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Raccolta di testi in prosa di Bianca Fasano
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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La foto.

Era di fronte a lei, un po' di fianco, nascosta soltanto in parte dallo scaffale della libreria che sovrastava la scrivania dove lavorava. Scriveva a computer e di tanto in tanto lo sguardo volava sulla foto: una spiaggia (Coroglio? Licola?), se stessa bambina, con un cappello giallo (la foto era in bianco/nero, ma lo ricordava, le pareva di poterlo toccare), seduta, gambe piegate, un braccio teso a sfiorare la spalla del fratello Gianni (in foto c'erano tutti e quattro i fratelli), anch'egli sulla sabbia (doveva scottare), con la sua aria malandrina e allegra, una gamba tenuta con le braccia e l'altra tesa. Alle spalle, in piedi, il fratello Vincenzo (lo scacchista), Leonardo (l'amato scienziato), la zia Veronica (che era un poco anche la loro mamma), e infine Roberto, il più alto, il più forte, Ivan il terribile che, nella foto, aveva il braccio sinistro proteso in basso, verso di lei. Forse intendeva fare sì che stesse ferma, per la foto. No, Non ricordava affatto chi l'avesse scattata. Mancavano la mamma e il padre, quindi era pensabile che a scattarla fosse stato il papà. Ricordava che vi fosse stata un'altra foto, dove erano tutti assieme e la zia non c'era. Quella che le avevano spedito quando, partita per la colonia (testardamente), volevano consolarla per il distacco. Ricordava che la mamma le aveva scritto dietro, con la sua grafia svolazzante: -"Tra poco saremo di nuovo tutti assieme."- Tutti assieme non lo erano più da un pezzo. La foto l'aveva recuperata, morta la zia, tra le carte da buttare via. L'osservava spesso, chiedendosi se la lei bambina avrebbe potuto (era stata sempre un po' capace di predire il futuro), avvisare, al tempo, il fratello Gianni dei rischi che correva. Il fratello Roberto delle sofferenze che l'attendevano se avesse compiuto le stesse scelte. Suo padre, perché non la lasciasse troppo presto a causa di un infarto. A lei stessa, cosa avrebbe suggerito? Poteva? Avrebbe potuto? Scriveva un romanzo. La figliola più piccola stava per uscire: un esame all'università. La luce del balcone penetrava stranamente velata e poco nitida a causa... a causa? Non capiva: pochi minuti prima un bel sole di maggio faceva capolino -finalmente - in quella primavera fredda. Adesso, invece, sembrava che la luce avesse perduto di forza. -"Chissà come mi sentirei se tornassi di nuovo a quegli anni: una bambina agile, danzatrice, col corpicino svelto, le gambe veloci. Chissà."- Un tuffo. Oddio, non respiro! Il mare mi sommerge. Qualcosa mi è piombato addosso. Mi agito come un gatto nell'acqua. Non sono mai stata troppo brava a nuotare, ma adesso non riesco a venire fuori con la testa. Vorrei urlare, non posso, graffio l'acqua, m'infilo in uno spazio più chiaro, mi lancio nel chiaro e qualcuno mi aiuta, mi afferra. Graffio anche quel qualcuno. Ecco, sono all'esterno. Mi avevano inavvertitamente sommersa con una camera d'aria della gomma di un autocarro. Ma questo lo scoprirò dopo. Per intanto ritorno a riva, sconvolta, dopo avere bevuto un bel poco di acqua salata. Già lo so, quell'avventura mi segnerà a vita. Se possibile, diverrò ancora di più ansiosa al solo vedere il mare. Mi viene incontro mio fratello Gianni. Com'è snello! Come siamo magri tutti noi! in quegli anni cinquanta il problema dieta non fa parte della famiglia. -"Che cosa ti è successo?"- -"Non so. Non so."- Sono lì, gocciolante, infuriata, ragazzina di circa otto anni, mentre gli esseri stupidi che mi hanno gettato addosso la camera d'aria se la sono prudentemente data a gambe. Il mio corpicino è agile, piccolo. Guardo in su verso gli occhi neri, verso i denti chiari del sorriso di Gianni. Lo abbraccio. -"Che hai? Che cosa è successo?"- -"Successo? Non so!"- Lo abbraccio di nuovo. Ha il corpo asciutto, caldo di sole e lo infastidisco con il mio bagnato e freddo. Però se la ride. Tipico. E' abbronzato. -"Gianni?"- -"Sì?"- -"Debbo dirti una cosa."- Ho qualcosa da dirgli, sento dentro me che è importante, ma sembra che venga inghiottita dal sole che mi batte sulla testa. Non ho i miei zoccoletti da spiaggia e sto per scottarmi i piedi. Lui mi prende per sotto le braccia e mi solleva, depositandomi più in là sugli asciugamani da bagno. -"Dopo. Me lo dici dopo. Sto andando con Roberto e Leonardo a fare una nuotata."- Non importa, tanto non ricordo più cosa dovevo dirgli. Mi guardo intorno. C'é la zia che prende il sole. Un bambino di circa quattro anni, tutto nudo. Guarda anche lei nella mia direzione e sorride. -"E' un maschietto."- Mi prende in giro, perché crede che io gli stia guardando qualcosa che io non ho. Ma non è vero. A casa, con quattro fratelli e un padre, mai che sia capitato di vederli nudi. Certo che non ho mai visto un maschio nudo, ma nemmeno in mutande. Tutti ben attenti a mantenersi coperti davanti alla piccola di famiglia. -"No, zia! Guardavo per caso!"- Lei continua a sorridere ironicamente. Il sole è a picco su di me, lo stomaco reclama. Ecco mia madre: costume a un pezzo, capelli rossi e ricci, giovane, bella, bianca. Non è abbronzata. -"Vieni ad aiutarmi?"- -"Per fare cosa?"- -"Mettiamo in tavola."- In tavola? Non capisco ma la seguo. C'é una passerella in legno, inseguendola giungiamo alle cabine: sembrano piccole abitazioni e ognuna, sul davanti, ha un terrazzino in legno. Che belle! Entriamo e si fa aiutare a portare fuori un paio di tavolini in legno, di quelli che si aprono. Poi l'aiuto a metterci su una, due tovagliette e un recipiente che contiene un'enorme frittata di pasta al forno. Arrivano "i ragazzi", portano le gazzose e le birre. Mio padre ritorna dal mare, con l'aria di chi è a disagio: il dirigente di banca fatica ad assumere il ruolo del bagnante. Tra l'altro, con il nuoto, non ha dimestichezza: di qualcuno dovevo avere preso, io! Si mangia. Che buono! Cosa non c'é in quella frittatona! La fame passa, ma non l'intontimento. Continuo a sentirmi come se dovessi ricordarmi qualcosa. Roberto fa sempre un tantinello il dispettoso. Non avevo qualcosa da dire anche a lui? -"Roberto, tu dovresti evitare di..."- -"Evitare cosa?"- -"Forse una ragazza. Forse non ha colpa lei, ma poi succederebbe..."- -"Farfugli? Ti ha dato in testa il caldo?"- -"No."- -"E allora?"- -"Niente. Allora, niente."- -"Lasciala stare, Roberto!"- Protesta Gianni. -"Stava per affogare, a mare."- -"Affogare?"- Chiaramente interviene mia madre e mi tocca raccontarle l'avventura con la ruota d'autocarro. Si arrabbia contro il mondo, vorrebbe sapere chi è stato, poi sgrida uno ad uno i miei fratelli che mi hanno lasciata sola. Non è colpa loro. Inoltre, sono io che mi allontano da loro perché mi fanno gli scherzi: nuotano sott'acqua e mi tirano le gambe. Gianni, è vero, ci prova a farmi nuotare. Mi tiene la testa fuori e dice: -"Sei leggera, resta a galla. Fai il morto."- Io sono proprio negata e resto a riva, dove c'é piede. Da non credere! In famiglia i miei fratelli (tutti tranne Vincenzo, in verità), sono capaci di nuotare per miglia. Roberto, quando andiamo in barca, si tuffa e scompare fino a quando non lo diamo per morto. Invece io... -"Gianni, tu dovresti fare a meno di..."