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Raccolta di testi in prosa di Serenella Menichetti
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I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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La ricamatrice di parole

LA RICAMATRICE DI PAROLE
Era rimasta lì. Anche dopo che suo padre e sua madre erano mancati. Era rimasta in quel luogo singolare. Il suo luogo.
Ormai era quasi mezzo secolo che lo abitava.
Nonostante l'ingiunzione di sfratto. Tosca, continuava ad occupare la Torre.
Le avevano promesso un appartamento in centro. Sarebbe stata vicino ad altre persone. - Non le pesa la solitudine?- chiese l'impiegata, guardando l'orologio.
-La solitudine?-
Tosca, non rispose alla domanda. Non poteva certo dire che non era così sola. Perché i piccioni e il vento le facevano compagnia. Non avrebbero compreso.
Non rispose neppure, quando le fu detto che avrebbe dovuto lasciare la Torre, con le buone o con le cattive.
I piccioni non la lasciavano mai. Alcuni si appollaiavano sul tavolo vicino a lei. Altri svolazzavano nella stanza, fermandosi sulla cima della credenza per guardarla dall'alto con i loro occhietti e iniziare il loro concerto.
L'amico vento s'insinuava nelle piccole finestre, del piano alto. Irrompeva nella stanza, facendo vorticare tutto ciò che trovava.
Dal pavimento, la polvere in movimento circolare saliva in alto.
Quando vento e sole s'incontravano, le piccole particelle diventavano oro. Tosca seduta sulla soglia le guardava ballare.
Era al vento che affidava i suoi lavori appena terminati.
Esso li sollevava, per portarli all'altezza delle finestre, ed accompagnarli all'esterno.
Loro volteggiavano in aria, leggeri e lievi come farfalle, per ricadere sui davanzali delle finestre del paese. Si adagiavano sull'erba dei prati, sui rami degli alberi. Pagine di quaderno a righe ricamati da una grafia minuscola e fitta.
La penna di Tosca non conosceva soste, si muoveva sul foglio in movimento ritmico. La ragazza, aveva iniziato ad usarla da piccola. Quando la maggior parte delle bambine, imparava l'arte del ricamo, lei, rimaneva per giorni, nella stanza della Torre ad imbastire storie. Con grande arrabbiatura della mamma, che si
era calmata solamente dopo che il marito, le aveva detto:
Tosca, all'ago, ha preferito la penna, alla stoffa la carta. Vorrà dire che diventerà ricamatrice di parole.
I piccoli messaggi sospinti dal vento, volavano in cielo insieme agli uccelli. Per poi posarsi delicatamente a terra.
Alcune volte atterravano sulle mani delle persone.
Le favole si posavano tra le dita dei bambini, che le afferravano, per leggerle la sera, prima di dormire. Le poesie d'amore: sul palmo caldo degli innamorati, che le appoggiavano sul cuore.
Quelle di speranza, accarezzavano dolcemente, il dorso della mano, degli uomini disperati, che si rincuoravano un attimo.
Quel giorno, i piccioni, inspiegabilmente si zittirono. Il vento si calmò. Qualcuno bussò alla porta della Torre.
I colpi forti e continui, fecero rabbrividire Tosca.
Prese tutti i fogli dal tavolo. Poesie e molte molte favole. Salì le strette scale, fino a trovarsi sul terrazzino. Il vento le carezzò i capelli. Le tolse i lavori di mano, che sospinse nell'azzurro.
Solo dopo vide il suo corpo, volare con loro.

*

Intervista a Curzio Malaparte

Intervista a CURZIO MALAPARTE

 

C’incontrammo nella sua fantastica dimora a Capri su Punta Masullo.  Quando l’elicottero giunse in prossimità della villa rimasi paralizzata, mai avevo visto qualcosa di così perfetto e maestoso ed allo stesso tempo essenziale. Tra l’aspra roccia emergeva un parallelepipedo  color rosso pompeiano circondato dal verde degli alberi. Sotto, il mare brillante che vicino alle rocce cambiava gradazione. L’elicottero atterrò sulla terrazza della villa, il pilota mi fece scendere per poi ripartire immediatamente. Rimasi un po’ stupita per questa partenza improvvisa, ma sapevo benissimo che in questa avventura non c’era niente di razionale. Questo se all’inizio mi aveva procurato un po’ di ansia adesso mi affascinava. Percepii l’adrenalina scorrere nel mio corpo e darmi scariche elettriche sempre più potenti, il cuore mi batteva a mille. Inspirai ed espirai più volte, poi l’adrenalina iniziò a diradarsi e lasciar spazio a quella che mi parve un po’ di calma. Il profumo del mare e la bellezza mozzafiato del panorama contribuirono ad ampliare il senso di pace. Feci pochi passi, mi guardai intorno e di lì a breve, vidi venire verso di me un bellissimo cane chiaro. Che riconobbi  essere Febo, l’amato cane dello scrittore. Esso mi leccò le scarpe e poi si pose a me davanti, facendomi strada. Lo seguii. Mi ritrovai in un immenso salone sulle cui pareti si aprivano quattro finestroni, costruiti in modo da offrire in ognuno un panorama differente. Poi lo vidi: era seduto su un divano azzurro, pantaloni bianchi e camicia in lino color lavanda. Scorsi il suo sorriso divertito che dalla bocca era salito fin dentro i suoi occhi, che sprizzavano lampi di empatia. Tutto ciò contribuì a tranquillizzarmi. Con la mano ben curata fece cenno di sedermi sulla poltrona davanti a lui. Ci separava un tavolino di cristallo e legno di foggia lineare. Rimasi un attimo ad osservare l’uomo e quello che vidi mi piacque molto. Non che fosse bellissimo, ma il fascino che emanava lo rendeva tale.  Fu lui che mi incalzò perché iniziassi ad intervistarlo. –Prego inizi pure lo sa, il tempo che mi è stato concesso, non è molto- Tirai fuori dallo zaino il registratore e lo appoggiai sul tavolo. – No, questo non va bene, la prego di rimetterlo dentro. Questo marchingegno non serve a niente. Lo guardai con imbarazzo. Lui mi spiegò che la registrazione non sarebbe riuscita perché la sua voce non sarebbe rimasta impressa nel nastro. Tolsi il registratore mi munii di carta e penna.

Curzio mi osservava, i suoi occhi scuri sembrava volessero radiografare i miei pensieri. Sinceramente era la prima volta che mi ritrovavo a fare un’intervista e il suo acume lo aveva percepito. Infatti mi disse:- Si tranquillizzi, comprendo benissimo che lei non è una giornalista ma ciò che ha contato in questa nostra avventura è stato il suo immenso desiderio di conoscermi e dialogare con me. E’ la prima volta che capita, ed io devo dire di esserne compiaciuto e se devo essere sincero, questo mi fa pure comodo. Si domanderà come questo sia potuto accadere. Ebbene la cosa non è poi così arcana come si potrebbe supporre. No, non lo è. Si tratta solamente di un fenomeno energetico. L’energia che si è creata dal suo desiderio di conoscermi è stata  talmente potente, da perforare la barriera che intercorre tra i nostri mondi, ed arrivare dritta da me. Ero in compagnia di Elsa Morante e Moravia quando mi sono sentito avvolgere tutto da un flusso caldo e trasportare in questo luogo che amo con tutto me stesso. Sa io questa dimora l’ho battezzata “Casa come me.”La serie di domande che da tempo mi assillavano e che avrei voluto fare a Malaparte, adesso erano offuscate da una fitta nebbia, ed io mi ritrovavo a non sapere più dove cominciare. Presi la palla al balzo, e chiesi a Curzio il motivo per cui avesse chiamato la sua villa con quel nome. La risposta non si fece attendere –Intanto deve sapere che il merito del progetto di questa meraviglia è solo mio. “Casa come me” ha unicamente il mio marchio di fabbrica. “Il giorno che io mi sono messo a costruire una casa non credevo che avrei disegnato un ritratto di me stesso" Infatti villa Malaparte è eclettica e spigolosa proprio come io sono”  Avrà notato quanto l’essenzialità:  sia  negli arredi interni che in quelli esterni, rasenti quella tipicamente monastica, e questo proprio per il  profondo senso religioso che  mi pervade. Lo ascoltavo con molto interesse. Ma fui molto perplessa nel sentirlo parlare del suo vissuto, unicamente nella forma presente.  Non quale sia stato il motivo né  riuscii a chiederlo, certo è che questa curiosità mi è rimasta addosso ed ogni tanto mi punge come una zanzara dispettosa.  Passai così ad una domanda meno imbarazzante, coniugando pure io,  le domande al presente.

-Secondo lei signor Curzio qual è la sua principale qualità?- Subito dopo  che ebbi formulato questa domanda:  la felicità si mise a correre sul suo volto, una bambina appena uscita da scuola, in un prato. I lineamenti si distesero e gli occhi si riempirono di simpatia e gratitudine nei miei confronti. Cara signora sono più che certo che lei abbia letto i mie libri per cui  si sarà sicuramente resa conto del mio valore di scrittore. Della mia stupefacente capacità di inventare storie.  Di dare corpo a visioni, di creare ritratti memorabili. Della mia grande abilità di narratore nell’intrecciare documentazione, osservazione diretta, invenzione autobiografia, in una scrittura eterogenea che sembra anticipare tendenze ed orientamenti della lettura contemporanea. Un precursore ecco cosa sono io:un precursore. Le sembra poco?

Saprà pure che quest’anno un mio libro sia stato proposto vanamente al premio Strega.  Possibile che ancora molti non possiedano la capacità analitica di comprendere un’opera come la mia? Eppure Kundera lo ha capito. Cara signora, purtroppo c’è ancora tanta ignoranza e superficialità in giro, e non solo in letteratura, ma in tutti i campi. In queste ultime parole percepii incomprensione e rabbia che non potei fare a meno di condividere. Non è semplice scrivere il male. Se si vuole essere famosi e ammirati, conviene trattare il bene, i bei sentimenti, l’amore, la speranza. La violenza fa paura, la violenza offende pure chi la pratica. E’ stato detto che scrivo per far star male gli altri. Mentre quando scrivo queste verità scomode, in primis sono io che sto male. Mi creda è per me una grande sofferenza.

Mi rimaneva una sola domanda da fare, una sola, di più non era concesso. Guardai lo scrittore e mi feci coraggio: Signor Malaparte -Ha mai pensato che il lettore ,soprattutto per quanto riguarda il libro “La pelle” schifato da tante oscenità possa lasciare la lettura?   -Dipende cara signora, se il lettore è un grande ignorante, questo può pure capitare. Ma un lettore attento e senza pregiudizi lascia che le lettere si articolino in parole, concetti ed emozioni senza antivirus per dirla in termini mediali.  Ecco che a quel punto compresi che dall’altro mondo, non sfuggiva niente del nostro.  Lo lasciai terminare riservandomi di chiedere alla fine se il mio pensiero fosse vero.

 

-E poi avrà anche lei constatato quanto nel libro ci siano pagine di vera poesia, insieme a fatti allucinanti resi in modo splendido.

“Simile a un osso antico, scarnito e levigato dalla pioggia e dal vento, stava il Vesuvio solitario e nudo nell’immenso cielo senza nubi, a poco a poco illuminandosi di un roseo lume segreto, come se l’intimo fuoco del suo grembo trasparisse fuor della sua dura crosta di lava, pallida e lucente come avorio: finché la luna ruppe l’orlo del cratere come guscio d’uovo, e si levò estatica, meravigliosamente remota, nell’azzurro abisso della sera. Salivano dall’estremo orizzonte, quasi portate dal vento, le prime ombre della notte. E fosse per la magica trasparenza lunare, o per la fredda crudeltà di quell’astratto, spettrale paesaggio, una delicata e labile tristezza era nell’ora, quasi il sospetto di una morte felice.”

Alla parola felice, Curzio mi lasciò. Rimasi sola davanti ad una pagina colma per metà delle sue parole. Spensi il computer e stampai. Certa che ci saremmo ritrovati, forse in un altro luogo. Mi bastava aprire questa porta di carta bianca ed aspettare che le parole fluissero e si trasformassero in sogni

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Madri

MADRI

La mia mamma di pancia non l’ho mai vista disse Sang ad Elisa. La mia mamma di cuore è quella che abita con me. Elisa guardava l’amica senza capire e ripeteva a mo’ di cantilena girando intorno al tavolo
“ Di pancia/di cuore/di pancia, per terminare con “ La mia mamma è tutta tutta di ciccia”
La catena non si fermava mai, tremila polsini al giorno per Sai Sai e mille colletti il marito Liang. Catene invisibili che legavano l’anima .Non c’era tempo né per mangiare , né bere, tanto meno per pensare. Venti ore al giorno per guadagnare quel poco che serviva a sopravvivere. Alla nascita della bambina, Liang sarebbe voluto tornare al paese del sol levante. Ma trascorsi tre mesi, ancora, non se ne parlava. Sang era una bambina docile, cresceva senza problemi nonostante le esigue attenzioni dei genitori. Il rumore della macchina da cucire, era per lei ninna nanna, e trastullo.

Elena prese tra le braccia la piccola Sang, che si mise a giocare con i suoi capelli. Le porse il biberon colmo di latte e Sang staccò prontamente le dita grassocce dai fili morbidi e bruni di Elena per afferrarlo e portarlo alla bocca. Il latte tiepido scivolava nella sua gola, dandole una sensazione di appagamento. I suoi graziosi occhi scuri, incontrando quelli chiari di Elena, comunicavano fiducia e serenità.
Dopo il ruttino, Elena appoggiò Sang nella carrozzina.
Era fantastica quella bambina, buona e altrettanto intelligente.
A trentasei anni Elena, avvertiva la mancanza di un compagno e di un figlio.
Quel lavoro che le permetteva di stare a contatto con i piccoli, la soddisfaceva, ma avrebbe tanto voluto diventare madre.
Adesso era la tata di Sang, il suo compito era di accompagnarla in un percorso di crescita, fino al giorno che ahimè, si sarebbero salutate.
Era consapevole che per una separazione, che non lasciasse traumi, sarebbe stato opportuno, mantenere un atteggiamento distaccato.
,La professionalità di un’educatrice, dipende molto dal rapporto, che essa riesce ad instaurare con l’educando.
Ma questa volta, la situazione le sfuggiva di mano. Quella bambina possedeva un’aura magica, che la prendeva talmente, impedendole di rapportarsi a lei, con il distacco necessario, al proprio ruolo.
-Chissà, se questo sentimento che provo, abbia qualcosa in comune, con l’amore che una madre prova per il proprio figlio, si chiedeva spesso Elena.
Nei giorni festivi, tata Elena, accompagnava la piccola Sang in giro e pure a casa propria, dove sua madre, l’accoglieva come la più amata delle nipotine.
Naturalmente, tutto questo era previsto dal regolamento.
Spesso preparavano insieme delle torte, oppure si divertivano a dipingere. Sang accoglieva ogni nuova attività con grande entusiasmo.
La mattina Sang, frequentava il nido, con gli altri amici della casa famiglia. Si era legata molto ad una bambina di quattro anni: La sera si addormentavano vicine, mano nella mano.
I mesi passavano ed Elena si rendeva conto di aver maturato nei confronti di Sang, un attaccamento esagerato, che non riusciva ad arginare.
Spesso si trovava a pensare – Se potessi adottarla-
Subito dopo, cercava di estirpare dalla sua testa quell’insano pensiero, che invece, al trascorrere del tempo, si rinvigoriva sempre più, lasciandola delusa e spossata.
Nel mese di Maggio i bambini della casa famiglia, preparavano il solito lavorino per la mamma.
Per quell’idea di mamma, che certamente un giorno, si sarebbe materializzata ,in una persona, che avrebbe condotto ognuno di loro,in una vera casa, e costruire insieme al padre una famiglia.
Ogni bambino disegnò la mamma come la pensava, come la portava nel proprio cuore. Sang disegnò una figura molto grande, con abito celeste e capelli, lunghi e biondi. Piegò con cura il suo disegno e lo imbustò, per conservarlo e donarlo a lei quando l’avrebbe raggiunta.
Elena si complimentò con Sang per l’ottimo disegno. Provò una leggera fitta di rammarico, nel notare che la mamma, graficamente rappresentata da Sang, non la assomigliava affatto.
Quella bionda figura nel disegno, era nel sogno di Sang. Desiderio di un approdo in un porto sicuro.

Erano trascorsi ben quattro anni, da quando Luca e Chiara avevano fatto domanda di adozione, ma ancora non se ne veniva a capo.
Possibile che in giro, ci siano orfanatrofi affollati da una miriade di ragazzini, desiderosi di famiglia e famiglie desiderose di un figlio, che non riescono a connettersi.
Eppure basterebbe poco, un incontro e zac, le tessere del puzzle combacerebbero perfettamente , in un' unione semplice e perfetta.
Basterebbe la buona volontà di accostare le due parti della giacca, far entrare il bottone nella propria asola al fine di unirsi.
Una quisquiglia direbbe il grande Totò, solo una quisquiglia!
Chiara attendeva fiduciosa, sapeva che prima o poi, il suo sogno si sarebbe avverato.

Sang, scorse sul divanetto dell’ingresso della casa famiglia, quei due, in attesa.
Scena che si ripeteva spesso ed era sempre collegata al fatto, che qualcuno avrebbe lasciato la grande casa.
A chi sarebbe toccato, questa volta?
Erano due persone di una certa età, ambedue con i capelli scuri. Sang, notò che la signora si mangiava le unghie ed il signore non riusciva a stare con i piedi fermi.
Non pensò che sarebbe toccato a lei.
Infatti, quel giorno, Sara, l’amica del cuore, ebbe la notizia dell’arrivo dei suoi genitori.
Sang e Sara si salutarono.
Stranamente Sang, non soffrì, ma in lei calò una sensazione di speranza, che aveva il sapore di miele.
Questo dolce pensiero, la faceva sentire meno sola, ed anche se la sera, priva della mano di dell’amica, faticava ad addormentarsi, quando riusciva, una serie di appaganti sogni giungevano a popolare il suo sonno.
L'’aspettativa che faceva stare bene Sang. Mentre invece inquietava Elena.

Luca e Chiara, seduti sulle poltroncine nere, un po’ consunte, del tribunale dei minori, erano pronti ad affrontare per l’ennesima volta, la pesantezza di un colloquio stressante quanto necessario.
Avevano fatto richiesta per un’adozione internazionale.
-Ricorda Chiara disse Luca, stiamo estremamente attenti ad esprimerci, perché ci sono frasi che possono essere male interpretate-
Conoscendo l’ambiente, Chiara, era abbastanza preoccupata, pur ritenendo giusto che l’affidamento di un minore, sia cosa delicatissima.
L’Assistente sociale, iniziò l’interrogatorio. Aveva appena detto poche parole, quando il telefono squillò.

Nell’ingresso della casa famiglia, il divanetto, quella settimana rimase vuoto.
Nessuna partenza, nessuna festa.
Solo il mercoledì della settimana seguente, due persone sedevano in attesa.
Un uomo e una donna per mano.
Trepidanti si guardavano.

-Signori una bella notizia, c’è un’adozione proprio per voi ! - Disse l’assistente sociale, rivolgendosi alla coppia, dopo aver deposto la cornetta nel suo alloggio.
L’assistente continuava a parlare, ma Chiara e Luca non riuscivano a comprendere altro, se non la musica che emetteva quella piccola frase “ C’è un’adozione per voi”
Tutto nella stanza austera cominciò a perdere peso ed a volteggiare.
Farfalle colorate, dopo grandi voli, si posarono sui capelli e sul palmo delle mani di ognuno, una multicolore si posò sulla cornetta nera del telefono. Altre dopo un leggero volo, si appoggiarono sulle carte che affollavano la scrivania. Una sbarazzina, si sedette sulla lucida pelata dell’impiegato, che cominciò a grattarsi la testa.

Quei due, seduti sul divanetto colorato, con gli occhi dentro agli occhi, e le mani che si stringevano, attendevano.
Fino a che quattro occhi e quattro mani si incontrarono con nuovi occhi a forma di mandorla e con due mani grassocce e protese. Fu un abbraccio circolare.

Chiara, Luca e Sang,  si erano finalmente incontrati e riconosciuti.

 

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Tormentata scelta.

 

TORMENTATA SCELTA

Era già passata una buona mezz'ora da quando Federico seduto sulla sabbia, scrutava l'orizzonte. La forza del suo sguardo perforava la membrana che intercorre tra mare e cielo per andare oltre, fino a spingersi nei meandri dell'inconscio.
Chissà se nell'azzurrità sarebbe riuscito a trovarsi.
Intanto flash ad intermittenza gli giungevano in una sequenza di immagini, che avrebbe potuto sostituire tranquillamente la pubblicità della coppia del mulino bianco.
Affioravano alla superficie della sua coscienza, rimanendo a galla come fette di limone, in acqua tonica.

