, ma anche un uomo di belle maniere che dava ospitalità agli emarginati, ora che era diventato uno di loro, non riusciva a liberarsi dai suoi pregiudizi, a far proprio uno stesso contegno. Pensò tuttavia che una sua reazione d’indifferenza avrebbe ferito il ragazzo e, all’orgoglio, subentrò una qual sorta di struggimento. Pur provando vergogna, quasi un senso d’umiliazione profonda, diede un morso alla pagnotta, poi un altro, un altro ancora, finché raccattò le briciole che gli si erano impigliate nella barba e nelle pieghe delle sue palandrane. S’incamminò poi verso il paese e, mentre percorreva la strada maestra, si voltò d’improvviso ma, non vedendo nessuno, si nascose dietro il tronco d’un albero e attese. Finalmente lo vide e, anche se era ancora lontano, lo intenerirono la gracilità dell’aspetto, le vesti consunte, lo sguardo smarrito. Teso e impacciato, sgusciò dal nascondiglio e, come Taro si seppe scoperto, andò a sostare a pochi passi da lui, tossicchiando di una tosse stizzita e voluta. Stava ancora tossendo quando il vecchio lo guardò il tempo necessario per dirgli: “Non dovevi privarti del cibo a te destinato”
Nell’udire quelle parole lo sguardo di Taro divenne così luminoso che il disagio del vecchio si moltiplicò a dismisura e, d’improvviso, rivide se stesso con le scarpe ben lucidate, il colletto inamidato, i capelli lucenti di brillantina. Nonostante il confronto attizzasse in lui la pena del privilegio, non riuscì a far uso del garbo appreso a suo tempo e, tutto ciò che dedicò al ragazzo, fu uno sguardo fugace che, comunque, molto diceva di quel che andava provando. In risposta ebbe un sorriso incerto, che lo disarmò fino al più oscuro recesso e, senza più guardare niente e nessuno, puntò l’indice ossuto verso la plaga del mare e attese che lui lo seguisse. Procedettero entrambi tra lo stormire del vento finché si sedettero l’uno accanto all’altro senza che nessuno si decidesse a parlare. Restarono in silenzio interi minuti e, quando Taro capì che il vecchio non era assente ma che aveva solo bisogno di essere liberato dall’agitazione, si armò di coraggio e gli domandò:
“Che fai, al paese?”
Lui gli riservò un’occhiata un po’ laterale e, compiendo uno sforzo tremendo, rispose:
““Viene un momento, nella vita, in cui ti accorgi che devi procedere e non retrocedere, in cui comprendi che devi consegnarti al tuo inconscio e a quello del mondo, di modo che non ti tocca più decidere niente”.

Non udendo commenti, si voltò verso Taro e, essendosi accorto che lo stava fissando con l’espressione di chi nulla ha compreso ma non osa dichiararlo, cercò di chiarire. Ma, da troppo tempo disabituato al dialogo spiccio, complicò ciò che era abbastanza complesso:
“C’è bisogno di comprendere la verità ma, spesso, quel che si considera verità, si rivela un errore. E’ dunque meglio soprassedere”.
“Eri un pirata?” domandò Taro, che voleva sapere qualcosa di più efficace.
“No” rispose il vecchio, con del fastidio nel tono della voce.
“Dunque, quei segni che fai sulla sabbia non sono le mappe di qualche tesoro?”
“Davvero no!” fu la risposta.
“Cosa sono? - insistette Taro - Non mi sono mai permesso di osservarli così da vicino”
“Sono stralci di poesie, note musicali, frasi, parole. Parole forse inutili, forse necessarie.Ma perché un tale interesse?”
“E’ da poco che sono tornato qui, da mia madre – spiegò Taro – Ciononostante mi sento più solo di prima. Forse un po’ come te”
“Io non mi sento mai solo” replicò il vecchio, con voce ruvida.
Tarò arrossì e, indicata la linea dell’orizzonte, cominciò a raccontare:
“Mia madre mia aveva mandato oltre questo pezzo di mare perché era povera e non poteva badarmi. Ma i miei parenti erano più poveri di lei e mi badavano ancor meno. Non sapendo come trascorrere il tempo, mi procuravo dei libri all’oratorio e andavo a leggerli sulla sponda del mare”
“Siamo rimasti seduti l’uno di fronte all’altro per chissà quanto tempo” mormorò il vecchio, cominciando a riconciliarsi con le parole.
“Tuo padre, che fine ha fatto?” chiese persino.
“Lo ricordo a malapena - spiegò Taro – Era un marinaio ma, dopo che, per ammainare la vela di una barca in tempesta, s’è fracassato la schiena, mia madre l’ha cacciato da casa”
“Pover’uomo!” commentò il vecchio, fulminato da quelle parole.
“Vorrei consigliarti…” soggiunse. Ma, non riuscendo ad introdurre un discorso che si preannunciava penoso, s’imprigionò nel mutismo e guardò il mare agitato da un’altra tempesta. Stava ancora guardando quando le parole gli sbocciarono dalle labbra senza che se ne accorgesse.
“Non ti ha mai cercato, in questi anni?”
“Mio padre? – chiese Taro, vivamente sorpreso - Dopo quel che è successo, è costretto su una sedia a rotelle e nessuno mi ha mai detto dove si trovi. Ma ora dimmi… perché te ne stai ogni giorno al cospetto del mare?”
Il vecchio ebbe un lieve sobbalzo e, mentre le lacrime incalzavano, si posò le mani sugli occhi. Neppure lui sapeva quale pena stesse piangendo e, quando scostò le mani dal volto, c’era della tempesta, dentro i suoi occhi, un cataclisma violento. Fu allora che prese a parlare di getto, con una voce cupa e disperata, che sembrò risuonare nell’anfiteatro dei cielo.
“Laggiù – cominciò a dire, indicando la distesa del mare - Laggiù, tra quelle onde che sembrano chiacchierare fittamente tra loro, scambiandosi chissà quali segreti, è… è imprigionato mio figlio Lauro, che non ho più visto dal giorno in cui tornai a casa e trovai un biglietto, sulla tovaglia… il primo e l’ultimo che scrisse mia moglie per dirmi che s’era stancata dei miei silenzi, del suono del mio… maledetto violino. Maledetto... scrisse proprio così! Aveva trovato il suo principe azzurro, faceva sapere, e se n’era andata a vivere nella sua reggia ai confini del mondo insieme a nostro figlio. Lui aveva sedici anni, era biondo, bellissimo….. Ma perché tutto questo m’è tornato improvvisamente alla mente? Erano anni che m’ero convinto di vivere in una specie di inespugnabile limbo…”
Taro si fece improvvisamente pensoso, poi cercò di rincuorarlo dicendo:
“Forse ti sbagli. Non ho mai sentito parlare d’altro, all’infuori della tempesta che ha devastato mio padre”
“Nient’affatto! – reagì il vecchio, tenendo la testa piegata in avanti, la barba che gli ricadeva sulle ginocchia – E’ successo vent’anni fa. Tu non eri nato. Ora ricordo che mia moglie neppure si premurò di rendermi partecipe della disgrazia… Non mi aveva mai considerato né marito né padre, per lei ero nessuno. Ma, dopo un mese passato senza ricevere una sola delle lettere che Lauro era solito scrivermi, chiamai il preside della sua scuola e venni a conoscenza del dramma. Seppi dunque che Lauro era partito con degli amici randagi e inconcludenti al pari di lui… Voleva fare il giro del mondo sulla barca a vela che gli aveva regalato quel principe affinché non gli fosse troppo d’impiccio. Un viaggio che s’è concluso a un miglio da qui, tra le acque del mare”.
“Non… non lo si è neppure trovato?” domandò Taro.
“No – fu la risposta – Ora lui appartiene ai misteri del mare e penso di non sbagliarmi quando dico che, navigando a bordo di chissà quale meravigliosa conchiglia sospinta dalle correnti subacquee, ha finalmente concluso il giro del mondo cui tanto anelava. Il secondo lo farà insieme a me” aggiunse, osservando Taro con sguardo di chi rivela una verità inespugnabile.
“Lauro amava molto il suono di questo violino – seguitò a dire, pizzicando una corda – Voleva componessi un brano intitolato a lui solamente. Quello che ho fatto in questi ultimi anni senza neppure rendermi conto.”
Taro, che non aveva mai smesso di fissarlo con espressione stordita, sentì un groppo alla gola che impediva alle parole di salirgli alle labbra. Ciononostante gli chiese:
“Dunque… le onde dell’alta marea catturano i messaggi che imprimi sulla battigia e li trasportano a lui. Più o meno quel che fa il vento con le note del tuo violino”
Il vecchio annuì.
“La conchiglia che raccogli e che ti porti all’orecchio è destinata a trasmetterti le parole che Lauro ti invia dalle profondità degli abissi…”
“Penso di sì. - confermò il vecchio, all’apice della disperazione – Ero senza famiglia, ero senza mio figlio, ero impazzito. Avevo perso gli amici, il lavoro. Non riuscivo a mangiare, non riuscivo a dormire. A dire il vero non avrei neppure voluto dormire per non privarmi dei ricordi appartenuti a noi due solamente, della presenza di Lauro, che percepivo dovunque: in uno scricchiolio dei mobili, in un barbaglio di luce che si metteva a danzare sull’anta di un mobile, in un’ombra che compariva all’improvviso sulla parete. Annaspavo, non riuscivo a reggermi in piedi, faticavo a respirare, ero prigioniero di un dolore feroce, un dolore che rosicchiava, che dilaniava. Un mostro invisibile mi si era annidato nel cuore e non potevo combatterlo, nemmeno riuscivo a difendermi. Ero vissuto per quel figlio e mia moglie me l’aveva sottratto per appagare i suoi capricci, le sue smanie da libertina. Neanche ha impedito che si avventurasse in un viaggio che si preannunciava insidioso e che s’è poi rivelato fatale. Se fossi rimasto dov’ero, l’avrei cercata dovunque… e penso che l’avrei uccisa”
Detto questo, tirò un lungo sospiro e così proseguì:
“Ma una sera mi addormentai quasi di colpo e il sogno che feci, aprì uno spiraglio nel buio che mi invadeva la mente. Mi trovavo in un bosco senza rumori e che pure palpitava di vita, il cielo era d’un blu misterioso e la luna vi ritagliava un cerchio perfetto. Stavo chiedendomi perché mi trovassi in un luogo così incantevole quando, tra i tronchi degli alberi, vidi profilarsi una luce che prese ad espandersi fino a tramutarsi in una sfera infuocata che prese a vorticare attorno a se stessa. Poi, d’improvviso, in mezzo a quel gran balenare, si delineò l’immagine di un cavallo al galoppo guidato da un cavaliere avvolto in un ampio mantello che si gonfiava e sgonfiava alle folate del vento che s’era appena levato. Non compresi di chi si trattasse, cosa stesse accadendo, eppure non mi lasciai travolgere dalla paura. Al contrario, provai un senso di strano benessere che divenne presto entusiasmo, una condizione di gioia assoluta. Continuavo a guardare senza riuscire a spostarmi, mi sentivo parte di un magnifico tutto e provavo una sensazione di appagamento imminente. Intanto il cavallo galoppava nella mia direzione con un portamento maestoso, senza neppure badare alle fiamme che lo avvolgevano e che sembravano dover incenerire anche la volta del cielo. Quando si fermò poco distante da me, le fiamme si affievolirono fino a diventare effluvi di luce turchina destinata a irradiare soltanto lo spazio che ci racchiudeva. In quel momento seppi, con una certezza che mi proveniva dal cuore, che quel cavaliere era mio figlio. Non aveva volto, sotto il cappuccio, non pronunciò una sola parola, eppure compresi. Si chinò verso di me e mi afferrò un polso con un gesto veloce eppure leggero, sembrava stesse sollevando una piuma. Quasi senza accorgermene mi ritrovai sulla groppa di quel cavallo con un orecchio posato sulla schiena di Lauro, il battito del suo cuore che s’accompagnava al mio battito. Trascorse del tempo...forse un giorno, forse un anno, forse addirittura un minuto e Lauro mi abbandonò su un territorio inesplorato e pieno di luce, con una spiaggia che sembrava perdersi nell’infinito, tra il profumo dei cedri e quello dei pesci... un paese raccolto, molto simile a questo. Ero sbalordito, avrei dovuto dire qualcosa eppure tacevo, cercavo di individuare il volto di Lauro tra le pieghe del suo cappuccio e non vedevo nient’altro che un piccola conca piena di buio. Intanto, il cavallo s’era messo a scalpitare, anche Lauro sembrava impaziente ma, prima di continuare la corsa verso chissà quale luogo, mi disse: ‘Ti attenderò nelle profondità dell’amore’. In quel momento lo vidi prendere la direzione del mare e scomparire tra i flutti insieme al suo destriero color della notte. La mattina, quando mi alzai, un violento desiderio di fuga si stava impadronendo di me e, nel giro di pochi minuti, presi la mia decisione. Tolsi dall’armadio i miei pochi indumenti, l’indossai l’uno sopra l’altro, staccai il violino dalla parete e m’incamminai verso questo territorio straniero, l’unico che avevo visitato con Lauro tanti anni prima e di cui conoscevo lingua ed usanze. Due mesi a percorrere le strade misteriose del mio mutamento, giorni in cui ho sguazzato nel fango, ho percorso i sentieri più infidi, coi sassi che mi bucavano i sandali, il sole che abbaglia, la pioggia che infradicia persino le ossa, la notte che crepita di mille rumori, rumori che non sai decifrare. Via dallo stordimento, dall’alienazione. E’ stata la necessità, ad avermi sospinto in questo villaggio dove il dolore è stato cancellato dalla dimenticanza e la dimenticanza è stata cancellata da una consapevolezza fatta soltanto d’amore”.