- -"Cosa?"- -"Se incontri quella ragazza, quella che quando sta seduta fa uno strano movimento con le narici..."- -"Michela, ma che dici?"- -"Poi... forse per la sabbia. Il piede, quel neo, non metterci le mani tu, fallo vedere..."- -"Michela ha preso un colpo di sole!"- Ride Roberto. -"No. E' stata la paura."- Asserisce mia madre. Mio padre tace. Mi guarda in modo strano: io e lui ci siamo sempre capiti con lo sguardo. -"Anche tu, papà, troppo lavoro. Io penso che..."- -"Cosa pensi?"- Oggi il suo sguardo sembra provenire da una distanza insormontabile. -"Forse, se lavorassi di meno. Forse se ti curassi di più..."- Adesso mi osservano tutti, perplessi. Preoccupati, direi. Non ricordo più cosa volevo dire. "i ragazzi" fuggono via. -"Non fate il bagno dopo mangiato"- Gli grida dietro mia madre. Papà si stende in cabina, la zia si allontana verso l'ombrellone. La seguo. Passano le ore. A breve andremo via. A breve tramonterà il sole. Eccoli i miei fratelli! Ritornano agli asciugamani. Bagnati, spruzzando sabbia. - "Finitela! Mi riempite di gocce!"- Brontola la zia. Si passano gli asciugamani l'uno con l'altro e poi cominciano a metter a posto per rientrare. Leonardo indossa una camicia, io un giacchettino sul costumino a righe. Arriva mio padre con la sua Nikon e suggerisce di fare una fotografia di gruppo. Non ne abbiamo molte di foto, al mare, perché non ci andiamo molto spesso. Almeno non tutti. I miei fratelli vanno per fatti loro, ma io posso andare al mare soltanto quando papà ha le ferie. Sono poche: lavora sempre e non gli piace neanche troppo mettersi in costume e stare al sole, per cui davvero le mie occasioni di apprendere a nuotare si riducono di molto. Ecco il perché della foto: quando capiterà di nuovo? Ci raggruppiamo: Io a terra con Gianni e dietro gli altri tre con la zia Veronica. Leonardo le si mette accanto. Papà scatta. Poi cambiamo di posto e viene la mamma al posto della zia. Papà scatta e assolutamente rifiuta di farsi fotografare, anche se ha indossato la camicia e il suo solito cappello. Beh: almeno avremo un ricordo. Mi guardo intorno, mi rimetto i pantaloncini corti, trovo le borse da mare, scuoto la sabbia, piego gli asciugamani, poi corro verso la cabina ad aiutare la mamma. Non capisco perché, ma ho la netta sensazione di avere dimenticato qualcosa. Qualcosa d'importante, che riguardava Gianni e Roberto. Qualcosa che dovevo dire anche a mio padre. Niente da fare: nella testa c'é il vuoto.

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Morire d’odio. (Ipotesi)

IPOTESI Il mio racconto “Morire d’odio”, è stato ispirato dalla consapevolezza che, benché sia necessario punire un colpevole, ancora più importante sia non porre in carcere un innocente. Non si riporta un caso soltanto in cui la vittima “sia scomparsa” e mai ritrovata, malgrado le ricerche. In America secondo l'Fbi nel solo 2012 i casi di missing sono stati oltre seicentomila, poco meno di 500mila sono ragazzi sotto i 18 anni. In Italia “abbiamo fatto l’abitudine” agli assassini che non confessano il loro delitto, malgrado ogni pressione o prova possibile ed anche agli omicidi in cui la vittima scompare misteriosamente ed il cui cadavere, prova certa del delitto, non viene mai trovato. In alcuni casi “il colpevole” è posto sotto inchiesta e, in seguito, con alterne e lunghe vicissitudini legali, anche, condannato. Benché continui a professarsi innocente dell’omicidio di una persona che non viene mai ritrovata né viva né morta. Se il corpo non c’è e l’omicida (o presunto tale), non confessa, si ha un bel dire che in carcere sia finito il colpevole: il dubbio resta. Da questo dubbio, senza alcun riferimento di realtà rispetto a casi che l’opinione pubblica sta discutendo in questi anni, è nato il mio racconto “Morire d’odio”. La vittima “muore d’odio”. Muore, spesso, perché non fugge. Non fa come la lucertola che, pur di salvarsi, lascia la propria coda nelle “zampe” del nemico. La vittima, solitamente, muore perché non accetta la verità. Vuole restare al suo posto. Ha mille ragioni per farlo, però una sola per andarsene: il rischio di andarsene per sempre. Il mio consiglio, dunque è la fuga. Qualsiasi cosa ci si lasci alle spalle, c’è modo di riconquistarla, vivendo, oppure ricostruire. Da morti non c’è più speranza. Buona lettura. MORIRE DI ODIO. Elisa ci aveva provato. Davvero, ci aveva provato. Fosse soltanto per non lasciare i figli. Lui, però, glielo aveva detto più volte: “Posso aiutarti. Prima ti togli da quella situazione impossibile, poi ti riprendi la tua vita altrove e infine ti riprendi anche i bambini”- Ma non era facile. Intanto vedeva il marito sempre più impazzito per l’altra e faticava a fingere di non sapere chi fosse la ragazza che intendeva distruggere la sua famiglia. Poi era accaduto quello strano fatto di cui aveva parlato anche ad una amica. Una banale caduta dalle scale, senza alcun danno. Scendevano assieme da quella soffitta dove lui si rintanava per ore privo di nessuna ragione apparente, finché lei aveva capito che davvero lui amava un’altra e con lei parlava al cellulare per ore. Aveva anche intuito di chi si trattasse. Dopo l’incidente si era chiesta se fosse stata davvero involontaria la spinta che l’aveva fatta cadere, oppure lui, inconsciamente, sperasse che lei battesse il capo e morisse? Intanto Gianluca, con cui si sentiva (nascostamente), continuava a ripeterle: -“Scappa. Finirà per ucciderti. Non ti dico di lasciarlo e venire a vivere con me per sempre, lo so che ci sono i bambini, però dovresti allontanarti il tempo di riprendere il controllo, poi decidi. Chissà che vedendoti fuggita non rinsavisca e lasci l’altra.”- L’aveva conosciuto come ospite dell’albergo e avevano preso a parlare. Sta di fatto che si tende a raccontare la propria vita più ad un estraneo che agli amici. Si erano tenuti in contatto e lui le aveva suggerito di andare via di casa. Che l’avrebbe aiutata. Non perché volesse vivere con lei. Soltanto per amicizia. Da tempo aveva cominciato davvero a pensarci, ad un piano che, nondimeno, doveva avere il merito di far passare un brutto periodo al marito. Insomma, sì, sarebbe scomparsa, in ogni caso facendo in modo che nulla lo facesse ritenere possibile. Doveva risultare allontanatasi di corsa, in pigiama, con le pantofole, lasciando tutto a casa, ma proprio tutto. Doveva fare sì che al marito di quel suo spontaneo allontanarsi nessuno potesse credere, quando fosse andato alla polizia a denunciare la sua scomparsa. Neppure uno doveva prestargli fede e, invece, dovevano pensare ad un delitto, con occultamento di cadavere. Non riteneva che davvero lo credessero un omicida, visto che il suo corpo non si sarebbe trovato. Tuttavia non era facile. Possibile, non facile. Aveva cominciato da quasi un anno ad organizzare la sua partenza nei minimi particolari, con l’intenzione di lasciare indizi della colpevolezza di quell’uomo che la tradiva da anni sotto il suo naso. Gli aveva scritto lettere in cui gli chiedeva ragione del distacco sentimentale, aveva pronunciato agli amici, alle amiche, frasi in cui precisava che mai e poi mai si sarebbe allontanata dai figli. Davvero mai l’avrebbe fatto: sarebbe ritornata, più forte, con l’aiuto di un legale, dopo che il marito fosse stato messo sotto accusa per la sua sparizione. Voleva vederlo