Lui e Chiara per mano.
Lui e Chiara sorridenti.
Lui e Chiara per sempre

Adesso che per Federico era giunto il momento di guardare il fondo del bicchiere, quelle immagini erano d’impaccio.
Avrebbe voluto capire da dove avesse origine il sapore amaro, che come lento veleno, lo stava uccidendo.
Per lui abituato ad analizzare, scoprire, combinare elementi, il fatto di non riuscire a individuare la sostanza che lo debilitava era di un'assurdità inaudita.
In un passato lontano: di pioggia, di foglie accartocciate, di ombrelli gocciolanti. In una Chiesa Romanica addobbata di edera e bianche gerbere, Chiara e Federico, avevano stabilito il contratto che veniva a suggellare la loro unione.
“Finché morte non vi separi” la minuscola frase, di incredibile potenza, pronunciata da Don Enrico, fu da lui percepita come il fastidioso suono di un’insistente scampanellata.
Ogni volta che incontrava il percorso del ricordo del matrimonio, il senso di soffocamento, ampiamente avvertito quel giorno, riaffiorava. All’epoca egli aveva attribuito quel tedioso disturbo, all’eccessiva quantità di edera, usata per l’addobbo della chiesa. La ricordava, dappertutto: attaccata, all'altare, arrotolata alle panche, sparsa sulle bianche tuniche dei chierichetti, e tra le mani giunte degli invitati. Provava infinita pietà, per le povere gerbere che tentavano di far capolino da tutto quel verde, senza successo. Se la sentiva addosso, percepiva il suo avvilupparsi al corpo, scatenando il lui, disagio e una specie di torpore.
E pensare che Chiara, adorava quel rampicante, tanto da farla piantare in grande quantità nel loro giardino. Quanto avrebbe voluto toglierla, per liberare le bellissime colonne di alabastro, che non riuscivano più a mostrare la loro vera essenza. Ma non si pronunciava, lasciava passivamente che un altro dei suoi desideri inespressi, si aggiungesse alla serie che colmava il pesante zaino, che doveva portarsi appresso.
Forse la storia dell’odio per la povera pianta, aveva lontane radici. Forse quando ancora piccolo, ascoltando sua madre canticchiare una nota canzone degli anni cinquanta “Son qui tra le tue braccia ancor-avvinta come l'edera-son qui respiro il tuo respiro-son l'edera legata al tuo cuor” fu colpito dalla frase che gli faceva immaginare i corpi dei propri genitori che si rotolavano avvinghiati, nel lettone.
Mentre, lui, da solo nel lettino, udiva sua madre piangere sommessamente, zittita dalla voce autoritaria del padre.
Ricorda che avrebbe voluto alzarsi, per correre in soccorso della genitrice. Invece rimaneva fermo nel letto senza muovere un muscolo, per non far sentire.
Si passò una mano sulla fronte, come per scacciare quei ricordi molesti.
Adesso, più che mai, il suo pensiero doveva focalizzarsi sul presente, ma la sua mente continuava a declinare sul passato. Principalmente sulla figura di mamma Clara. Una donna che si era dedicata interamente alla famiglia, tralasciando i propri interessi.
La ricordò, felice in veranda con i capelli ramati che le scendevano sulle spalle, la faccia arrossata e gli occhi di una lucentezza che non aveva mai visto. Davanti a lei una tela, appoggiata ad un cavalletto e la sua mano bianca e affusolata stringere tra le dita un pennello, intinto di colore.
Mostrandogli il grazioso bouquet di fiori che aveva appena dipinto. Poi lo prese in braccio e lo fece girare come mai aveva fatto, fu un attimo di felicità per entrambi.
Di lì a poco entrò suo padre. Dai suoi occhi,in un secondo si sprigionarono lampi che incenerirono, l'insolita, gioiosa atmosfera.
In silenzio come era arrivato, Federico uscì.
Oh, quel suo silenzio! Lo ricordava, come un rumore di vetri infranti, tanto che dovette voltarsi allarmato verso la vetrata della veranda, che immaginava in mille pezzi.
Quella rumorosa eco continuò, a soggiornare nel suo orecchio per molti e molti giorni, ancora.

-Da quel momento in poi, ho sempre visto mia madre con i capelli raccolti e lo sguardo spento- pensò guardando il mare. -Che ancora mi chiedo, se fosse veramente lei, la donna spensierata che dipingeva felice.
Non glielo chiesi mai.
Ma quello scampolo di felicità, mi rimase per sempre attaccato alla pelle, come una spilla preziosa.

Comunque, che la mia fosse una famiglia esemplare, non ci pioveva.
Ai tempi, non c'era persona che la pensasse diversamente.
- I De Ferraris ? due modelli genitoriali irreprensibili, assolutamente da imitare-strombazzava la maestra Bigongiali con la sua voce chioccia.
-Grandi portatori di valori -ribadiva Don Ugo.
-Certo un'eredità importante per la prole-concludeva il maresciallo Davini.
Quando poi in casa capitava gente nuova, si approdava sempre al momento del debutto:
Mamma Clara apriva il sipario dell'orgoglio e iniziava, con il medesimo copione:
Ormai la frase le rotolava dalla bocca con una facilità sorprendente, da fare invidia all'assistente vocale del mio computer.
-Mia figlia Francesca, si è laureata con cento dieci e lode alla Bocconi. Subito dopo è arrivato il matrimonio con il suo professore di Fisica. Nel giro di due anni, due figli meravigliosi.
Abitano in un lussuoso attico a Milano, zona Tortona ed hanno una villa a Limone.
Mio figlio Federico si è laureato in chimica, vincitore di concorso a cattedra, insegna all'università degli studi di Bergamo. Sposato con Chiara, sua amica da sempre e figlia di un noto primario.
Adesso hanno uno splendore di figlia, Ginevra: diciotto anni, studentessa eccellente.
A questo punto si introduceva lui: Mario De Ferraris- che fregandosi animatamente le mani concludeva il programma con- -Cara gente – E' tangibile che chi semina vento raccoglie tempesta!- Chi invece, bene semina, raccoglie sempre buoni frutti! E noi, non per vantarci, credetemi, ma è evidente quanto la nostra semina sia stata eccellente!

Ed io, io che padre sono stato per Ginevra?
Federico non sapeva darsi una risposta. O forse una l'aveva: Era stato senza dubbio, un padre assente. Impegni con l'Università e impegni con il secondo lavoro gli impedivano di dedicarsi maggiormente alla famiglia.
Certo a Chiara andava il plauso di aver sopperito anche al ruolo di padre nei confronti della piccola Ginevra e questo senza mai lamentarsi.
In verità nessuno si era mai lamentato delle sue assenze.
Era evidente che Chiara e Ginevra sembravano felici anche senza di lui.
-Certo che sono felici Federico- rispondeva Bruno,
per loro l’unica presenza importante è quella del tuo considerevole stipendio.

Federico si era quasi dimenticato dell'appuntamento con Bruno, suo socio da circa dieci anni.
Guardò l'orologio, erano le 18,30 di lì a poco, sarebbe sicuramente sopraggiunto.
E lui avrebbe dovuto fornirgli quella risposta, che da tempo gli doveva.
Questa volta Bruno gli aveva dato l'ultimatum:-Dopo cinque anni che ci incontriamo clandestinamente, adesso è arrivato il momento della scelta.
“Io o la tua famiglia!”
Se avesse scelto Bruno, gli amici e i parenti cosa avrebbero pensato?
E sua moglie?
E Ginevra?
Avrebbero capito, che lui per la prima volta nella sua vita, aveva incontrato l'amore?
Per Bruno, vissuto in una famiglia aperta, era tutto molto più semplice. Bruno aveva avuto dei genitori che gli avevano dato la possibilità di crescita personale.
Gli avevano regalato la libertà di guardare il mondo, senza bende.
Gli avevano permesso di sviluppare la propria individualità.
Forse era stato per questo che l'aveva subito ammirato, ed in seguito amato.
Con lui aveva ritrovato la sua dignità individuale. Adesso non si sentiva più la pedina da muovere a piacimento.
Adesso avrebbe fatto la sua scelta in autonomia.
Urgeva farlo, cercando di ferire meno persone possibili.
Federico questo se lo ripeteva spesso.
-Soprattutto non devi far del male a te stesso. Sarebbe importante che tu ti amassi, almeno un poco.- Consigliava invece Bruno.

In un batter d'occhio, davanti a lui, lontano, laggiù all'orizzonte, dove il sole in amplesso di luce si tuffa nel mare, distinse il volto di mamma Clara.
Quello vero, quello felice. Il volto che lei, aveva sempre dovuto nascondere da una maschera.
Allora accadde un piccolo miracolo, la sua ansia si sciolse, sparendo tra i flutti.
Federico, si sentì finalmente libero, capace di prendere in mano la propria individualità, per collocarla nel luogo, dove non sarebbe più stata violata.
Proprio per questo scelse di stare con Bruno.

Serenella Menichetti

 

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La Surarnite

Racconto sul fiume ARNO

LA SURARNITE
La "surarnite" termine coniato da mio padre, per denominare la voglia di scappare surarno” era la malattia che assaliva Sara e me, subito dopo pranzo: l'adrenalina saliva come la colonnina di mercurio di un termometro, sulla pelle di un febbricitante. Il sintomo consisteva in un pizzicorino che prendeva l'intero corpo. Uscivamo di casa promettendo di recarci da Anna per i compiti, invece, scalavamo l'argine scivolando dalla parte opposta. Ai lati di un viottolo sterrato: si estendevano campi coltivati a vite. In cima folti canneti, celavano fiume e panorama. Bastava oltrepassarli per ritrovarsi davanti, uno scenario incantevole. Proprio in quel punto, iniziava il nostro fantastico mondo. “Promettimi di non andare surarno” l'ammonimento di mamma: pur scivolandoci addosso come l'olio, risuonava nell'aria simile a nota stonata in un concerto. Da tempo, la mia amica Sara ed io, avevamo progettato di recarci quotidianamente sull'argine, per fare incetta di canne e foglie secche, atte alla costruzione di un rifugio segreto. Mano a mano che ci avvicinavamo all' Arno, la voce di mamma e il senso di colpa si allontanavano, per disperdersi nel flusso acquatico. Libere, mordevamo quegli attimi di sogno, come d'estate: la succosa e rossa polpa di cocomero.
Chissà per quale motivo dopo ben quarantacinque anni il ricordo di quell'episodio: serie “Surarnite story” si affaccia improvvisamente alla finestra della memoria. Forse sarà stato il profumo dell'erba appena tagliata, oppure il folto canneto incontrato nel recarmi alla biglietteria del lago, per l'acquisto dei biglietti per la Butterfly.
Seduta su una panchina di fronte al lago, lascio che il ricordo fluisca in tutto il suo percorso. La prima immagine è quella di due ragazzette
di undici anni, con una voglia pazza di avventura, che trascinano canne tagliate, giù in spiaggia, sopra i ciottoli di fiume.............Quando ne avemmo un discreto numero, le unimmo passando tra l'una e l'altra: una corda a mo' di tessitura. Dopo svariati tentativi sostenuti da grande determinazione, riuscimmo a mettere in verticale la parete, a cui demmo forma circolare. Sara con voce intrisa di orgoglio disse -Ecco pronto il nostro piccolo tucul-Io specificai -quasi tucul, non vedi che manca ancora il tetto?- O che ci vole, basta un po' di paglia! Te la fai sempre difficile, rispose la mia amica.
Presto ci rendemmo conto, che prima di montare il tetto, sarebbe occorso un lavoro di pareggiamento della base superiore: le canne di diversa altezza formavano dei merli irregolari. Ricordo che dopo varie discussioni sul come poter ovviare al problema decidemmo di prenderci una pausa di riflessione, da consumare sull'isolotto in mezzo all'Arno. Era la prima volta che ci accingevamo a farlo da sole.
Ci togliemmo le scarpe, tenendo con le mani l'orlo della gonna fin sopra i fianchi, per non inzaccherare il vestito. Ricordo ancora la scomoda sensazione, e il disappunto di non aver potuto indossare i pantaloncini.
La gita all'isolotto, per molte famiglie di Cascina, rappresentava una piacevole consuetudine estiva. Si partiva carichi di vivande: immancabile la mitica zuppa di cavolo, posta nella zuppiera, a sua volta imballata nella tovaglia, che mamma trasportava con cura. Mio padre, teneva invece, la cesta di vimini: contenente il beveraggio e un cocomero, appena tolto dal pozzo.
Il tum tum del cuore, al momento del guado, faceva a pugni, con l'espressione fiera e coraggiosa, da me, indossata, per celare la paura. Il pensiero che aveva scatenato quel sentimento, riguardava un tragico fatto, risalente a qualche mese prima. Sicuramente pure da Sara condiviso. Procedevo comunque imperterrita, lei, mi seguiva con cautela.
-Meglio morire da temeraria che vivere da codarda- Mi dissi.
Quel motto, entrò in circolo, irrorando tutto il mio corpo del coraggio di cui avevo bisogno. Avevamo quasi raggiunto la meta, quando fummo disturbate da alcune voci. Infastidite ci voltammo: Poco distante dalla nostra capanna, notammo una schiera di ragazzi che ci chiamava ad alta voce. Non era nostra intenzione raggiungerli, ma il timore che ci rovinassero la costruzione fu così forte che ci fece cambiare idea. In pochissimo tempo tornammo alla spiaggia.
Mio fratello ed i suoi amici, poco più grandi di noi, ci aspettavano. Mamma ti ha cercato ovunque riferì Lorenzo rivolto a me, sai che ore sono? Non avevo con me l'orologio, ma dalla esigua luce del sole, capii dovesse essere l'ora di cena.
Intanto i ragazzi si divertivano a dare calci alla nostra opera.
-Lasciate stare il tucul! urlò Sara infuriata. Quella frase scatenò nei ragazzi, un'esplosione di risate. Il “tu tu- cul” non te lo tocca nessuno, tranquilla, disse Carlo, con voce demente, ed espressione beffarda che odiai ferocemente. In seguito i calci alla nostra capanna si intensificarono talmente, da distruggerla. La rabbia e la voglia di vendetta ci giunsero sotto forma di nodo che si fermò in gola, in attesa di essere sciolto. Purtroppo il peggio non era ancora arrivato. A casa ad attenderci trovammo i nostri genitori arrabbiatissimi.
Ci accolse mio padre furibondo, che annunciò di avere per noi, una confezione di sciroppo di sculacciate. Secondo lui, unico farmaco efficace, soprattutto se mischiato al divieto di uscita per una settimana, a debellare la surarnite da cui eravamo irrimediabilmente affette.

Non andammo “surarno” né il giorno dopo né mai Anche perché a breve, le vacanze, ci condussero al mare, in differenti luoghi. Ci lasciammo con la promessa di costruire una nuova capanna. Ma l'anno successivo con l'entrata al grado superiore di scuola, il tempo per il divertimento si ridusse. Crescendo cambiarono anche i nostri interessi. E quel desiderio scivolò sullo scalino più basso, della scala, fino a evaporare in ricordo.
-Giulia sta per iniziare!- La voce dolce di Carlo mi raggiunge per comunicarmi che è giunto il momento, di prendere posto a teatro. Lo guardo e mi rendo conto di quanto lo scorrere del tempo, meriti il Guinnes dei primati di mago: per le inverosimili trasformazioni, che esso riesce ad operare.
Serenella Menichetti.

SURARNO per noi Pisani era come dire Sull'Arno.

*

Gli insaziabili

 

 

Gli insaziabili.

10 Giugno ore 10 Torre Del Lago Puccini Bagno Lido

Franco, giovane aiuto bagnino, del mitico Bagno Lido, come consuetudine annuale, fa l'appello all'altoparlante dei membri del gruppo “Gli insaziabili” a cui appartengono ragazzi e ragazze dai 18 ai 20 anni. Costituitosi da circa sette anni con lo scopo di fare insieme scorpacciate di divertimento e leggerezza, tutto nel rispetto di ognuno e di quello di tutti.

-Paolo, Gianna, Claudia, Francesco, Carlotta, Alessio-

Cinque le mani che si alzano.

Cinque presenti, uno assente, riferisce con la penna a mezz'aria e gli occhi fuori dall'orbita simulando l'espressione del Bibolotti, noto professore in pensione del liceo scientifico “Barsanti e Matteucci” di Viareggio, cliente decennale del bagno.

-Ma come?- interviene Paolo, quest'anno c'è un'assente?

-Così sembra, manca Gianna- riferisce Franco.

-Ragà, ricordiamoci che sono sette anni che ci ritroviamo e tutti sappiamo come il settimo anno, sia portatore di crisi. Accade anche nei matrimoni più coriacei.- recita Francesco.

Gianna, Gianna, Gianna, sosteneva, tesi e illusioni”
“Dove vai, con chi ce l'hai? Vieni qua, ma che fai? “
canticchia Paolo.

-Ok, verissimo, sappiamo tutti però quanto Gianna ami ronfare-risponde Alessio.

-Ragà può succedere, aspettiamo fino alle undici, poi tuffiamoci anche senza di lei- propone Carlo.

-Non sono d'accordo- Il primo bagno insieme è uno dei punti fondamentali del nostro regolamento, sarebbe di cattivo auspicio trasgredire.-Ribatte Carlotta.

Non ci rimane che attendere, Gianna avrà sicuramente avuto un contrattempo-conclude Claudia.

-Possiamo farle uno squillo al cellulare?- Chiede Alessio.

-Alessio ma dico, ti senti bene? Ti rendi conto di ciò che dici? Hai già preso un colpo di sole?-controbatte Claudia, recitando a sua volta

il primo comma del regolamento, approvato e sottoscritto da tutti:

Il 10 Giugno di ogni anno, ogni membro, del gruppo “gli insaziabili dovrà ritrovarsi alla stessa ora, sulla stessa spiaggia, allo stesso mare, ovvero al mitico Bagno Lido, senza che alcuno debba essere invitato e/o sollecitato, pena l'esclusione”

-Basta, adesso non ne facciamo una questione di stato, attendiamo. Punto.- Ribatte Carlotta.

 

Gianna, disfa la valigia, quest'anno l'emozione è grande.

Immagina che il gruppo si sia già incontrato, questo non sembra metterle fretta.

Le sue dita indugiano sui tessuti degli abiti nuovi: semplicissimi, di gran classe ad ogni abito ha abbinato borsa e scarpe.

Resta ferma, davanti a quei completi, in religiosa ammirazione.

Fino a che la musica del cellulare la riporta alla realtà. Pronto?

-Gianna ti aspettiamo-La voce impacciata di Alessio la reclama.-

-Scusa Alessio, sono in ritardo a causa di un incidente sulla FI PI LI-si giustifica. Ho ancora da fare, ci vediamo nel pomeriggio.-

Ok, cerca di arrivare almeno alle 16, facciamo il bagno e ci prendiamo un gelato alla baracchina. Ti aspetto-

Gianna spegne il cellulare, ha bisogno di stare un po' sola.

Quel “ti aspetto” sussurrato da Alessio, le ricorda il loro scampolo di storia, dell'anno passato.

Una cavolata durata solo quindici giorni estivi, per lei dimenticata e sepolta.

Sono le 12 e Gianna ha ancora molto tempo per sistemare le sue cose:

Dare aria alla casa, collegare il computer, cambiare la biancheria del letto. Riporre nell'armadio gli abiti.

Un mini appartamento composto da due piccole stanze con balcone, acquistate dai suoi genitori con i risparmi di una vita.

Gianna non riesce a staccare gli occhi dagli abiti, in bella mostra sul letto. Ci si vede dentro, come una donna sicura di sé, elegante, capace di osare.

Pensa a sua madre che ancora oggi, per risparmiare, rovescia i colletti consumati delle camicie del padre.

Ed a lei, confeziona semplici modelli con scampoli acquistati al mercato, per poi guardarla con adorazione.

Se sapesse quanto la figlia odi quegli stracci fatti a mano.

E quanto la infastidisca il suo sguardo mesto, che sembra elemosinare almeno un cenno di riconoscenza.

Basterebbe una briciola di considerazione, un grazie appena accennato, per farla felice. Gianna lo sa, ma non ci riesce e tace.

Possibile che sua madre, non comprenda che quegli abiti, per Gianna rappresentino l'emblema di un marchio di cattivo gusto.

Conviene tacere piuttosto che riversare sulla donna, quella rabbia che la spossa.

Una scorta di sacchi di plastica e addio schifezze e senso di colpa.

Una valigia meno piena.

Per lei pochi i modelli, ma tutti di alta sartoria.

La qualità rispetto alla quantità, adesso questo sarà il suo nuovo motto.

La partenza per il mare ed un mondo nuovo davanti: nuovi incontri, nuovi luoghi, nuove esperienze.

 

In fondo occorre solo mettersi davanti al computer, accendere la web cam e lentamente a tempo di musica, togliere gli indumenti.

Piano, piano, con grazia.

Usare il suo bel corpo, come una danzatrice.

Una piccola gheisha.

Quando Maria le propose quel lavoro rimase un po' perplessa.

Poi gettò via tutta la sua reticenza ed iniziò.

Un'arte diceva Maria, questa è una vera arte.

Rimase stupita di non provare né emozione, né vergogna.

-Spogliati e non pensare- le suggeriva Maria.

Ascolta la musica e danza.

Era piacevole lasciarsi andare.

Mentre toglieva gli indumenti, le scorrevano davanti, le immagini dei luoghi della sua infanzia:

campi di grano e papaveri rossi.

Colline verdi con ordinati vigneti.

File di ulivi, sotto cieli pervinca.

Gli indumenti volavano, posandosi ora su spighe gialle, ora su rami di ulivo, ora sui prati verdissimi.

Fino a che rimaneva, il suo giovane acerbo corpo a danzare.

La sua grazia aveva raddoppiato le richieste.

Un lavoro ben retribuito che le veniva pagato da Maria, che sicuramente ci lucrava, ma a lei permetteva di pagare le tasse universitarie e sopratutto gli dava l'opportunità di togliersi qualche capriccio.

Le bastava stringere nel pugno quelle banconote, per sentirsi invincibile e onnipotente, capace di toccare il cielo.

Tastò ancora la morbidezza della stoffa dei vestiti, se la portò alla guancia, quindi li infilò nelle grucce che appese all'asta dell'armadio.

Indossò il bikini, pantaloncini e maglietta e un paio di infradito.

Il campanello della porta si mise a suonare insistentemente.

Chi poteva essere? I suoi sarebbero arrivati a Luglio.

Gianna si affacciò al piccolo terrazzo, e scorse Maria con il marito.

Probabilmente era passata a salutarla ed a portarle il denaro che le doveva.

I ragazzi seduti al bar ascoltavano il tormentone dell'estate.

L'attesa di Gianna che si protaeva, aveva incrinato l'antica atmosfera e

la fastidiosa afa, contribuiva a rendere il gruppo, più nervoso e meno attivo.

-Ragazzi qui si dorme, se non ci si dà una scrollata si cade in trance- annuncia Claudia.

-Basta, mi sono rotto!-sbuffa Alessio

Io mi tuffo!

-No, Alessio, il bagno ancora no!

Magari avvantaggiamoci iniziando dalle confessioni invernali.

Ragazzi chi comincia? Mi sembra giusto rispettare l'ordine alfabetico quindi, forza Alessio- ordina Claudia che conduce il capitolo “Confessioni”

Allora Alessio quanti filarini hai avuto questo inverno?