I giorni scorrevano e i ricordi venivano a galla in modo talmente frenetico che sembrava di scorgere il corpo di Lauro danzare sopra le onde insieme agli spiriti dei marinai e dei suoi compagni di viaggio. Il violino suonava e Lauro continuava a danzare spalancando le ali alla brezza marina che gli spettinava i capelli e li faceva ondeggiare come ventagli.
Finalmente privo delle sue cento corazze, il vecchio aveva assunto il monopolio della conversazione e, mentre parlava, si riparava da un’intensa sensazione di freddo stringendosi nei suoi vestiti in disordine e scostando dal volto i lunghi capelli scomposti. Parlava di quel figlio come di un santo e, muovendo d’intorno i suoi occhi lucidi e verdi, udiva le sue parole, individuava le sfumature della sua voce, vedeva ogni mutamento dell’espressione di quel volto relegato per anni dentro l’oblio. Intanto, ubriaco di ricordi, fissava lontano, oltre la sabbia sbiancata dal sole, oltre la spiaggia interminabile, oltre i confini di quello stupefacente ritaglio di mondo. Taro, dal canto suo, lo osservava con rapimento e, quando sentiva la commozione debordargli dall’anima, gli poggiava la testa su una spalla e mai smise di farlo finché entrambi compresero che il vuoto di ognuno si era finalmente colmato aprendo una breccia di luce nell’universo.

Nonostante il tempo trascorso, a casa di Taro nessuno si era mai preoccupato di dove egli fosse, giacché ci si era dimenticati di quel figlio ancor prima che vedesse la luce. Ma chi lo scorse al fianco del vecchio, capì che quella vicinanza aveva prodotto i suoi frutti e si disse sicuro che, solo interrogando il ragazzo, il mistero rimasto sospeso per anni poteva dirsi finalmente risolto. Il decrepito caffè della piazza prese così a ripopolarsi di marinai consunti dalle bizze del mare che, osservandosi l’un l’altro con sguardo esaltato, tessevano le trame più suggestive, certi di essere approdati al regno dello sconosciuto tra principi dannati, assassini prezzolati e sontuosi balli di corte. Ma Taro mai rispose ad una delle domande che gli vennero poste e, quando il caffè abbassava le serrande e le strade tornavano a farsi deserte, andava a nascondere nel solito cesto per l’immondizia qualche fetta di pane imburrato, banane un po’ troppo mature, brandelli di pesce arrostito. Nonostante il vecchio avesse compreso la benevolenza del piccolo inganno, intuiva l’umiliazione che Taro avrebbe provato nel sapersi scoperto e fingeva ignoranza. Ma, di tanto in tanto, non resistendo alla tentazione, gli proponeva quella stessa domanda:
“Tu, mangi?”
E lui, di rimando, con l’impulso proprio della giovinezza:
“Mia madre dice che dovrei ritornare al paese poiché, a tavola, arraffo sempre doppia razione, eppure non mi spuntano i muscoli d’un marinaio”
Un giorno Taro corse verso la spiaggia mentre il vecchio lo stava aspettando fumando una sigaretta composta da una fila di mozziconi raccattati da terra.
“Ho deciso di andarmene – gli disse, fissandolo con apprensione, quasi attendesse il consenso – Se restassi diventerei un marinaio”
“Lascia perdere l’esaltazione dell’attimo che sopraggiunge e poi se ne va - consigliò il vecchio – Devi sapere che c’è un limite a tutto, sia alla sottomissione sia alla ribellione”
“Ci deve essere!” aggiunse.
Continuarono ad incontrarsi ogni giorno e, intanto, incedeva un’altra volta l’inverno. Una domenica Taro attese che lui si svegliasse e, quando il gallo cessò di cantare gli si avvicinò cautamente chiamandolo due volte per nome. Colto da un dubbio tremendo, si chinò a scrollargli una spalla ma lo avvertì rigido come un vecchio albero appena abbattuto. Oppresso e sgomento, si guardò ripetutamente d’intorno e, continuando a guardare, s’accorse che la sabbia era segnata da un rosario di solchi tondeggianti e profondi, simili alle orme lasciate da un cavallo possente. Poichè credette di stare sognando, affossò i piedi nelle impronte e per poco non si trovò a sguazzare nella schiuma del mare. Stava indietreggiando quando, poco distante da sé, vide la sabbia scarabocchiata dall’ultimo messaggio scritto dal vecchio: “Ora che mi è consentito esplorare il mare della verità, aspettami. Ti sto raggiungendo.” Fu un attimo e un’onda dell’alta marea lo lavò da capo a piedi e s’appropriò del messaggio, sospingendolo verso gli abissi.
Ormai Taro sapeva che lo straniero s’era addormentato nella nicchia dei suoi desideri e che aveva trovato il tesoro che andava cercando. Una consapevolezza che, sebbene gli procurò una specie di disperato sollievo, lo fece sentire inerme, solo come non era mai stato. Inginocchiato sulla sabbia, con la testa raccolta tra le mani, disseminò nell’aria un gemito simile a quello di un animale ferito, poi un urlo prorompente, un altro ancora. Di lì a pochi momenti accorse qualche persona un po’ spaventata, altre ancora ne sopraggiunsero finché, su quel lembo di spiaggia, si raccolse l’intero paese. Fu allora che Taro spiegò ad un drappello di gente ammutolita che il vecchio non era arrivato sin lì alla ricerca del nulla come qualcuno ancora pensava, né che era il re di un regno in ascesa o in declino. Rimase poi in silenzio a testa china ma, come risollevò lo sguardo, rivelò tra le lacrime il segreto che si custodiva nel cuore, ricevendo conferma della tragedia che s’era consumata tanti anni prima nelle acque del mare.
Ci si rese così conto in ritardo di aver condiviso le strade, il litorale, l’intero paese con un uomo povero di ricordi ma ricco nel cuore e ci si rammaricò per non avere mai insistito abbastanza per sfamarlo, per riscaldarlo, per confortarlo con una buona parola. Forse, se ci si avesse pensato per tempo, quel vecchio sarebbe stato ancora tra loro. Fu Taro ad ammansire quei sentimenti di colpa:
“Voi gli avete dato quel che andava cercando: la pace”.
La domenica l’intero paese si radunò nella piccola chiesa per partecipare ai suoi funerali. L’avevano sistemato dentro la bara sbarbato e ben pettinato, con un doppiopetto di panno scuro e una camicia immacolata che faceva risplendere il suo viso nobile e ossuto. In una mano stringeva il violino, l’altra era posata sulla conchiglia che Taro gli aveva regalato e che lui aveva sempre tenuto nel suo tascapane ancora intriso dell’acqua del mare.
All’inizio della funzione cominciò a cadere una neve minuta e, mentre lo seppellivano nelle viscere del litorale, si udirono le note di un violino librarsi tra i fiocchi e disperdersi tra le onde del mare. Fu a seguito di quell’evento così prodigioso che, da quel giorno e per ogni domenica ancora a venire, una processione di gente prese a radunarsi su quel lembo di spiaggia per ascoltare una musica che tutti udivano ma di cui nessuno capiva la provenienza.

Sulla sua lapide, come s’era fatto promettere tempo addietro da Taro, forse intuendo l’incedere del suo destino, era avvitata una targa di metallo dov’era incisa una frase che molti non compresero e che altri si fecero leggere dai figli o dai nipoti, senza comunque connetterla:
””Non so come mi giudica il mondo. A me sembra d’essere un bambino che s’incanta ad ascoltare il rumore del mare, mentre il mare della verità rimane inesplorato davanti ai suoi occhi””

Taro non divenne maestro, né prete. Neppure esaudì i desideri della madre, che ancora a lungo sperò di farne un marinaio o un semplice mozzo. Come raccontò egli stesso nei suoi anni maturi, era stata la necessità ad averlo trattenuto laggiù, in quel paese di marinai profumato di pesce e di cedri, roso dal sole e dall’acqua del mare. Più nulla rammentava della volta in cui aveva percorso quelle strade fatte di polvere e quasi sempre deserte. Aveva volutamente abolito molti ricordi e, sempre più spesso, il presente si confondeva nella sua mente con il passato, al punto che aveva dimenticato i suoi anni.
Ogni giorno, neppure badando all’inclemenza del tempo, s’incamminava verso la spiaggia di quel mondo ancor più in declino infagottato nel bozzolo dei suoi cento strati di stracci che mimetizzavano l’esiguità dell’aspetto, rendendolo simile ad un blocco d’ardesia. Tale rimaneva finché c’era della luce nel cielo e dentro di sé ma, prima di rincantucciarsi sul solito ritaglio di spiaggia o tra le rovine del vecchio castello, brandiva il bastone posato lì accanto e, raggiunta la riva, lo intingeva nella sabbia bagnata ricamandovi strani arabeschi, frasi apparentemente sconnesse che solo il mare, muto al suo cospetto, poteva capire.






Id: 70 Data: 10/03/2008

*

I piedi per terra, la testa in cielo

I PIEDI PER TERRA,LA TESTA IN CIELO

La processione di Ognissanti si profilava lungo l’orlatura della collina proiettata contro un cielo color dello zolfo. Di lì a qualche ora, le velature dell’imbrunire avrebbero composto ombre azzurrognole tra i filari delle viti e i canneti finché una luce sempre più incerta, avrebbe ammutolito il paesaggio, reinventando la notte.