soffrire come un cane per il male che le aveva fatto. Chissà se quella sgualdrinella acchiappa mariti gli sarebbe stata vicina anche quando avesse rischiato di trovarsi inserita in una accusa di omicidio. Infine, continuava a ripetersi, lui non rischiava nulla, vista la mancanza del «corpo del reato», Dato che era lei a gestire il denaro dell’albergo dove tutta la sua famiglia lavorava ed era sempre lei a tenere i conti di cassa e lasciare il necessario per le spese (pagando personalmente i fornitori e quanti vi lavoravano), niente di più facile che mettere da parte del denaro. Non somme evidenti, ma tali che nel giro di un anno le sarebbero bastati per la fuga. Il suo amico poi l’avrebbe aiutata. Chiaramente, per fare sì che non si potesse pensare ad una fuga (però le dispiaceva per i ragazzi. Troppo piccoli per informarli: avrebbero detto tutto al padre), doveva lasciare tutti i vestiti appesi nell’armadio e allontanarsi, d’inverno, in pigiama e ciabatte. Come fare l’aveva capito: sotto gli occhi del figlio che l’osservava, aveva messo degli abiti invernali, compreso un giaccone pesante di pelle e le scarpe, in varie buste, precisando che doveva portarle in chiesa per i poveri. Invece il tutto era stato nascosto tra le mura diroccate di un vecchio locale abbandonato, in prossimità della strada che avrebbe dovuto raggiungere per entrare nell’auto che l’avrebbe attesa, L’idea era semplice: allontanarsi dopo che il marito fosse salito in camera, facendo credere di restare alzata allo scopo di scrivere la lista della spesa per il giorno dopo o qualsiasi altra idiozia: Lui non ci avrebbe fatto caso: non vedeva l’ora di lasciarla e dedicare quel tempo a qualche telefonata dal cellulare. Nell’allontanarsi, naturalmente, non avrebbe dovuto chiudere la porta d’ingresso e, invece, tirarsela dietro soltanto. Aveva pronta una borsa piccola, con il denaro e la copia fotostatica di un documento d’identità. Separarsi? Dividersi? A lui non conveniva: erano in comunione di beni e l’albergo era a nome di lei, per cui se si fossero separati lui avrebbero perso tutto. Ecco perché non la lasciava. Lei, invece, era decisa a salvare la famiglia. La fuga sarebbe stata momentanea. Dovevano restare assieme dopo il suo ritorno a sorpresa e anche al marito avrebbe fatto comodo scagionarsi dalle accuse. Il perché della fuga? Dove si era nascosta? Beh: qualcosa si sarebbe inventata. Intanto, dopo la caduta dalle scale, aveva come un senso di spossatezza, persino la sensazione di cominciare a compiere un gesto e non ricordare più quale fosse. Lo aveva notato anche il marito che, preoccupato, si ostinava a volerle prenotare una visita ospedaliera. Però per il resto aveva le idee chiare: in effetti doveva prendere per i campi, perché si perdessero le proprie tracce, compiendo un percorso che già aveva provato più volte allo scopo, poi, di ritornare più avanti dell’abitazione, sulla strada principale, per entrare in auto, laddove, con calma, si sarebbe cambiata. La notte in cui decise davvero di allontanarsi le cose andarono proprio come previsto. Vero: faceva freddo e camminare attraverso i campi antistanti la villetta dove viveva con la famiglia, a pochi metri dal ristorante, non fu facile in pieno gennaio. Ebbe la sensazione, nel farlo, che una persona passata in bicicletta l’avesse vista, però chissà se sarebbe stata presa sul serio nel corso delle indagini! Altri forse, in altre occasioni, in paese l’aveva vista parlare con lui, che l’aspettava a circa 600 metri da casa, in auto, pronto a portarla fuori d’Italia appena si fosse decisa al grande passo, giusto per il tempo che le occorreva. Se pure l’avessero vista non si trattava altro che di chiacchiere. Soltanto chiacchiere. Forse sarebbero state utili al marito per discolparsi dall’averla uccisa. Appena ritrovati i panni, nel buio, dopo pochi metri si infilò sul sedile di dietro, nell’auto che l’aspettava, senza scambiare neanche una parola con il guidatore e indossò panni più caldi. Pensò ai figli, cui aveva dato il bacio della buonanotte (si sentiva davvero triste per doverli lasciare), ma era certa che li avrebbe rivisti presto. Odiava quel marito infedele e che forse l’avrebbe voluta morta. Lui l’odiava. Non aveva altro da fare. Fosse per lo stress o anche per il tepore improvviso dell’abitacolo, si addormentò. Il guidatore la lasciò dormire. Si svegliò che era l’alba, mentre si dirigevano verso un paesino della Francia, dove lui aveva un appartamento. Sarebbe stato un viaggio lungo, però era previsto che si fermassero più volte per strada, cercando di non farsi notare, ma dopo essersi allontanati di molto dai luoghi in cui avrebbero potuto riconoscerla. In Francia, difatti vi arrivò: anni dopo la sua scomparsa qualcuno, che abitava in un sobborgo di Parigi, avrebbe sostenuto, senza essere preso troppo sul serio, di averla incontrata assieme ad un uomo, asserendo che fosse proprio lei, che l’aveva riconosciuta dallo sguardo. Anni dopo. In realtà le cose però non erano andate come si aspettava. Quei giramenti di testa, quei vuoti di memoria, si erano trasformati nei giorni seguenti alla fuga in un mal di testa che aveva costretto l’amico a ricoverarla in una clinica, sotto altro nome. L’aveva presentata come sua moglie e, visto che, intanto, in Italia, le cose si erano messe davvero male per il marito di lei, non volendo rischiare di trovarsi impicciato in quel fatto giudiziario, lui strappò l’unica cosa che poteva farla riconoscere: la fotocopia del documento d’identità. In effetti la donna aveva subito un lieve trauma cranico nella caduta dalle scale. Il cervello aveva ricevuto un danno, anche in assenza di fratture gravi, per un coagulo di sangue. Difatti, dopo il ricovero, la donna cominciò ad avere difficoltà nel formulare frasi di senso compiuto e sembrò colpita da amnesia. Cadde in un lieve stato di coma. Al momento in cui gli esami rilevarono un’emorragia interna alla calotta cranica, che si era lentamente andata formando nel tempo, si rese indispensabile intervenire chirurgicamente per evitare che l’aumento della pressione intracranica, potesse causare danni permanenti. Lui, durante e dopo l’operazione le restò accanto mentre veniva costantemente monitorata nelle ore e nei giorni successivi. Ci vollero mesi perché si riprendesse, rischiò di morire, tuttavia poi migliorò. Quando la condusse a casa propria, lei sembrava un’altra. Si guardava intorno smarrita, senza comprendere bene chi fosse lui (e lui le disse di essere il marito), finché, molto lentamente, prese a vivere una vita quasi normale. Appena stette meglio trovò piacevole curare il giardino, poi cominciò ad uscire nel piccolo centro dove abitavano, sorridendo a tutti. Si presentava con il cognome del compagno e lui fece bene attenzione a non farle giungere notizie dall’Italia. In effetti cosa poteva interessargli di quanto andava capitando al vero marito di lei? Rischiava la galera per omicidio? Se l’era voluta. Certamente lei, per la caduta, senza le sue cure sarebbe morta. Intanto in Italia, si cercava un cadavere occultato. Bene. Lasciamo che si creda così. Si diceva lui. In effetti la moglie di quell’uomo era davvero morta: morta d’odio. Bianca Fasano Moriniello Disponibile in ebook gratuito sul web.

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Ricordi.