Alessio si fa rosso scarlatto e comincia-emh, emh, diciamo: quasi uno. Cioè, ci sono uscito una volta.-

-Dai racconta-

-Ho poco da raccontare.

Ho incontrato Camilla alla festa di mio cugino Mario.

Abbiamo fatto il gioco dell'abbina coppia ed il mio nome è uscito insieme al suo e siccome il gioco consisteva nel dover uscire insieme il venerdì successivo, l'abbiamo fatto. Punto.-

-Cosa è che avete fatto?-

-Siamo usciti!-

-E che altro?-

-Niente-conclude Alessio un po' infastidito.

-Ok, allora anche quest'anno niente di fatto.

Arriverà quel giorno Alessio, non disperare.

No, Alessio non disperava affatto. Custodiva dentro il cuore il suo segreto d'amore, non era ancora giunto il momento di svelarlo. Quest'anno ce l'avrebbe messa tutta per riattivarlo e poi sarebbe arrivato il momento di prendersi la rivincita.

Suvvia adesso ci rifaremo, ragazzi è la volta di Carlotta

Parla, Carlottina, almeno tu donaci quel pizzico di peperoncino che manca!

-Io ho avuto ben due storie piccantisime miei cari.

Ma i particolari li vorrei tenere per me.-

-E, no! Continua, così non vale, i patti sono altri!-

Carlotta che non aspetta che questo, si mette a raccontare i tratti più salienti.

Aggettivi e particolari allo zenzero, scorrono velocemente.

Sembra di assistere ad un film porno.

Verità o Fantasia?

Poco importa ciò che conta è assaporare il divertimento.

-Basta mi vado a bere un succo di mirtillo, sbuffa Alessio-

Le confessioni si susseguono, sempre più forti e stuzzicanti. Le risate ed i gridolini riescono a ricucire e riscaldare l'atmosfera.

Adesso il tempo scorre su binari più fluidi.

Riusciranno i nostri eroi a mantenere la loro vernice brillante e vacanzierà? Sicuramente si, le premesse cominciano ad prospettarsi più rosee.

Intanto Gianna, non è ancora arrivata.

E Alessio si è defilato.

Si dice di Alessio:-Sarà sicuramente andato a farsi un'overdose di mirtillo-

Tutti conoscono la mirtillo-dipendenza di Alessio.

Ci sono giorni i cui invece di pranzare, si scola tranquillamente una dozzina di succhi.

L'aiuto bagnino chiude gli ombrelloni e accantona le sedie a sdraio.

La spiaggia pulita e rastrellata sta in attesa di sorprese notturne.

Domani sarà un altro giorno, ed il divertimento per gli insaziabili assumerà certamente la piega giusta.

 

Ore sei e trenta, il sole è ancora basso, la spiaggia ancora vuota.

La brezza marina reca buon odore di salmastro.

Il paesaggio mediterraneo e l'enorme distesa di sabbia infondono un senso di libertà, che travalica il limite di un vissuto pieno di ostacoli.

Claudio si gusta tutto questo.

Spiaggia, mare, cielo e un buon libro. A pranzo spaghetti allo scoglio, accompagnati da un buon frizzantino, al ristorante dell'oasi.

Nel pomeriggio:ancora sole, ancora mare.

Sono diversi anni che Claudio, dopo i giorni lavorativi trascorsi in fabbrica, passa i suoi fine settimana in quel luogo, completamente privo di rimpianti per altre mete. Il suo cruccio è però quello, di trovare, troppo spesso sulla spiaggia cartacce e rifiuti.

Non riesce a comprendere come possa la gente non rispettare un luogo così ameno.

Anche stamani è giunto in spiaggia fornito di busta e guanti, per fare un po' di pulizia, un bel gesto, che compie soprattutto per sé stesso.

Poi si guarda intorno soddisfatto per l'ordine ripristinato.

Un paio di piedi diafani, che spuntano da dietro una duna gli fanno comprendere di non essere solo.

Sicuramente una ragazza che ha passato la notte in spiaggia, pensa, mentre si siede ed apre il suo libro.

Ma quei piedi immobili gli entrano nelle pagine, saltando da una all'altra, come un segnalibro insistente.

Non gli rimane che alzarsi e verificare a chi appartengano.

Il corpo bianchissimo di una giovane donna, giace sulla sabbia.

Riccioli fitti e chiari incorniciano un volto dai lineamenti delicati.

Sul collo si notano delle striature viola.

Non importa essere laureati in medicina per rendersi conto che trattasi di corpo senza vita.

Claudio, armeggia coi tasti del cellulare, fino a che riesce a contattare il 113. Subito dopo, avvisa pure il 118 , sapendo quanto ahimè quella seconda telefonata, possa essere completamente inutile.

Il commissario capo Mariani ed il suo vice Trillo giungono sul posto accompagnati da un'altra volante con due militari in divisa.

Viene rilevato che la giovane è priva di documenti e cellulare.

Per cui al momento l'identità rimane sconosciuta.

I molti villeggianti che via via cercano di raggiungere la spiaggia, vengono, rimandati indietro dai militari.

Dopo una mezz'oretta giunge il medico legale, che autorizza la rimozione del corpo.

La notizia della brutta vicenda , nonostante i giornali non ne parlino ancora, si spande nel paese a macchia d'olio.

Anche al bagno Lido se ne parla.

Gli “insaziabili” eccitati, azzardano mille ipotesi.

A chi apparterrà il corpo?

E chi potrà essere l'assassino?

Carlotta è sicura che sia una ragazza uccisa da un innamorato respinto.

Altri pensano sia una giovane donna dell'est giunta a Torre per fare la vita, soppressa poi, da un cliente insoddisfatto.

La convinzione di Claudia è che sotto ci sia una storia di omosessualità.

Alessio, dice solo che è una brutta storia.

-Niente bagno neppure stamani?-

-Sapete ragazzi che facciamo, se Gianna non arriva entro le una, ci tuffiamo- decide Paolo per tutti.

 

Alle 10, 15 minuto più minuto meno, tale Mario Nuti, si presenta all'ufficio di polizia con una carta d'identità intestata a Gianna Catelani nata a Laiatico il 25/10/1997. -L'ho trovata in pineta, dice ai carabinieri.

L'uomo viene interrogato e poi rimandato a casa.

Dalla foto risulta evidente che quel documento appartiene alla sfortunata ragazza.

 

Di li a poco, Franco l'aiuto bagnino, comunica ai ragazzi che purtroppo il corpo è quello della loro amica, Gianna.

I ragazzi ammutoliscono.

La sconvolgente notizia, ha le sembianze di una ruspa che scava nei loro esseri, estirpando, tutto il loro entusiasmo.

-Non è possibile- dice Carlotta con gli occhi pieni di lacrime.

Chi può aver fatto una cosa del genere?

E cosa ci faceva Gianna su quel tratto di spiaggia?-

Gli interrogativi sono molti.

 

Nel pomeriggio vengono avvertiti i genitori di Gianna, che si recano all'istituto di medicina legale a Pisa.

Lo sconcerto supera quasi il dolore:- La loro figlia uccisa, non può essere vero!

Sono sconvolti e impreparati.

Nel pomeriggio iniziano altri interrogatori.

Il commissario Mariani chiede ai poveri genitori, di parlargli del tipo di vita di Gianna: studi, frequentazioni, sogni.

-Una ragazza semplice, studiosa, al primo anno di lettere all'Università di Pisa. Buona figlia, anche se un po' chiusa, racconta la madre come in trance.- Il padre annuisce, ma non riesce a parlare.

E' arrivata a Torre Del Lago ieri mattina, mi ha chiamata al cellulare avvertendomi che era tutto a posto.

Sapevo che si sarebbe incontrata in mattinata con gli amici del bagno Lido, bravi ragazzi. Si conoscono e si frequentano da quasi dieci anni.

-Era in compagnia di qualcuno, quando è arrivata?- domanda Mariani.

-No, è venuta da sola, ormai è grande. Noi saremmo venuti a Luglio.-

-Ma aveva un ragazzo?-

-Non credo- risponde la madre.

Il padre che era stato in silenzio fino ad allora, riferisce che ieri ha telefonato al fisso di casa loro, un'amica di Gianna: Certa Maria Cadeo, chiedendo l'indirizzo della casa di Torre Del Lago, perchè aveva bisogno urgente di comunicare con lei. Ci aveva provato chiamandola al cellulare, ma questo non risultava raggiungibile.

-Lei le ha fornito l'indirizzo? -Chiede Mariani.

-Si, risponde il babbo, anche perchè la signorina telefonava spesso. Conosceva molto bene Gianna, credo collaborassero a impartire lezioni di Latino e greco ai ragazzini.

Penso che abitasse a Pontedera.-

-Trillo scrivi: signorina Maria Cadeo di Pontedera.-

Il secondo interrogato fu Claudio Marrucci, di Arena Metato.

L'uomo raccontò per l'ennesima volta, il modo in cui aveva ritrovato il cadavere, ritenendolo importante fece vedere a Mariani, gli oggetti raccolti nelle vicinanze del povero corpo.

-Trillo prendi nota-

1)Otto fazzolettini sporchi.

2)Tre lattine di birra

3)Cinque bottiglie di plastica

4)Tre bottigliette di vetro, sporche di liquido rosso, tendente al blu.

Al sacchetto che venne riposto in un ripiano in basso della scrivania di ebano, non venne data molta importanza.

Nella caserma faceva un caldo boia, la divisa scura, certo non aiutava.

Mariani e Trillo sudavano come capre tibetane.

Ogni volta che il testimone rispondeva, Mariani si asciugava la faccia lucida, con un grosso fazzoletto giallognolo.

Il povero Trillo, che non poteva togliere le dita dalla tastiera, aveva la faccia completamente imperlata di sudore, le gocce scivolavano dalla fronte, fino a rifugiarsi nel cespuglio rossiccio dei baffi.

Nell'ingresso, in attesa di testimoniare, stavano gli amici di Gianna.

Che furono chiamati uno per volta, ognuno di loro rispose che non vedeva Gianna da un anno. E raccontò di quanto tutto il gruppo l'avesse attesa invano, la mattina del 10 e pure quella mattina.

Dopo poche domande, i ragazzi, furono liquidati.

-Sono sicura che questi due elementi, non riusciranno mai a trovare l'assassino, ma l'avete guardati? Mariani starebbe bene a zappà le prode. E Trillo? Sembra uno che si sia appena fatto du pere. Sbotta Carlotta reagendo all'alta tensione della giornata.

La mattina seguente il commissario Mariani si alza di buon ora e non per andare a fare il contadino, ma per raggiungere il condominio di Gianna, con l'intenzione di interrogare il vicinato.

Mariani suona tutti i campanelli, ma di vicinato ne trovò davvero poco.

Molti degli appartamenti, erano chiusi.

Solo la signora Liliana Ceccardi giunta da pochi giorni, occupava uno degli appartamenti.

-Lei conosceva la signorina Gianna?- Fu la prima domanda.

-Di certo che la conoscevo, l'ho vista bambina, rispose Liliana tirando su con il naso-

-Ieri l'ha vista arrivare?-

-A dire la verità un l'ho vista, ma nella mattinata l'ho sentita discutere-

-E con chi discuteva?-

Liliana si guardò intorno, poi con aria furtiva ed a voce bassa rispose- Un signore di mezza età, molto elegante ed una signorina un po' in carne con i capelli rossi corti, sono saliti da Gianna.

Li ho sentiti parlare con toni molto accesi, ma nonostante prestassi orecchio, non sono riuscita a capire cosa dicessero-

Dopo una mezz'oretta i signori sono scesi, non con l'ascensore, ma a piedi.

Il signore si rivolgeva alla donna chiamandola Maria-

Mariani rimasto in silenzio, ad ascoltare la signora, si alza e tende la mano.

Aspetti commissario, non ho ancora finito, dice Liliana tirando la manica a Mariani, che sta per uscire.

Deve sapere che dopo, i signori e son ritornati.

Lei aveva in mano una busta della Coop.

Sono saliti a piedi, un hanno nemmen sonato, la Gianna li deve avè dato le chiavi.

Ho pensato avessero comprato qualcosa da mangiare, forse per cena perché erano le diciassette.

 

Allora Trillo sei riuscito a fare ricerche sulla signorina Maria Cadeo di Pontedera?

Chiede Mariani al vice, appena in Ufficio.

-Si, commissario.-

Maria Cadeo, nata Milano il 16 Marzo 1970 e trasferitasi a Pontedera nel 2004 è la proprietaria del Centro Estetico Girasole in via del Duomo 13.

Ed ho pure scoperto che è stata fermata diverse volte per induzione alla prostituzione.

Il marito è tale Pasquale Boero di Genova.

-E bravo Trillo! Lo sai adesso cosa devi fare?-

-Cosa?-

-Li devi convocare urgentemente in caserma, sento che siamo vicini alla risoluzione del caso-

Nel pomeriggio Maria Cadeo e Pasquale Boero sono in caserma, di fronte ad un Mariani, pimpante e sicuro di sé.

Dopo aver fatto le domande di prammatica, Mariani passa all'attacco.

-Forza chi è stato a strangolare la povera ragazza? Presuppongo suo marito, signora Maria.-

Dove è avvenuto il delitto? A casa di Gianna o sulla spiaggia?

I due guardano sconvolti il Commissario che li incalza.

Gianna si era rifiutata di fare la prostituta?

I due dopo aver detto disperatamente di non essere loro i colpevoli tacciono.

L'interrogatorio dura diverse ore, alle 24 i due non hanno ancora confessato. Per loro viene disposto lo stato di fermo.Mariani

 

La mattina alle sette l'interrogatorio ricomincia.

-Vi conviene confessare, sicuramente siete stati voi, prima confessate meglio è per voi.- Consiglia il commissario.

I signori Boero, si rifiutano di rispondere, se non in presenza del loro avvocato.

Mariani stanco e visibilmente arrabbiato, suda abbondantemente, il fazzoletto giallognolo è zuppo.

Non demorde.

-Prima o poi dovranno confessare, le prove sono tutte contro di loro-

Trillo, annuisce ed attende, convinto pure lui, che i due siano vicini a confessare.

Il grosso telefono nero, sulla scrivania di Mariani, squilla sobbalzando.

Trillo alza la cornetta- Pronto, una voce rauca a tratti disperata, chiede di voler parlare con il commissario. -Riferisco- dice Trillo-

-Mariani è per te-

-Trillo, digli che chiami dopo, adesso non è il momento-

La persona al telefono insiste, singhiozza.

Mariani prende la cornetta-Pronto chi parla-

Dopo aver fornito le proprie generalità, l'uomo sussurra devo confessare l'omicidio di Gianna.

-Ecco ci voleva anche il mitomane di turno, pensa il commissario sull'orlo di una crisi di nervi. -Dica-

Non vedendola arrivare l'ho chiamata, ci siamo incontrati alle 20 alla spiaggia libera, volevo dirle quanto l'amavo, quanto l'avevo attesa.Mi ha deriso, ha detto che sono un cretino a credere che lei potesse pensare a uno sfigato come me. E quella risata terribile che non terminava più. Le ho solo stretto al collo il suo foulard, continuava a ridere fino a che non l'ho sentita diventare inerte.

Adesso basta, tutti i particolari li troverete in una lettera.

Uno sparo e un grido strozzato interroppe la telefonata.

Trillo accompagna i signori Boero in cella e prepara l'auto, andiamo con una pattuglia al numero 43 di via delle Ortensie.

La porta della villetta è chiusa, i militari forzano la serratura ed entrano.

Sul pavimento verde del piccolo ingresso il corpo di un giovane ragazzo, giace a terra in una chiazza di sangue.

Mariani ne constata il decesso.

Sul tavolino, la cornetta penzola quasi a toccare terra, accanto al telefono tre bottigliette vuote, con visibili tracce di liquido rosso tendente al blu.

Mariani dopo aver messo i guanti, si porta una delle bottigliette al naso per fiutarne il residuo del liquido.

-Succo di mirtillo- Esclama soddisfatto.

 

Serenella Menichetti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*

Odio Amore

ODIO AMORE

"Rosso scarlatto?"
Lucia guardò l'uomo con aria interrogativa.
"Rosso scarlatto?" ripetè lui toccandosi la chioma.
-Si riferisce ali miei capelli?- No, sono rosso tiziano.
L'uomo fece cenno se poteva sedersi accanto a lei, poi senza attendere risposta scostò la sedia laccata di verde e si accomodò.
-Sono proprio rossi- disse osservandoli da vicino.-
-Rosso è il colore della passione! Aggiunse.
La ragazza scostando un ricciolo ribelle, diventò monocolore.
E sono pure naturali, continuò, l'uomo.
-Si, un retaggio di famiglia, molto antico. I miei lo avevano addirittura dimenticato.-
Lucia non sapendo cosa altro dire, si ritrovò a guardarsi le mani, bianchissime.
La classica rossa, dalla carnagione diafana, disse ancora l'uomo.
Lucia era sempre più in imbarazzo, quegli occhi che la osservavano, sembrava volessero farle una radiografia.
Situazione insolita, pensò.
-Ma chi è questo che mi fa innumerevoli domande? - Un perfetto sconosciuto nient'altro.-
Uno sconosciuto niente male, aggiunse poi, tra sé e sé.
-Edoardo Gemmi- trentasette anni, si presentò lui, come avesse intuito il pensiero di Lucia.
"Lucia Innocenti" trentatre anni rispose lei con voce sommessa.
Sembravano due tennisti che si lanciavano a suon di racchetta le proprie generalità.
-Avvocato- lanciò al volo Edoardo.
Violinista ribattè Lucia, sorridendo.
Edoardo ordinò una birra e un succo di frutta, senza chiedere a Lucia se avrebbe gradito.
Lucia: bevve il succo tutto d'un fiato senza dire niente, anche se sinceramente avrebbe preferito la birra.

Jacopo avvinghiò le esili braccia al collo di Lucia . -Non mi lasciare mamma- Non andare via, portami con te.
Lucia, faticò ad aprire la portiera della panda, si sentiva spossata le orecchie otturate dalle le urla del piccolo, e nella mente il minuscolo viso ricoperto di lacrime.
Andava a passo d'uomo, incurante dei clacson che la esortavano ad accellerare.
Ogni volta che tornava a casa, dalla scuola dell'infanzia, lasciando Jacopo in lacrime, si sentiva cattiva ed ingiusta.
Fosse stato per lei avrebbe fatto a meno di accompagnarlo a scuola. L'avrebbe tenuto a casa, per coccolarlo e giocare con lui.
Edoardo al contrario era convinto che Jacopo doveva assolutamente frequentare giornalmente la scuola, altrimenti sarebbe rimasto una donnicciola senza carattere.
Il rapporto di dipendenza che si era creato fra madre e figlio, lo innervosiva rendendolo antipatico e insopportabile agli occhi di Lucia.
Possibile che suo marito non riuscisse a capire quanto Jacopo fosse fragile e quanto avesse bisogno di dolcezza. Non era poi così grave, ogni tanto, fargli saltare le lezioni.
-Se vuoi che tuo figlio cresca forte, servono regole cara Lucia.-
-Non puoi sempre correre ad alzarlo ogni volta che cade, o si fa del male, Jacopo deve imparare a sopportare anche il dolore.-
E deve essere in grado di saper rinunciare a certe, cose.
La scuola è la sua salvezza, invece in questa casa quando ci sei tu: per Jacopo NIENTE REGOLE a lui tutto è dovuto.
La comunicazione in casa Gemmi da quando era nato Jacopo era all'insegna della critica e del litigio.
Lucia si sforzava di assecondare il compagno, spesso gli mostrava gli elaborati che il bimbo creava.
Erano piccoli disegni dai colori tenui, delicati come lui.
Lucia li trovava deliziosi.
Il giudizio di Edoardo era completamente diverso: tanto che non poteva trattenersi dal deridere il bambino.
-Questi sono disegni che può fare solo una femminuccia.-

La birra a Lucia venne offerta in seguito, quando si conobbero meglio e lui capì i suoi gusti.
Allora Edoardo la sommergeva di regali.
Spesso le donava cinque splendide rose del colore dei suoi capelli, dicendo- Quanto quei fiori fossero niente di fronte alla rosa più bella e rara, che lui aveva avuto la fortuna di incontrare.
Quelli per Lucia erano momenti bellissimi, quanto lo amava, pensava passandogli una mano sui suoi capelli scurissimi.
A volte s'incantava a osservare il suo profilo da statua greca, il naso sembrava scolpito nel marmo, tanto era perfetto.
Un giorno Edoardo la accompagnò nella boutique più rinomata della città, dove indossò una serie di abiti meravigliosi, lei si era innamorata di un completo pantalone di lino carta zucchero. Lui si dimostrò molto generoso, offrendole tre completi molto costosi. Lasciando, però, il suo preferito in negozio. Troppo banale fu il suo commento.
Il giorno dopo la consigliò di indossare l'abito di raso verde e la accompagnò da sua madre.
Appena Lucia entrò nel salone dove era attesa, il gelido sguardo di donna Maddalena le arrivò sul collo come una scrosciata di acqua fredda.
Lucia rabbrividì, mentre Maddalena si precipitò ad indossare sulle labbra serrate, uno dei suoi sorrisi di circostanza, che comunque non riuscì minimamente a stiepidire la freddezza glaciale di quegli occhi grigi.
I quali si accendevano solamente incontrando la figura del figlio, per ritornare freddi appena si posavano sulla sua.
Si sposarono in autunno, in una Villa ottocentesca.
La regia del matrimonio fu curata sin nei minimi particolari da donna Maddalena con qualche tocco di Edoardo.
Mentre qualsiasi titubante proposta di Lucia, venne respinta.
Erano bocciature piene di motivazioni, spiegate con gentilezza e che Lucia accoglieva, ogni volta, senza battere ciglio.
Donna Maddalena d'altra parte era persona raffinata e conosceva ogni regola del bon ton, come non darle retta?
Poi c'era Edoardo, ed a lei bastava guardarlo per accettare tutto.
Si era innamorata di lui appena l'aveva visto.
Ribaltando convinzione, che l'amore a prima vista non potesse esistere.
Ogni volta che lo guardava, provava una dolcezza infinita.
Non perchè fosse esageratamente bello, ma perchè emanava un fascino che la colpiva in un punto misterioso dello stomaco che le scatenava quelle famose farfalle.
E questo era certamente amore, quello con la A maiuscola, di cui qualche sua amica le aveva parlato, e al quale non aveva mai creduto.
-Amore da fotoromanzo cara Anna- nient'altro rispondeva Lucia, ogni qualvolta qualcuno enfatizzava questo sentimento.
Certo, adesso le cose erano veramente cambiate. I litigi ricorrenti avevano turbato quel sentimento.
Odio, ecco cosa provava adesso Lucia per Edoardo, un odio esasperato.
Come può una persona che prima si era rivelata tenera e piena di piena di attenzione, cambiare così?
Arrivare a detestare tutto ciò che lei faceva?
Mi detesta, e non solo come mamma. Anche come donna.
Troppe volte le aveva detto che non valeva niente.
Una donna senza gusto.
Una donna che non sa cucinare.
Una mamma che non sa educare.
Era dura accettare tutto ciò.
Ma doveva assolutamente scrollare dalla sua persona tutti quei rimproveri. Se li sentiva addosso come fossero scarafaggi che le camminavano sulle membra.
Doveva tornare a ritrovare la sua serenità.
Lei non era come sua suocera, non era Maddalena, come avrebbe voluto Edoardo.
Lei era Lucia.
Con le sue idee, i suoi pensieri ed i suoi gusti.
Aprì la porta di casa, si diresse nello studio, verso il suo amato strumento.
Il violino giaceva nella sua custodia da troppo tempo.
Lo estrasse, ed in un attimo Lucia, e il violino furono una cosa sola.
Le stupende note che uscirono dallo strumento la acquietarono.
Lucia si sentì la ragazza gioiosa dai capelli rossi, la violinista, la mamma dolcissima.
La ragazza che amava i jeans e le cose semplici.
E capì che mai avrebbe rinunciato ad essere se stessa.