Il buio è impenetrabile, ora. Non c’è luna, non brilla una stella. Nell’aria fluttuano profumi misteriosi e palpitano rumori che l’arte semplice dell’oscurità amplifica o travisa: sono stridi d’uccelli, respiri di vento, ritmi in sordina.
Ad ovest, nello spiazzo di un casolare abbandonato, vibra una luce che si tramuta in sfavillio, finché si fa dirompente. E’ un rogo di ceppi di vite che scoppiettano turbando la calma boschiva. Lì intorno, ci son giovinette abbigliate con magnifiche vesti su cui sono applicati ventagli di piume bianchissime, sulla testa hanno ghirlande tempestate di stelle di vetro che lampeggiano come diamanti.
D’improvviso, una voce immacolata sciabola l’aria e subito il vento interrompe il suo sussurrare, gli uccelli zittiscono, il fuoco del falò sembra riflettersi sulla volta del cielo ed ecco la luna. La voce modula una litania dolce, uniforme e, quando altre voci prendono ad articolare le medesime note il rogo si è già incenerito, cessa lo scintillio delle ghirlande ed è un pulsare di stelle nel firmamento.
“ Miserere, Domine!” esclama Lucille, la solista, a ultimazione di un breve salmo.
“Miserere!” replicano le voci del coro.
La nottata è sempre più fonda e il freddo diventa intenso, le acque del lago poco distante esalano spirali di fumo che si stratifica sul territorio come una lanugine bianca.
“Riattizza il fuoco, Noëlle!” esorta una voce.
Noëlle muove un cenno d’assenso col capo eppure esita, sembra assente, il suo sguardo è rivolto alle stelle che van scomparendo al di là delle nebbie.
“Sbrigati, Noëlle!”
Noëlle si alza da terra con indolenza e, dopo aver radunato la veste per non inciampare, procede a tastoni nel buio, ammucchia la brace con gesti sbadati, vi aggiunge dei sarmenti di vite e delle sterpaglie. Poi solleva il coperchio della pentola in cui sobbolle una schiuma densa che sa di pepato e, come le scintille divampano, s’incanta a guardare la propria ombra dilatarsi e restringersi sul muro del casolare dove sono ammucchiati i vessilli usati nella processione.
Il pasto è frugale, le chiacchiere che l’accompagnano sono sommesse, un mormorio tranquillo. Solo Noëlle resta muta al riparo della notte. Muta, gli occhi che non guardano niente e nessuno, quasi stesse narrando all’oscurità le sue fantasie.
Al posto del fuoco è rimasto un mucchietto di detriti fumanti e un bagliore di luna, contrastato dalla caligine, cangia i volti in ombre ed ogni esistenza in solitudine. Nessuno più parla, adesso: tutte sembrano ascoltare i fruscii della notte che stan trascinando con sé i rumori del mondo.
E’ Noëlle che, sorprendentemente, infrange l’onda del mutismo. Parla a casaccio, sembra agitata: snocciola frasi smozzicate e, senza badare alle dita annerite, scosta ripetutamente i capelli dal volto, quasi volesse difendersi da pensieri molesti. Il suo sguardo è rivolto allo scenario della notte, sembra oltrepassare il limite della collina, ma d’un tratto diventa preciso e si posa sui visi delle compagne che camminano infreddolite attorno al falò riacceso pestando i piedi per terra e battendosi il corpo a braccia incrociate. Una pausa e Noëlle, rimasta in disparte, comincia a porre domande trafelate, cui nessuno fa caso. Domande che sembrano rimbalzare all’indietro, fino a sconfinare nel buio più indecifrabile.
“Ascoltate,vi prego! – dice ad un tratto, inframmezzando le parole con un respiro indebolito – Questi brusii non sono i rumori della notte, ma i fremiti della morte”
L’enormità della frase sembra riecheggiare tutt’intorno, facendo risplendere l’oscurità.
Si immobilizzano tutte, cessano i tremolii delle ali posticce ma non accade null’altro. Allora Noëlle alza il tono della voce e racconta del regno del riposo, della luce, della conoscenza, un regno dove i defunti son liberi di volare oltre le nuvole e al di là delle stelle. Intanto fissa le fiamme come se nel fuoco vedesse volteggiare gli spiriti dei trapassati.
“Avete paura della morte?” domanda, alzandosi in piedi e sfoggiando una padronanza di sé presto tradita da un ammiccare sempre più concitato.
Coglie qualche borbottio, delle risa sommesse, nessuna risposta. Le compagne sanno che Noëlle ha paura di tutto, che teme la morte e il mistero, che piomba nell’angoscia quando s’accorge che gli altri percepiscono i suoi mille timori, la sua vulnerabilità.
“Io no. Non ho paura poiché la morte è la vera realtà. La nascita, la vita, sono solo un inganno” arrischia mentre cerca di trovare un significato all’enigma.
“La morte turba tutti quanti, Noëlle, te per prima – controbatte Lucille - Non sappiamo se si vive per morire o se si muore per nascere. E’ umano temere l’inconoscibile”.
Noëlle tace, sembra riflettere. In verità è dentro un’incertezza che racchiude sia la realtà sia la fantasia, in cui si intrecciano il vero e la menzogna.
“Chi tra di noi ha il coraggio di entrare questa notte nel camposanto?” azzarda d’un tratto, pur sentendo spalancarsi dentro di sé le porte della paura.
Si odono delle chiacchiere convulse, qualche sussurro, finché è Lucille a parlare:
“Ci andresti forse tu, Noëlle?”
Noëlle abbassa lo sguardo, improvvisamente turbata dall’idea che le si è affacciata alla mente. Eppure non riesce a respingerla, è più forte di lei. Dice:
“Perché no?” E, mentre osserva tutte quante con sfida, si porta le mani sui fianchi e sporge il busto in avanti, i lunghi capelli che sembrano cadere nel vuoto. Le sue iridi nere ora scintillano, paiono intessute di minuscole perle. Ma non appena rivolge altrove lo sguardo, un velo di rammarico adombra quel luccicore, è come se lei stesse pensando: mi sto imbrogliando da sola, sto mentendo a voi tutte, anche a me stessa.
“Non fare sciocchezze” la ammonisce Lucille.
Parole che sembrano ottenere l’effetto contrario. Ora Noëlle è parte della propria dissimulazione, il suo sguardo riacquista lucentezza, diventa ieratico. Sembra che le fiamme del falò le abbiano purificato i pensieri, incenerendo in lei ogni paura.
“La morte è solo un passaggio – pontifica con tono esaltato – nel cimitero son sepolti poveri resti senza significato, cui non son di conforto lapidi, fiori, né ceri. I defunti vivono nel regno dei cieli. I loro corpi sono come questo sasso – afferma, chinandosi ad afferrare una pietra – Avete forse paura di un sasso?”
Poi, senza aggiungere altro e insensibile a raccomandazioni e consigli, si accosta al muro del casolare e, afferrato un vessillo, lo percuote ripetutamente sul terreno. Sembra una guerriera, una dea delle tenebre che troneggia nella complessa architettura di un abito di un blu quasi nero che sia allarga di dietro formando uno strascico bordato di pizzi.
“Tornate alle vostre case – raccomanda, con voce finalmente tranquilla - Io mi recherò al cimitero e, per provarvi che non sono una pavida, conficcherò questo stendardo nell’ultima sepoltura della prima fila. Recatevi lì domattina e avrete la prova del mio coraggio”
Le labbra diafane, le guance infuocate, Noëlle si avvia lungo il sentiero che conduce al camposanto senza neppure voltarsi. Ora che si è avventurata nella sua odissea non può mostrarsi codarda e retrocedere.
Mentre cammina, un barbaglio di luna fa risplendere l’asta del suo vessillo, dà scintillii alla sua ghirlanda di stelle. L’ultima immagine di Noëlle che appare per qualche attimo per poi scomparire nel nulla, sembra nascere e morire in una riluttante oscurità.
Noëlle avanza tra i banchi delle brume fissando la lontananza che non si svela. I tronchi degli alberi, ogni punto indefinito e oscuro le appaiono come corpi immobili che la stanno osservando, che dileggiano il suo stolido ardire. Tira un ampio sospiro come volesse appropriarsi di tutta l’aria del mondo e subito avverte la pace della nottata riempirsi di note grevi e sottili, una cantilena imbastita su righi di rassegnazione e paura.
“Sono una vile” recita febbrilmente. Ripete la medesima formula poco più tardi, quando un altro raggio di luna lacera il velo della caligine facendo risplendere davanti a lei il tetro panorama del cimitero. Il cancello ha i battenti spalancati, non è sprangato come lei aveva invece sperato. Muove allora qualche timido passo e, sospinto un battente con la punta di due dita, si orienta tra i tumuli fradici d’umidità.
“Cristo, sii la mia forza!” supplica, facendosi il segno della croce, convinta che il perdono e il paradiso si ottengano solo attraverso il sacrificio e le difficoltà.
Intanto ha lo spirito turbato da qualcosa che non sa definire, si sente senza un briciolo di buon senso, il volto le diventa diafano come le gemme della sua ghirlanda.
“Non devi desistere” le suggerisce un’altra parte di sé, provocandole una qual sorta di disperata eccitazione. Si sofferma così mentalmente su immagini vivide, allegre: un campo di fiori, il sole di mezzogiorno che si specchia nelle acque del lago, le sue corse nei prati. Dura poco, non ci riesce, e riprende il cammino a testa china, inventandosi rassicurazioni che tengano a bada le sue paure. Percorso un breve tragitto, solleva prudentemente lo sguardo per poi fermarsi davanti alla sepoltura da lei indicata: è un povero mucchio di terra simile a tutti gli altri e ha una lapide sbocconcellata su cui è incollato un dagherrotipo stinto. Oltre a questa distesa bruna cosparsa da una farandola di fiammelle che stanno per spegnersi, non si vede null’altro. Solo il cielo scuro dove la luna spunta tra le nuvole e vi si rintana come un animale boschivo che entra ed esce dal suo rifugio.
Persa in uno stordimento di ebbrezza, Noëlle solleva l’asta dello stendardo e la conficca quasi con rabbia dentro il terreno. Poi, sconvolta dal proprio coraggio, rimane a guardarla mentre il chiarore della luna la fa luccicare come fosse uno scettro d’argento. Ora non le resta che fare dietrofront e darsela a gambe, si dice, perdendosi in un lungo sorriso. Invece rimane dov’è, tentenna. L’idea di camminare un’altra volta su quella terra bagnata, che sembra sprofondare sotto i suoi piedi, le causa un’angoscia che le fa desiderare di sparire nel nulla, di venire assorbita dal cielo. Rimane inerte per qualche momento, la faccia rigida come una maschera, la ghirlanda un po’ di traverso. Poi fa scivolare un piede in avanti, respira profondamente, quasi a voler raggranellare le forze. Dopotutto è riuscita dove voleva, non è una pusillanime come gli altri e lei stessa avevan sempre creduto. Detto questo, si risistema la ghirlanda di stelle con dei gesti sussiegosi, quasi si stesse incoronando da sola. Ma appena si muove, sente attorcigliarsi le viscere, è come se il vapore della nottata le riempisse gli occhi, le scendesse giù nella gola fino a toglierle anche il respiro. Noëlle barcolla, scalpiccia sempre in un medesimo punto, le sembra che qualcuno la strattoni, la sbilanci. Intanto si copre la faccia con le mani per ripararsi dallo sfarfallio delle piume delle sue ali posticce, che lei scambia per uccelli notturni, per artigli che la voglion ghermire. Poi si immobilizza: è come se le caviglie le si fossero irrigidite e le dita dei piedi si stessero trasformando in radici. Pur in una confusione assoluta, ha la certezza che i defunti siano sgusciati dall’oscurità delle loro sepolture per trascinare via lei e il suo mondo, decisi a punirla per averli paragonati a dei sassi, per aver dissacrato il loro regno, la loro notte di festa e di pace. Noëlle suda a fiotti, ha il volto contratto, gli occhi disperati, un rivolo di orina le scivola lungo le cosce. Esplora ad occhi chiusi la sua impotenza interiore e intanto emette un suono animalesco che le fa vibrare la testa ed esplodere il cuore. La sua mente si svuota, sta per ammutolirsi in lei ogni pensiero.
“Perdono!” farfuglia, mentre vede spegnersi e riaccendersi la volta del cielo. Poi dalle sue labbra esce un lamento che somiglia a un vagito.
Un tonfo sordo. Più nulla.
La storia di Noëlle si interrompe di colpo, è diventata un segreto che, forse, nessuno potrà mai raccontare, che le resta nell’anima.

Nella luce cruda dell’alba, Lucille si stacca dalle compagne, un assiepamento di immagini buie in cui non si distingue un volto dall’altro. Sta procedendo verso Noëlle con lentezza, la carnagione terrea, i lineamenti contratti. Un respiro di vento le scivola lungo le guance come una carezza di ghiaccio cui lei non fa caso. I suoi sensi sono anestetizzati, dentro di lei regna il vuoto, c’è una caverna inaccessibile a tutti. Un riparo che le consente di accostarsi a Noëlle ad occhi asciutti, respingendone quasi l’immagine. Ma quando una folata di vento scompone l’abito di Noëlle, facendolo somigliare a un ventaglio che vorrebbe risucchiarla nel vuoto, sente lo spirito sciogliersi ai ritmi dell’universo, le sembra che Noëlle le abbia inviato un richiamo preciso. Ciononostante arretra di qualche passo a aspetta che il suo sconvolgimento si plachi, lo sguardo che erra lungo il terreno e tra gli arcani dell’esistenza. Non succede niente, comprende che sta perdendo solo del tempo: lo sgomento è più forte di lei, non può sconfiggerlo lì, sui due piedi. Risolleva allora lo sguardo poco alla volta, sbircia quel corpo accasciato in posizione fetale e, d’improvviso, si sente scaraventare oltre il suo nascondiglio, si ritrova in un vicolo cieco in cui tutto è incertezza, terrore. E, come una cieca, Lucille cerca in sé le vie del coraggio, della volontà. Stretta nella sua veste nera che si ritaglia nel bianco del cielo, sente la coscienza temere l’inconscio, si accusa per non aver fermato Noëlle, le sembra di averla abbandonata in pasto ai leoni. Lo sguardo apprensivo, le guance infiammate di un improvviso rossore, le si avvicina senza più titubanze: Noëlle appare tranquilla, ora non deve più sfidare nessuno, non le tocca decidere niente. Nell’incoscienza ha forse trovato la conoscenza che andava cercando. China sopra di lei, in un guazzabuglio di impronte convulse, Lucille le scosta i capelli bagnati di sudore e di brina, le carezza le guance, le posa sul grembo la ghirlanda di stelle che un improvviso raggio di sole fa ora risplendere.