Un nome, in una telefonata, li risvegliò. Cominciarono ad uscire lentamente dalla memoria, come se fossero tutti frammenti collegati che scivolavano fuori da un bicchiere a calice, simili alle bollicine eteree dello spumante. Era per una questione di lavoro, eppure quando la persona si presentò le venne fatto subito di chiedere: -"Montanari? E' un cognome che ricordo molto bene, quello di un medico caro amico di mia madre e di mia zia... Tullio? Le dice qualcosa?"- Risultò che sì, si trattava di un parente stretto. -"Il figlio è medico. Lui era fratello di mio padre, insomma, siamo cugini"- Immediatamente, come prima bollicina, sentì il solletico che le procurava la barba di lui, medico, quando le auscultava le spalle. Disse: -"Era molto più grande di me, io una bambina, lui aveva l'età di mia madre, più o meno"- Poi tornarono all'argomento della telefonata, tuttavia dentro di lei, scrittrice, qualcosa cominciò a ronzare, come sempre le accadeva quando "sapeva" che la circostanza fortuita, verosimile se non vera, si sarebbe tramutata in racconto. Verosimile, se non vero? Ma la storia, che non avrebbe mai e poi mai raccontata alla persona dall'altro capo del filo, era vera. Ecco: riuscì a rivedere la madre, con quel vestito molto elegante, ma non eccessivo, che aveva indossato alla prima comunione della figlia di quella che lei chiamava "zia Olga", sin da bambina. La gonna blu, il corpetto azzurro, in cui si inserivano, ritagliati e ricamati, miriadi di fiorellini col bordo blu. Le belle braccia della mamma ancor giovane, seppure l'aveva partorita a circa 36 anni e lei, nella foto(c'era una foto) ne aveva certamente almeno quindici. C'era zia Olga, sua madre, suo padre (che l'avrebbe lasciata troppo a breve), la piccola coi riccioli neri e l’abito da prima comunione ed il padre di lei. Ricordava le rare volte in cui si erano trovate a casa di questa zia, laddove il marito, magro, piccolo, si vedeva raramente. Come si chiamava la piccina? No: non lo ricordava. Forse Fiorella. Ma poteva trattarsi di una associazione mentale. Frasi, come bollicine scoppiavano nelle memoria e lei si ritrovava a riallacciarle e a rendersi conto che, sì, fin da piccola aveva capito che alle spalle di quella zia Olga c'era un mistero. Zia Elena (zia vera, la sorella della madre), doveva avere l'abitudine di parlare liberamente davanti a lei bambina, senza comprendere che i bambini hanno strane orecchie, munite di registratori e per le cose che non comprendono al momento, c'è poi un seguito in cui si riascoltano i ricordi, si collegano tra di loro, si comprende quello che non era stato compreso subito. Attenti, dunque, a ciò che si dice in loro presenza, o quanto possono, in qualche modo, ascoltare. Dunque: la piccola, molto carina, dalla carnagione scura, gli occhi neri, brillanti, aveva i capelli che crescevano gonfiandosi di riccioli verso l'alto. Fatto che costringeva la madre a tenerglieli corti. Raccontava la zia. A pensarci bene lo diceva come se fosse qualcosa che nascesse da un segreto, da un fatto che non doveva essere spiegato in quanto chi parlava sapeva che l'ascoltatrice (mia madre), avrebbe capito. Somiglianze. La mamma raccontava spesso di come lei stessa, piccola di statura e rossa di capelli, camminasse a braccetto con l'amica Olga, alta, bruna e riccioluta (a pensarci bene, cosa che spiegava, senza altri misteri i capelli della figlia e anche la carnagione e lo sguardo bruno). Correvano e "chi passa currenno nun o' vere" (chi passa correndo non se ne accorge), scherzava la mamma, ricordando quelle passeggiate amicali per le strade di Napoli in cui lei appariva elegante perché lei "si cuciva addosso" i vestiti con grande bravura, stretti in vita in modo da porre in luce i fianchi e il seno ma qualche volta li indossava non proprio finiti, per cui li fermava con "le spille di nutriccia" e nessuno se ne rendeva conto. Le spille che usavano le balie (e le mamme), per fermare i pannolini dei bambini. Spille di sicurezza le definiremmo oggi. Dovevano essere state davvero belle, così differenti, quelle due ragazze vissute ai primi del 900. Attiravano gli sguardi dei giovanotti. La mamma diceva: -"E' un bene camminare con una amica bella, si è guardate di più. Stupido essere gelose delle amiche belle, servono ad essere ammirate, specialmente quando sono diverse da noi."- Ma zia Olga aveva un segreto. Con questo torniamo alla telefonata e a quel Medico Montanari e alla sua barba che le solleticava la schiena. Lei aveva sette o otto anni, lui la visitava perché era stata ammalata, o lo era, forse, ancora. La sua figura alta si stagliava sotto la porta. Doveva essere un bell'uomo di cui in realtà ricordava ben poco oltre la barba, se non fosse stato, oggi, per le bollicine che si erano collegate e esplodevano nei ricordi. Diceva la zia alla madre, riferendosi all’amica comune: -"Porta con sé la figlia quando si va ad incontrare con lui, poi la fa uscire fuori il balcone e la lascia li."- Oggi comprende: la piccola ricciuta all'epoca doveva avere pochi anni, quindi non capiva (o avrebbe poi capito?). Eppure oggi si chiedeva con quale coraggio (o disperazione), una madre, per fare l'amore con quello che considera l'uomo della sua vita (forse anche il padre della bambina? La somiglianza? I capelli ricci? Il colorito?), chiude una piccola di circa quattro anni fuori al balcone? Di dove? Di una casa? Di un albergo ad ore? Ed era poi sposato questo Tullio Montanari? La figlia seppe poi di non essere nata da quello che considerava il padre? Ebbe modo di dialogare con il padre naturale? Ebbero modo di seguire l'uno la vita dell'altra? Lui di aiutarla nella crescita? Lei, oggi, non lo sapeva. Il padre della piccola vendeva scarpe. La casa era grande e vecchia. Lei, oggi, poteva rivedere chiaramente tutti loro grazie a quella foto nel vecchio album in cui si ritrovava elegante, ben pettinata, come in realtà poi non aveva mai amato tanto di essere. Che fine fecero poi quelle persone, scomparse si potrebbe dire, dalla sua vita (ovviamente da quella di sua madre), da un momento all'altro? La risata di zia Olga, il volto dalle gote gonfie, lo strano modo di parlare, intercalato di silenzi. Tutto scompare. Da qualche parte ci deve essere il ricordo di una morte. Quella di lei? Di lui? Del marito di lei? Non lo sa. Le bollicine si sono sgonfiate e non danno più volume ai ricordi. In ogni caso quella telefonata ha funto da ponte, riallacciando il presente con il passato, dando almeno una risposta:sì: anche lui doveva avere una famiglia, perché l'uomo al telefono aveva detto: - "Il figlio è medico come il padre." Che strano conoscere, dall'esterno, fatti così intimi di una persona che ci è passata a fianco senza quasi sfiorarci, se non nel ricordo di una visita medica alle spalle e di un insieme discontinuo composto con frasi percepite, che non erano state dette a te. Una storia per cui forse una moglie gelosa non ha dormito la notte, chiedendosi la ragione del marito distratto, sempre occupato nel lavoro. Sensazioni che certamente avevano reso perplesso un marito, le cui amiche della moglie, al suo arrivo, sembravano imbarazzate, tacevano per qualche momento e poi cambiavano argomento. Strappi nell'animo di una ragazzina, poi cresciuta con l'ambivalenza del sentirsi, sapersi, non essere certa di chi sia il padre, con ricordi infantili di un balcone, di un essere estraniata, di non comprendere il prima e il dopo dell'incontro e dell'avere ricevuto forse qualche caramella da quel bell'uomo che la madre incontrava e di cui -certamente- le era stato imposto che non dovesse fare cenno con il padre. La considerazione che poteva avere avuto per un padre che la cresceva, ma forse non era il suo e a cui doveva tacere qualcosa che intuiva grave. Strappi nell'animo di quella donna bruna che rideva, ma non doveva essere davvero felice. Poi c'era il vago ricordo di un altro figlio, più grande, il maschio malato di non si sa bene cosa e di come doveva avere vissuto nell'ambiente domestico non certo felice, in qualche modo aiutato dall’amico medico della madre. Di lui ricordava ben poco. Sofferenza, nascondimento, timori, bugie, amore, passione, stravolgimenti di vite. Tutto così vano, polveroso, finito. Marchi nei corpi, morti assieme a quelli, di cui non restano che bollicine di ricordi nell'animo troppo sensibile di una scrittrice che ha tutto appena lievemente sfiorato, pur avendo con la sua presenza e un breve scritto, dato loro una memoria. Bianca Fasano.

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Profumo di cera.