Serenella Menichetti.

*

Solitudine

SOLITUDINE.

Sola, solitaria, solitudine, solinga, parole con la stessa radice “solus” SOLO.
Parole tristi? -no, non per me-
“Meglio sola che male accompagnata.”

Sono un’amante della solitudine, non proprio un eremita, ma amo la sua impalpabile veste bianca, il suo sapore di zucchero filato, il suo odore di giglio.
Spesso fatico a trovarla.
La cerco tra la folla, la prendo a braccetto, e mi faccio accompagnare fuori, in un luogo possibilmente romantico e naturalmente solitario. 
Prediligo il mare, ma va bene anche la montagna. Certo un’isola in mezzo al mare sarebbe il massimo. 
Lei mi segue senza remore.
In quei luoghi ci rechiamo all’appuntamento con me stessa.
Solo noi, in intimità, con il coraggio di dirci tutto, impegnate
in un dialogo fluido senza inceppamenti ne bugie.
Un dialogo privo di rumore, la solitudine ama il silenzio ed io nutrendo molto rispetto per lei, cerco di assecondarla.
L’ultimo appuntamento è stato circa un mese fa.
Spiaggia deserta, mare calmo, turchese. Tramonto accessoriato da seducenti sfumature sui toni dal giallo al rosso, spalmate tra mare e cielo, come pennellate di gelatina di agrumi.
Seduta su un pattino, inizio ad interrogarmi su alcuni problemi della mia esistenza, che mi calzano come un bustino esageratamente stretto. Ad ogni risposta che riesco faticosamente a darmi, il busto si allenta, facendomi respirare.
Le mie risposte sono frasi, composte da parole prive di scarpe, che sanno camminare in punta di piedi, per non fare alcun rumore.
Il dialogo, fra me e l’altra me, fluisce, illuminando diversi aspetti.
Altri con la luce accesa spuntano fuori.
E’ una specie di inventario dei sentimenti, delle paure, dei dubbi, delle certezze. 
E’ come ordinare testi all’interno di files. 
Oppure i foulards, le cinture e pure gli slip, nei cassetti.
Ad ognuno un proprio spazio.
Per poterli trovare agilmente al momento del bisogno.
E pure di prendere visione di ciò che c’è e ciò che invece manca.
A questa operazione, la solitudine è determinante.

Sono ancora qui, a mettere ordine ed interrogarmi sulle priorità e le urgenze, a classificare. Quando una vocetta alquanto acuta, da’ un sonoro spintone alla mia compagna solitudine.
La vedo cadere rovinosamente a cento metri dal mio corpo. Sopra un castello di sabbia.
Mentre guardo crollare la torre, i merli del castello, in un ammasso di sabbia umidiccia
Vicino a me scorgo la sagoma di un’ anziana signora che non cessa un attimo, di parlare. 
Cavolo, non riesco neppure a comprendere le parole, che escono a raffica dalla sua bocca, talmente veloci da confondersi l’una con le altre.
Quando per fortuna il flusso continuo e disordinato delle parole cessa. 
Sicuramente a causa della mia espressione sorpresa e sbigottita.
Dopo una pausa di silenzio, la signora è in grado di controllarsi.
-Scusi signora lei è di queste parti?-
Nonostante avverta di essere stata scippata della mia privacy, riesco a rispondere educatamente.
L’espressione dolce ed indifesa dell’anziana signora, mi ispira fiducia e simpatia.
Mi chiamo Benedetta mi comunica.
A breve mi narra la sua storia: un racconto di malinconia e depressione.
Il suicidio dell’unico figlio e successivamente la morte del marito.
In quel momento la solitudine, si alza agilmente da sopra il castello
di sabbia ormai crollato e spicca il volo, all’interno del racconto di Benedetta.
Indossa una pesante veste nera, sembra un’ enorme aquila scura provvista di ali grandi, con le quali avviluppa la preda.
Ha un sapore di fiele, che non conosco, almeno così riferisce Benedetta, ed un odore disgustoso che toglie l’appetito e la voglia di vivere.

Il sole è ormai tramontato, il buio ingordo, ingurgita le sfumature arancio.
Mi volto per salutare Benedetta e porgerle la mano.
Non trovo nessuno.
Sono rimasta sola.
Mi incammino lungo la passerella, raggiungo l’auto, dopo un viaggio di dieci minuti sono a casa. 
Infilo le chiavi nella toppa, quando al mio padiglione auricolare giungono le vibrazioni di una musica assordante e quelle un po’ disarmoniche di risate adolescenziali.
L’amore e la compagnia della mia famiglia mi avvolgono in un caloroso abbraccio.
Sono felice.

Sere.

 

*

Cotto e mangiato!

Si chiamava Pasquale Smerigli, amava gli animali e pure i figli, mi piaceva l’idea che fosse vegetariano, lo sentivo sensibile, puro, rispettoso e umano.

Disdegnava assolutamente qualsiasi elemento in pelle animale, per lui, solo fibra sintetica e vegetale.

Me ne resi conto quando gettò nell’immondizia, peraltro senza un briciolo di mestizia, le bellissime scarpe di  pelle pura, che mia madre, “un po’dura” gli aveva regalato per il nostro matrimonio, non sto a dirvi quale fu il pandemonio.  Io l’avevo avvertita, ma con l’età, lei, era un po’ partita.

Le verdure in pinzimonio che la mia dolce metà rumorosamente sgranocchiò durante il pranzo, evitando la bistecca di manzo,  si sbrodolarono sulla camicia di non seta, mentre io tranquilla e cheta lo guardavo estasiata, anche quando sulla cravatta cadde tutta l’insalata. A dir la verità feci l’indiana, mi sentivo spartana, “e poi quella cravatta gialla assomigliava tanto ad una banana.”  O Forse lo era”

Quel giorno di primavera, fu per me esperienza piena e vera. Il banchetto si trasformò in unafiera. La nonna mia acquistata, non proprio una fata, con questo non voglio dire fosse una strega, ma nemmeno una nonnina che prega, tracannò 23 calici di vino, di quello sopraffino e si ubriacò per benino. Io per non esser né ladra né spia le feci compagnia.

Nella più totale inconsapevolezza ed innocenza anche se qualcuno insinua che fosse invece sprovvedutezza, si presentò l’ebbrezza e persi la pazienza.

Epicurea, in barca a vela, tirai pure una mela, e la torta alla panna  vegetale, cadde rovinosamente sullo smoking di un conoscente, un vero naufragio!

Poi adagio, e del tutto delirante mi feci pure tre bottiglie di spumante, finché sfilando dalla mano il brillante, lo lanciai al vegetariano, che tutto ad un tratto mi apparve strano. Non mi sembrava più nemmeno  affascinante, e poi vegetariano non è gratificante, nemmeno interessante, allora lo colpii sul naso, forse gli ruppi un vaso. Quell’epistassi secondaria, mi fece prendere una decisione arbitraria.

Avallata da una voglia animale e per niente razionale: al cameriere ordinai tre coniglietti arrosto ed un maiale. Mentre gustavo a tre palmenti i lombi di conigli e il codino del maiale,

Il vegetariano Pasquale Smerigli, amante di animali e figli, coniuge mio adorato, emise gran lamenti, rimase senza fiato, sembrava esalasse l’ultimo respiro, quando un urlo disumano, preceduto da un sospiro, si sparse nella sala, spazzando via la serata di gala.

Dopo calmatosi rimase in silenzio, versando lacrime a fiumi disperato, tanto che la bella tovaglia di lino s’impregnò di liquido salato.

Poverino? Chi l’ha detto! Perché mai ? E’ un inetto!

E non sopportando l’uomo che frigna, per dispetto diventai più  maligna, dopo quel fatto, al solito cameriere ordinai addirittura un gatto; in salmì cucinato, e per contorno gabbiano brasato.

Dopo aver ben mangiato, chiamai l’avvocato, per motivi ovvi e comprensivi con ragione, chiesi e ottenni la separazione.

Si era fatto tardi, allora dalla mia barca a vela che ondeggiava sempre di più ordinai ai presenti di rompere gli ormeggi, aggiungendo -presto prima che albeggi!-

E se dico che quel giorno fu un’esperienza vera, non certamente è una chimera.

Lo scrisse anche il giornale locale “Nello stesso giorno sposati e separati, un vero guinness dei primati.”

Eppure: c’eravamo tanto amati.

 

*

Il letargo di Chiara

Un labirinto nebbioso ti si apre davanti.

Cieca procedi a tentoni nell’oscurità, di un paesaggio di cui scorgi solo i contorni.

Ti vorresti  fermare, magari arretrare, alla ricerca di un percorso diverso.

Non ti è dato scegliere, è la vita a condurti con un abbraccio: in un ballo che segue un proprio ritmo.

Arretrare significherebbe morire.

E tu questo certamente non lo vuoi!?

Sei una delle tante pedine che ha un suo ruolo da celebrare, in questa scacchiera dagli opposti colori.

Non puoi rimanere incollata ad una casella come un bottone ad un pezzo di stoffa.

 

Eppure io sono sicura che un granello di speranza ti è rimasto, una piccola flebile fiammella all’apice di un cerino, sta accantonata da qualche parte.

Una fiammella che il vento della vita fa lampeggiare in un’ altalena di luce/buio, speranza/angoscia. gioia/sofferenza, libertà/schiavitù, vita/morte.

Usala per osservare la medaglia da ambo le parti.

Sarà il tuo paracadute quando cadrai, sarà il tuo salvagente quando starai per annegare. Sarà il faro che illuminerà il tuo percorso, per uscire da questo buio momentaneo.

Ogni evento possiede un inizio, ogni evento possiede una fine.

 

Come il contadino usa l’aratro  per lavorare e rendere la terra pronta ad accogliere ogni seme, tu dovrai saper  rendere la tua anima pronta ad  accogliere la vita, in tutte le sue tonalità dalle più chiare alle più scure.

Devi togliere il velo e specchiarti nuda.

Nello stesso modo di quando rifletti la tua immagine esterna allo specchio, che ti svela le tue qualità e le tue imperfezioni, specchia anche l’altra dimensione,  dalla testa ai piedi, senza timore.

Per prenderne coscienza e tornare ad amarti.

 

Tutto questo, avrebbe voluto dire Emma alla sua bambina, solo se lei l’avesse ascoltata, solo se lei le avesse accordato un po’ della sua fiducia, proprio come quando era piccola.

Troppe volte Chiara si rintanava  al buio della sua stanza.

Il suo letto diventava la placenta, dove in posizione fetale si accovacciava.

A volte faceva lunghe dormite, popolate da sogni, strani che mai ricordava.

Altre volte rimaneva sveglia, in preda all’insonnia ed al monotono ed insistente canto del grillo che le si appiccicava addosso senza darle tregua.

Silenzio totale, silenzio di tomba, questo avrebbe voluto.

Come spegnere quel canto ? Come avrebbe voluto poterlo fare con la facilità con cui aveva spento il cellulare e la TV e pure i sogni.

Invece il canto rimaneva appeso al suo orecchio come un orecchino fastidioso che non riusciva più a togliere.

 

Un vero e proprio letargo quello di Chiara, che durava innumerevoli giorni.

Dov’è Chiara? chiedevano alla mamma gli amici.

“E’ andata all’isola d’Elba dalla nonna rispondeva Emma a  malincuore.”

Nessuno si era accorto di niente, anzi, i conoscenti si erano abituati ai soggiorni Elbani di Chiara, qualcuno addirittura la invidiava.

 

Chi l’avrebbe detto che quella ragazza, bella solare, che dava consigli a tutti, nascondesse dentro di sé un’angoscia così pesante ?

Emma per ogni malanno di sua figlia aveva sempre pronta una valida medicina: miele e limone per il mal di gola, gocce di olio tiepido per il mal di orecchi a cui Chiara si affidava completamente.

“ Nessun medico ha la capacità di mamma Emma di guarirmi”

Ma questa volta Emma non conosceva alcun rimedio che riuscisse a sollevare Chiara da quella malattia, non ne comprendeva le cause, ma la meschinità della sintomatologia la trascinava in un  vortice di disperazione estrema, dalle cui mani aveva imparato a sgusciare con la sinuosità di un’anguilla.

Doveva mantenersi in forma, non poteva permettersi di cedere alla debolezza,  doveva sfoderare la forza della leonessa e conservarla per essere di aiuto alla sua cucciola.

 

“Male di vivere lo chiamano”

Solamente ricordarlo la mandava in crisi.

Un male subdolo che inizia con la malinconia, per sfociare in un oceano di apatia, e culminare con l’odio per la vita, e la voglia di esistere.

Non era possibile, che la sua cara bambina non sentisse il desiderio di uscire, farsi scaldare dai raggi di sole, godere della bellezza della natura, incontrare gli amici.

Preferendo invece rimanere isolata nella sua camera, sola, distesa come una sepolta viva.

Non osava bussare alla porta della cameretta,  sapeva che l’avrebbe ignorata, sapeva che non l’avrebbe neppure sentita.

Sapeva che doveva attendere che fosse lei ad uscire.

I giorni passavano con lentezza di tartaruga.

Quando l’avrebbe fatto?

Emma per la prima percepiva la sua impotenza.

 

Era giunto il momento di chiedere aiuto. Rompere il silenzio.

Emma prese la cornetta e fece la telefonata.

Era sicura che la specialista sarebbe stata in grado di aiutare Chiara.

 

 

 

 

 

*

Claudio nome proprio di persona ............

CLAUDIO: nome proprio...............

Quell' odore acido possedeva artigli di tigre che raschiavano le pareti della gola.
La notte si prospettava avara di astri.
Accucciata in un angolo umido e freddo, mi abbracciavo con le mani le ginocc...hia.
Il freddo con il suo alito gelido entrava in ogni cellula del mio corpo.
Una paura sconosciuta mi aveva attanagliata infiltrandosi in ogni fibra facendola vibrare come una corda di violino pizzicata dalle dita di un violinista pazzo.
Una sinfonia di note basse e stonate, violente e assordanti mi pervase.
Sfinita, mi aggrappavo alle briglie di un cavallo bianco e galoppavo insieme al mio cuore in una corsa frenetica, verso nuovi orizzonti.
Avrei trovato la mia terra promessa?
Il cavallo si trasformava in un ippogrifo che si librava in alto, trasportandomi in universi sconosciuti, dove speravo di trovare qualcosa che qui non c'era.
In fondo cosa cercavo?
Un pizzico d'amore?
Una manciata di comprensione?

Improvvisamente l'ippogrifo mi disarcionò e caddi vertiginosamente nel vuoto, mi ritrovai acciambellata sul pavimento freddo ed umido, con la gola dolente e gli occhi che lacrimavano colpiti da quell'odore troppo acuto.
Nella mente, le parole della frase del Vangelo, pronunciate dalla voce chioccia del Parroco, si divertivano a saltare da un emisfero all'altro del mio encefalo, sconvolgendone completamente il significato, ed assumendone altri, misteriosi e terrificanti.
.(Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà,la scienza svanirà ma l’amore non avrà mai fine. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia, ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto sparirà.)
La minuscola intelaiatura di una finestrella quadrata incorniciava un fazzoletto di notte senza lume.
Tutti i rumori si erano spenti, anche il rumore del mio cuore si stava affievolendo, e stava scemando dal galoppo, al trotto fino a stabilizzarsi sul passo.
Il buio non mi faceva paura, nemmeno la solitudine.
La paura nella sua tonalità più accesa, l'avevo percepita quando all'uscita della messa ero stata importunata da un ragazzo, che mi aveva apostrofata volgarmente, a lui se ne erano aggiunti altri, in breve tempo si era formato un gruppo coeso e minaccioso che perseguiva il comune scopo di usarmi violenza.
“ Quello che è imperfetto sparirà!” gridava il mostro dalle mille teste rincorrendomi.

Era stato orribile, via via che il gruppo si avvicinava la paura si trasformava in terrore. Gridavo, ma nessuno sentiva.
Sulla faccia percepivo la maschera dell'urlo di Munch.
Le gambe divenivano burro fuso, di li a poco avrebbero sicuramente ceduto.
Il gruppo inferocito si fermò a raccogliere delle pietre.
Io, ancora non ho capito per quale miracolo, sia riuscita a scantonare, per poi tuffarmi nella prima porticina che mi si presentò.
Era una piccola porta sverniciata, dotata di un chiavistello, che tirai prontamente nel suo alloggio, chiudendomi all'interno di essa.
Se non avessi trovato quel nascondiglio mi avrebbero sicuramente presa.
Dentro di me avvertivo tutto il terrore dei condannati a morte, le grida di Giovanna D'Arco mi si appiccicarono ad ogni lembo di pelle che si mise a tremare come una foglia al vento.
L'angoscia devastante delle donne del Pakistan lapidate mi scivolò dentro le vene
avvertii un freddo intenso, come se al posto del sangue scorresse neve liquida.
Era evidente che quel gruppo di ragazzi, volesse finirmi, magari prendendomi a sassate.
Mi passò nella mente l'immagine di Safia una donna Pakistana lapidata perché trovata in possesso di un cellulare.
Il suo volto era divenuto una maschera di sangue, i suoi aguzzini dissero che era stata giustiziata.
Ed io perché avrei dovuto essere giustiziata?
Qual era il reato da me commesso?
Il mostro mi aveva cercata dappertutto, avvertivo i passi dei suoi innumerevoli piedi scalpitare sulla strada vicino al mio rifugio di fortuna, pronto a compiere il suo assurdo progetto.
Non riuscivo a capire il motivo di così tanta ferocia.
Aveva girato in quel raggio d'azione per diverse ore, poi sulla sera, si era deciso a rinunciare.
Adesso era notte fonda e la maggior parte della gente era caduta tra le braccia di Morfeo.
Io non osavo muovermi dall'angolino in cui ero appollaiata.
Nessuno usava, da tempo, quella specie di bagno, anzi “logo” come era da tutti chiamato, sporco ed antigienico.
E nessuno mai avrebbe pensato che io così schizzinosa avrei osato nascondermi proprio lì.

Mi toccai la fronte, sudavo ghiaccio, il fazzoletto della notte si faceva sempre più scuro.
Udii uno scricchiolio, poi silenzio, un altro ancora ed ancora silenzio, poi delle voci
sommesse, non riuscivo a capire le parole. Mano a mano che le voci si avvicinavano, il cuore ricominciava a tuonare, ed io mi ritrovavo ancora su un cavallo imbizzarrito.

Finché sentii pronunciare un nome: Claudio, Claudiooo!
La voce invocava quel nome.
Non avrei voluto rispondere, perché ancora una volta, lei aveva violato il nostro patto.
Chiamava ancora: Claudioo, dove sei !
Non è il mio nome gridavo dentro, non quello!
Erano ben quindici anni, che ero costretta all'interno di quel nome.
La voce ripeteva: Claudioooo!

Il cuore aveva ricominciato a trottare, questa volta per la rabbia.
Una pausa di silenzio.
Pregavo perché capisse che non mi apparteneva.
Pregavo perché mi appellasse finalmente, con un nome di genere contrario a quello.
“Con il mio nome!”

Poi la voce riprese, questa volta, abbigliata di dolcezza, amore, comprensione.
Claudia per l'amor di Dio, rispondi.
Ancora il cavallo galoppava, forte troppo forte, per giungere ad una meta così vicina.