“Non saprei dire se la morte di Noëlle sia stata una fatalità o se in lei abbia agito l’istinto” puntualizzerà Lucille nel corso di una testimonianza destinata a diventare leggenda.
“Ero stata colta da un preciso sospetto quando ho visto gli scuri della sua casa ancora serrati all’ora in cui lei se ne andava a lavorare. Ho bussato ripetutamente a quella porta sprangata, ho chiamato più volte Noëlle. Inutilmente. Lei viveva da sola: sua madre era morta dopo averla data alla luce e il padre se n’è andato chissà dove anni orsono. Il tumulo che Noëlle aveva scelto d’acchito per conficcare l’asta del suo vessillo é quella in cui riposa sua madre. No, lei questo non lo sapeva, non era mai entrata nel camposanto. Persino quel mercoledì d’Ognissanti, durante la processione, pur di non varcare il cancello del cimitero, s’inventò che le si erano indolenzite le gambe e ci attese di fuori, appoggiata al tronco dell’unica quercia…
La credevo vigliacca, ed ho scoperto che era tormentata, indifesa. Sono stati quest’assenza, questo silenzio, a parlare. Ci sono molti rumori nel silenzio, basta saperli ascoltare: nulla si ferma.
Solo adesso comprendo che la confusione di Noëlle era solo apparente e che, in lei, era la morte a guidare azioni e pensieri, ad emergere con nitidezza. Lei non la temeva come ha sempre creduto. La cullava inconsapevolmente dentro il suo cuore, la faceva entrare in ogni discorso: sembrava fossero il mistero, l’inumano, ad intimorirla e sedurla al medesimo tempo. Le volte in cui nominava la madre, le sue parole somigliavano a ferite, a trafitture. Era come se l’accusasse per averla abbandonata troppo presto alle insidie del mondo. Poi, quando taceva, rimaneva per un po’ a bocca socchiusa, lo sguardo altrove, al di là. Uno stordimento in cui io vedevo impigliarsi parole non dette, indizi precisi: Noëlle era colpevole, pensavo, forse si sentiva cattiva, scandalosa, indegna di sua madre. In quei momenti non sapevo più come parlarle, lei non mi ascoltava, mi pareva di non riconoscerla più. Era come se fosse al di fuori della sua stessa vita ma, non appena ci rientrava, sussultava ad ogni rumore, serrava le palpebre e si ritraeva bruscamente, coprendosi il volto con il fazzoletto, come colta in delitto flagrante.
Mi ci è voluto del tempo… persino una certa fatica per capire che, con quelle parole, Noëlle non rimproverava la madre per averla abbandonata al proprio destino, bensì l’accusava per averle lasciato in eredità il più scomodo tra i sensi di colpa: quello di essere nata causandole in quel modo la morte…
Ma Noëlle ormai non c’è più e queste riflessioni non servono a niente, a niente…
Quella mattina, quando ho intuito la disgrazia e sono corsa al camposanto insieme alle ragazze del coro, osservando la carnagione livida di Noëlle già da una certa distanza, noi tutte abbiamo pensato che fosse morta a causa del freddo della nottata. Ci stavamo sbagliando. L’abito che indossava era di un bel damasco pesante, di buona tessitura. Ma è stata proprio quella trama robusta, che non si dipana, a imprigionare Noëlle, a non darle più scampo.
Tutto si è svolto quasi in un lampo: nella frenesia di mantenere la sua promessa, Noëlle non ha considerato l’ingombro della veste e, allorché è stata colta dal panico, non ha potuto far conto sulla ragione e considerare che non c’erano spiriti né demoni a trattenerla, ma solo l’asta del suo vessillo conficcata in un lembo del vestito”.