Va bene: era abituata ad essere inseguita da misteriose presenze. In realtà la cosa la tranquillizzava, da un lato: “qualcuno” veniva a dirle, nei modi e nei tempi che poteva sfruttare, di esserci ancora. Di presenze ne conosceva. Da bambina. Di sensazioni, impressioni, sogni, angosce, era stata piena anche la sua infanzia. Pure, a volte, avrebbe voluto essere lasciata tranquilla. La “proprietaria” del bed & breakfast aveva trovato molto bello raccontare a lei ed a sua figlia, che viaggiava, in quell’occasione, con lei, che la stanza da letto in cui avrebbero dormito in quei giorni di soggiorno, era antica, ossia, i mobili, lo erano, provenienti da una vecchia villa in disuso. Vero: primi novecento o qual cosina in più. Sotto i polpastrelli il legno annoso parlava di tocchi di mano, di oggetti posati, di cassetti in cui qualcuno aveva riposto oggetti. L’enorme armadio, dallo specchio antico, incombeva. Il materasso era comodo, ma il letto di legno scricchiolava, di notte, ai suoi movimenti e la luce, che teneva accesa, sempre, perché il buio la terrorizzava dalla fanciullezza, non riusciva a completare gli angoli. Insomma; dormiva male. La figlia rientrava sul tardi, in giro con gli amici nell’estate calda, riguadagnandosi la sua giovinezza e salute. Lei si addormentava senza le sue abitudini ed era inquieta sino al suo rientro. Okay, dunque, nulla di strano che trascinasse in quell’ombreggiatura scomposta immagini e pensieri, ma il vento quella notte, fece il resto: si levò, forte, spostando e trascinando con sé quello che poteva e facendo risuonare ambiguamente ciò che non poteva. Oltre le tre di notte, la figlia, che dormiva da poco, si destò innervosita e prese ad annusare l’aria. Annusò anche lei: un odore intenso di ceri accesi, di fumo denso che veniva fatto di assimilare a quelli, grandi, ardenti davanti alle immagini sacre o nei cimiteri. Da dove proveniva? Non le riusciva di comprenderlo. Sembrava invadere l’ambiente. Naturalmente, se avessero potuto dire: “ecco, è quel cero a mandare l’odore”, ossia vederlo, tangibilmente, non se ne sarebbero tanto preoccupate. Ma non v’era cero. Le imposte: chiuse, i vetri: sani. Avrebbero volentieri evitato di destarsi completamente, ma la curiosità fu più forte ed accesero le luci accanto al letto. Nulla: niente poteva spiegare. Decisero di controllare, con un poco di nervosismo, fuori della porta. Buio, naturalmente. Da qualche parte c’era la cucina, c’era il bagno e una stanza che fungeva da soggiorno. Tutto tranquillo e l’odore non sembrava provenire da altre stanze. Richiusero. A chiave. Permaneva. Il vento forse lo portava dentro dalle fessure della finestra antica e dal balcone serrato? Non volevano aprirlo: le folate non si erano calmate e avrebbero certamente aperto le imposte, sbattendole o chissà che altro. Decisero di fingere che non vi fosse nulla di strano e tornarono a dormire. Luci spente, tranne quella che manteneva i suoi fantasmi lontani da lei. Ci volle un poco perché si riaddormentassero e al mattino l’odore era svanito. Facendo la colazione in cucina, ne parlarono con la donna che aveva portato cornetti caldi e preparato il caffè. Nessuna reazione alle loro parole. Quella “nessuna reazione” diede loro fastidio di più che se avesse sostenuto che avessero avuto una allucinazione olfattiva. Dunque. Finita la storia, quel giorno lei e la figlia presero direzioni differenti: lei non amava il sole (?), no: il sole faceva male alla sua pelle, quindi evitava di andare in spiaggia, anche se, in realtà, quel giorno era grigiastro, ammesso che fosse giusto usare quel termine per descriverlo. Le piaceva girovagare, allontanarsi, conoscere cittadine vicine o meno vicine, che l’attiravano perché ne aveva sentito parlare, o vi era stata. Così si spostò di un poco, facendo un breve percorso per raggiungere una conosciuta cittadina di mare, più grande e ricca e affollata, di quella dove si erano fermate. Trovò, fortunatamente, un posto auto alle spalle del litorale, davanti ad un cancello, dove non avrebbe dovuto pagare neanche la sosta. Poi, come sempre, prese a vagabondare. Al mattino molte persone, malgrado che il mare fosse decisamente mosso, si trovavano sulla spiaggia, zeppa di ombrelloni. I lidi si succedevano, con gli ombrelloni aperti, i lettini strapieni e qualche coraggioso che si dibatteva tra le onde saltandole. Dall’altro lato della strada e anche sul lato mare, si alzavano molti edifici. Praticamente si trattava soltanto di alberghi, i cui ingressi alternati lasciavano spazio a vetrine, locali zeppi di oggettistica ed abiti che aspettavano la passeggiata serale dei turisti. Qualcosa, però, la colpì: una costruzione più bassa, decisamente in rovina, le cui colonnine dei terrazzi sembravano rari denti nella bocca di un anziano. Le finestre, dalle belle forme anni trenta (o almeno questo sembrava a lei),avevano le imposte chiuse e sconnesse, di forma curva nella parte superiore. Dal lato opposto all’ingresso principale, un lungo terrazzo ricoperto di piante, era sostenuto da colonne. Al di sotto c’era l’ingresso posteriore. Sul davanti quello più imponente, con le colonne di lato ed un vecchio portone sconnesso, conservava una cert’aria sontuosa. Intorno c’era stato un giardino curato, un muro elegante che si alternava con cancelli lavorati. Tutto disastrato, ora. Mentre osservava quello strano e solitario edificio, lei s’innamorò perdutamente della vecchia costruzione per cui, se avesse avuto il denaro, lo avrebbe utilizzato per comprare quel residuato di un tempo finito. Certo: abbattendolo e costruendo un altro di quegli alberghi che lo circondavano, avrebbe compiuto un lavoro decisamente più semplice e conveniente. Pure, se avesse potuto, lo avrebbe comprato per ristrutturalo, non per distruggerlo. Sogni. Per compiere una follia così, di denaro ne avrebbe davvero dovuto avere tanto da potersi permettere una stupidità. Fermo restando che ci doveva essere una ragione alle spalle di quell’abbandono: una eredità difficile o una vendita all’asta ostacolata da gruppi di potere economico locale… o chissà che altro. Intanto sapeva di dovere rientrare dove l’attendeva la figlia. Pensò di tornare e dedicarsi, il mattino dopo, alla ricerca di qualche notizia che riguardasse l’edificio da cui si sentiva così stranamente attratta. IL mattino successivo (la figlia al mare, con gli amici, lei che il sole doveva evitarlo, a causa di una pelle particolarmente delicata), ritornò nel comune per conoscere a chi appartenesse la costruzione. Farlo in modo legale e completo? Difficile, tanto di più per lei che non era cittadina residente: Una visura catastale presso il Catasto, avrebbe previsto il possesso di foglio e particella. Impensabile, al momento. Oppure avrebbe dovuto servirsi di una Visura ipotecaria, ottenuta presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari. Una volta ottenuti i dati dal Catasto, la prassi sarebbe stata complicatissima e assolutamente assurda: a che pro? Si limitò ad interrogare in proposito, con l’aria della turista curiosa (cosa che in realtà era), qualche portiere d’albergo e un paio di ristoratori, senza successo. Intanto aveva percorso un bel tratto di strada, allontanandosi dall’auto, per cui pensò bene di ritornare sui propri passi e, in una trentina di minuti, si ritrovò di nuovo davanti alla villa misteriosa. Aveva già notato che, all’interno dei cancelli, davanti all’ingresso, era stata accumulata una quantità non indifferente di materiale, evidentemente vecchi mobili quasi a pezzi, scatoloni e materiale che sembrava fosse stato messo li per lavori di restauro mai effettuati. Un altro sguardo veloce e… si rese conto che il cancello era aperto, così come la porta principale: dall’interno proveniva luce. Forse qualcuno, entrato, dato gli scuri chiusi, l’aveva accesa. Non avrebbe dovuto, ma la tentazione di entrare anche lei e chiedere notizie a chi doveva essere in grado di darle, fu troppo forte. Spinse il cancello, schivò l’ingombro dei pacchi polverosi, salì i pochi gradini e si trovò davanti al portone spalancato. Osservando con una punta di preoccupazione l’ambiente che si apriva al suo sguardo non ebbe modo di fare marcia indietro: una voce squillante di donna, che sembrava essere quella di una ragazza, la interrogò: -“Lo sa che è in ritardo?”