Ci era riuscita!
Lei finalmente mi aveva riconosciuto!
La voce mi uscì dal petto rauca, poi più chiara “mamma sono qua.
Sono io, la tua Claudia.”
Serenella.
Altro...
Foto: CLAUDIO: nome proprio...............<br><br>Quell' odore acido possedeva artigli di tigre che raschiavano le pareti della gola.  <br>La notte si prospettava avara di astri.<br>Accucciata in un angolo umido e freddo, mi abbracciavo con le mani le ginocchia.<br>Il freddo con il suo alito gelido entrava in  ogni cellula del mio corpo. <br>Una paura sconosciuta mi aveva attanagliata infiltrandosi in ogni fibra facendola vibrare come una corda di violino pizzicata  dalle dita di un violinista pazzo.<br>Una sinfonia di note basse e stonate, violente e assordanti mi pervase.<br>Sfinita, mi aggrappavo alle briglie di un cavallo bianco e galoppavo insieme al mio cuore in una corsa frenetica, verso nuovi orizzonti.<br>Avrei trovato la mia terra promessa?<br>Il cavallo si trasformava in un ippogrifo che si librava in alto, trasportandomi in universi sconosciuti, dove speravo di trovare qualcosa che qui non c'era.<br>In fondo cosa cercavo?<br>Un pizzico d'amore?<br>Una manciata di comprensione?<br><br>Improvvisamente l'ippogrifo mi disarcionò e caddi vertiginosamente nel vuoto, mi ritrovai acciambellata sul pavimento freddo ed umido, con la gola dolente e gli occhi che lacrimavano colpiti da quell'odore troppo acuto.<br>Nella mente, le parole della frase del Vangelo, pronunciate dalla voce chioccia del Parroco, si divertivano a saltare da un emisfero all'altro del mio encefalo, sconvolgendone  completamente il significato, ed assumendone altri, misteriosi e terrificanti.<br>.(Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà,la scienza svanirà ma l’amore non avrà mai fine. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia, ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto sparirà.)<br>La minuscola intelaiatura di una finestrella quadrata incorniciava un fazzoletto  di notte senza lume.<br>Tutti i rumori si erano spenti, anche il rumore del mio cuore si stava affievolendo, e stava scemando dal galoppo, al trotto fino a stabilizzarsi sul passo. <br>Il buio non mi faceva paura, nemmeno la solitudine.<br>La paura nella sua tonalità più accesa, l'avevo percepita quando all'uscita della messa  ero stata importunata da un ragazzo, che mi aveva apostrofata volgarmente, a lui se ne erano aggiunti altri, in breve tempo si era formato un gruppo coeso e minaccioso che perseguiva il comune scopo di usarmi violenza.<br> “ Quello che è imperfetto sparirà!” gridava il mostro dalle mille teste rincorrendomi.<br><br>Era stato orribile, via via che il gruppo si avvicinava la paura si trasformava in terrore. Gridavo, ma nessuno sentiva. <br>Sulla faccia percepivo la maschera dell'urlo di  Munch. <br>Le gambe divenivano burro fuso, di li a poco avrebbero sicuramente ceduto. <br>Il gruppo inferocito si fermò a raccogliere delle pietre. <br>Io, ancora non ho capito per quale miracolo, sia riuscita a scantonare, per poi tuffarmi nella prima porticina che mi si presentò.<br>Era una piccola porta sverniciata, dotata di un chiavistello, che  tirai prontamente nel suo alloggio, chiudendomi all'interno di essa.<br>Se non avessi trovato quel nascondiglio mi avrebbero sicuramente presa.<br>Dentro di me avvertivo tutto il terrore  dei condannati a morte, le grida di Giovanna D'Arco mi si appiccicarono ad ogni lembo di pelle che si mise a tremare come una foglia al vento.<br>L'angoscia devastante delle donne del Pakistan lapidate mi scivolò dentro le vene<br>avvertii un freddo intenso, come se al posto del sangue scorresse neve liquida.<br>Era evidente che quel gruppo di ragazzi, volesse finirmi, magari prendendomi a sassate. <br>Mi passò nella mente l'immagine di Safia una donna Pakistana lapidata perché trovata in possesso di un cellulare. <br>Il suo volto era divenuto una maschera di sangue, i suoi aguzzini dissero che era stata giustiziata.<br>Ed io perché avrei dovuto essere giustiziata? <br>Qual era il reato da me commesso?<br>Il mostro mi aveva cercata dappertutto, avvertivo i passi dei suoi innumerevoli piedi scalpitare sulla strada vicino al mio rifugio di fortuna, pronto a compiere il suo assurdo progetto. <br>Non riuscivo a capire il motivo di  così tanta ferocia.<br>Aveva girato in quel raggio d'azione per diverse ore, poi sulla sera, si era deciso a rinunciare.<br>Adesso era notte fonda e la maggior parte della gente era caduta tra le braccia di Morfeo.<br>Io non osavo muovermi dall'angolino in cui ero appollaiata.<br>Nessuno usava, da tempo, quella specie di bagno, anzi “logo” come era da tutti chiamato, sporco ed antigienico. <br>E nessuno mai avrebbe pensato che io così schizzinosa avrei osato nascondermi proprio lì. <br><br>Mi toccai la fronte, sudavo ghiaccio, il fazzoletto della notte si faceva sempre più scuro. <br>Udii uno scricchiolio, poi silenzio, un altro ancora ed ancora silenzio, poi delle voci <br>sommesse, non riuscivo a capire le parole. Mano a mano che le voci si avvicinavano, il cuore ricominciava a tuonare, ed io mi ritrovavo ancora su un cavallo imbizzarrito. <br><br>Finché sentii pronunciare un nome: Claudio, Claudiooo!<br>La voce invocava quel nome. <br>Non avrei voluto rispondere, perché ancora una volta, lei aveva violato il nostro patto. <br>Chiamava ancora: Claudioo, dove sei !<br>Non è il mio nome gridavo dentro, non quello!<br>Erano ben quindici anni, che ero costretta all'interno di quel nome.<br>La voce ripeteva: Claudioooo!<br><br>Il cuore aveva ricominciato a trottare,  questa volta per la rabbia.  <br>Una pausa di silenzio. <br>Pregavo perché capisse che non mi apparteneva.<br>Pregavo perché mi appellasse finalmente, con un nome di genere contrario a quello.<br>“Con il mio nome!”<br><br>Poi la voce riprese, questa volta, abbigliata di dolcezza, amore, comprensione.<br>Claudia per l'amor di Dio, rispondi. <br>Ancora il cavallo galoppava, forte troppo forte, per giungere ad una meta così vicina.<br><br>Ci era riuscita!<br>Lei finalmente mi aveva riconosciuto!<br>La voce mi  uscì dal petto rauca,  poi più chiara “mamma sono qua.<br>Sono io, la tua Claudia.”<br>Serenella.

*

Scarpe Rosse

 Infine calzò quelle incredibili scarpe rosse, comprate al mercatino dell'usato.

 Quella sera di plenilunio Anna e Marco si erano dati appuntamento davanti al ristorante la “Conchiglia”

 Una spigola al vapore con verdurine per Anna.

 Pasta allo scoglio e gamberoni per Marco.

 In basso sotto il tavolo le scarpe rosse di Anna non trovavano posa.

 In realtà loro sarebbero rimaste anche immobili, se i piedi di Anna non avessero avuto esigenze contrarie.

 Apparentemente calma, dal busto in su, Anna portava alla bocca minuscoli pezzi di carne bianchissima e  gustosa, che masticava senza gustarla.

 Marco invece mangiava il pesce gustandolo con piacere vorace.

 -Ho deciso di dare un taglio a questa storia senza senso- buttò lì Anna, mentre poggiava lentamente la forchetta sul piatto.

 Marco deglutì, non riuscì a dire niente, il grosso boccone gli andò su e giù come in un ascensore impazzito, infine si fermò a metà rischiando di soffocarlo.

 Quando riuscì a liberarsi, la sua gola si ritrovò ancora ostruita da un boccone, ben più coriaceo ed amaro, del primo.

 -Come, senza senso- balbettò.Ma se fino a Giovedì andava tutto bene-

 Le scarpette rosse sorrisero, anche se nessuno le vide, e nemmeno furono notati i piedi di Anna che si irrigidivano, grazie alla complicità della lunga tovaglia azzurra che copriva il tavolo.

 -Non tutti i giorni sono uguali Marco, oggi non va niente bene, e tu dovresti saperlo!-

!

 -Io? Rispose Marco stupito.

 Le scarpe rosse, con la punta assentirono, e stavano per sferrare un calcio sonoro sulla caviglia di Marco, quando i piedi, più giudiziosi, riuscirono a farle desistere.

 -Si proprio tu, che pretendi di voler portare avanti questa storia con il tradimento.-

 -Brava Anna, fatti sentire- la incitò la scarpa destra, mentre la sinistra imponeva alla sorella di parlare a bassa voce.

 -Ma cosa stai dicendo Anna, farnetichi?-

 -Hai il coraggio di negare? Ebbene questa volta ho le prove dei tuoi tradimenti.-

 Marco sbiancò, mentre le scarpe sotto il tavolo si fecero di un rosso anguria matura.

 Sentiamo cosa rispondi alla domanda, se Sabato 3 Gennaio tu abbia dormito da solo.

 Le scarpe trasalirono diventando rosso carminio

 -E due giorni fa proprio giovedì, eri solo a letto?-

 -Con chi avrei dovuto essere?-

 -Bene, il nome Tatiana ed Elisa, Ti ricordano niente?

 Il viso di Marco scolorì ulteriormente, e un leggero sudorino le imperlò le guance, tanto da farle assomigliare a due freschissime mozzarelle fior di latte.

 Le scarpe se la ridevano sommessamente.

 Come aveva fatto Anna a scoprire queste sue scappatelle, forse l'aveva seguito? Nessuno, che lui sapesse, poteva essere venuto a conoscenza di quelle sue notti di lussuria.

 Marco forte della propria convinzione continuava a negare.

 Anna sicura della sua, continuava ad accusare.

 Lui, non riusciva proprio a capire chi avesse fatto la spia.

 Quando Anna, gli disse chiaramente che non era il caso di mentire ancora, perché ambedue le ragazze avevano tranquillamente confessato di essere state con lui, Marco rimase esterrefatto e rispose-

 E tu come hai fatto a conoscerle? Come è stato possibile?

 Tatiana abita a Volterra mentre Elisa è di Viareggio.

 Anna non rispose, si alzò e lasciò Marco con il cucchiaino a mezz'aria e con la bocca spalancata per lo stupore, davanti ad un coloratissimo dessert, che non ebbe il coraggio di assaporare.

 

Le scarpe cantavano allegre sul pavimento del locale, mentre accompagnavano Anna all'uscita.

Impettite ed orgogliose nel loro rosso sgargiante si sentivano orgogliose di aver rivelato ad Anna  la verità.

 Anna, la loro nuova inquilina, era una brava ragazza.

 Mentre le altre, Tatiana ed Elisa si erano dimostrate un po' troppo leggere, passando da un letto all'altro, senza minimamente pensare che sotto i letti, si possa trovare sempre qualche sorpresa.

 E le povere scarpe dopo aver camminato tutto il giorno, non se la sentivano assolutamente di rischiare, mentre avrebbero anelato a dormire in sicurezza, sotto il consueto letto di casa.

 Erano state altrettanto felici di averla accompagnata a grandi passi, a parlare con le due ragazze. Che poi si erano rivelate anche maleducate, non accorgendosi della loro presenza ai piedi di Anna, questa se la sarebbero legata al dito "del piede"

 Certo, lo spifferare la verità ad Anna era stato per loro evento eccezionale, compiuto esclusivamente per un senso di giustizia.

 Il fatto di aver trascorso quel giovedì e quel sabato sotto il letto di Marco, senza chiudere occhio, a causa dei movimenti sussultori ed ondulatori del letto, passava in secondo piano.

 Anche il desiderio che Anna e Marco non facessero pace non era stata la causa principale della spifferata, ma questo era stato dettato dal fatto che per loro rappresentasse veramente una questione di vita o di morte. Infatti se non ci fosse stata quella rottura, sarebbero state costrette ad una nuova insonne notte, e questa sarebbe stata loro sicuramente fatale.

Per fortuna quella notte si addormentarono sotto il letto sicuro di Anna, del sonno dei giusti, in pace con tutto il mondo, delle calzature e non, per aver compiuto quella nobile azione

*

Quelle due

 

QUELLE DUE

 

Patate, farina, uova e grana, questo aveva comprato nonna Perla al mercato del giovedì.

Dopo aver appoggiato la borsa beige sul divano, essersi tolta le scarpe di vernice, calzato le sue comode ciabatte, appeso l'abito di schantung azzurro alla stampella e indossato la vestaglia a piccoli fiori turchesi: nonna Perla, mise a bollire le patate. 

Prese il telecomando e spinse il bottone dell'accensione tv, quindi si sedette sul suo piccolo divano a quadri, con l'intenzione di guardare “il suo programma preferito” verrebbe da scrivere.

Ma cari signori, non è proprio così!!! Perché, nonna Perla, si sedette sul divano, ad attendere la cottura delle patate per preparare gli gnocchi, mentre sul piccolo schermo scorrevano immagini che lei non guardava e arrivavano notizie che lei  non ascoltava.

Spesso il nipote Lorenzo le chiedeva: - Perché accendere, dal momento che né guardi, né ascolti i programmi, nonna?

Dovete però sapere che, in effetti, ascoltava.

Oh, no, non il contenuto, ascoltava il suono delle voci.

Infatti mentre la sua testa, fuggiva dalla parte opposta del senso dei discorsi, le sue orecchie percepivano con piacere il brusio.

-Lorenzo, è il brusio delle voci che voglio ascoltare, a me basta questo, senza non so stare. Questa era la risposta, che il nipote stentava a comprendere.

- L'importante è che sia soddisfatta tu, nonna!- Rispondeva a sua volta.

Pure quel giorno il“brusio” l'accompagnava all'interno della sua giornata e all'interno dei suoi pensieri, dei quali una gran parte era formata, da ricordi.

Ricordi che affioravano nella sua mente, spesso, scatenati da una parola, da un gesto, o da un odore.

Insomma per nonna Perla, ogni occasione era valida per ricordare.

D'altronde, cosa avrebbe fatto, se non avesse avuto i ricordi?

Si mise a sbucciare le patate, ancora calde, le inserì nel passatutto.

La sua mano destra cominciò a muovere il manico dell'utensìle  con grande maestria, in senso rotatorio: Non si potevano certo contare, le volte che nonna Perla aveva ripetuto quel gesto.

Ogni giovedì della sua vita, Perla, aveva speso un po' del tempo a macinare patate, per fare gli gnocchi.

La polpa bianca e calda dei tuberi scendeva lentamente dai buchi, alla pirofila, in numerosi vermetti molli, che adagiandosi sul fondo di vetro si univano, e via, via che cadevano, assumevano forme sempre diverse.

Agli occhi della piccola Rita:forme di animaletti.

L'assistere al rito del Giovedì, per la bambina era un gioco veramente divertente, la sua fantasia spaziava, nel riconoscere in ogni trasformazione della quantità della materia, animali di  genere diverso, di cui prontamente pronunciava il nome comune, abbinandolo ad un nome proprio, subito prima che la magia, mettesse in atto una nuova trasformazione.

Grande era la sua soddisfazione nel pronunciare: -Adesso è il cagnolino Emilio !- Ecco che si è trasformato nel rinoceronte Maurizio!-oppure, questa è proprio la tartaruga Emma!-

Nonna Perla, pensava, ricordava e girava con la mano destra, mentre la polpa bianca e calda scendeva nella pirofila: immaginava sua figlia Rita, bambina, dall'altra parte del tavolo, con le sue trecce rosse, le sue lentiggini e la sua vocetta squillante.

La scampanellata insistente che le fece presumere l'arrivo del nipote, prima che lei aprisse la porta, aprì uno spiraglio sulla realtà.

Nel vano, apparve invece l'immagine della piccola Rita.

-La bambina è assetata!- riferì poco dopo, la voce della donna, la cui immagine era comparsa, in secondo piano.

Perla dopo averle fatte entrare, si recò a prendere una bottiglia d'acqua nella dispensa, ed un bicchiere, che riempì, porgendo alla piccola, che attendeva vicino al tavolo.

Il tempo di bere, che già quelle due erano uscite senza salutare.

Nonna Perla pensava dispiaciuta, che avrebbe scambiato, volentieri, due chiacchiere con loro.

Quella bambina era così somigliante alla sua Rita.

Avrebbe potuto consigliare la signora, ricordandole, quanto la pelle chiara delle bambine con i capelli rossi essendo molto delicata,

abbia bisogno di attenzione e cura.

Pensava nonna Perla, mentre impastava le patate con le uova e un pizzico di sale. -Avrei potuto dare alla bambina una caramella e alla signora, la ricetta dell'acqua di crusca.-

Pensava nonna Perla, anche, mentre le sue mani facevano rotolare i pezzi di pasta di patate, sul marmo infarinato della superficie del tavolo:

-Che la ricetta, fosse a portata di mano, nella scatola azzurra del cassetto di mogano del mobiletto del bagno: un pezzo di carta ripiegato e ingiallito, chissà se la scritta fosse ancora visibile.

Bastava che quelle due, fossero state disposte ad unire un po' del loro tempo, insieme al suo, per guardare quel foglio, -certamente avrei trascritto la ricetta, su una carta nuova- disse.

Pensava nonna Perla, mentre tagliava i bastoncelli di patate  passandoci la punta del dito medio, per imprimervi una fossetta.

E quella la fossetta, come in una reazione a catena: faceva scappare dalla scatola dei ricordi, l'immagine del mento del suo Giuliano.

E il colore e la morbidezza degli gnocchi, così simile alla pelle morbida del suo bambino, contribuivano a farle apparire, il ricordo ancora più nitido.

 Pensava nonna Perla, intanto che il brusio della televisione l'accompagnava nel cammino di un percorso a ritroso, in cui si trovava immersa fino al collo, anche nel momento che il telefono squillò.

- Il tempo di risalire e vengo!- Disse all'apparecchio che insisteva nel chiamarla.

Quando riuscì a prendere in mano la cornetta grigia: udì dall'altra parte, la voce del nipote, che la informava che avrebbe dovuto rimanere a lezione.

Quello era il secondo giovedì consecutivo, che Lorenzo disertava il gustoso, piatto di gnocchi, si disse un po' delusa Perla.

Nonna Perla pensava ancora, mentre spegneva l'interruttore del gas dove l'acqua stava bollendo: -Se quelle due fossero rimaste un po' di più, avrei trovato il coraggio di invitarle a mangiare un piatto di gnocchi-

Pensava pure, mentre il brusio della televisione, occupava tutto lo spazio della stanza, vuota di suoni, rimanendo impigliato alle pareti.

Attaccandosi alla superficie dei vetri e scivolando giù, per poi risalire, ed anche mentre saltava sul divano, rimbombando.

Pensava la nonna, mentre quel il brusio, cantilenava la sua filastrocca, soffiando dolcemente sul silenzio della solitudine, fino a spegnerlo.

Quel brusio, l'aiutava a ricordare, quello vero, prodotto dalle voci reali dei suoi cari, che un tempo aleggiava nella casa.

La nonna attraverso di lui, aveva scoperto che riuscendo ad appannare un pochino il pensiero logico, poteva immaginare immaginare: Giuliano e Rita, all'interno della propria camera, intenti a ripetere a voce alta, rispettivamente: la lezione di greco e quella di biologia.

Perla si ricordava di sorridere, mentre si tappava le orecchie con le mani, allorché Lorenzo, cercava di riportarla alla realtà, dicendole:

-Nonna ma non ti accorgi che il “tuo brusio” è paragonabile ad un surrogato! Un brodo di dado caldo ecco cos'è!

 

La nonna, decise di conservare gli gnocchi, li avrebbe serviti a Lorenzo se fosse venuto a pranzo, l'indomani.

Oggi il suo menù, sarebbe stato costituito, da uno dei soliti suoi frugali pasti: formaggio e frutta.

Quando sentì suonare alla porta, nella sua testa lampeggiò il pensiero e la speranza, che potessero essere “quelle due.”

Forse la bambina aveva bisogno, di qualcos'altro?

Ma si sbagliava, era Teresa, la vicina, che dopo essersi accomodata sul divano accanto a Perla, le chiese, se avesse visto una donna con una bambina, poi concitatamente, riferì che le due, si erano presentate da lei chiedendo da bere per la bambina.

E lpoco dopo la loro uscita, di essersi resa conto, di aver subito il furto del suo portagioie.

Perla incredula, senza proferir parola, dissentì con la testa.

Teresa dopo aver palesato il suo grande disappunto, uscì inviando pesanti improperi alle due ladruncole.

Perla rimase sul divano, mentre lo sguardo, scendeva sul cuscino alla sua destra, dove sostava la sua borsa beige.

Non aveva il coraggio di infilare la mano al suo interno, per verificare se contenesse ancora il suo portafoglio.

Anche se in cuor suo, sapeva che non lo avrebbe trovato.

 Ed a questo punto della storia, forse il personaggio ingannato, su consiglio dell'autore avrebbe dovuto dire: “FIDARSI E' BENE MA NON FIDARSI E' MEGLIO” ed indignato, avrebbe sicuramente sviluppato, un cospicuo sentimento di odio verso quelle due, come era accaduto a Teresa.

Per Perla, invece, non fu così, anzi ogni volta che udiva lo squillo del campanello della porta, dentro di lei si accendeva  una fiammella di speranza da cui scaturiva il desiderio di trovare, sul vano della porta: una volta o l'altra ancora, quelle due.

 

 

,

*

Non c’è due senza tre!

Era la terza volta, sinceramente non me l'aspettavo!

 

Loro mi guardavano stranamente, percepivo lo sguardo di quattro occhi percorrermi tutto il corpo, ed  ogni volta era come se quattro spilli mi pungessero. 

Quando uscivo, anche la gente mi guardava in modo strano, i loro sguardi indugiavano sul mio viso,

poi scendevano giù lentamente fino ai piedi, sembravano voler penetrare dentro di me per appropriarsi di ogni mio pensiero.

Elena molto nota in giro per la sua tirchiaggine e, per la consueta dimenticanza, peraltro quotidiana del portafoglio, mi offrì, con mia immensa sorpresa, un cappucino con panna e cornetto.

 Mentre lo sorseggiavo con gusto,  mi guardava negli occhi, in modo strano

 -Novità ?- Ad un certo punto, mi chiese,  mentre imbottita di curiosità fino alla punta dei capelli, attendeva la mia risposta.

Mi alzai di scatto, seccata, lasciando  lei,  metà cappuccino ed anche il cornetto senza risposta, tutti sorpresi ed increduli di quel gesto e, tornai a casa. Mi sedetti sulla poltrona, per riposarmi, ma l'essere osservata e trafitta dai soliti quattro occhi,mi impedì di trovare riposo.

Nonostante quel lancio repentino di sguardi, il loro comportamento era più soft, erano più tranquille, e assennate, ed evitavano di piantarmi le solite grane, di sempre.

Emanuele una mattina, dopo avermi scrutato in lungo ed in largo, mi disse, che ero diventata più bella.