Noëlle: nata il 25 dicembre 1838 – morta il 1° novembre 1854

























Id: 69 Data: 07/03/2008

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Belinda Victoria/Incipit

Cap. 1°
IL RITORNO DELLE CICOGNE
Erano anni che a Ibaz le cicogne non tornavano più. Ormai, nel cuore di ognuno, s’era spenta anche la più remota speranza e il paese, sempre meno popolato, invecchiava nell’amarezza.
Ma una domenica di aprile, dopo una settimana di pioggia scrosciante, un raggio di sole svelò il paese poco alla volta e, sotto l’arcobaleno che si disegnava nel cielo, s’intravide una caligine lieve, simile a un tenue brulicare d’insetti.
Non trascorsero che pochi momenti e, mentre le radio trasmettevano canzonette d’amore, due voci concitate e distinte, l’una di uomo, l’altra di donna, si levarono dal Bosco delle Quarantasei Querce.
“Le cicogne stanno tornando!”
La notizia si diffuse in un battibaleno e gli abitanti di quel gruppetto di case annerite dal fumo e con i muri scrostati dall’umidità, si riversarono nel pantano dei vicoli per radunarsi nell’unica piazza.
Don Cenerino, interrotta la funzione riservata alle monache del vicino convento, levò al soffitto gli occhi cerulei indirizzando al Padreterno una rapida serie di suppliche affinché gli perdonasse l’inadempienza commessa e anche quelle che avrebbe eventualmente compiuto. Quando esaurì il repertorio lanciò al crocefisso uno sguardo colpevole ma, fatte spallucce, uscì dalla chiesa seguito da tutte le suore.
Terpeka la storpia, s’era dimenticata il vecchio bastone e procedeva lungo la via con passo spedito, una mano che sgranava il rosario, l’altra che le ombreggiava la fronte.
Dix il cieco, era stato tra i primi ad accorrere e, immobile sul masso su cui era seduto, manteneva lo sguardo al cielo come se, per incanto, fosse tornato a vedere.
Mancavano gli abitanti della villa che sorgeva nel Bosco delle Quarantasei Querce: la vecchia contessa Brunilde Kablinski, costretta da tempi remoti all’immobilità, e una coppia di servi africani, Emilia e Nereo, coloro che avevano annunciato al popolo la lieta novella.
Dopo una pausa col fiato sospeso l’atmosfera si infervorò e fu dapprima un concitato mormorare col naso in aria, poi un bisbigliare sommesso, finché tornò a farsi silenzio.
Intanto nella chiesa, le statue dei santi si animarono di punto in bianco e, mentre abbandonavano le loro nicchie di gran carriera, rischiarono di incendiarsi dai piedi ai capelli nel guazzabuglio dei ceri votivi disseminati lì accanto. Senza neppure sospirare di sollievo per il pericolo appena scampato, si sbarazzarono dei gigli di gesso che tenevano in mano e andarono ad accalcarsi all’inferriata della sola finestra. Lì, in un complesso ingarbugliarsi di aureole, fissarono il cielo con espressione estasiata.
Quel che era apparso come una caligine lieve era un’onda che increspava il colore del cielo, finché si tratteggiò una processione di uccelli impegnati in una rotta pacata e precisa. Che si trattasse delle cicogne era più che palese poiché ogni pennuto tratteneva col becco un vistoso fagotto.
In un attimo ogni movimento cessò e il piccolo borgo divenne simile a un presepe di cartapesta. L’orologio del campanile smise di segnare le ore, lo scroscio della fontanella s’interruppe, la mucca Carimba, fuggita dal recinto insieme all’asino destinato al sacrificio, si ritrovò come imbalsamata lungo un sentiero.
Ancora qualche momento e lo stormo vibrò nell’aria oscurando il sole e gettando ombre sfrangiate sulle case e i visi delle persone. Poi ogni cicogna prese una direzione diversa e andò a posarsi sul nido affastellato anni addietro cominciando a becchettare la paglia infradiciata dalle intemperie.
Il sogno di Ibaz poteva dirsi quasi compiuto e, nonostante l’entusiasmo di ognuno, il silenzio non si spezzò. Ma, al calar della sera, il popolo si fece esultante: il barbiere sollevò le serrande e fu un continuo tagliare di barbe e capelli, l’unico caffè riaprì i battenti e distribuì al popolo in festa boccali di birra e frittelle di mela. Le sole a indugiare tra le pareti di casa furono le spose che, anni addietro, avevano visto posarsi sui loro davanzali un Uccello del Paradiso con un’orchidea dorata nel becco, annuncio di una maternità che credevano prossima e che era invece sfumata, chissà per quale motivo. Ma quella sera, sicure che quel che doveva accadere da tempo sarebbe accaduto di lì a qualche ora, accesero tutti i camini e s’affrettarono a lavare la biancheria ingiallita dentro gli armadi.
Intanto il sindaco se ne stava impettito sul balcone del municipio adorno di gale, lanterne e festoni tessendo discorsi pomposi che nessuno ascoltava e, pur di essere in qualche modo notato, fece esplodere quattro petardi. La mossa si rivelò purtroppo fatale e le cicogne, che già avevano sopportato con somma pazienza il frastuono di tutto il paese, abbandonarono i nidi in un lampo per fuggirsene verso il Bosco delle Quarantasei Querce.
“Megalomane!” lo apostrofò qualcuno.
“Irresponsabile!” gridarono altri.
“Chiedo venia!” esclamò lui senza sapere se si stesse rivolgendo ai pennuti oppore ai compaesani, già in assetto di guerra.
Ma il popolo, ignorate le suppliche, lo accerchiò mentre stava per darsi alla macchia e ognuno si mise a fissarlo con occhio così minaccioso che lui prese piena coscienza di quel che aveva combinato e pianse per la prima volta in vita sua. Non era una finzione: piangeva davvero e, mentre s’asciugava le lacrime con le maniche della camicia, s’inginocchiò sul terreno melmoso supplicando il ritorno degli animali cui prese a rivolgersi in prosa senza badare allo stupore che suscitava non solo il suo stato di disperazione lampante, ma anche il suo insospettabile talento poetico. Di lì a pochi momenti, in un silenzio in cui potevano udirsi i respiri di ognuno, si percepì un lontano battito d’ali e allora tutti trattennero il fiato mettendosi a scrutare il nero del cielo con sguardo talmente implorante che ogni costellazione s’accese, prendendo a risplendere di una luce sempre più vivida. L’ansia s’attenuò quasi subito e si tramutò in un sussulto di gioia allorché le cicogne, già impietosite per la solidarietà dimostrata dal volgo e in fondo toccate dalla disperata esibizione del sindaco, tornarono a posarsi sul territorio che si stava punteggiando di luci. Come si risistemarono ognuna nel proprio nido, il gaudio del popolo si fece incontenibile e furono suoni di fisarmonica e un battere di tamburelli, un continuo tintinnare di bicchieri, parole e lacrime di felicità e commozione. Solo il fattore non si unì alla festa e, preso sottobraccio il sindaco che si andava sbronzando di vino, si mise a vagare con sguardo livido per i viottoli del circondario, mai smettendo di inveire contro l’asino e la mucca scomparsi. Dal canto suo don Cenerino, che s’era dimenticato di celebrare l’ultima messa, fece suonare la campana maggiore per chiamare i fedeli a raccolta.
“Prima o poi si presenterà almeno un cristiano!” pensò, fremendo per l’impazienza. Effettivamente, di lì a un quarto d’ora, Terpeka spinse il portale dando subito una scorsa apprensiva alla chiesa deserta. Non l’aveva ancora chiuso dietro di sé che lui cominciò a celebrare arrotolando una parola sull’altra e, abolita la predica, cantò un salmo antiquato saltando brani su brani, certo che lei non conoscesse il latino. Aveva azzeccato, ma era lungi da lui il pensare che Terpeka non gli stesse prestando orecchio un momento, visto che voleva spiegarsi ad ogni costo il motivo per cui la statua di San Noktolino, da sempre alla destra dell’altare, si trovasse invece a sinistra e con un cero spento in mano anziché i soliti gigli di gesso. Nemmeno capiva come mai la statua di Sant’Arcibaldus fosse nell’ultima cappella minore accanto a San Darko, anziché nella prima, a sinistra.
Nel contempo, nell’oscuro Bosco delle Quarantasei Querce, in una villa decrepita e buia che sembrava bardata a lutto ma che tanti anni prima era stata bellissima, persino sontuosa, la vecchia contessa dal passato ignoto per buona parte, strillava a squarciagola a causa del vociferare del volgo che, sebbene lontano, le appariva più insopportabile dello sparo di cento cannoni.
“Se non vi foste precipitati ad avvisare il popolo dell’arrivo di quelle bestiacce avrei potuto dormire sonni di gloria o di piombo, com’è nei miei sacrosanti diritti!” aveva rinfacciato ai suoi servi, cui aveva proibito di partecipare alla festa. E, grugnito qualcosa d’incomprensibile, s’era messa ad accarezzare contropelo Lollo, il suo bel gatto color del carbone.
Il paese era ancora in tripudio ma, dopo troppe bottiglie stappate, il chiasso sfumò in sbadigli e sussurri, le persiane vennero chiuse, le luci spente e, molto presto, fu solo un sommesso russare. Quella notte i sogni di ognuno si infilarono in crepe e pertugi e dilagarono nel chiarore della luna spingendosi sempre più in alto, finché sottrassero gocce turchine al firmamento e vi staccarono manciate di stelle certi che, essendo invisibili, la popolazione del cielo non potesse sorprenderli.
Stava albeggiando quando le cicogne sgranarono gli occhi e si guardarono intorno con l’incertezza di chi fatica a distogliersi da un sogno recente. Anche se nessuna fiatò, tutte allungarono il collo, esaminando il paese con ampie occhiate guardinghe.
“Che sia il sindaco ad aver inghirlandato di luci pulsanti anche i viottoli più striminziti?” domandò ad un certo punto Sophia.
“Non si tratta di luminarie qualsiasi ma di frammenti di stelle! – si sorprese Clorinda – C’è odore di pittura umida” aggiunse.
“Le case hanno i muri dipinti d’azzurro, senza più scrostature!” esclamarono l’una via l’altra, più che convinte che quello spettacolo affascinante scaturisse da una fonte occulta e portentosa.
“Faremo tardi! - intervenne Horianna, la veterana – Afferrate dunque i fagotti e sbrigatevi!”
“D’accordo!” replicò un coro di voci un po’ contrariate.
Comunque stupite dalla strabiliante accoglienza, le cicogne spiccarono il volo con un certo sussiego e, con lo stesso contegno un po’ cerimonioso, si posarono su un prato della vicina collina dove nessuno le avrebbe potute vedere. Lì Horianna radunò le reclute attorno a sé e il suo discorso fu semplice e chiaro:
“Sophia, Clorinda, Zeffirina e Rebecca, ascoltate: prima che il sole risplenda, dovrete aver consegnato i vostri fagotti a quattro madri che li stanno attendendo da anni. Penso sappiate… eccetto tu, Zeffirina, che sei alla prima esperienza, che non è difficile riconoscere le case cui essi son destinati. Sono infatti le sole i cui camini esalino null’altro che qualche tenue respiro violetto, essendo rimasti accesi fino al calar delle tenebre di modo da accogliere i neonati in un ambiente tiepido e sopra un bel mucchio di cenere soffice”.
“Dimenticavo! – soggiunse - Anche se si tratta di una raccomandazione superflua, badate a non spingervi oltre i confini del borgo”.
“Ora andate e fate presto – raccomandò infine - Sta per iniziare il nostro ultimo viaggio e si tratterà di una giornata assai faticosa”.
Tutto sembrava dover correre liscio. Eppure quel discorso era stato incompleto poiché la Corte delle Cicogne, responsabile della raccolta e dello smistamento dei neonati, non era stata informata che una delle giovani donne che avevano ricevuto la visita dell’Uccello del Paradiso era una girovaga che, avendo visto il volatile posarsi su una stanga del suo calesse, aveva abbandonato il paese alla svelta per fuggirsene verso luoghi incontaminati e lontani. Di conseguenza Horianna ignorava che uno dei nascituri era privo di destinazione né avrebbe saputo a chi mai consegnarlo nel caso avesse notato che il pallido azzurro del cielo era screpolato soltanto da tre tenui respiri di fumo violetto.
Le cicogne addette alla consegna salutarono Horianna agitando festosamente le ali e spiccarono il volo, pochi minuti una dall’altra. Dopo un rapido giro di ricognizione, tre dei quattro fagotti vennero calati diligentemente lungo le canne fumarie di altrettanti comignoli. Solo Zeffirina continuava a volteggiare nell’aria, sempre più spaesata e perplessa. C’era un solo camino che stava ancora fumigando ma, trattandosi di un fumo denso e bluastro, segno di un fuoco non spento del tutto e dunque insidioso, si trovò a confrontarsi con un dilemma di non facile soluzione. Il suo orgoglio le impedì tuttavia di fare dietrofront per chiedere le delucidazioni del caso e, poiché la miopia non le permise di scorgere alcuna demarcazione del borgo, volò verso la Villa delle Quarantasei Querce.
Al primo canto del gallo l’avvenimento atteso trepidamente da anni si realizzò e, da tre casette infiocchettate di rosa e d’azzurro si dispersero lunghi vagiti accompagnati da esclamazioni festose.
Quasi nello stesso momento, dalla tenebrosa Villa delle Quarantasei Querce, si levò un lamento sottile seguito da un urlo terrificante.
Fu un attimo, e i servitori che dormivano nel gelo della loro stanza, saltarono giù dal letto più che convinti che la contessa fosse ormai prossima ad abbandonare il suo destino terreno. Nulla comunque si dissero circa quel presentimento comune ma, al contrario, finsero padronanza di sé, una padronanza presto tradita dallo sforzo supremo che rappresentò per entrambi il dar fuoco allo stoppino di una candela.
“Arriviamo, contessa!” esclamarono con voce tremante. Ma quando spalancarono l’uscio della sua camera buia, che odorava di balsamo e naftalina e ora anche un po’ di bruciato, l’urlo divenne così sconvolgente che, per non rischiare del loro, presero al volo statuette e suppellettili e riattaccarono alle pareti i dagherrotipi caduti per terra. Stavano cercando di riattizzare la candela che s’era spenta a causa dei loro spostamenti frenetici quando, nel bosco che circondava, i tronchi delle querce si scossero fin nelle più profonde radici.
“Se non smette di urlare, contessa, si rischia il disboscamento!” la mise in guardia Emilia.
L’urlo proseguì invece verso il paese e urtò il bronzo delle campane che si misero a suonare prima a festa, poi a morto, poi ancora a festa, presto imitate dalle campane della vallata. Non basta: nella chiesa le statue dei santi barcollarono dentro le nicchie e le loro aureole presero a fluttuare nel vuoto finché scomparvero oltre l’inferriata della finestra e sconfinarono nei recessi del cielo, dove furono avvistate dagli osservatori della regione e catalogate come dischi volanti. Intanto, dalla collina, si era levato un solidale ululare di lupi.
Nonostante il persistere di quell’urlo tremendo, non si smorzava il lamento che proveniva dalla bocca del caminetto.
Emilia e Nereo, sempre più persuasi che nella villa si fosse insediato un fantasma, s’arenarono sulle piastrelle e i loro occhi presero a baluginare nel buio. Ma quando il lamento cambiò intonazione e si fece più flebile, la curiosità ebbe il sopravvento sulla paura e si presero allora per mano avanzando nell’oscurità in punta di piedi. Avevano percorso soltanto un paio di metri che incespicarono nel corpo di Lollo e caddero bocconi sul pavimento. Se ne sarebbero rimasti lì fino a chissà quando se la vecchia, sospese le urla e interpretata la loro paura, non avesse decretato che, dove c’è un gatto, può esserci soltanto anima viva.