- -“Cosa?”- -“Ci eravamo accordate per le nove e sono le undici.”- -“Accordate?”- -“Ma è da sola? Aspettavo almeno un altro paio di persone. Giovani, forti. Magari anche uomini…”- A questo punto comprese che la ragazza (era una giovinetta di non più di venti anni, a guardarla bene, adesso che poteva scorgerla dietro un vecchio mobile che occupava in parte l’ingresso), l’aveva presa per qualcun altro. -“Credo mi abbia confusa con altri…”- -“Personale di pulizia, no?”- -“No.”- -“E allora chi è, perché è entrata, scusi?”- -“Mi perdoni, non avrei dovuto. In realtà mi sono innamorata di questa antica struttura. Avrei voluto saperne qualcosa di più ed ho approfittato…”- -“Antica struttura?”- -“Sì, la villa. E’ così bella e così malandata che…”- -“Malandata? Scusi, ma a cosa si riferisce?”- Restò perplessa. Le sembrava di avere parlato chiaro e inoltre lo stato dell’edificio non poteva essere definito diversamente. Però, quello che cominciava a stupirla era il fatto che l’interno non sembrasse affatto malridotto come l’esterno. -“E’ una villa abbandonata,no?”- Insistette timidamente. -“No, che dice? Io e mio marito ci stiamo venendo a vivere. Abbiamo bisogno di una governante, di una cuoca ed ovviamente di personale per le pulizie. Sopratutto per i lampadari. Sono antichi e di cristallo.”- Vero: quello della sala lo era. Lucente, grande, pur illuminava l’ambiente fiocamente. Le lampadine sembravano vecchie. Neanche quelle di sua nonna avevano quel filino solitario e fragile all’interno. Guardò meglio la giovane donna e si accorse che vestiva un abito premaman plissettato, calze piuttosto pesanti per agosto e scarpe eleganti dal tacco basso. I riccioli di un bel biondo naturale spuntavano anche da sotto al fragile cappellino con la veletta. Un insieme fuori moda e fuori stagione che la fece sentire sempre più a disagio. -“Bella la villa, vero?”- Disse la sposina in attesa. -“Bellissima, sì…”- Le rispose, facendo un passo indietro. -“Il giardino mi ha incantata. Poi: quel terrazzino lungo, con le colonnine di quel bianco accecante…”- -“Bianco, accecante? Terrazzino?”- -“Ma allora lei non l’ha vista bene! Guardi, le voglio mostrare l’unica stanza che abbiamo già arredata: quella nuziale. Sono mobili in legno che ho fatto fare a mano da un mio amico falegname. Assolutamente deve guardarli. Resterà stupita!”- Qualcosa le diceva che avrebbe fatto bene a girare le spalle e, scostumatamente, lasciare la donna, i lampadari e tutto il resto, dietro di sé, ma non poté farlo. La giovane sembrava essere stata presa da un’eccitazione malata, come se avesse fretta di farle vedere quei mobili Come se per lei fosse una cosa di vitale importanza. Quasi la prese per mano, quasi la spinse (in realtà non la toccò per nulla), costringendola a percorrere un largo corridoio e aprendo la porta di un’altra stanza. Fece girare rapidamente un vecchio interruttore nero, di quelli che ricordava avere ancora in casa sua nonna molti anni prima e il lampadario di cristallo diffuse la sua tenue luce nell’ambiente. La camera era arredata, davvero. Caldi mobili di un bel marrone lucido, con le maniglie di ottone, il grande armadio, un lettone alto, coi comodini eleganti ma senza sfarzo. Nuovo. Tutto nuovo, certamente, ma uguale identico a quello che stava usando nel bed & breakfast che divideva con la figlia. Ebbe un brivido. Davanti all’immagine di una Madonna in porcellana era acceso un grosso cero multicolore, di forma strana. Emanava un profumo intenso. Fece quasi un balzo indietro. Prese, camminano all’indietro, la porta della stanza, poi si girò, infilò velocemente il corridoio e letteralmente fuggì oltre la porta d’ingresso che, fortunatamente, era restata aperta. Fuori, nel giardino sporco, tra gli scatoli ed i mobili malandati, ritornò al suo tempo. Al di la del cancello, sulla strada gremita di persone che tornavano dal mare. Fuori. Guardò la vecchia costruzione cadente senza avere più nessuna voglia di acquistarla. Intanto il portone si era chiuso, così come il cancello (se mai erano stati aperti). Comprese perché nessuno l’avesse più acquistata, o avesse desiderato di abitarvi. Abbatterla. Bisognava abbatterla. Assieme ai suoi fantasmi.

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Nonn’Anna

Nonn'Anna Molti anni prima: Un ritorno a Napoli, con l'occasione di "ricercare" la tomba di suo padre. Come inizio della storia sembra macabro, ma questa è una storia di passato e presente e di amori passati che, in quanto "Amore", non hanno tempo. Aveva preso un pullman. Quale? Non lo ricordava. Si era ritrovata in uno spazio che in seguito avrebbe saputo essere quello che portava all'ingresso del Cimitero monumentale di Napoli. Insomma: si era sbagliata; il padre, ossia quello che restava fisicamente di lui, era al "Nuovissimo". Entrò dall'immenso cancello. La memoria di quelle ore le riportava la sua ricerca inutile, un vasto spazio verde e l'improvviso ritrovarsi dinanzi ad un bel monumento funebre su cui, con grande sorpresa, ritrovò i nomi di suoi avi: il nonno e la nonna della mamma, di cui lei le aveva parlato molte volte. L'amore. Gelsomina era fidanzata ad un "bravo giovane", si chiamava Ribelle, ma lo era soltanto di nome. Un artista, capace di farle un ritratto ad olio su tavoletta, che la fidanzata aveva trovato brutto (purtroppo: altrimenti sarebbe restato nel tempo, in famiglia), ed uno in argilla, con i suoi boccoli dorati, tendenti al rosso, il volto sottile, lo sguardo fermo, di cui era restata la copia in gesso dipinto colore del bronzo. Quello sì, rimasto in famiglia (a ricordo dell'abilità artistica di quel giovane non amato, ma non per questo non degno d'amore), assieme ad un piccolo ritratto dello zio Emilio adolescente, addormentato su di una sedia. Ribelle amava Gelsomina, ma lei non ricambiava e un giorno aveva conosciuto Gaetano, quello che sarebbe restato, fino alla morte di lei (lui morì prima, molto prima), l'unico, grande amore, della sua vita. Gaetano era un giovanottino esile e delicato, dal carattere forte, dai capelli lunghi e neri come l'ala di corvo (che sarebbero, purtroppo, caduti ed avrebbero lasciato in figli e nipoti il "triste" destino genetico di una capigliatura bellissima, cui lasciava il posto, in breve, una più o meno forte, calvizie). All'epoca il papà di lei aveva capito presto che la figlia, ribelle (lei sì), aveva perso la testa per il giovinotto del piano di sotto, il quale aveva quattro anni meno di lei, cioè soltanto sedici. Ridicolo. Così le aveva detto che rischiava, lasciando il fidanzato, di "restare appesa al lampadario" del soggiorno. Sogghignando tra sé, ben compreso del fatto che la figliola non avrebbe cambiato idea. Non la cambiò; si lasciò corteggiare dal giovane Gaetano, per un tempo imprecisato, permettendogli di crescere almeno un po'. Intanto lui studiava "al classico" e, essendo decisamente agiato, possedeva in casa uno dei primi telefoni, per cui contattava una studentessa, anche lei "telefonomunita". La giovane Gelsomina era gelosa. Aveva fatto amicizia con la sorella del giovinotto e si recava in casa il più possibile. Cantava (aveva una bella voce, che avrebbe passato in dono ai nipoti, figli della figlia), sembrava un'attrice nelle movenze, vestiva in modo elegante (lei cuciva bene), e faceva sì che il giovinotto non la dimenticasse. Fu gelosa anche di un'amica di lui, che, come accadeva spesso in quel tempo, sarebbe morta poi giovanissima, di tubercolosi. Intorno, di tubercolosi, si moriva spesso: era il cancro dell'epoca. Intanto in qualche modo c'entrava anche il ricordo della nonna Anna. La donna, proveniente da un paesino al di sopra di Amalfi, era quello che al suo tempo (molto prima della storia di Gelsomina), si poteva definire una "ricca proprietaria terriera." L'amore. Anna viveva ad Agerola, seconda figlia femmina, quando l'affascinante Stanislao, che sarebbe poi divenuto Presidente di Corte d'Appello, si era dovuto recare in quel paese, assieme ad un giovane che lavorava con lui (forse anche parente), per questioni legali. Lui, più anziano di lei, la conobbe e s'innamorò. Lei perse totalmente la testa. Ma il matrimonio risultava difficile, perché il matrimonio toccava, per turno, prima che ad Anna, alla sua sorella maggiore. La storia, raccontata da Gelsomina alla figlia Bianca, suonava più o meno così: -"Per sposare nonn'Anna, Nonno Stanislao convinse l'amico a sposare la sorella maggiore di lei, per cui si fecero due matrimoni."