Io, mi specchiavo curiosa, con l'intento di riuscire a trovare la bellezza che lui vedeva, senza riuscirvi.

In quei giorni mi sentivo come un' ubriaca, di fronte ad un  bivio: mi si presentavano due strade, molto diverse tra loro ed io non sapevo decidermi quale delle due intraprendere. 

Mi coricai, con quel dubbio, ma fiduciosa che la notte mi avrebbe portato consiglio, come era solita fare con tutti.

Avrei imboccato la strada della preoccupazione,  lasciando senza i miei passi l'altra, oppure mi sarei inoltrata nella strada della felicità, lasciando l'altra deserta della mia persona ? 

All'alba, supportata dal prezioso consiglio della notte, avrei sicuramente preso una decisione.

Appena aperti gli occhi, incontrai la luce del sole, che con prepotenza entrava dalle fessure delle persiane, e mi sentii spingere, in una direzione.

Per come sono io, che riesco sempre ad incontrare in ogni novità, una massiccia dose di curiosità ed entusiasmo, mi sentii scivolare nell'ingresso della strada più rosea.

L'unico mio grande problema, era quello di dover rendere pubblica la novità.

Un evento di cui solo io, ero al corrente, ma che dovevo svelare ad ogni costo, perché riguardava anche la mia famiglia.

Una sera dopo aver collocato tutti i membri della famiglia, fidanzatino di Giulia compreso, davanti ad una abbondante razione di  succulenta pasta al forno, rivelai a tutti, con occhi scintillanti di gioia, di essere in attesa del terzo figlio.

L'aver spartito il mio dolce segreto, con tutti i miei cari, così, semplicemente: a fette, proprio come fosse una torta, contribuì a regalarmi quel  tipo di benessere che si rivelò assai utile, ai fini dell'attesa della piccola Susanna.

 

Che nacque un giorno luminoso d'estate, senza arrecarmi le gravi conseguenze, che la sua nascita, a detta di diversi “luminari,” avrebbe dovuto.

*

Rossa come il fuoco

La ragazza, stava seduta, con le gambe infilate nelle fenditure della balaustra del pontile. Un paio di jeans sfilacciati, poco sopra il ginocchio e, una canottiera di un colore indefinito, simile all'azzurro di un cielo sbiadito, come ce ne sono tanti. Probabilmente frutto di un lavaggio multicolor.

Le sue lunghe gambe, penzolavano, avanti e indietro,  in un movimento ritmico, simile a quello delle onde sottostanti. Con la mano sinistra, teneva uno specchietto rivolto verso il sole, cui catturava la luce, che poi faceva convogliare sul capo, o negli occhi di coloro, che si stavano godendo, un po' di relax.

Doveva pur rendere utile quello specchietto. E, oggi, per lei, il poter strumentalizzare a suo piacimento, infastidendo gli altri, i due elementi "Sole e specchio" suoi acerrimi nemici,da sempre, le donava una gioia incredibile.

In realtà, era un innocuo gioco, che serviva per scaricare la tensione, di quel particolare momento.

Una minuscola trasgressione che la madre, non avrebbe approvato  minimamente.

Melania respirò profondamente, ingurgitando aria salmastra e soddisfazione.

Pensava ai suoi abbozzi di giochi da bambina, i quali venivano sempre passati in rassegna, dalla cara genitrice, che li selezionava, bocciandoli sul nascere, per proporne, subito dopo, altri, di suo esclusivo gradimento.

Grembiulino rosa, fiocco di raso fra i capelli, rigorosamente rosa,    e scarpette lucide, questa, era la sua quotidiana uniforme.

Che lei percepiva come una maschera da bomboniera rosa,  permettendole di fare, niente altro che giochi rosa.

Oh, come odiava,tutto quell'insieme di rosa ! Esso, aveva il potere di procurarle una profonde nausee. Si sentiva, stucchevole, alla stregua di certe caramelle esageratamente dolci.

Quante volte avrebbe voluto invece poter indossare  almeno una volta i panni, di quel granchio rosso che scalava gli scogli, per poi tornare al mare e viceversa.

Era attratta da lui, dalla sua vita libera, per questo lo aveva soprannominato “Liberty”            

Ma, un giorno Liberty, rimase prigioniero di una rete, gettata da alcuni ragazzacci.

Poco dopo, pure lei si accorse di aver subito la stessa sorte del granchio: proprio il giorno della nascita dei gemelli, quando due enormi fiocchi celesti, vennero posti sul portone della sua casa, si sentì cadere addosso un'enorme rete rosa, che la catturava, per poi restituirla al mondo, nelle vesti di sorella maggiore, ovvero di una piccola, saggia mammina.  Così, l'appellò sua madre, mentre davanti a lei, due enormi bocche aperte, urlavano, reclamando , latte materno.

Avrebbe voluto urlare anche lei, o tanto meno, tapparsi le orecchie, per non sentire quelle urla. Ma l'effetto rosa, glielo impedì. Cominciò a percepire, ai lati della bocca, un movimento involontario, uno stiramento, che poi comprese essere, un sorriso, che si estendeva dalla guancia sinistra a quella destra. 

All'incontro della sua faccia, riflessa nello specchio, Melania, rimase a guardarla. Dapprima avanzò, il naso, che, non era propriamente un nasino alla francese, poi, arrivò tutto il resto, costellato da una miriade di puntini dorati, che poi non erano altro che lentiggini. Le sue tanto odiate lentiggini. Notò la morbida bocca, gli occhi verdi, non molto grandi, che possedevano, però, una tale intensità da illuminarle interamente il volto. Chi la incontrava, non poteva fare a meno di giudicarla splendida. Infatti, lei, possedeva una rara bellezza. Di quelle che affondando le proprie radici  nel profondo riescono a succhiare, buona linfa, di cui Melania  , non era priva. E, poi, c'era quella massa di capelli ricci, rossi come il fuoco, che brillavano di una luce scintillante, rendendola speciale. 

Ed era, singolare, come  lei di tutto questo, non ne possedesse, consapevolezza, alcuna

Aveva letto, da qualche parte, di quanto le rosse, come lei, fossero in estinzione, e questo invece di inorgoglirla, l'aveva infastidita.

Quella di essere l'unica portatrice in famiglia, di quelle   particolari caratteristiche, l'angustiava profondamente.

I suoi fratelli, ambedue con chiome bionde, occhi azzurrissimi e carnagione di porcellana, belli, al punto da venir paragonati ai due putti, dipinti nel quadro, più importante, della chiesa,  della parrocchia, mettevano in evidenza, la differenza delle diverse peculiarità, presenti tra fratelli e sorella.

I frugoli, consapevoli della loro bellezza, spesso la deridevano, per le sue lentiggini. Erano soliti ripeterle -" Melania che non si lava il viso, mai, andrà in Paradiso!" questa frase, aveva sempre, il potere di farla andare, completamente, fuori dai gangheri.

Alcune volte pensava di essere una creatura del diavolo, sia per il mancinismo, che per quei capelli, che assomigliavano così tanto, alle fiamme dell'inferno.

Sovente il suo sonno era disturbato, da brutti sogni, anzi, veri incubi. I cui personaggi erano una sorta di diavoli, armati di forcone che la rincorrevano, con l'intenzione di portarla negli inferi.

Quante volte, si era svegliata, nel cuore della notte, in un bagno di sudore  e con con il cuore che andava a mille.

Però, mai si era permessa, di disturbare i genitori, mai aveva provato a chiedere loro, ospitalità nel lettone. Lei era fatta così.

Adesso, all'età di sedici anni, avvertiva il peso abnorme, di una diversità, che mal tollerava, pur non facendolo intuire a nessuno.

Questo la faceva emarginare, non solo dalla famiglia, ma anche dal resto della società.

La solitudine la avviluppava con i suoi fili invisibili, comprimendola dentro ad un bozzolo, anche se, il dolore di quella morsa era mitigato dal senso di protezione, che provava, nel rimanere  all'interno di questo.

Era in bagno, davanti alla grande specchiera, mentre stava cercando, con l'ausilio di uno specchietto, di raccogliere i capelli sulla nuca. Non che ne avesse grande voglia, né che lo facesse per vanità, ma, dovendo andare in spiaggia, quel gesto aveva unicamente lo scopo pratico, di arginare la folta chioma. 

Udì la voce di sua madre, scandire il suo nome, associato ad un termine che da tempo ricorreva nella sua mente: "adottata"

Fu allora, che lentamente, aprì la porta del bagno per  poggiare l'orecchio su l'altra porta, chiusa, che dava nel grande salone, dove Marina, la mamma, stava conversando , con Sara, l'amica.

"L'abbiamo adottata all'età di due anni"continuò,la madre di Melania.

Questa frase, fece scattare, la ragazzina, che provò un improvviso desiderio di fuggire via, da quel luogo ed, uscì velocemente  dirigendosi verso il mare.

Arrivata al pontile, una stanchezza improvvisa le calò addosso,     tanto da indurla a sedere sul pavimento del ponte, con il busto aderente alla balaustra e le gambe, penzoloni.

E, poi si era trovata quell'assurdo specchietto in mano.

Adottata, adottata, rimuginò, diverse volte, questa parola, dentro di sé, per giungere alla conclusione che, questa, corrispondesse sicuramente alla verità.

Una verità che pur nella sua crudezza, veniva, a dischiudere la porta del dubbio, sciogliendo l'enigma, che l'affliggeva.

Che non facesse parte di quel nucleo in fondo lei, lo aveva sempre percepito, sono cose che si avvertono, si disse.

No, non poteva continuare a rimanere con loro” pensò con una punta di orgoglio.

Ma, quel pensiero, la fece piangere. Lacrime di rabbia scesero copiose sulle guance arrossate, mescolandosi ad altre di dolore.

Ambedue i rigagnoli, annaffiarono le lentiggini, come fossero fiorellini di campo.

Si asciugò le lacrime con l'avambraccio, tirò su con il naso, accorgendosi, che quella, fosse stata,l'unica volta che piangeva.

Si alzò, e si diresse verso casa.

Quella sera avrebbe chiesto spiegazioni.

Salì velocemente le scale, con l'intenzione di arrivare al più presto nella sua stanza.

"Melania, attenzione mi fai cadere! Ma dove hai la testa, benedetta ragazza!" esordì la mamma tenendosi alla ringhiera.

A quel baccano, Luna, la cagnetta bianca, si mise ad abbaiare festosamente, correndo verso di lei, la riempì con una grande quantità, di dolcissime leccate, che, nel costume canese, equivalgono: ad amorosi baci

La ragazzina,la prese in braccio, contraccambiando con altrettante affettuose carezze.

-"Sara, mi ha espresso il desiderio di voler, pure lei, adottare un cucciolo di cane, a proposito non hai mica da qualche parte il numero telefonico del canile "? Chiese, Marina, alla figlia.

Melania, ammutolì, ricordandosi quando, lei e Marina, erano andate al canile, con l'intenzione di prendere un cagnolino di pochi mesi, ed invece avevano portato a casa Luna, costretti dalla sua irruenza e simpatia, infatti, essa,le era saltata in braccio, senza volerne, poi, saperne più, di scendere.

In pratica, quel giorno, fu Luna, a scegliere Melania.

Per questo loro, l'avevano adottata, anche se, in realtà, quella candida cagnetta un po' ruffiana, avesse già, ben due anni, di età.

 

La ragazza, stava seduta, con le gambe infilate nelle fenditure della balaustra del pontile. Un paio di jeans sfilacciati, poco sopra il ginocchio e, una canottiera di un colore indefinito, simile all'azzurro di un cielo sbiadito, come ce ne sono tanti. Probabilmente frutto di un lavaggio multicolor.

Le sue lunghe gambe, penzolavano, avanti e indietro,  in un movimento ritmico, simile a quello delle onde sottostanti. Con la mano sinistra, teneva uno specchietto rivolto verso il sole, cui catturava la luce, che poi faceva convogliare sul capo, o negli occhi di coloro, che si stavano godendo, un po' di relax.

Doveva pur rendere utile quello specchietto. E, oggi, per lei, il poter strumentalizzare a suo piacimento, infastidendo gli altri, i due elementi "Sole e specchio" suoi acerrimi nemici,da sempre, le donava una gioia incredibile.

In realtà, era un innocuo gioco, che serviva per scaricare la tensione, di quel particolare momento.

Una minuscola trasgressione che la madre, non avrebbe approvato  minimamente.

Melania respirò profondamente, ingurgitando aria salmastra e soddisfazione.

Pensava ai suoi abbozzi di giochi da bambina, i quali venivano sempre passati in rassegna, dalla cara genitrice, che li selezionava, bocciandoli sul nascere, per proporne, subito dopo, altri, di suo esclusivo gradimento.

Grembiulino rosa, fiocco di raso fra i capelli, rigorosamente rosa,    e scarpette lucide, questa, era la sua quotidiana uniforme.

Che lei percepiva come una maschera da bomboniera rosa,  permettendole di fare, niente altro che giochi rosa.

Oh, come odiava,tutto quell'insieme di rosa ! Esso, aveva il potere di procurarle una profonde nausee. Si sentiva, stucchevole, alla stregua di certe caramelle esageratamente dolci.

Quante volte avrebbe voluto invece poter indossare  almeno una volta i panni, di quel granchio rosso che scalava gli scogli, per poi tornare al mare e viceversa.

Era attratta da lui, dalla sua vita libera, per questo lo aveva soprannominato “Liberty”            

Ma, un giorno Liberty, rimase prigioniero di una rete, gettata da alcuni ragazzacci.

Poco dopo, pure lei si accorse di aver subito la stessa sorte del granchio: proprio il giorno della nascita dei gemelli, quando due enormi fiocchi celesti, vennero posti sul portone della sua casa, si sentì cadere addosso un'enorme rete rosa, che la catturava, per poi restituirla al mondo, nelle vesti di sorella maggiore, ovvero di una piccola, saggia mammina.  Così, l'appellò sua madre, mentre davanti a lei, due enormi bocche aperte, urlavano, reclamando , latte materno.

Avrebbe voluto urlare anche lei, o tanto meno, tapparsi le orecchie, per non sentire quelle urla. Ma l'effetto rosa, glielo impedì. Cominciò a percepire, ai lati della bocca, un movimento involontario, uno stiramento, che poi comprese essere, un sorriso, che si estendeva dalla guancia sinistra a quella destra. 

All'incontro della sua faccia, riflessa nello specchio, Melania, rimase a guardarla. Dapprima avanzò, il naso, che, non era propriamente un nasino alla francese, poi, arrivò tutto il resto, costellato da una miriade di puntini dorati, che poi non erano altro che lentiggini. Le sue tanto odiate lentiggini. Notò la morbida bocca, gli occhi verdi, non molto grandi, che possedevano, però, una tale intensità da illuminarle interamente il volto. Chi la incontrava, non poteva fare a meno di giudicarla splendida. Infatti, lei, possedeva una rara bellezza. Di quelle che affondando le proprie radici  nel profondo riescono a succhiare, buona linfa, di cui Melania  , non era priva. E, poi, c'era quella massa di capelli ricci, rossi come il fuoco, che brillavano di una luce scintillante, rendendola speciale. 

Ed era, singolare, come  lei di tutto questo, non ne possedesse, consapevolezza, alcuna

Aveva letto, da qualche parte, di quanto le rosse, come lei, fossero in estinzione, e questo invece di inorgoglirla, l'aveva infastidita.

Quella di essere l'unica portatrice in famiglia, di quelle   particolari caratteristiche, l'angustiava profondamente.

I suoi fratelli, ambedue con chiome bionde, occhi azzurrissimi e carnagione di porcellana, belli, al punto da venir paragonati ai due putti, dipinti nel quadro, più importante, della chiesa,  della parrocchia, mettevano in evidenza, la differenza delle diverse peculiarità, presenti tra fratelli e sorella.

I frugoli, consapevoli della loro bellezza, spesso la deridevano, per le sue lentiggini. Erano soliti ripeterle -" Melania che non si lava il viso, mai, andrà in Paradiso!" questa frase, aveva sempre, il potere di farla andare, completamente, fuori dai gangheri.

Alcune volte pensava di essere una creatura del diavolo, sia per il mancinismo, che per quei capelli, che assomigliavano così tanto, alle fiamme dell'inferno.

Sovente il suo sonno era disturbato, da brutti sogni, anzi, veri incubi. I cui personaggi erano una sorta di diavoli, armati di forcone che la rincorrevano, con l'intenzione di portarla negli inferi.

Quante volte, si era svegliata, nel cuore della notte, in un bagno di sudore  e con con il cuore che andava a mille.

Però, mai si era permessa, di disturbare i genitori, mai aveva provato a chiedere loro, ospitalità nel lettone. Lei era fatta così.

Adesso, all'età di sedici anni, avvertiva il peso abnorme, di una diversità, che mal tollerava, pur non facendolo intuire a nessuno.

Questo la faceva emarginare, non solo dalla famiglia, ma anche dal resto della società.

La solitudine la avviluppava con i suoi fili invisibili, comprimendola dentro ad un bozzolo, anche se, il dolore di quella morsa era mitigato dal senso di protezione, che provava, nel rimanere  all'interno di questo.

Era in bagno, davanti alla grande specchiera, mentre stava cercando, con l'ausilio di uno specchietto, di raccogliere i capelli sulla nuca. Non che ne avesse grande voglia, né che lo facesse per vanità, ma, dovendo andare in spiaggia, quel gesto aveva unicamente lo scopo pratico, di arginare la folta chioma. 

Udì la voce di sua madre, scandire il suo nome, associato ad un termine che da tempo ricorreva nella sua mente: "adottata"

Fu allora, che lentamente, aprì la porta del bagno per  poggiare l'orecchio su l'altra porta, chiusa, che dava nel grande salone, dove Marina, la mamma, stava conversando , con Sara, l'amica.

"L'abbiamo adottata all'età di due anni"continuò,la madre di Melania.

Questa frase, fece scattare, la ragazzina, che provò un improvviso desiderio di fuggire via, da quel luogo ed, uscì velocemente  dirigendosi verso il mare.

Arrivata al pontile, una stanchezza improvvisa le calò addosso,     tanto da indurla a sedere sul pavimento del ponte, con il busto aderente alla balaustra e le gambe, penzoloni.

E, poi si era trovata quell'assurdo specchietto in mano.

Adottata, adottata, rimuginò, diverse volte, questa parola, dentro di sé, per giungere alla conclusione che, questa, corrispondesse sicuramente alla verità.

Una verità che pur nella sua crudezza, veniva, a dischiudere la porta del dubbio, sciogliendo l'enigma, che l'affliggeva.

Che non facesse parte di quel nucleo in fondo lei, lo aveva sempre percepito, sono cose che si avvertono, si disse.

No, non poteva continuare a rimanere con loro” pensò con una punta di orgoglio.

Ma, quel pensiero, la fece piangere. Lacrime di rabbia scesero copiose sulle guance arrossate, mescolandosi ad altre di dolore.

Ambedue i rigagnoli, annaffiarono le lentiggini, come fossero fiorellini di campo.

Si asciugò le lacrime con l'avambraccio, tirò su con il naso, accorgendosi, che quella, fosse stata,l'unica volta che piangeva.

Si alzò, e si diresse verso casa.

Quella sera avrebbe chiesto spiegazioni.

Salì velocemente le scale, con l'intenzione di arrivare al più presto nella sua stanza.

"Melania, attenzione mi fai cadere! Ma dove hai la testa, benedetta ragazza!" esordì la mamma tenendosi alla ringhiera.

A quel baccano, Luna, la cagnetta bianca, si mise ad abbaiare festosamente, correndo verso di lei, la riempì con una grande quantità, di dolcissime leccate, che, nel costume canese, equivalgono: ad amorosi baci

La ragazzina,la prese in braccio, contraccambiando con altrettante affettuose carezze.

-"Sara, mi ha espresso il desiderio di voler, pure lei, adottare un cucciolo di cane, a proposito non hai mica da qualche parte il numero telefonico del canile "? Chiese, Marina, alla figlia.

Melania, ammutolì, ricordandosi quando, lei e Marina, erano andate al canile, con l'intenzione di prendere un cagnolino di pochi mesi, ed invece avevano portato a casa Luna, costretti dalla sua irruenza e simpatia, infatti, essa,le era saltata in braccio, senza volerne, poi, saperne più, di scendere.

In pratica, quel giorno, fu Luna, a scegliere Melania.

Per questo loro, l'avevano adottata, anche se, in realtà, quella candida cagnetta un po' ruffiana, avesse già, ben due anni, di età.

 

*

Geni

Ma questo è veleno”



Poche parole pronunciate da una boccuccia imbronciata, rese più incisive da due occhi castani terribilmente arrabbiati e, da smorfie di disgusto, scatenarono la risata più grassa che avessero mai condiviso Carla e Pietro.

I genitori di Elisa ridevamo increduli che una bambina piccolissima fosse stata capace di paragonare il sapore di una medicina a quello del veleno, quando mai Elisa, aveva assaggiato veleno?

Un anno appena, linguaggio: allo stadio della parola frase.

E,adesso quell'uscita così inaspettata - Ma questo è veleno!-

Pensarono che forse Elisa avendo sentito pronunciare quella frase, da qualcuno dei familiari, l'avesse captata e immagazzinata per tirarla fuori al momento opportuno.

Unabella intelligenza!” Esclamò babbo Pietro, ancora incredulo.

Il fratello Francesco, di nove anni chiamato “lo scienziato” della famiglia per il suo interesse per la scienza e, per il suo cercar sempre una spiegazione a tutto. Pensò bene di convocare i genitori nella sua cameretta studio, fornendo una spiegazione logica alla risposta della sorella, che secondo lui non era poi così tanto eccezionale.