“Acconsenta che vengano spalancati almeno i tendoni, contessa” chiese Emilia in tono supplice.
“Giammai! - replicò lei – Se non ho provveduto all’installazione della corrente, ci sarà un motivo”.
La contessa Kablinski odiava la luce e i colori, al punto che aveva scelto i suoi servi e l’inseparabile gatto per il nero che li caratterizzava. In più, detestava ogni invadenza ed erano lustri che non voleva vedere nessuno.
“E’… indispensabile” balbettò il servitore.
“Mai prima che sopraggiunga la notte” controbatté lei.
Nereo, irritatissimo, mormorò un’imprecazione che per fortuna lei non udì e, presa coscienza che quel lamento possedeva qualcosa di molto terrestre, non perse altro tempo. Senza più badare al carattere dispotico della padrona, strattonò i tendoni appesantiti di polvere e, calpestata per sbaglio la coda di Lollo, anziché chiedergli scusa dandogli addirittura del lei, come avrebbe preteso la bizzarra contessa, non gli lesinò gli improperi più audaci. Si avvicinò poi al caminetto e per quanto a lungo stropicciò gli occhi, altro non vide se non un fagotto d’un rosa vivace che stava agitandosi nella cenere ancora fumante.
“Ho… ho paura!” disse tra sè e, pronunciando le stesse parole, si chinò a raccattare l’involucro, che era di un bel tessuto robusto, che rimase solo un po’ bruciacchiato.
Era comunque una situazione che non prometteva niente di buono: dal fagotto spuntò una piccola mano rosata che si chiuse subito a pugno per poi aprirsi e richiudersi, come stesse degnando i presenti di un beffardo saluto.
“Siamo fritti!” mormorò Emilia. Inarcò poi le sopracciglia in un’espressione sgomenta e, se non fosse stato per il colore della sua pelle, un bruno violaceo che mai avrebbe lasciato trapelare il pallore, sarebbe sembrata una statua di sale.
Nereo, che sentiva il sangue ribollirgli nelle vene, interpretò quell’atteggiamento come la prova infallibile di un peccato che sua moglie non aveva commesso nemmeno con il pensiero.
Da parte sua, la vecchia assimilò la scena solo con gli occhi, certa non appartenesse a un contesto reale.
“Deve pur esistere una spiegazione…” si ripeteva Nereo che, pur di ingannarsi da solo, voleva concepire qualcosa che gli provasse che era la contessa, non sua moglie, l’insospettabile origine di tanto scompiglio. Si voltò così verso Brunilde Kablinski e ne osservò le guance appassite, le iridi opache, il corpo legnoso.
“Horrida, la più ripugnante di tutte le streghe, è senza dubbio più seducente” pensò, ancora sforzandosi di trovare una soluzione che lo compiacesse. Non riuscendovi, riemerse per forza di cose dal suo abisso privato e andò a posare il fagotto sul letto della padrona, insudiciando coperte e lenzuola di cenere nera.
Aveva allentato un nodo soltanto che già gli apparve una neonata morta di sonno eppur vigile per i troppi spaventi e una fame da lupi. Aveva labbra minuscole appena dischiuse, capelli che sembravano lanugine bianca, la pelle screpolata per un inizio d’ustione.
“E’ un capolavoro!” osservò Emilia, di getto.
“E’ un mostriciattolo” dissentì subito lui. E, perlustrata la neonata a palmo a palmo, corse a contemplarsi allo specchio sperando di scorgervi un’immagine diversa da quella di sempre. Si passò poi le mani tra i capelli corvini senza proferire sillaba e il respiro gli divenne ansimante.
La contessa, che s’era appena riavuta dallo stordimento, lo osservò con compassione e gli disse:
“Cornuto!”
Lui rimase immobile senza nulla obiettare ma, tutt’a un tratto, sfilò l’anello matrimoniale e lo scagliò nel caminetto. S’avvicinò poi alla moglie con aria di minaccia e, in men che non si dica, i due presero a discutere nella loro incomprensibile lingua finché la contessa li zittì con un ‘basta!’ che fece tremare i vetri delle finestre. A quel punto Nereo rivolse ad Emilia uno sguardo feroce e le disse, nella solita lingua:
“Vergognati!”
“Vergognati tu!” replicò lei, non tollerando l’offesa.
In quel momento la bambina emise un vagito straziante ed Emilia, dando retta all’istinto, si chinò per prenderla in braccio. Sudata e tutta confusa, intonò quella che credeva una ninnananna tribale e che ricordò d’un tratto essere un canto consacrato al rito delle sepolture. Inutile dire che il pianto della bambina non si placò, ma divenne più angosciato di prima.
“Pur non avendo capito una sola parola della tua lugubre ninnananna, c’è da domandarsi il motivo per cui non ci sia un solo dagherrotipo che non abbia almeno una mano atteggiata a scongiuro” osservò la contessa con voce tagliente.
“Contessa… – tenne a precisare Nereo prima che Emilia dicesse la sua – pur non essendo il padre della creatura, ritengo stia piangendo più per fame che per ogni altro motivo. Ragion per cui... che sua madre l’allatti”.
Ferita da quelle parole, Emilia alzò su di lui uno sguardo indignato e disse:
“Questa bambina non ha nulla a che fare con me e lo prova il fatto che non ho una goccia di latte” Non riuscì purtroppo a spiccicare altro poiché sentiva un groppo alla gola che impediva alle parole di salirle alle labbra. Ancor più umiliata dal silenzio che ebbe in risposta, sbottonò la camicia da notte quel tanto che basta per mettere in patetica mostra due seni penduli e vizzi.
“Ricopriti immediatamente, svergognata, e prendi coscienza della tua colpa” l’ammonì la contessa, chiudendo gli occhi per non vedere di più. E avvicinò una mano alla fronte, pronta a farsi il segno della croce.
“Che il padre sia don Cenerino? – esclamò, interrompendo il segno della croce - Se ben ricordo nessun altro, al paese, ha occhi d’un azzurro così trasparente”.
“Come si permette?” s’inalberò Emilia, vittima di un’accusa ancor più infamante.
“Non... non esageri, contessa!” raccomandò Nereo sottovoce. E, pur di evadere da un imbarazzo che non riusciva più a governare, tolse dalla dispensa il secchiello del latte e uscì dalla villa in pigiama sbattendo violentemente la porta. Fu un viaggio inutile, il suo: nessuno l’aveva avvisato che l’unica mucca se ne vagava chissà dove insieme all’asino scampato al sacrificio e che non c’era una goccia di latte in tutto il paese.
“Saremo costretti ad affidarci ad una balia” disse Emilia con smarrimento quando lui rientrò con la testa formicolante di pensieri e il secchiello vuoto.
“Oltre ad esporci alle critiche dell’intero villaggio, ci renderemmo estremamente ridicoli – osservò lui - Quando mai si è vista una serva nera prendere a servizio una balia bianca?”
Fu allora che la contessa, che aveva seguito con occhio critico gli sviluppi della vicenda, agitò le mani reumatiche e sentenziò:
“Questa bambina deve andarsene. Se Emilia non mente, ci sarà in paese una madre che la sta sospirando in un torrente di lacrime. Basta cercarla. Don Cenerino vi sarà senz’altro di aiuto”.
Sembrava che la vecchia avesse articolato il primo ragionamento saggio della sua vita e, quando i servi abbandonarono il locale un po’ rincuorati, chiamò a sé Lollo e gli disse:
“Non sarà mai che qualcun altro occupi il nostro bel territorio”.
L’indomani, nonostante avesse appena albeggiato, nella piazza c’era una gran baraonda e il sindaco, che non aveva smaltito l’ultima sbornia, giurava a destra e a sinistra che avrebbe fatto di tutto per proclamare quel giorno solennità nazionale e fu preso in parola quel tanto che basta, visto che nessuno andò a lavorare.
Oltre a Brunilde Kablinski e ai suoi servitori, all’appello mancavano i tre neonati e le loro famiglie ma, proprio quando il frastuono del volgo si stava tramutando in un delirio carico d’ansia, eccoli comparire da dietro un medesimo angolo odorosi di latte e di borotalco e vestiti con bei coprifasce d’organza.
“Un evviva ai nuovi compaesani!” gridò il sindaco, spaventandoli a morte con la sua voce da cavernicolo.
Subito la folla s’assiepò intorno a loro e il fotografo intervenuto per l’occasione, si aprì il passo a suon di spintoni per poterli immortalare in tutto il loro genuino splendore. Erano un maschio e due femmine rosati e paffuti e, se non fosse stato che uno di loro era senza capelli, s’assomigliavano in un modo che faceva impressione e piangevano alla stessa maniera.
“Invece di frignare, sorridete!” gridò, forse convinto di vederli sottostare ai comandi.
Poiché nessuno parve fargli il minimo caso, decise di fotografarli comunque ma, ancor prima di far pressione sulla pompetta, esclamò ‘Dio mio!’ e sbucò da sotto la tenda pallido come la cera. L’obiettivo del suo marchingegno, che aveva lo straordinario potere di ingigantire le immagini, aveva appena incastonato Emilia e Nereo mentre procedevano lungo la strada deserta reggendo qualcosa di voluminoso e sgargiante.
“Chi avrebbe mai detto?” soggiunse con voce così attonita che ognuno si mise a guardare là dove egli guardava e si fece un tale silenzio che i neonati, temendo forse di infrangerlo, interruppero il loro affannato vagire. Anche se i due erano ancora lontani, l’incredulità del fotografo acuì la vista e l’udito di ognuno e fu presto evidente che tra le braccia di Emilia s’agitasse un fagotto rosa confetto e che da quello stesso fagotto provenissero strilli così inferociti che persino i santi rintanati nell’ombrosità della chiesa si turarono le orecchie.
Tutti si osservarono l’un l’altro con meraviglia: nessuno avrebbe mai immaginato che la serva della contessa avesse ricevuto la visita dell’Uccello del Paradiso. Era infatti risaputo che le persiane della villa dovevano rimanere sempre chiuse coi ganci e che le finestre erano perennemente protette da tende e tendoni che non lasciassero filtrare un filo di luce. Altresì era nota la ferocia di Lollo nel catturare i pennuti.
Ciononostante, ci fu chi diede il via ad un timido applauso che durò il tempo impiegato dai due servitori per raggiungere la piccola calca. L’imbarazzo non risparmiò davvero nessuno e oltre un centinaio di occhi si posarono sul viso roseo della bambina, poi su quelli nerofumo di Emilia e Nereo.
“Che scandalo!” mormorò la superiora. E, tuffato il volto nelle mani, improvvisò un celere ritorno al convento seguita da una processione di monache inebetite.
“Dio del cielo, abbi misericordia!” supplicò don Cenerino, baciando il crocefisso che gli dondolava sul petto.
“Maria Vergine!” esclamò Terpeka, mettendosi a sgranare il rosario.
“Lasciate che spieghi!” intervenne Nereo, cercando di farsi udire nella confusione.
“Non ci verrai a raccontare che si tratta della figlia della contessa!” ironizzò il sindaco, parandosi davanti a lui a braccia conserte e con le gambe divaricate, il cappello sulle ventitre.
“Spero nessuno vada a pensare che si tratti di sangue del mio sangue!” s’intromise Emilia, osservando i compaesani con occhi che brillavano come tizzoni.
“E così la contessa, pur senza marito e per di più paralitica, sarebbe diventata madre ad oltre ottant’anni! E’ questo che mi si vuol dare da bere?” sbraitò il sindaco, masticando il sigaro spento in modo selvaggio.
Parole che suscitarono l’ilarità della folla.
“Se siamo venuti sin qui è per cercare la madre della bambina” spiegò Nereo, tutto sudato nonostante il fresco della giornata. Ma, ormai, più nessuno ascoltava: la circostanza stava infatti suscitando un tale scalpore che fu soltanto un’esplosione di scherni e di ingiurie. Il sindaco, tant’era indignato, strappò festoni, gale e lanterne decidendo, seduta stante, che non solo non avrebbe interceduto per proclamare quel giorno festività nazionale, ma che avrebbe fatto il possibile affinché diventasse anniversario di disfatta o, peggio, di lutto.
“La bambina ha fame e non abbiamo una goccia di latte” si disperò Emilia.
“L’unica mucca è scappata. La bambina deve nutrirsi” soggiunse Nereo con voce affranta.
“Arrangiatevi!” fu la risposta corale seguita da una raffica di perfidi insulti.
“Qualsiasi cosa pensiate, questa bambina è pur sempre un essere umano che sta strillando di fame” si lamentarono ancora i due servi.
“Andate a rinchiudervi nella villa a doppia mandata, svergognati!” gridò il fotografo, tre volte di fila.
Solo i santi sapevano la verità ma, essendo fatti di legno, non potevano dire un bel niente.
Dal canto suo, don Cenerino s’era asserragliato in chiesa e, prono davanti all’altare, implorava perdono per la peccatrice e gli animosi abitanti di Ibaz. Ma, fatto un rapido esame di coscienza, supplicò pietà per se stesso poiché, per quanti sforzi stesse compiendo, non riusciva ad assolvere Emilia dalla sua colpa lampante.
Nel mentre il cielo cominciò ad oscurarsi e un avvoltoio, spuntato da chissà dove, andò ad appollaiarsi sulla punta del campanile restandosene immobile come una sentinella ad osservare un po’ tutti con occhio torvo e minaccioso. A peggiorare le cose, la tempesta sopraggiunse prima delle previsioni e costrinse il popolo ad un fuggi fuggi precipitoso.
Emilia e Nereo, rimasti da soli e non potendo contare sull’ospitalità di nessuno, sguazzarono nel fango delle vie deserte finché approdarono sin sul sagrato ma, come fecero per rifugiarsi nella chiesa, sbatterono il naso contro il portale sprangato col catenaccio. Né don Cenerino udì le loro invocazioni e non solo perchè il crepitare della grandine s’era fatto assordante, ma anche perchè il suo raccoglimento era tale da condurlo oltre ogni quisquilia terrena. Fradici fin nelle ossa, s’accovacciarono sul lastricato scoppiando in un pianto così a crepacuore che un refolo di vento si staccò tutto commosso dal turbine dell’uragano e, ghermito il singhiozzo che gli parve il più accorato tra tutti, lo mandò a sbattere contro la roccia della montagna più prossima, da cui si levò un’eco che si disperse fino ai pascoli d’oltrefrontiera.
La notte che seguì fu memorabile nonostante non se ne accorse nessuno. Erano appena calate le tenebre quando i frammenti luminosi che il sindaco aveva strappato da ogni dove riacquistarono la loro luce originaria e s’elevarono al firmamento, tornando ad essere stelle tra stelle. Subito dopo una luna spugnosa e rossastra, attraversata da un volo d’uccelli neri, spuntò dall’orlatura della collina stendendo i suoi raggi infuocati sul territorio, che assunse un aspetto insopportabile. Non furono le sole cose che accaddero, quella notte: infatti, quando la campana maggiore batté il primo rintocco, i sogni di buona parte degli abitanti uscirono da camini e fessure come fantasmi funerei e, la mattina, molte case erano dipinte di nero e coppie di cupi avvoltoi sostavano quasi dovunque.
Incredibilmente, la Villa della Quarantasei Querce aveva i muri intonacati di rosa e Lollo, che s’era appisolato nella cesta in cui dormiva la nuova arrivata, aveva il pelo dello stesso colore. I suoi sogni, quelli di Emilia e Nereo, erano stati tranquilli e, per fortuna, la vecchia contessa dormiva abitualmente senza sognare.
Pensò però di stare sognando quando spalancò gli occhi e, chiamato a sé l’adorato felino, lo percepì drammaticamente mutato nonostante la fitta penombra. Fu dunque lei a volere che si spalancassero tende e persiane e, come ebbe conferma della metamorfosi, venne colta da un tale attacco di panico che Nereo pensò fosse il caso di interpellare il tintore. Aveva appena varcato la soglia che, con sua meraviglia, vide una mandria di vacche intente a brucare l’erba del prato contiguo e nemmeno notò il rosa sgargiante dei muri.