- Questa nonna era stata molto amata da Gelsomina. Raccontava di lei una serie di aneddoti: Morto il marito, aveva comprato un terreno al Camposanto, facendosi costruire una bella tomba, con tante foto, di età differente di lui e di se stessa, come se giacesse già nella tomba. La gente che passava davanti al monumento la trovava seduta a ricamare (o a lavorare a maglia), stupendosi di vedere che la foto sulla tomba fosse la sua, per cui le chiedevano: -"Ma quella foto non è la sua?"- E lei diceva che sì, era proprio la sua, ma per adesso non aveva ancora intenzione di entrare nella bara. Poi c'era la storia del nonno Cesare (nonno di Bianca), che amava la sorella e, al momento in cui morì il gallo più bello del pollaio di lei, fece del lunghissimo artiglio di questo un ciondolo in oro, che le regalò, facendola irritare. Ancora: questa nonna, che viveva un po' fuori di città (Poggioreale, vicino al cimitero), era stata biondo/rosso, per cui, quando i capelli le divennero bianchi, li tinteggiò con il mallo di noce, rendendoli di un candido biondo. Li portava lunghissimi sulle spalle. L'amore della Nonn'Anna per il suo Stanislao era geloso. Lui faceva vita di società e la portava con sé, ma quando lavorava, nel suo studio, molte belle donne, per ragioni di vario tipo, lo corteggiavano. Lei lo costrinse a fare un piccolo buco nella grande porta bianca, da cui lo controllava. Lui ben sapendo il fatto, non sapeva come frenare le irruenze delle belle donne che tentavano di sedurlo. La notte, raccontava nonn'Anna alla giovanissima nipote, "era così bello allungare la gamba e trovare quella di "Stanislao mio". Nulla da stupirsi se la giovane Gelsomina volesse dalla vita niente di meno che "l'amore vero". L'amore vero si chiamava Gaetano e quando il bel giovinotto, stanco di attendere (intanto si era diplomato), la fermò per strada dicendole che avrebbe dovuto lasciare il fidanzato o lui sarebbe andato per la sua strada, lei gli strinse la mano. Si guardarono in viso e si dissero:-"Va bene". E lei lasciò Ribelle. La tomba. Intanto la nonna però era morta e lei, prima del famoso accordo sancito, si era recata proprio sulla tomba della nonna, scrivendovi nome e cognome con la matita, per chiederle aiuto. Forse l'aveva davvero aiutata, perché Gelsomina sposò il suo Gaetano e ne ebbe cinque figli, anche se lo perse troppo presto, scrivendo a sessanta anni per lui che l'aveva lasciata a cinquantasei: -"A Gaetano Tutto mi hai dato amore. Il folle desiderio la grande tenerezza l'abbraccio materno la gelosia l'acquietarsi dei sensi il calmo susseguirsi degli anni di conforto. Mi hai dato tutto, amore, la mano forte la mente sempre vigile la tua presenza. Ma senza il tuo volere per folle mio destino anche il dolore atroce di non udire più la tua voce." Anni dopo, quindi, lei, Bianca, si era ritrovata davanti a quella firma a matita che, incredibile a dirsi, era ancora sul marmo. Ma la storia non finiva così. La mamma era morta. Lei era rientrata a Napoli, portando con sé le foto di Anna e Stanislao, da cui Gelsomina non si era mai separata. Con grande gioia, aveva ritrovato, complice facebook, i parenti della madre, ossia quelli che portavano lo stesso cognome del nonno Stanislao e anche lo stemma di famiglia. Desiderava, però, ritrovare quella tomba visitata anni addietro e non sapeva come fare. Napoli non le era poi tanto chiara nella rete viaria e a quel cimitero, tanti anni prima, era capitata "per caso". Ammesso che lei credesse al caso. Ma si lasciò guidare "dall'istinto" e decise dovesse trattarsi del Cimitero Monumentale. Mise un'indicazione sul Tom Tom. Fermò l'auto in uno spazio mutato, rispetto al passato, a causa della costruzione in atto di una fermata della metropolitana di Napoli. Si avviò, con una sicurezza ben strana, verso l'enorme cancello seminascosto da palizzate provvisorie e giunse davanti ad una strada che portava in alto (per le auto) e una a destra, a basse e larghe scale, destinata ai pedoni. La memoria le rimandava quel monumento funebre in uno spiazzo, ma la memoria gioca strani scherzi: dopo una trentina di metri, sulla sinistra, "ferma" dal 1919, c'era il monumento che ricordava. Al suo fianco era stata edificata la tomba, decisamente più recente, dell'autore di "Luna rossa", ossia Antonio Viscione, in arte Vian, compositore italiano morto nel 1966. Quella degli avi era coperto di edera, sulla parte posteriore, di cui staccò un ramo con le radici (per ricordo) e sul davanti l'accolsero tutte quelle foto di Stanislao ed Anna. La firma di mamma Gelsomina era ancora sul marmo. Le venne fatto di pensare che, forse, la sua convinzione di farsi cremare, non fosse poi così giusta: magari qualche nipotina l'avrebbe cercata, un giorno, senza trovarla.

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Il risveglio

Lei era bionda, esile, minuta, con un bel sorriso bianco. Si guardò nello specchio, ma non si piacque poi molto. Intorno a lei il mondo era impazzito: si combatteva in un'Italia divisa di nuovo, dopo l'unità, laddove quello che era giusto in un luogo era sbagliato in un altro. Dal luglio del 1943, dopo che Mussolini era stato arrestato, le cose che erano state una realtà non possibile di cambiamenti erano precipitate nell'irrealtà. Forse per questa situazione complessa, Irma dormiva male e faceva strani sogni che le sembravano interminabili, da cui si risvegliava con grande difficoltà: lei diventava molto vecchia, giaceva in un letto, rattrappita e piena di dolori. Qualcuno si occupava di lei, la lavava e le cambiava la posizione. Nell'incubo lei non mangiava più ed a stento beveva qualche goccia d'acqua. A volte nel sogno compariva una donna che la chiamava zia e tentava di parlarle, ma lei, in quell'incubo ricorrente, neanche le rispondeva. La stanza l'opprimeva, il letto era una roccia dura e le coperte pesavano come macigni. Fortunatamente, però, lei si costringeva a risvegliarsi e tornava alla sua vita. Ecco: lavorava con gli americani ed era diventata per loro un punto di riferimento perché trovava il modo di fare il caffè, di cucinare una sottospecie di dolcetti, anche a merito del fatto che gli stessi americani provvedevano a procurarle ciò che le occorreva. Il 1944 era oramai il quarto anno di guerra. Napoli aveva sofferto per i bombardamenti che avevano falcidiato case e popolazione e, all’indomani dell’arrivo in città degli Alleati, erano cominciati i bombardamenti tedeschi. La più tragica delle incursioni tedesche avvenne nella notte tra il 14 e il 15 marzo del ’44. Lei l'aveva trascorsa in un rifugio e poi aveva saputo che c'erano stati oltre 300 morti. Ad aggravare la situazione alcuni giorni dopo si era risvegliato il Vesuvio. Tuttavia nel tempo ci si era abituati a vederlo di notte, con il suo pennacchio ed il rosso della lava incandescente e lei s'innamorava, terrorizzata da quello spettacolo straordinario. Irma era fiera di essere napoletana, visto che il suo popolo era stato capace di liberarsi da solo dai tedeschi e quando gli americani erano entrati a Napoli, non avevano trovato neanche un tedesco. Il 28 settembre 1943 Napoli era insorta e lei ricordava di essersi trovata in mezzo a situazioni terribili, con le