Nonostante Elisa sia piccolissima, la reazione è stata talmente forte da innescare quel botta e risposta così incredibile per cui mi sembra giusto spendere alcune parole, per spiegarvi il processo nei dettagli:

Il medicinale per essere precisi trattasi di “Protargolo” dalle narici è sceso nelle cavità nasali ed a sua volta in quelle orali, scivolando sul palato e violentando con il suo perfido sapore, il povero gusto, che avvezzo solo a latte e a pappine dolci, ha avuto una reazione talmente forte, da cercare una risposta adeguata nel vocabolario di Elisa. Non accontentandosi di un semplice puah! ne di un pfff , delle prime pagine, colme anche di altri suoni onomatopeici, è passato oltre, saltando un capitolo. Fermandosi addirittura, nella pagina dove stanno le frasi e, scegliendo fra le poche, quella che faceva al caso suo. Per metterla subito dopo nella bocca di Elisa,come risposta a questa spiacevole circostanza.

E'meglio farci capire subito !” ha suggerito il gusto ad Elisa, mentre consegnava la frase alle corde vocali.

Ecco, perché Elisa ha pronunciato la frase.

Io, non ci vedo niente di così sbalorditivo da farvi essere così straniti, spiegò Francesco ai genitori, ancora più stupiti.

Ma soprattutto compiaciuti, di aver generato due GENI !



*

Risveglio

 


Con un balzo, il gatto atterrò sul davanzale della finestra della casa, i suoi magnetici occhi s'incollarono al vetro, e cominciarono a scrutare all'interno della stanza.

Simili a due torce elettriche, entrarono nell'ambiente buio e, si misero a rovistare ogni angolo.

In quella stanza, il passaggio della luce del sole, era ostacolato dalle pesanti tende di lino bianco, ricamate a mano, da Rosa, in tempi non sospetti, ed in parte, dagli arbusti secchi che si aggrappavano all'intonaco esterno: un glicine, una pianta dai fiori viola e, dal profumo penetrante, questa era stata, adesso  solo un ammasso di scheletriti rami secchi.

Anche gli occhi di Rosa, una volta, erano stati del colore dei fiori del glicine, ma poi il tempo li aveva scoloriti, il viola non si vedeva più, adesso erano solo grigi

Nonostante le tende, fossero tirate ai lati della finestra: la superficie a vetro rimasta libera, era minuscola, ma, sufficiente, a soddisfare la curiosità dell'animale.

Rosa, come fosse stata evocata da lui, fece la sua apparizione nella stanza: minuscola figura che si muove con lentezza, portava con se appoggiata ai palmi delle mani congiunte, a mo di vassoio, la consueta ciotola di latte. In quel momento assomigliava ad una geisha che serve il sachè.

La sua piccola mano aprì, unospiraglio di finestra e appoggiò con l'altra, la ciotola sbeccata, sul davanzale, accanto al gatto.

Si sedette sulla sedia impagliata e, si mise ad osservare attraverso il vetro: il felino, che leccava il liquido bianco.:lo faceva con eleganza e aria disufficienza, come se quel cibo, fosse a lui dovuto. Ogni qualvolta quegli occhi verdi incontravano i suoi, Rosa, abbassava lo sguardo, con una sorta di imbarazzo.

Soggezione e attrazione, dentro di lei, si confrontavano e si scontravano. Senza dubbio quell'animale era riuscito a destarle, sensazioni sopite da tempo.

Come tutte le altre mattine, attese che il gatto avesse terminato il latte, per ritirare la ciotola.

Questa volta però, lui, riuscì a farsi largo e a catapultarsi sul pavimento, della cucina.

Questo gesto, sorprese Rosa, che vacillò, la ciotola cadde a terra e si ruppe.

L'animale, intanto si era aggrappato alle tende: gli unghioli impigliati nella trama della stoffa, si dibatteva per uscirne.

La donna, raccolse i cocci e, li gettò nella pattumiera.

Lui, riuscì a liberarsi, purtroppo, a scapito della povera tenda che, rimase lacerata in diversi punti del tessuto. Poi con un salto deciso, balzò sul divano liberty. “Chissà per quanto tempo aveva agognato di raggiungere quella postazione” Emise un miagolio soddisfatto, quindi socchiuse gli occhi e diresse lo sguardo verso Rosa.

Gli occhi scoloriti della donna,indugiarono in quelle fessure verdi, mentre le sue gambe malferme, mossero alcuni incerti passi, verso il divano, dove la bestiola, stava  comodamente adagiata.

Lo sguardo del gatto inviava a quello di Rosa, segnali invitanti, suadenti, tanto che l'anziana signora ne rimase attratta e, fece la cosa più insolita, che mai si sarebbe aspettata di fare: si sedette vicino a lui, nonostante il suo piccolo corpo fosse scosso da un lieve tremolio.

Poi, la sua mano piccola e morbida, si mosse, in direzione dell'animale: una, due, più volte per poi subito, ritirarsi, fino a che, il suo palmo bianco e freddo, incontrò la superficie calda e liscia del manto fulvo del gatto. Le dita, assorbirono il tepore e la leggera vibrazione di quel ronfare.

Rosa a quel punto cessò di tremare e ascoltò dentro di se farsi spazio, un movimento impercettibile, un leggero formicolio, anzi una specie di solletico, no, una vera musica!

Fece un bel respiro e, si sentì bene, proprio.come un ruscello che torna a scorrere nel proprio letto.

Qualcosa di antico ed immoto, nella sua anima riprese a fluire.

Guardò il gatto, accanto a lei che si era appisolato.

Si alzò ed andò a spalancare la finestra, si affacciò e fra quell'intrico di rami ormai secchi, notò un giovane virgulto, di un tenero verde, cercare il sole. Sorrise.

L'indomani avrebbe chiamato il giardiniere a potare la pianta.

Il gatto, acciambellato sul divano,dormiva sornione, ma nello stesso tempo, riusciva a captare i movimenti ed i pensieri di Rosa e, anche ad  ascoltare la flebile voce della fogliolina invocare il sole.

L'animale, si stirò ancora e, decise di staccare per un momento la spina del suo sesto senso. Giusto il tempo per farsi una dormita: "Proprio di quelle come si deve, in fondo se lo era meritato!"

 

 

 

 

*

Sara verso la rinascita


“Ciao Sarona “ la salutò Emma, portandosi la mano davanti alla bocca per nascondere uno sbadiglio.
Lei era già seduta sul sedile grigio del vagone. “Ciao ti telefono appena arrivo e grazie di esser venuta “ rispose. “Ma adesso vai a dormire.”
Il treno partì con un sospiro.
Sara era sola in quel vagone, ai suoi piedi gonfi, due gonfie assurde valigie, rosa.
Le avrebbe dovute mettere sul portapacchi, ma erano talmente pesanti !
Tutto era pesante. Lei in primis. Passò in rassegna tutte le cose pesanti: sicuramente la sua vita, il suo lavoro e adesso quelle valigie, che sembravano il suo prolungamento o forse è meglio dire il suo allargamento.
Le guardò accorgendosi che erano simili alle sue due grosse pesanti tette e le odiò. Così come odiava ogni parte del suo corpo. Certo le valigie avrebbe potuto sceglierle di un colore più scuro, magari blu.
Pensò a ciò che contenevano e si calmò.
Basta, non ce la faceva proprio più....si impose di pensare a cose più leggere  che le regalassero un po' di quella felicità che non riusciva mai ad assaporare.
Sette ore di viaggio, in quel vagone... Quelle non le pesavano, era abituata a ben altro.
In quelle sette ore, avrebbe riposato. Si sarebbe concessa anche una dormitina con tanto di sogno colorato ( ci sperava) e poi avrebbe pensato....alla nuova vita che l'aspettava. Un'incognita.
Pensò al ruolo a cui aveva rinunciato, volontariamente.
Un ruolo che le apparteneva ma al quale si era subito sottratta.
Se lo era strappato di dosso il primo giorno, come un vestito che non le apparteneva. Abbandonandolo e cedendolo a sua madre.
Chissà se adesso che sua madre non era più in grado di indossarlo l'avrebbe potuto rimettere.

Quel vagone era interamente occupato da lei e dalle sue valigie.
Fortunatamente i passeggeri su quel  treno non erano molti. Se non fosse entrato nessuno, avrebbe potuto mettersi più comoda. Magari con le gambe allineate al corpo, sopra il sedile.
Come le pesavano quella gambe.
Il treno aveva preso un'andatura costante, camminava sulle rotaie con il suo carico umano, andando avanti tranquillamente nel suo percorso, con l'intento di  trasportare ogni persona alla propria destinazione.
E lei si sarebbe lasciata trasportare, così era stato deciso. Era giunto il momento di raggiungere la propria destinazione.
Le piaceva raccontarsi la bugia di essere ormai,  una normale banale pensionata  che tornava a casa. “Che grande cavolata,” pensò.
Gli occhi le si chiusero al ritmare del treno.
Da li a poco si ritrovò nella dimensione della non coscienza.
Dove l'ansia e le tensioni a volte si appianano  fino a diventare  sogno è allora che tutto sembra più accettabile.

La stanza aveva ancora i mattoni rossi lucidati a cera, al centro la grande tavola di marmo. Il camino nell'angolo era acceso, davanti al fuoco
sul panchetto impagliato,  una minuscola figura sedeva, imbacuccata in uno scialle grigio, aspettando in silenzio il fluire lento dei giorni.
Solo dagli occhi neri e profondi si capiva che non era un pezzo dell'arredamento, ma che faceva parte degli esseri viventi.
Quegli occhi in cui scorrevano grandi emozioni, avevano accompagnato Sara, per molti anni.
“Vieni Sara ti ho preparato il pane con la panna del latte, ho messo anche un po' di zucchero, svelta mangialo, veloce, prima che arrivi la mamma.”
La nonna la viziava, fra loro esisteva un legame fortissimo.
Erano accomunate dal dolore di non essere comprese dalla stessa persona: la nonna dalla figlia, la nipote dalla mamma.
Sara afferrò quella leccornia con la mano grassoccia e mentre cercava di portarla alla bocca per gustarla, giunse la madre, appena in tempo per impedirglielo. Come una furia le tolse la fetta di pane dalla mano, scaraventandola nel bidone dell'immondizia.
Poi guardò mamma e figlia con uno sguardo pieno di odio e disse “Sara non deve mangiare questa porcheria!”
Che era come se avesse detto “ Sara è grassa troppo grassa, terribilmente grassa"
La nonna non parlò, ma dai suoi occhi uscirono lampi di rabbia e di dolore, verso la figlia. Poi quegli occhi guardarono Sara e lei si sentì investita da un soffio di grande amore e comprensione. Ma questo non poteva bastare.
Sara si rifugiò nella sua cameretta e si sdraiò sul letto dove  come al solito si addormentò.
Dormiva così bene in quel letto morbido.....si sentiva leggera, la testa riposava. Il mondo ovattato in cui era scivolata le succhiava i cattivi pensieri, le scioglieva i nodi più stretti, la ristorava.

“Cazzo, questa pensa di essere la padrona del vagone”!
“ Senti come russa...ah,ah,ah, sembra una macchina a vapore” !
I due ragazzi si sedettero davanti a Sara.
Dopo le battute iniziali e il tentativo fallito di svegliarla si misero a leggere.
Sara continuava a dormire beata...

Aveva appena terminato di danzare. Era l'etoile e prima ballerina della scala e, si stava godendo il delizioso suono dello scrosciare degli applausi. Quando in platea scorse la figura di Nando che rivolto verso gli spettatori pose termine a quell'effluvio dicendo: “Ma che ballerina del cavolo! Vi siete presi un grosso abbaglio! Quella non è la stella danzante, ma non la vedete ? Guardate bene è la Sarona,  grassa e maialona !”gli applausi cessarono e tutti si misero a ridere e a schernirla ripetendo a mo' di cantilena “ Sarona grassa e maialona/ Sarona grassa e maialona"
Lei, rabbrividì e si alzò per sfuggire al suo uomo e  aguzzino che certamente era venuto a riprenderla.

“ A grassò ma siediti un lo vedi stai a cascà” disse una voce meno bestiale, di quella di Nando. Poi si sentì sorreggere da due braccia, che la fecero sedere.
Sbalordita si rese conto di essere ancora in treno. Davanti a lei due ragazzi di circa diciassette anni la guardavano.    
Quando si riprese, chiese loro quanto tempo mancava per arrivare al paese.
“Poco”, rispose il ragazzo biondo, “una mezz'ora. Scendiamo anche noi lì.  Possiamo aiutarla nel trasporto di quelle due grosse boe.”  “Ma che ci sarà mai dentro!” chiese il più scuro
Sarona lo guardò e gli sorrise. Il ragazzo si accorse che quando sorrideva era bella, aveva un sorriso dolce che le faceva venire sulle guance burrose due simpatiche fossette, e gli occhi grigi che si riempivano di pagliuzze argentate.
“Sono due valigie piene di regali, tanti. Sono i doni di diciassette compleanni e diciassette Natali. Acquistati ma non recapitati.
Che poi sono scivolati  nella voragine  scavata dal tempo.
Eppure ogni regalo è stato acquistato con l'amore di essere donato.
Ma in realtà non lo è mai stato. Forse per paura, per vigliaccheria, per egoismo. Adesso sono tutti lì ammucchiati dentro le valigie. Spero tanto che l'affetto con cui sono stati comprati, gli sia rimasto dentro.
I ragazzi si guardarono senza capire, non risero, ne' chiesero spiegazioni.

Il treno si fermò i tre erano arrivati.
I giovani si misero lo zaino a spalle, poi presero una valigiona rosa ciascuno, il biondino chiese “dove dobbiamo accompagnarla signora ?” Mentre il ragazzo più scuro aspettava silenzioso e assorto, lei rispose “ Devo andare in Via Dante al n° 15”
Il ragazzo scuro annuì con il capo e si avviò, il biondino lo seguì e la donna li seguì a sua volta.
Quel terzetto silenzioso assomigliava al mini corteo di un funerale. 
"Magari fosse stato il mio ! " pensò Sara. Avrebbe tanto voluto seppellire quello che era stata e amen.
A un certo punto, circa a metà strada il ragazzo scuro si fermò,  tornò indietro fino ad affiancarla.
Fu allora che cercò la sua mano morbida, per stringerla dentro la sua asciutta e fredda. Poi guardandola negli occhi le disse “ Vieni, siamo quasi arrivati a casa, la nonna ti sta  aspettando.
Fu allora che Sara iniziò il  primo passo verso la propria rinascita.
Serenella


*

Troppa nebbia



Cazzo! Come vorrei riuscire a sciogliere, questa nebbia che mi copre di grigio l'anima, questo velo terribile che nasconde e imprigiona un casino di roba.
Vorrei poterla tagliare a pezzi e farla volare in cielo insieme alle nuvole che coprono questo giorno grigio.
Tutto è grigio oggi.  Dentro e fuori.
E' fredda la mia nebbia e densa e antica.
Ogni giorno che passa, lei acquista spessore. Avvolge, comprime tutto.
Spiazza, la luce e i colori  ancora una volta, fino a farli scivolare, nel pozzo dei  tanti desideri perduti.
E' il grigio adesso che prevale. Qui è tutto offuscato. Non riesco più a trovare la strada, per incontrarti.  Ho tentato, ma ho mai imboccato il percorso giusto.
Adesso è così difficile trovarlo....
Devo cercare di trovare i lembi di questo velo malefico, prima che s'infittisca e inghiotta tutto.
Devo riuscire a sollevarlo e, cercare  una luce, un segnale, che mi indichi la via per arrivare a te.
Mi piacerebbe che tuo padre diventasse l'uomo che fotografa la nebbia.
Gli  basterebbe aprire il cassetto dove giace da tempo la macchina fotografica, dimenticata e   polverosa. Premere il bottone e scattare immagini a questo paesaggio ancora bello, ma immerso nella nebbia.
Innumerevoli click, scattati con leggerezza, con amore con  l'intenzione di comprendere quello che non si rivela ai suoi, ai nostri occhi stanchi e annebbiati. Quindi aguzzare la vista per leggere queste immagini velate, con curiosità, con entusiasmo, senza paura di scoprire, un mondo sconosciuto.
Un mondo che io vorrei conoscere da vicino per cercare il labirinto, che hai preferito ad una strada  comoda e dritta. Forse per gettarti il gomitolo come  Arianna a Teseo.
Per liberarti. Per liberarci.
Ancora sbaglio....non son capace di non porgerti il mio aiuto.
Non voglio capire.
Finalmente stamani, forse le tue parole, sono riuscite a dissipare un po' di questa nebbia. Ho  compreso che quel labirinto è stato scelto da te. Sei tu che hai voluto intraprenderlo. Perché adesso questa è per te la strada necessaria da percorrere. 
Ho capito anche che possiedi la determinazione e la motivazione che ti aiuteranno a trovare la via di uscita.
La nebbia è meno grigia adesso. Se osservo bene, intravedo dei bagliori d'argento.
Ho estratto dal cassetto la macchina fotografica, per scattare nuove immagini.
Voglio fotografare l'immagine di quella donna che la nebbia mi ha nascosto. Voglio regalarla a tuo padre.
Chissà, forse la incornicerà accanto al tuo ritratto di bambina.

*

Il nonno di Lorenzo



-Questo masso che comprime le emozioni e ne impedisce il loro fluire è insopportabile.-
Questo è quello che pensa quel giorno Paolo, seduto sulla panchina dei giardini. Ha portato con sé notes e  penna, che più volte estrae dallo zaino, con l'intenzione di scrivere, rimanendo però con la penna a mezz'aria e il foglio immacolato.
Sono giorni che ci prova, ma le parole non trovano via di uscita, e rimangono dentro: imprigionate e compresse.
Si sente vuoto. Come se i suoi sensi non avessero più la capacità di percepire. -Non entrando niente, niente può uscire- si dice a malincuore. Da diverso tempo il suo termometro delle emozioni rimane sullo zero senza accennare a muoversi.
Eppure c'erano stati momenti in cui anche un minuscolo insetto od un filo d'erba riuscivano  a scatenargli un'emozione sincera, allora un' energia positiva si impossessava di lui e lo aiutava a tradurre quel sentimento in parole, che  riusciva a fermare sulla carta.
Parole preziose come perle, che rotolavano fuori dalla sua anima, per rimanere impresse su una pagina da condividere con la comunità.
Lo osservo, noto il suo sguardo: la sua traiettoria è diretta verso un punto lontano. Un punto distante dalla terra, distante dal tempo e dallo spazio. Forse è alla ricerca di un mondo diverso da questo.
Nei suoi occhi leggo lo smarrimento di un bambino che ha perso la strada.
Si guarda intorno: tutto gli appare distante ed ostile. Il paesaggio in cui è immerso  non lo conforta. In giro non c'è  un fiore.  In quella che doveva essere stata un'aiuola,  sono accatastati  sacchetti di plastica colorati.
Alcuni sono in parte rotti e, l'immondizia fuoriesce senza pudore appiccicandosi ai pochi asfittici fili di  erba, che si affacciano  sul terreno.
Due ragazzi, seduti sulla panchina dietro alla sua, bevono una birra dietro l'altra, cospargendo il suolo di lattine gialle.  Altri fumano in fondo ai giardini, sdraiati su quella specie di prato malato di alopecia: sono tre ragazzini e una ragazza, talmente rimbecilliti dal fumo, che fanno il gesto di cogliere fiori colorati, e farne un mazzo.
Tutto questo lo intristisce molto.
Adesso, non estrae, più nemmeno la penna, il suo sguardo sembra rassegnato. Non riesce più a decifrare i segni di questa civiltà, ma forse è più appropriato denominarla inciviltà, pensa.
Vorrebbe capire, o almeno riuscire ad avvicinarsi  al pensiero giovanile. Ci ha provato.
Ha cercato di mettersi nei panni di suo nipote, ma a volte questi, gli calzavano talmente stretti da non sopportarli, altre gli cadevano da tutte le parti.
Così ha preferito rinunciare. Avrebbe voluto dargli aiuto, con i suoi consigli, mettergli a disposizione  le sue esperienze, magari fare una risata insieme a lui, ma purtroppo fino ad adesso non è stato possibile.
Questa incapacità di comunicare con il nipote lo affligge profondamente, si sente impotente.
Qualsiasi conversazione tenti di avviare con lui, finisce sul nascere puntualmente con la medesima  frase di Lorenzo -Quelli erano tempi diversi  caro nonno !.-
Alla fine Paolo trova un appiglio tra i ricordi: il suo sguardo adesso si appoggia sul vialetto dove, riesce a scorgere l'immagine della sua ragazza. 
Intravede da lontano, il suo abitino azzurro. La sua andatura è veloce e armoniosa, quasi a voler interpretare quella musica gioiosa che tiene dentro.   Adesso è proprio davanti a lui, con il suo cerchietto dorato tra i capelli scuri e ordinati, ha il sorriso pulito e gli occhi innamorati. Paolo, con la mano fa il gesto antico di scostarsi i capelli dagli occhi, quel suo ciuffo scuro che piace tanto alle ragazze “Forse le sue dita ingannate dal ricordo riescono anche a percepirne la morbidezza.”
Adesso i ragazzi hanno chiome voluminose che non lavano, anzi sporcano con sostanze appiccicose, appositamente, per poter sfoggiare strabilianti capelli rasta.
 I jeans sono scuciti in più parti, e la vita è talmente bassa da mostrar le chiappe.
Il ricordo di Bianca lo ha scosso dal torpore. Il suo sguardo è diverso. Adesso, Paolo, sorride. Sembra che la vita sia tornata a fluire dentro di lui.
Rimane seduto sulla panchina, si sente il Paolo di cinquanta anni fa.             
E' talmente preso da quel vecchio ruolo, che non si accorge che una ragazza lo sta osservando. Sobbalza quando lei gli chiede:
             -E' il nonno di Lorenzo?- 
           - Si ! Si sente rispondere, sono il nonno di Lorenzo.- E' allora che alza lo sguardo e incontra gli occhi innamorati di Bianca.
Poi si alza, saluta e s'incammina verso casa. Sono quasi le diciannove e Bianca lo aspetta per la cena.






*

PARTO AI CARAIBI

Genevieve quella sera si coricò primadel solito.

Era molto stanca e si sentiva pervasa da una strana inquietudine. Mara la cameriera di colore, la tranquillizzò e lei riuscì a dormire qualche ora.

Mara era preziosa per Genevieve in quel delicato periodo. Lei aveva avuto ben dodici figli e quindi era molto esperta in gravidanze. Mentre Genevieve era primipara. La presenza di Mara la tranquillizzava e l'acquietava. Per questo le aveva chiesto di rimanere a dormire in un letto vicino al suo, adesso che il marito era in viaggio.