“La mucca Carimba!” disse tra sé. Non aggiunse nient’altro e, mentre fissava la povera bestia attraverso un velo di lacrime, capì che era tornata sui propri passi portandosi appresso un drappello di mucche impietosite al pari di lei per l’ingiusta accoglienza riservata all’ignota creatura.
Frattanto la vecchia contessa aveva intuito che qualcosa di inquietante stava accadendo oltre i muri di casa e s’era talmente agitata che rischiò di strangolarsi con la sua treccia ormai leggendaria la cui lunghezza, garantivano i servi, era di due metri e sette centimetri. Il peggio arrivò allorché vide incastonarsi in un vetro due abbozzi di corna e un paio d’occhi color zafferano che presero ad osservarla con una certa impudenza. Invasa dal panico, si disse convinta che la villa fosse stregata e che la causa di tutto fosse l’intruso fuggito a parer suo dagli inferi e lì sopraggiunto senza preavvisi di sorta allo scopo di farle purgare chissà quali peccati. Chiamò allora Emilia e Nereo con voce straziata ma né l’uno né l’altra accorsero al suo capezzale poiché erano così affaccendati a mungere una vacca via l’altra che tutto il resto apparteneva ai loro più remoti pensieri. Sfiatata e sempre più inorridita, Brunilde Kablinski sprofondò in un sonno incolore, dal quale si sarebbe destata qualche giorno più tardi.
Era l’una del pomeriggio quando Nereo s’accorse di trovarsi da solo in mezzo ad una mandria di vacche. Emilia non c’era. Il dubbio che la disperazione per il dileggio subito l’avesse sospinta verso chissà quale rovinoso recesso insieme alla bambina, lo confinò in una condizione di smarrimento che lo fece pentire per i sospetti nutriti e le insinuazioni oltraggiose che le aveva rivolto. Montò però su tutte le furie quando la trovò addormentata sul copriletto fiorito insieme al gatto e alla bambina e non solo ne criticò la svogliatezza, ma riprese a logorarsi lo spirito indugiando sul turpe segreto che lei si sarebbe custodita nel cuore. Le stava rivolgendo concetti ingiuriosi quando infilò l’unica giacca del guardaroba e si diresse verso il paese per riferire al tintore la mutazione subita dal gatto sperando trovasse un espediente efficace. Aveva appena imboccato la strada maestra che si sentì catapultare in un mondo diverso da quello di sempre. Vide infatti i compaesani vagarsene muti tra le case dipinte di nero fin nelle tegole e gli parve che non avessero il minimo senso del dove e del quando. Inquieto come non lo era mai stato, scrollò la testa come volesse respingere il fenomeno e cercò di recuperare la calma. Non vi riuscì e, quando il silenzio fu lacerato da un lungo singhiozzo che si propagò nell’intero paese, si sentì così derelitto e impotente che si pietrificò in mezzo alla via. Trascorse un minuto, un altro, un altro ancora e dalle tre casette infiocchettate di rosa e d’azzurro risuonarono urla di disperazione sfrenata accompagnate da gemiti lugubri.
“Alle puerpere non è rimasta una goccia di latte!” squillò una voce di donna. Le parole serpeggiarono lungo le strade, i vicoli morti, le sepolture del camposanto, fecero vibrare le fondamenta dell’intero paese e, in men che non si dica, il popolo esplose con pianti di dolore e di furia. Sembrava di essere precipitati in una realtà immaginaria e, mentre i santi abbandonavano la chiesa alla chetichella, le suore assistettero al più crudele dei sortilegi poiché non v’era davanzale del loro convento che non fosse affollato di avvoltoi provvisti di fiori carnivori e neri.
Frattanto don Cenerino, assillato da dubbi terribili, camminava lungo il sagrato tra un vorticare di piume fetide e si rivolgeva ad alta voce al padreterno indispettendosi perché la situazione pareva ingarbugliarsi minuto dopo minuto nonostante avesse recitato cinque rosari. Stava farfugliando un frettoloso ‘mea culpa’ quando venne preso al laccio da un nuovo sospetto e il volto gli divenne di pietra. Anche se tacque quel che pensava, passò un colpo di spugna sui conflitti della coscienza e addossò la colpa di tutto alle intemperanze del sindaco cui, nottetempo, era cresciuta una barba che impressionava chiunque e che, nonostante il risplendere della luna nuova, il barbiere non gli volle assolutamente tagliare, ritenendola composta dai peli del diavolo. In un angolo della piazza il tintore strisciava lungo un muro e come scorse Nereo, lo chiamò in disparte e gli disse, con voce un po’ trafelata:
“Non ho nulla a che fare con questo disastro. Io tinteggio tessuti”.
Ormai la Colpa s’era insediata nel territorio di Ibaz e quasi chiunque si sentiva importunato da un fantasma che gli tacchettava alle spalle senza lasciare un momento di pace. La sconvolgente presenza non si eclissò nemmeno la notte e, anche chi aveva infilato la testa sotto il cuscino, percepì un rumore sinistro, dentro la stanza, come se qualcuno stesse manovrando un telaio sistemato a lato del letto.
Che si trattasse di una situazione d’emergenza lo si capì quasi subito ma l’inquietudine, esacerbata dall’insonnia, confinò il popolo in uno stato di perdizione febbrile che rese sprovveduti e avventati. Fu così che, pur di evadere alla svelta da un assillo che già in molti consideravano una faccenda di vita o di morte, si utilizzarono risorse insensate e puerili: collane d’aglio e di peperoncino appese ai fili della biancheria e alle maniglie, ferri di cavallo inchiodati alle porte, ciondoli scacciavampiri infilati in tasche e borsette, sotto materassi e cuscini, nelle pentole e tra la biancheria. Tutti espedienti che sollazzarono la Colpa, che la fecero contorcere dalle risate ma che, al tempo stesso, ne esacerbarono l’accanimento al punto che, la notte seguente, pensò di materializzarsi nei sogni di ognuno disseminando affanno e terrore. Era una creatura priva di ciglia, sopracciglia e capelli, con unghie lunghe ed adunche, occhi cisposi che fiammeggiavano come tozzi di brace, una coda ritorta che si agitava sotto un manto sporco di ruggine. Trasudava oltretutto un lezzo pestifero, che nessun risveglio riuscì a scacciare, e mai la smetteva di digrignare dei monconi di denti color della terra.
Quel che pontificò don Cenerino dal suo confessionale preso d’assalto, fu assai sconfortante:
“Ritengo che un’entità vendicativa si ostini a rafforzare la trappola in cui ognuno è già imprigionato”.
A nulla valsero le penitenze e i rosari sgranati fino al dissolvimento. La Colpa pareva non avere intenzione di andarsene e i suoni barbari che produceva, talora simili a una voce strascicata, che sembrava provenire da sottoterra, si fecero ancora più assidui. Quel pomeriggio, quando Emilia e Nereo raggiunsero il paese con quattro mastelli pieni di latte, il rumoreggiare della Colpa s’intensificò così tanto che più nessuno sapeva dove scappare.
Peggio successe quando nel cielo si allinearono tutti i pianeti e l’aria imbrunì a causa di un’eclisse totale che impaurì tutti quanti e a un tale punto che si pensò fosse arrivata la fine del mondo.
Dix incontra la fata Artemisia
Dix, che nulla poteva vedere ma che aveva assimilato la nuova realtà per forza di cose, camminava in lungo e in largo tra le pareti celesti di casa sua dicendosi disposto a tentare di tutto pur di scongiurare il malefizio che s’era abbattuto su Ibaz. Era l’imbrunire quando si consegnò anima e corpo alle immagini della sua fantasia e, infilato a tracolla il suo tascapane logoro e vuoto, s’incamminò verso le sponde del lago Artekan, territorio della fata Artemisia. La leggenda di quel regno fatato era un segreto che si custodiva nel cuore ed era fermamente convinto che, se ne avesse fatto parola ad anima viva, non solo sarebbe stato deriso, ma la fata non gli avrebbe nemmeno spalancato la porta.
A metà del tragitto s’accorse di trovarsi ad un bivio e si fermò, incerto su dove svoltare. L’aria era umida e fredda, non c’era un passero che cinguettasse, bisognava affrettarsi. Decise così di tentare la sorte incamminandosi sul sentiero che si spalancava a sinistra ma presto inciampò in uno spuntone e, temendo un tragitto rischioso, proseguì carponi, lasciandosi scivolare su muschi e licheni. Percorsi tre metri udì una vibrazione sottile provenire dalla parte opposta e invertì improvvisamente la rotta, senza sapere il motivo.
“Sono la Mosca Bianca – sentì dire da una vocetta spiritata, che pure gli diede un certo conforto – La fata Artemisia mi ha voluta con sé affinché faccia da guida ai viandanti che si smarriscono sulle pendici di questa altura, spesso avvolta in nebbie fittissime”. Detto questo, prese a zigzagare a una spanna da lui, rassicurandolo con il suo ronzio incessante. Procedettero entrambi tra lo stormire dei pini e, poco prima di mezzanotte, si ritrovarono ai piedi di una scala a chiocciola composta da un numero incalcolabile di gradini.
“Non mi invidio” pensò Dix. E, continuando a guardare l’immagine che gli si componeva dentro la mente, si chiese come gli sarebbe stato possibile raggiungere la dimora di Artemisia, una cupola cristallina che la grande distanza faceva assomigliare ad un piccolo fiore sbocciato nel cielo. Pur tuttavia cominciò a salire i gradini con determinazione accanita finché si trovò senza aspettarselo davanti ad un uscio di legno che si spalancò con un breve scatto metallico senza che vi avesse battuto un solo colpo. Stava per varcare la soglia quando udì uno schiamazzo di uccelli accompagnato da uno scampanellio assordante. Poiché la stanchezza gli stava inceppando la fantasia, pensò trattarsi dei terribili Vampiri Karnicci e venne colto dal dubbio di non aver neppure puntato piede sulla via della salvezza e che nulla di buono sarebbe dunque successo. Trascorse un minuto eterno, durante il quale s’accusò per essere stato irriflessivo ma, per quanto si sforzò di radunare i pensieri, non ci fu verso. Si consegnò così ad una desolazione profonda e, mentre esplorava il nero del cielo con i suoi occhi spenti, una piuma gli si posò sulla fronte.
“E’ di cigno!” pensò, annusandola. In quel momento fu come se gli si fossero spalancate anche le porte del cielo e finalmente comprese che lo scampanellio che aveva udito apparteneva ai messaggeri della fata Artemisia, una frotta di cigni selvatici addetti alla distribuzione della corrispondenza che la fata inviava in ogni parte del mondo. Col cuore che traboccava delle emozioni più belle che avesse provato, varcò frettolosamente la soglia e s’appoggiò ad una parete per capire dove dirigersi. In quel momento rabbrividì e comprese il motivo per cui sentiva formicolare le dita dei piedi: la cupola era fatta di ghiaccio e le pareti erano costellate di stalattiti e stalagmiti.
“Procedi, Dix! Che aspetti?” lo incitò la Mosca Bianca, che gli si era posata su un orecchio.
Lui sollevò i baveri della giacca e, dopo aver mosso qualche timido passo, venne accerchiato da un turba di giovanette scalze, con anelli luminosi alle dita dei piedi e una capigliatura così fluente che non si capiva di cos’altro potessero essere vestite. La loro bellezza era tale che la percepì nel profumo di menta e violette esalato dai loro respiri e, seguendone a mano a mano la scia, si ritrovò in una stanza disadorna ma col pavimento, le pareti e il soffitto che lasciavano filtrare la luce purissima dell’Ultimo Cielo, consentendo di vedere quel che accadeva nel mondo.
La fata Artemisia se ne stava rincantucciata per terra tra pile di vecchi giornali, pergamene e scartoffie. Anche se le malelingue dicevano che neppure esisteva o che era piccola e sciatta, Dix la percepì di una bellezza sublime, con una ghirlanda di agrifoglio sul capo e un abito di cristalli di neve che sprigionavano guizzi di luce.
“Ti aspettavo, Dix!” disse Artemisia, alzandosi in piedi.
“Quanta corrispondenza da sbrigare! – soggiunse mentre nell’aria fluttuavano lettere affrancate con tutti i francobolli del mondo - Gli uomini si lamentano senza sosta ma non fanno nulla per esser contenti. Sempre più smaliziati, alla fine credono ancora alle fate”.
“Chi… chi avrebbe mai detto?” mormorò Dix, domandandosi se la cecità non gli avesse giocato un tiro mancino.
“Ora ascoltami” disse Artemisia e, scostati i capelli dal volto, così parlò:
“Lo scopo per cui sei venuto sin qui affrontando un percorso impervio senza nulla vedere, è molto nobile. Nonostante la Mosca Bianca ti sia stata d’aiuto, so che hai seguito le immagini della tua fantasia e dei tuoi desideri ed è questo il motivo per cui sei riuscito a trovarmi. Ibaz è in subbuglio a causa dell’arrivo di una bambina che, per volere del Destino, trascorrerà parte della sua vita dove tuttora si trova portando un raggio di luce in una casa buia da troppo tempo. Abbandona dunque il tuo turbamento, non allarmarti se il cuore dei compaesani pare essersi rivestito d’ostilità. La Colpa, precorritrice del Ravvedimento, è giunta sin lì allo scopo di scuotere molte coscienze. Ancor prima che il sole risorga, questa bambina verrà amata da tutti proprio perché, nella sua beata innocenza, ha subito l’assurda rivolta del popolo“.
“Che sollievo, Artemisia!” sospirò Dix, che l’aveva ascoltata approvando ogni cosa dicesse con un leggero movimento del capo.
Lei lo ricambiò con un lungo sorriso e aggiunse:
“Ricorda che sarebbe di buon auspicio se il nome della bambina venisse composto dalle iniziali dei nomi di chi l’ha amata da subito, compreso quello di colei che la ospita”.
“Si tratta di una bambina speciale – seguitò a dire - Una bambina che ho già conosciuto guardando al di là di questa dimora e dentro il mio cuore. Avrà una vita avventurosa se non addirittura rischiosa… ma posso assicurarti che è destinata al successo e non solo perché la sua storia è stata scritta nella notte dei tempi. I suoi angeli guida… tre, in particolare… Elektra, Alexia e Melì, le saranno accanto tra qualche momento, il tempo di annidarsi nella cavità delle querce che vegetano da cinque secoli in prossimità della villa”.
“Chi… chi sono gli angeli guida?” domandò Dix, ripensando fugacemente alla Mosca Bianca.
“Sono per la maggior parte creature mai nate, che appartengono a sfere eccelse, a dir poco – rispose Artemisia - Ce ne sono però altri che tengono i piedi posati sul tuo stesso pianeta… pur mantenendo la testa nel cielo, s’intende”.
“Anch’io ho il mio?” chiese lui, sempre più affascinato.
“Chiunque ne ha almeno uno, quando non anche dieci, cento, una moltitudine... - spiegò ancora Artemisia - Ma molti sopprimono la voce del cuore e, affidandosi alla confusione, si convincono che il possibile sia impossibile e viceversa sprecando energie laddove non servono e restandosene inerti quando urge un’azione. Ora basta, ho detto sin troppo” esclamò, già sapendo che non avrebbe mantenuto fede alla promessa. Schioccò poi brevemente le dita e, dalla vetrata lasciata aperta, entrarono tre cigni immacolati che le posarono in grembo i doni destinati alla bambina: una stella scintillante, un libriccino dalla copertina blu scuro, una piccola chiave dorata.