barricate per strada, gli spari, i morti, i feriti. Conosceva la madre di Gennaro Capuozzo, quello scugnizzo di dodici anni che aveva combattuto ed era morto. Non era stato il solo: nelle quattro giornate perirono 168 napoletani caduti in combattimento. Lei aveva lavorato nell'ospedale, dove erano stati ricoverati alcuni dei 162 i feriti. Molti di loro sarebbero poi restati invalidi. Già in quel periodo le capitava quello strano fenomeno: si addormentava, di colpo, ripiombando nell'incubo e tornavano i dolori, le gambe rattrappite, le voci di sottofondo. Lei, nell'incubo, apriva gli occhi e vedeva ben poco. Ombre. Quelle di una donna che le toccava le ossa fragili per cambiarle posizione. La voce che le chiedeva se volesse mangiare qualcosa. Mangiare? Lei voleva soltanto, con tutte le sue forze, tornare alla sua vita di giovane donna sana. Ritrovare la compagnia del capitano americano che le aveva messo a disposizione un locale dove provvedeva a rifocillare i giovani americani e quelli più anziani. Ritrovare Billy, che poi l'avrebbe attesa, dopo le 20, per accompagnarla a casa con la sua jeep, visto che rientrare da sola sarebbe stato molto pericoloso. Ecco: l'incubo le saltava addosso e doveva fare un terribile sforzo mentale per rifiutarlo. Si diceva soltanto: "Sto sognando, sto sognando, è un incubo, debbo svegliarmi!". Ma talvolta le riusciva così difficile! L'incubo sembrava tenerla in suo possesso. Rifiutava la voce, non voleva che le mani la toccassero, che la donna dell'incubo le cambiasse il pannolone. Rifiutava l'odore di malattia e di vecchiaia, la pelle che le prudeva come se fosse coperta da insetti che la divoravano, la terribile sensazione di secchezza alle labbra. Rifiutava tutto e riusciva, alla fine, a tornare alla sua vita: il suo giovane americano l'attendeva fuori e trovavano il modo di fare l'amore. Si scambiavano baci dolcissimi, con quella sensazione di vivere momenti incerti che potevano precipitare da un momento all'altro nel baratro e proprio per questo andavano vissuti più categoricamente, a testa bassa, senza pensare troppo al dopo. A testa bassa rientrava nel sole di Napoli, camminando per le strade distrutte della città, con via Toledo e le case abbattute dai bombardamenti. Era restata a Napoli, mentre la sorella, con i suoi figli e la nipotina, per evitare i continui bombardamenti, si era diretta, con i genitori, verso l'entroterra. Avrebbe dovuto raggiungerli, ma le riusciva difficile rinunciare a quel lavoro che si era costruita. I fratelli erano in guerra e sperava che sarebbero rientrati, ma non ne era certa. Sconvolti dall'essersi ritrovati alleati con i loro nemici senza preavviso, trattati da traditori. Un giorno, per rientrare in città si era ritrovata su di un treno zeppo fino all'inverosimile, della Circumvesuviana e, come le capitava purtroppo spesso, venne catapultata nel suo incubo. Sparì la folla, sparì il paesaggio intorno al treno e si ritrovò nel letto, immobilizzata, con la sensazione di affogare: la donna del suo incubo tentava di versarle qualcosa in gola. Si ostinava Maria (era Maria), a volerla aiutare, salvare, farla vivere. Vivere? Ma era vita quell'incubo? Lei si rifiutava di prenderlo in considerazione. Mugolava parole incomprensibili, serrava le palpebre ardenti, si ripeteva:-"E' un incubo, solo un incubo. Adesso mi sveglio!"- Così si svegliava. Si ritrovava con le sue braccia giovani a spazzolarsi i capelli biondi, per indossare un cappello giallo di paglia. Era estate. Sapeva che molte donne di Napoli si erano date al commercio di se stesse, anche soltanto per un paio di calze di seta o un barattolo di qualche tipo, ma lei era stata fortunata: aveva un fidanzato americano, lavorava per gli americani ed era rispettata da tutti. Non si chiedeva cosa sarebbe successo quando lui fosse stato rimandato in patria. Se l'avrebbe seguito, se l'avrebbe perso. Cosa importava? Era viva. La guerra sarebbe finita, un giorno, e anche lei avrebbe potuto pensare al matrimonio, pure se non aveva potuto pensare al corredo, men che meno a una casa, a mobili di qualche tipo. Già era davvero tanto non avere fame e non avere necessità di vendersi. Neanche aveva dovuto fare la borsa nera, mentre in qualche occasione, raggiunta la sorella in un paese dell'entroterra, si era arrampicata sulle montagne per comprare cibo dai contadini, in cambio di lenzuola ricamate. D'altra parte c'era chi si arricchiva con le "semenzelle", quei chiodini con la testa grossa con cui ci si poteva risuolare le scarpe. Lei non voleva diventare ricca, ma restare viva. Viva, non come le capitava di sentirsi in quel maledetto incubo ricorrente. La vecchia che diventava in quei momenti, per fortuna brevi (i sogni sembrano eterni, ma non lo sono), diveniva sempre più debole. Non sentiva praticamente più il dolore, gli odori svanivano, la bocca si serrava e neanche rispondeva alla voce che le diceva:-"Zia, mi senti?"- Neanche rispondeva. Non aveva sete né fame, né bisogni. Era un sogno, era un incubo da cui si doveva rifuggire subito. Ogni volta le riusciva più facile ritornare alla sua giovinezza. Quel bagno nel mare di Mergellina, dagli scogli, con il costume pescato chissà dove. Il tuffo nell'acqua fresca, l'acqua sul volto, il sole sul viso. Poi lui si era tuffato a raggiungerla, avevano nuotato assieme, come due delfini, per poi asciugarsi al sole sugli scogli cocenti. Un momento rapito alla morte, al dolore, alla paura. Lei lavorava ed era rispettata. Gli alleati avevano bisogno dei napoletani, come capitava con lei: servizi e funzioni di ogni genere, legali e indebite, somministrate dai civili ai singoli militari anglo-americani, erano un modo per sopravvivere. Le donne, come lei, lavavano panni, oppure ospitavano nelle proprie case gli angloamericani e in cambio ricevevano viveri e merci di vario tipo. Ma lei conosceva che il mercato nero, la vendita di alcolici, e le donne che fornivano prestazioni sessuali circondava quel suo mondo più pulito. Si risvegliava dai suoi incubi sempre più forte e sana, sempre più vicina alla fine della guerra e al suo futuro prossimo. Un futuro che immaginava felice, con o senza la presenza del suo americano. Odiava quel suo incubo ricorrente e, nel tempo, divenne sempre più cosciente che l'unico modo di lasciarselo alle spalle, consisteva nel rifiutarlo determinatamente, lasciando fuori dal corpo malato in cui si ritrovava, ogni possibilità di collegamento: doveva resistere, non bere, non mangiare, non ascoltare le domande, non rispondere agli stimoli dell'incubo. Più andava avanti e più si rendeva conto che soltanto con la morte, nel suo incubo, della se stessa malata, scarna, dolorante, sarebbe potuta tornare alla sua vera vita di giovane donna. Così si ripromise di mettere in atto il suo piano e, nel suo incubo, determinatamente, si sottrasse a tutto. Sempre più spesso e più facilmente abbandonava l'incubo e rientrava nella sua vita vera. -"Zia, sei certa di non volere bere proprio nulla? Come ti senti?"- La figura nel letto sembrava rifiutarsi di ascoltare, come se si stesse allontanando dal dolore, ritraendosi in se stessa. Maria, la donna che l'accudiva, era disperata:-"Non mangia e non beve nulla. "- Ripeteva. Entravano in silenzio, guardavano il volto nascosto da una mano ed uscivano di nuovo, sempre in silenzio. Il corpo, piccolo e contorto, non si muoveva più da giorni. Soltanto le mani della badante la voltavano, di tanto in tanto, per cambiarla, pulirla, controllare la respirazione. Più volte aveva temuto che fosse finita, ma un leggero vapore sullo specchio che poneva davanti alle labbra le faceva comprendere che la vita, se di vita si poteva parlare, resistesse. Ubbidiva al consiglio della nipote, per assicurarsi che non morisse senza sostegno di una parola, di una voce. I passi delle due donne in quelle ultime ore neanche si sentivano. Certo non le sentiva la vecchia signora. Poi Irma, con un ultimo sforzo, lasciò l'incubo per sempre e tornò alla vita. Per sempre.