“Tieni! – disse porgendoli a Dix, che continuava a tacere – Stella a parte, si tratta di cose apparentemente di scarso valore ma che aiuteranno la bambina ad affrontare le prime difficoltà che le si presenteranno. Seppure possegga un’indole solida e particolarmente intuitiva, le necessitano gli strumenti per poterla esprimere appieno. Questo, fino a quando avrà raggiunto l’età che, per ora, non posso rivelare a nessuno, quella in cui dovrà affrontare la sua impresa più ardua, ovvero il sovvertimento di... di quel che la mia voce interiore m’impedisce di riferirti”.
Nonostante la drastica interruzione della profezia, Dix mantenne la stessa espressione rapita e una vampa di commozione gli riempì gli occhi di pianto.
“Le lacrime di gioia sono sempre le benvenute” disse Artemisia e, dopo che gli si fu avvicinata, gli prese una mano tra le sue non solo per salutarlo, ma anche per accompagnarlo verso l’uscita.
Aveva già spalancato la porta che la richiuse e, dopo aver taciuto per qualche momento, così si espresse:
“Nessuno si allarmi se la stella, che ti premurerai di posare sulla fronte della bambina il giorno del suo battesimo, prenderà a pulsare o a brillare solo in occasioni speciali o necessarie. Per il resto del tempo sarà infatti simile ad un lieve tatuaggio che nessuno potrà mai cancellare. Ora vai, Dix!” gli sussurrò all’orecchio.
La metamorfosi
Quando Dix raggiunse il paese, intuì che qualcosa era cambiato. Fu allora che la fantasia gli si risvegliò completamente, consentendogli di partecipare al miracolo.
L’aria era così trasparente che si scorgevano le ombre delle nuvole muoversi sopra la collina e, ancora più in alto, guizzavano sfere di luce intensissima che andò a riflettersi sulle prime lacrime di redenzione, illuminando i cuori di ognuno. Nello stesso momento la croce del campanile cominciò a lampeggiare nonostante fosse fatta di ferro e lungo i suoi bracci presero a rincorrersi i germogli luminosi del Ravvedimento. Intanto la Colpa, infastidita da tanto bagliore, si defilava dal borgo tra un tetro brulicare di avvoltoi riparandosi fin dove poteva nel suo mantello sporco di ruggine. Quando scomparve oltre il primo tornante, il guizzare delle sfere celesti si fece ancora più vorticoso e in quelle ore di un’insonnia divenuta appagante, persino voluta, ognuno passò in rassegna quel che di sbagliato aveva fatto ripromettendosi di fare tutto diverso. Già quella notte fu un frenetico tessere di fasce e coperte e, nel convento illuminato da una luce sempre più surreale, le suore sferruzzarono e ricamarono senza darsi una tregua. Quando interruppero il febbrile lavoro per andare ad assistere alla messa mattutina, rimasero impietrite già sulla soglia, perché ogni casa era dipinta di un bianco che addirittura abbagliava. Furono talmente squillanti le loro eclamazioni di gioia, che gli abitanti del borgo si cambiarono al volo senza neanche sapere cos’altro fosse successo e, pallidi di meraviglia, corsero attraverso il paese immacolato per radunarsi nella piazza e nel solo caffè. Gli uomini vestivano il completo della domenica e avevano la camicia inamidata, cravatta e cappello. Le donne indossavano abiti di mussolina bordati di pizzi e volants, la collanina di plastica colorata, le scarpe lucenti. Dal canto loro, i neonati erano infagottati in bei coprifasce fittamente ricamati e profumavano di colonia e borotalco. Nella confusione di gente che andava e veniva c’era anche il fotografo che, imbarazzato per aver insultato Emilia e Nereo, si passava di mano in mano il piccolo dono da destinare alla nuova arrivata. Oltre alla sua lente per il ricamo, i regali non si contavano e alcuni erano tra i più fantasiosi: groppi di sonagli fosforescenti affinché la bambina non si smarrisse nel buio che regnava dentro la villa, due bambole parlanti di cui una a tre facce, un carillon che dava il benvenuto in tutte le lingue del mondo, un altro con due ballerini di plastica vestiti da spazzacamino. Terpeka, il cui unico bene era un medaglione con l’effigie del marito defunto, lo sfilò dalla catenina e, dopo aver fissato gelidamente l’immagine, pronunciò poche parole pepate:
“Avaro come sei sempre stato, ti do l’occasione per compiere la tua prima azione onorevole”.
Il tintore, che era rimasto asserragliato nella bottega per buona parte della nottata, aveva la punta del naso macchiata di bianco e non smetteva di mostrare a destra e a sinistra un abitino su cui aveva dipinto delle cicogne che sorvolavano un gruppetto di case sghembe e fumose. Da parte sua, l’uomo più vecchio di tutto il paese aveva staccato dalla parete il violino che non suonava da anni e, dopo averlo lucidato con cura, l’aveva avvolto in un drappo di lana. S’era poi mischiato alla folla tenendolo coricato sugli avambracci che tremavano più intensamente del solito e lo sguardo che gli rivolgeva era talmente romantico che sembrava di vedere una mamma che cullava un bambino.
Il fattore, dimentico dell’asino risucchiato dai misteri della vallata e felice per la mandria che albergava nel suo recinto, barcollava sotto il peso di due ceste piene di bottiglie di latte e il sindaco, che camminava al suo fianco, reggeva una gerla con delle fiaschette di vino.
Intorno alle undici la processione s’incamminò verso la Villa delle Quarantasei Querce capeggiata da don Cenerino che, per l’occasione, indossava i paramenti destinati alle feste solenni. Anche se qualcuno aveva notato l’assenza di Dix e l’aveva giustificata dicendo che un cieco non può tenere sempre tutto sott’occhio, ecco che lo si sentì vociare in lontananza.
“Aspettatemi! – stava dicendo - Vi devo comunicare qualcosa di molto importante” Raggiunse quindi la folla che s’era fermata a guardarlo e, stringendo al petto il tascapane con i doni della fata Artemisia, raccontò la sintesi dell’incontro prodigioso spiegando che il nome della bambina doveva essere composto dalle iniziali dei nomi di chi l’aveva amata da subito, compreso quello della contessa Kablinski.
In un attimo lo stordimento creato dalla notizia cedette il posto ad un certo scompiglio e, in quello stesso scompiglio tutti presero a proclamarsi così affezionati alla bambina da reclamare il diritto all’iniziale che avrebbe composto il suo nome.
I nomi che risultavano a mano a mano assumevano lunghezze sempre più impressionanti ed erano per buona parte impronunciabili. La discussione per l’accaparramento stava già diventando una disputa e Terpeka, pur di acquietare gli spiriti, disse che la fata Artemisia non avrebbe avuto niente in contrario se alla bambina fosse dato il nome del parroco. Ma qualcuno obiettò che quel nome, volto al femminile, era lo stesso di un personaggio fiabesco sfortunato e sempre perdente che finì prematuramente arso su un rogo. Subito dopo un’altra voce sostenne che la bambina avrebbe dovuto portare il nome del sindaco, se solo non si fosse chiamato Oloferne.
Deciso a ricondurre tutti alla ragione, Dix ribadì lo stesso concetto:
“Artemisia vuole che le iniziali che formeranno il nome della bambina appartengano a coloro che l’hanno accolta da subito con benevolenza e a colei che la ospita”.
Seguì un lungo silenzio durante il quale pressoché tutti compresero di non meritare quel privilegio. Ci fu tuttavia chi propose di tagliar corto chiamando la piccola Dixy, in onore della prodezza compiuta dal cieco. Ma qualcuno fece notare che il cane del fattore si chiamava così.
“Saranno Emilia e Nereo a decidere” stabilì il sindaco con voce intransigente.
Quando il corteo raggiunse la villa, la bambina senza nome né origine dormiva con Lollo in una cesta dipinta di rosa succhiando avidamente un ciuccio di stoffa. Tutti si strinsero a cerchio attorno a lei, colpiti non solo dalla sua straordinaria bellezza, ma anche dal colore assunto dal mantello del gatto. Spalancarono allora un sorriso incantato e, dopo che il tintore ebbe obiettato che sarebbe stato oltraggioso rinnegare un tale prodigio, si levò un lunghissimo applauso. Si stava ancora applaudendo quando il sindaco tolse dal taschino un foglietto spiegazzato e vi trascrisse la lettera “L”. Quindi, senza fare domande, aggiunse la “E” di Emilia e la “N” di Nereo, poi la lettera“A”, in onore della fata Artemisia. Nereo, con gli occhi che scintillavano di gratitudine, disse che per rabbonire la contessa che, pur controvoglia, aveva accolto la bambina tra le pareti di casa, era opportuno considerare anche il suo nome. Fu così aggiunta la lettera “B”che, stando a quel che aveva decretato la fata, non avrebbe avuto bisogno di raccomandazioni di sorta. A quel punto Terpeka ricordò che non poteva mancare l’iniziale della patrona della regione, santa Imariska degli Obeliski, giovinetta virtuosa e dagli straordinari poteri. Fu così aggiunta anche la ”I”. Tutti parevano soddisfatti, ma il cenno di testa e l’occhiataccia che don Cenerino rivolse prima al sindaco e dopo alla folla, fecero sì che ognuno volgesse lo sguardo laddove egli indicava e subito furono rossori e palpiti di vergogna. Dix, seduto su un panchettino avvolto nella penombra, pur non vedendo niente e nessuno, sembrava osservare tutti uno alla volta, il che non fece che acuire il disagio.
“E per concludere in gloria… – annunciò il sindaco con voce tremula - non può mancare la “D” di Dix!”
Furono allora plausi ed elogi per quell’uomo umile e coraggioso che, nel buio della cecità, era riuscito a salvare le sorti di Ibaz e quelle della nuova arrivata.
Quando tornò a farsi silenzio, il sindaco andò a sedersi al tavolo della cucina e, circondato dal popolo sulle spine, cominciò a comporre l’anagramma.
“Blainde, Lindabe, Dabelin“ disse, scandendo le parole con cura.
“Dabelin non è male. Dabelin!” esclamò, sfoggiando un sorriso raggiante.
Nessuno fiatò ma, di lì a poco, s’udì un ‘giammai’ provenire dalla stanza della contessa.
“Giammai! – ribadì Brunilde Kablinski - Dabelin è un nome da fiaba. Ragion per cui, la bambina si chiamerà Belinda, come l’onorata consorte del marchese di Dulcis in Fundo”.
“Belinda!” esclamarono via via un po’ tutti. E ripresero a contemplare Belinda che seguitava a succhiare il suo ciuccio di pezza, del tutto incurante del putiferio che scatenava la sua venuta nel mondo.
“Sia un brindisi in onore della nostra Belinda!” esclamò il sindaco, agitando la prima bottiglia. Intanto Lollo scivolava tra le gambe di ognuno ricevendo carezze più obbligate che spontanee poiché nessuno gradiva che la peluria del suo sgargiante mantello si trasferisse su calze e calzoni. Al di là della parete la contessa, riemersa spaventatissima dall’orlo delle lenzuola, si voltò a fissare la statua dell’Angelus Imperterritus posata sul suo comodino e lo supplicò d’accompagnarla al più presto nel suo regno silente. Ma per quanto infervorate furono le sue preghiere, l’Angelus rimase impassibile e lei dovette sorbirsi un baccano che si protrasse fino a pomeriggio inoltrato. Non solo: poiché la sua stanza era l’unica ad essere riscaldata, vennero spalancati tendoni e persiane per dar modo alle puerpere di cambiare i pannolini ai figlioletti e allattarli quando strillavano di fame. A lungo andare, l’aria divenne così irrespirabile che lei, respinto l’antico terrore, gridò:
“C’è odore di cacca! Ventilate immediatamente la stanza!”
Belinda, vestita con un coprifasce bordato di pizzo, con dodici catenine al collo più il medaglione di Terpeka e la lente per il ricamo, tre braccialetti ad ogni polso, la stella della fata Artemisia che le brillava in mezzo alla fronte, era ora tra le braccia dell’uno, ora dell’altro. Quando poi si ritrovò tra quelle rudi del sindaco che, allucinato dall’alcool, la faceva ballonzolare come fosse un giocattolo, sgranò due occhi inquieti e, fissata la sua barba da mangiafuoco, si abbandonò ad un pianto frenetico.
Erano le cinque quando il corteo abbandonò finalmente la villa tra sorrisi e canti di gioia e, mezz’ora più tardi, nella chiesa addobbata a festa, si celebrò il battesimo dei quattro neonati alla presenza non solo degli abitanti del circondario, ma anche dei santi di legno tornati abbronzati da chissà dove. Allineati davanti al portone c’erano trentasette quadrupedi che, a cerimonia conclusa, intonarono un coro così armonioso di miagolii, muggiti e guaiti che concerti assai simili si levarono da ogni parte della regione. Oltre all’asino destinato al sacrificio, c’era anche la Mosca Bianca che, posata su un orecchio di Dix, si sfregava le zampe producendo uno stridore che infastidiva tutti coloro che eran lì accanto. L’unica a risplendere per la propria assenza era la contessa Kablinski, rimasta nella sua stanza dimenticata con le finestre spalancate e le persiane aperte. Indosso aveva gli occhiali da sole reperiti nel suo comodino zeppo di cianfrusaglie e, per ripararsi dal freddo, aveva sciolto la treccia e se l’era avvolta come una sciarpa attorno al collo, alla bocca e alle orecchie. A mezzanotte, quando Emilia e Nereo rincasarono insieme a Belinda, la rinvennero immobile come una salma e lo spavento fu tale che tutti e due temettero che, dopo la celebrazione di quattro battesimi, ci sarebbe stata quella di un funerale.
Muti e irascibili, adagiarono Belinda nella cesta laccata di rosa e, chiusi persiane, finestre e tendoni, cercarono di accendere il fuoco ma l’umidità era tale che i ciocchi rimasero inerti. Spento anche l’ultimo zolfanello, tornarono al capezzale della contessa e le tastarono il polso senza arrivare a capo di niente. Le sfregarono allora le braccia e le gambe che non riacquistarono purtroppo tepore e, quando le avvicinarono le orecchie alla bocca per saggiare il respiro, rimasero essi stessi senza più fiato. In balia di un panico sempre più gramo ma con ancora un filo di speranza nel cuore, cominciarono a muoversi in modo talmente frenetico che sembrava stessero ovunque nel medesimo tempo. Ma quando da un ciocco si sprigionò un fugace brillio, ad entrambi sembrò che gli occhi della contessa fossero intensamente cerchiati di nero, segno di una morte inconfutabile e non tra le migliori. Stesero allora una trapunta di broccato sulle coperte, diedero un tocco di profumo ai polsi della defunta e le misero il rosario tra le mani affinché si presentasse alla morte in modo onorevole. Stavano ancora dandosi un gran daffare quando presero a incolparsi a vicenda per quel decesso e, a mano a mano che discutevano, sentivano le loro anime farsi color della pece. Emilia, con gli orecchini pendenti e il turbante di traverso, osservò Nereo con occhi ostili e lui percepì quello sguardo nonostante la fitta penombra. Allargò allora le braccia e disse:
“Dopotutto era un’arpia”.
“Era pur sempre un essere umano” osservò lei, trattenendo una lacrima.
Quindi, preda di un umore cupissimo, posarono due candelabri ai piedi del letto e, rassegnati alla recita delle giaculatorie di rito, si ritirarono in camera loro per rimediare un abbigliamento che s’adattasse alla circostanza. S’erano appena sfilati l’abito della festa per rivestirsi con quello da lutto, quando udirono una voce soffocata provenire dalla stanza attigua:
“Arpia o essere umano che io sia, avete dimenticato di levarmi gli occhiali”.

Id: 68 Data: 07/03/2008