Mara l'avrebbe aiutata anche durante ilparto. Pur non essendo un'ostetrica diplomata, nell'isola aveva fatto nascere molti ragazzini.

Genevieve fu svegliata improvvisamente, da qualcosa di umido che le colava giù per le cosce. Chiamò subito Mara, era molto spaventata. Mara alzò bruscamente le candide lenzuola che coprivano Genevieve. Osservò la grande chiazza umida sul lenzuolo sottostante e senza dire niente alla futura madre, andò in cucina da Valentin, e lo inviò in paese a chiamare il medico. Poi ordinò Gina di mettere al fuoco due grandi pentoloni di acqua 
Genevieve era pallidissima, la sua carnagione di bionda naturale era divenuta trasparente e gli occhi azzurri denotavano molto spavento.
Sapeva che per la nascita di un figlio, molto spesso, le donne ci rimettevano la vita. E lei adesso aveva paura. Aveva pensato sovente, ai sentimenti che avrebbe provato al momento tanto atteso della nascita del suo primo figlio. Quel momento l'aveva idealizzato. Il diventare madre, le dava una gioia immensa.Per questo pensava che quel sentimento così forte avrebbe sicuramente sconfitto la paura.
Invece la paura adesso prevaleva su ogni cosa.
Quella sensazione di un fluido che usciva dal suo corpo la sconvolse molto, e soprattutto la spaventò l'ignoranza di quell'evento naturale.
Quando Mara tornò da lei, la trovò,in preda ad un tremito nervoso che la scuoteva tutta.
-Non è questo il momento di tremare calmati signora, adesso devi darti da fare!- disse la creola a Genevieve.
La signora, avrebbe voluto chiedere a Mara, la causa della fuoriuscita, di quel liquido, ma tanta era la paura che non riuscì a parlare
Intanto le doglie iniziarono: prima i dolori si annunciarono non molto intensi ed ad intervalli abbastanza lunghi. Poi la loro intensità aumentò. Arrivò il medico al quale Mara riferì che si era rotto il sacco amniotico.
Genevieve intanto tremava sempre di più.
Dopo la visita il medico chiese a Mara di andare a prendere velocemente l'acqua sterilizzata e di appoggiare il pentolone sul tavolino. Dopodiché intervenne sulla puerpera rovistando con le grandi mani all'interno del suo utero. Il volto del dottore era accigliato e Mara capì che c'era qualcosa che non andava. Il medico, continuò a far manovra all'interno del ventre di Genevieve cercando di operare dei cambiamenti alla posizione delfeto. Che invece di presentarsi con la sua bella testina, mostrava le sue piccole estremità. Si trattava di una manovra delicata, che lui medico da molti anni, conosceva molto bene. Alcune volte era riuscita, e ilbambino era nato senza problemi. Altre non lo era e, qualche volta il feto non era sopravvissuto, oppure se lo era, aveva riportato lesioni tali,da comprometterne l'autonomia
Il medico fece diversi tentativi, ma il nascituro non aveva la minima intenzione di cambiare la sua posizione.
Genevieve era impietrita, il tremito sen'era andato, ma il suo pallore era sconvolgente.
Mara le era accanto, pronta ad eseguire qualsiasi ordine il medico le impartisse.
Il grande specchio rifletteva le figure di due donne, completamente diverse. Contrastanti. L'una, l'esatto contrario, dell'altra.
Mara la creola: aveva carnagione scura, occhi grandi e neri e labbra, carnose. Il corpo pesante e tozzo.
Mentre Genevieve, francese di nascita: era bionda di capelli, con una carnagione chiara e due occhi azzurro pallido ed un corpo sottile come un giunco.
L'immagine riflessa nello specchio appariva simile a quella di un quadro d'autore, dipinto con l'intento di sottolineare le diversità somatiche legate a quell'isola.
Il medico rinunciò a capovolgere il bambino e decise di farlo nascere nella sua posizione. Non si poteva fare altrimenti. Chiese a Genevieve di spingere, spiegandole come dovesse fare. Purtroppo la puerpera, non fu capace di farlo in maniera adeguata, poiché la pressione le era scesa e rischiava il collasso. Allora il medico fece sedere Mara sulla pancia di Genevieve per aiutare il bambino a scivolare fuori. Il momento era veramente drammatico. Il bambino non poteva rimanere ancora all'interno del ventre di sua madre, altrimenti sarebbe soffocato. La povera madre era esausta, la pressione, adesso, doveva essere bassissima. Una miriade di gocce perlacee ricoprivano il suo volto. Credeva di essere giunta alla fine. - Mi accontenterei di vedere anche solo per una volta il mio bambino-pensava stremata.
Intanto Mara, seduta sulla pancia cercava di fare i movimenti che le suggeriva il medico.

Finalmente un movimento energico e nello stesso tempo delicato, riuscì a far venir fuori parte del corpo della bambina (adesso si poteva riconoscere il sesso) solo la testa rimaneva ancora nel ventre della madre. Il medico, inserì, ancora le mani nell'utero della donna, per cercare di far uscire con delicatezza quella piccola testolina, che voleva rimanere al buio. Con un movimento abile riuscì nel suo intento.

E la piccola vide per la prima volta la luce. Una meravigliosa luce. Quella dell'alba del 17 Febbraio del I880. Una luce intensa che sorgeva, dall'acqua azzurra del mare dei Caraibi e, che l'infante salutò con il suo primo vagito.


*

LA FUGA DEI CERVELLI


"FUGA DEI CERVELLI DALL'ITALIA"

La notizia apparve ripetutamente sullepagine di tutti i giornali. Si propagò a macchia d'olio, allarmandoi diretti interessati: i cervelloni.

Che pensarono anch'essi di fuggire.

-Nontira aria buona qua in Italia -si dissero. Dobbiamo andarcene,altrimenti finiremo fritti!-

Come fare? Bisognava trovare una via difuga. Non era possibile rimanere.

Corteccia, lobi, tutte le aree ed anchele scissure di Silvio e di Rolando si attivarono spronando i dueemisferi a connettersi fra loro per elaborare nel minor tempopossibile un piano di azione. Il piano F, così fu chiamato, constava di quattro mosse fondamentali:

1°Uscita dalla scatola.

2°Individuazione e scelta di una via di uscita

3°Trasformazione della massa corporea a misura dell'aperturaindividuata.

4°Sviluppo di appendici idonee allo spostamento.


Un gioco da ragazzi per loro...infattiin quattro e quattro otto, sgusciarono fuori.

Presero la decisione collegiale dichiamarsi ENCE, che poi non era altro che l'inizio del loro nome dibattesimo.

Qualcuno di loro sviluppò un paio diali, alcuni pinne, e branchie, altri ruote e motore. Così chi lasciòl'Italia viaggiando per via aerea, chi per mare, chi per viaterrestre,.Partirono tutti, lasciando i loro involucri.

Così i nostri “ENCE” approdaronoin diversi paesi del globo. Dove riuscirono a diventare famosi. Unpo spaesati all'inizio, soprattutto per la drastica scissione, dalloro corpo che erano stati costretti fare, adesso soddisfatti eorgogliosi per la conquistata autonomia.

Non essendo di piacevole aspetto lagente diffidava di loro, ma cambiava opinione quando veniva aconoscenza del livello del loro quoziente intellettivo. Venivano invitati nei migliori salotti, e la bella gente si vantava di averliospiti.


Intanto in Italia, i loro corpi venneroprelevati dai burattinai che non aspettavano altro.

Furono da loro muniti di fili eutilizzati come marionette nelle piazze e nei teatri di tutta Italia,per raggiungere i loro scopi. Purtroppo vennero costretti a farefigure ridicole e meschine.


La vita degli ENCE invece scorreva inbinari densi di soddisfazioni.

Le loro continue scoperte nel campodella ricerca, erano veramente geniali e necessarie a tuttal'umanità. I media di tutto il mondo parlavano sovente di loro.

Purtroppo l'ago della bilancia, dellavita degli ENCE, dopo aver sostato a lungo, sul segno positivo,precipitò all'improvviso su quello negativo: Nonostante fosserodislocati in diversi punti del mondo, furono tutti colpiti da unastessa epidemia. Pian pianino la loro intelligenza cominciò ascemare. La salute mentale a vacillare. Erano spesso colpiti da fitte lancinanti nella zona occipitale. Poi da accurate analisi,scoprirono che la materia bianca come quella grigia, mostravano segnidi sofferenza.

Un virus? Chissà!

Deciserodi riunirsi, per analizzare la situazione. Si trovarono tutti aBoston

-Tuttociò è sicuramente causato da un forte stress.-Iniziò uno di loro.Sicuramente-annuirono, alcuni.

-Unostress probabilmente dovuto allo sforzo di sopperire agli organimancanti.- specificò un altro.

Certo,continuò un terzo, esponendo anche lui una sua teoria sulla causadello stress.”

Ognunodi loro espose diverse teorie, tutte logiche e motivate.

Molto lontani da pensare che la veracausa della malattia fosse ( dovuta solo e unicamente allesofferenze morali subite dal loro corpo.)

Esisteva infatti tra CORPO e MENTE un legame indissolubile che purnel distacco non era riuscito a scindersi.

CORPO e MENTE sarebbero stati sempre accomunati dallo stesso destino.

E così fu....

Contemporaneamente in Italia, i corpiche stavano morendo di vergogna e di tristezza,cominciarono a cadereper terra, uno dopo l'altro come tante bambole di pezza, rotte.

Essi, invasero strade e piazze.

Erano giunti entrambi alla fine.

La materia bianca e la grigia, degliENCE evaporò fino ad essiccare.

Decisero di morire in patria e a stentiiniziarono il viaggio di ritorno, durante il quale alcuni cilasciarono la pelle.

I più fortunati spirarono sul sulsuolo natio.

In quel periodo gli operai comunaliadibiti alla raccolta differenziata, ebbero un gran daffare.

Lavorarono giorno e notte, persgombrare piazze e le strade.

Raccogliendo e caricando sui lorocamion corpi di migliaia di persone, e cervelli, scambiando questiper escrementi.

Quindi trasportarono tutto il materialeorganico alla discarica. Dove marcì al punto giusto, da divenire unottimo humus, perfetto a concimare e rendere più fertili le terreItaliane.


*

IL PROCESSO


IL PROCESSO


La fiamma sventolava nella notte, come sventola una bandiera. Colorata, splendente. Luce che viola il buio,calore che inghiotte il gelo, di quella piazzola alle cui spalle si ergono pini secolari: una pineta verde, bella e salutare di giorno. Colma di misteri e di vizi la notte.

Lei, avvolta in un abito di rosso fiammante, scollato fino a mostrare buona parte dei seni turgidi e bianchi. Lei con le labbra rosso rubino, riscalda le sue membra di perla al calore della fiamma. Quel fuoco la consola, le dona luce, la riscalda, le fa compagnia. Ma sopratutto le toglie la paura. Quella lingua di fuoco le infonde sicurezza ed energia, le procura una sorta di sentimenti atavici che la fortificano. Rappresenta il calore che lei custodisce dentro. Rossa come il suo abito, calda come ilsuo cuore, fra lei ed il fuoco c'é una simbiosi, almeno così lei ha sempre pensato. Lei che ha sempre amato il sole. Adesso costretta a vivere la notte, quando l'astro è assente, ne sente la mancanza. Che in parte quel fuoco riesce a colmare. Appena arriva sul posto prepara subito una piccola catasta di legna e accende la fiamma. Allora tutto sembra più bello, quello squallido posto, assume un fascino, quasi magico.E stasera la magia si sente più disempre.Un'auto nera si sofferma, prosegue, poi fa marcia indietro, per fermarsi davanti a lei. Lei si avvicina. Conosce l'uomo, dall'auto nera. A lei piace, perché è diverso dagli altri. La prende con una sorta di tenerezza fissandola negli occhi,senza violenza, quasi con rispetto, e questo le fa venire le farfalle nello stomaco. Piccoli attimi di felicità che vive e raccoglie per conservare gelosamente, in uno scrigno, come rubini. Questa sera lui, si offre di accompagnarla nel suo appartamento, lei, acconsente. Sale sull'auto, è bellissima. I suoi occhi di gazzella brillano nello splendido ovale del volto, dalla pelle di alabastro, la bocca rossa e carnosa, ma non volgare invita ad essere baciata, con calore, con passione. Tutto in lei fa scattare la voglia di unirsi a quel corpo morbido e caldo. Lui si sente molto attratto. Rossana è diversa dalle altre....lui questo l' ha percepito. Per questo quasi ogni notte è costretto a cercarla.

Quella, fu una notte piena di fuoco, lei partecipò con tutto il suo ardore e sentì di nuovo quel calore che le bruciava dentro. Passione e amore le riscaldavano l'anima.Scopriva di avere un'anima, solo quando era con lui, e questo le piaceva. Decise di rimanere tutta la notte. Osservava i lineamenti del suo compagno, che dormiva, con il cuore pieno di contentezza, come una sposa la prima notte di nozze. Poi si addormentò.....

Il treno fischiava, ma lei non lo sentiva e continuava a camminare incoscientemente sui binari. Lo sentì solamente quando ormai non era più possibile evitarlo. La prese in pieno. Lei si era seduta sui binari e guardava stupita, volare in aria i pezzi martoriati del suo corpo. Senza dolore, solo con stupore. Il solito incubo di sempre...pensò mentre si destava....Cerco' con la mano il bicchiere d'acqua sul comodino, ma il braccio le cadde giù. Il comodino non c'era.Si accorse di essere in una stanza diversa dalla sua. Si ricordò immediatamente dov'era. Cercò il suo compagno, ma il letto era vuoto. Sola in quell'ambiente nuovo, si sentì rabbrividire. Nonostante fosse una bellissima giornata piena di sole. Cercò gli abiti e le scarpe senza trovarli. Nuda, si diresse verso la porta. Aprì, si ritrovò in un' enorme stanza rettangolare: un tavolone d'ebano la percorreva tutta. Ai lati del tavolone, c'erano delle panche dello stesso legno. Un odore di incenso invadeva l'ambiente, insieme ad un silenzio inquietante.  Alle finestre c'erano delle tende nere, che ostacolavano il passaggio della luce. L'unica fonte di luce era un cero acceso in un candeliere, posto sopra un piccolo tavolo.Rossana si rannicchiò in un angolo della panca. Il suo bianco corpo nudo, riluceva, come il chiarore della luna di notte. Poi il silenzio fu spezzato dal cigolio di una porta. Lei scrutava impaurita dalla sua postazione, ogni movimento. La figura di un uomo incappucciato si stagliò davanti a lei dall'altra parte del grande tavolo. Tutto era buio, tutto era cupo, tutto era nero. Fuori e dentro di lei una cortina spessa di buio copriva la luce del sole e il lume della ragione. Evidenziando un enigma. L'oscurità era scesa anche nella sua mente, cancellando qualsiasi pensiero si presentasse, con un pennarello nero pece. Avvertiva fortemente la mancanza della luce del sole, il rosso del suo fuoco, per lei linfa vitale. Adesso si sentiva vuota senza energia. Aspettava, seduta su quella panca nera. Guardinga, come un animale nascosto nel buio, che ha paura di essere sorpreso da un altro più forte. La paura l'attanagliava, tutto quel nero, inghiottiva il suo rosso, trascinandolo in un baratro senza fine.Un rumore molto forte la fece sobbalzare. La figura che lei poteva percepire come un'ombra incappucciata batteva sopra la superficie del tavolo, un martello. Poi cominciò a parlare – Che inizi il processo- Queste furono le parole, che pronunciò! La figura, continuò con la sua arringa per circa una mezz'ora buona, con voce cupa e perentoria, senza mai fermarsi. Lei sentì pronunciare diverse volte il suo nome “Rossana” Comprese di stare assistendo ad un processo, di cui lei era l'accusata. Che fosse un gioco? Che fosse un sogno? Rossana non riusciva a capire quella falsa. Era confusa, intontita ed anche impaurita. Quando fu chiamata al banco degli imputati, riconobbe il suo compagno mascherato da giudice. Aspettava che le dicesse – Rossana, è un gioco, uno scherzo. Ne aveva incontrate, lei , nel suo lavoro, di persone strane. Il gioco continuava. La colpa di cui era accusata era quella di essere una prostituta. Certo, lo era, per questo era adesso in quell'appartamento. L'avesse mai fatto, si trovò a pensare. Lui continuava a parlare, poi emise la sentenza: -Morte!  La pena giusta per una battona è la morte! - Ecco, adesso è finito, adesso, lui si metterà a ridere-Pensò ed aspettò....

I passeggeri del treno delle sette erano seccati per quell'ennesimo ritardo, tutti i giorni c'era qualcosa che non andava.

Angela aveva staccato da poco. Era stanca e desiderosa di riposo....e il treno non arrivava. Un ferroviere disse, che c'era stato un incidente sulla linea. Una ragazza era stata investita dal treno. Forse si era buttata sotto. Un altro ferroviere disse che la ragazza era stata legata ai binari, con una catena.
Angela trasalì. Mai avrebbe pensato che, Rossana la sua collega, fosse la vittima.















*

La veste leggera





Maddalena si guardò attorno, cercava il palazzo bianco vicino al fiume.
Si sedette sul muretto di pietra e da quella collinetta guardò l'orizzonte accarezzandolo ripetutamente con gli occhi.
Sulla destra il verde dei boschi formava un cerchio, simile ad un gigantesco smeraldo circondato dall'oro della terra, in quel punto coltivata a grano.
Lo smeraldo splendeva per opera dell'astro che, generoso dall'alto lo inondava di spruzzi di luce.
Quelle diverse varietà di verde, di teneri gialli e di cangianti marroni contribuirono con la loro simpatica armonia a rasserenare l’animo cupo di Maddalena ed a toglierle parte dell’ansia che da giorni l’angosciava.
Alla sua sinistra si intravedeva il paese con le strade e le case, ed il suo sguardo rimase piacevolmente impigliato tra le costruzioni di quel piccolo, grazioso centro, a lei tanto familiare.
Riconobbe la casa di Carla, la sua più cara amica di giochi. Notò la chiesa, la piazza del paese e il cimitero con il viale di alti cipressi.
Il suo sguardo si allungò arrivando fino al fiume e il cuore allora le aumentò la frequenza; in breve l'immagine dell'austero palazzo bianco le si impresse nella retina, rimanendovi, come se l'immagine fosse scivolata dal lobo occipitale dove albergava da tempo, agli occhi.
Si sentiva agitata e stanca come se quel tragitto l'avesse percorso con le sue gambe e non solo con lo sguardo.
Sostò ancora sul muretto cercando di non pensare, poi, quando non udì più il rumore del cuore, s'incamminò per la strada che conosceva a menadito e che l'avrebbe in poco tempo condotta a casa.
Il sentiero si presentava sterrato, costellato da buche e pieno di polvere.
Le sue scarpette nere diventarono in breve tempo bianche e la polvere le penetrò anche nei piedi attraverso le calze di seta.
Arrivata alla fontana di pietra pensò di rassettarsi un po': si lavò le mani con l'acqua fresca e ne usò l'incavo come bicchiere per dissetarsi e per togliere un poco di quella terra che le era entrata anche in bocca, scendendole sino in gola.
Dopo, con un gesto antico, cercò la panchina di legno alla sinistra della fontana che sembrava fosse lì proprio ad attendere lei.
Vi si sedette sopra esausta, come faceva quando bambina tornava da scuola, stanca per il lungo percorso.
Dalla fontana alla sua casa rimaneva ancora una metà del tragitto. Anche questa volta il suo era un ritorno, ma non da scuola: adesso c'era una variabile che riguardava il tempo e lo spazio.
Ma, in quel momento, forse per la stanchezza, tempo e spazio evaporarono e lei si ritrovò nella sua casa di bambina.....
Era appena uscita dalla sua cameretta e si accingeva ad andare in cucina per la colazione. Per scendere al piano inferiore, dove si trovava la grande cucina, doveva attraversare l'ampio corridoio su cui si affacciavano le porte bianche delle camere da letto.
Il pavimento del corridoio, con le sue grandi mattonelle bianche e nere tirate a lucido con cera e olio di gomiti, da Wanda, la donna delle pulizie, le ricordava un'enorme scacchiera, sulla quale si divertiva moltissimo a fare la pedina saltando da un riquadro all'altro, mossa dalla sua infinita voglia di giocare.

Quella mattina aveva scelto di essere il cavallo. Si era talmente immedesimata nel personaggio che ne aveva imitato anche il verso e un nitrito involontariamente era uscito dalla sua bocca infrangendo il silenzio monacale di quel luogo.
Maddalena era rimasta con il piede a mezz'aria, proprio come un cavallo che si accinge a saltare l'ostacolo.
Non aveva ancora appoggiato il piede a terra quando la raggiunse una voce tuonante: "Chi si diverte a svegliarmi! Lo sapete che la notte dormo poco e la mattina ho bisogno di riposo"!
Era la voce del marito della povera zia Clelia, lo zio Pietro, che abitava con loro da due anni, da quando la zia era morta d'infarto.
I suoi genitori le si erano raccomandati molto di non disturbare lo zio, il quale pagava il suo soggiorno in quella casa versando mensilmente una cospicua somma di denaro.
Per questo Maddalena, adesso che non era riuscita a rispettare il volere dei genitori, tremava dalla paura che lo zio Pietro (uomo corpulento e iracondo, che le incuteva un certo timore anche solamente a guardarlo) si potesse lamentare di questo con loro.
Maddalena rabbrividì, quando lo vide uscire dal vano della porta con il suo pigiama grigio di popeline stropicciato, e con i capelli neri spettinati e venire verso di lei . Lui la guardò negli occhi dicendole. "Ragazzina! La prossima volta fai attenzione, altrimenti parlerò con tuo padre".
Maddalena sconvolta scappò verso le scale di marmo che scese velocemente e, senza fare colazione, si diresse verso la scuola.
Quella mattina fu rimproverata anche dalla maestra perché non prestava attenzione alla lezione di matematica, ma i suoi pensieri erano altrove.
Maddalena pensò per tutta la mattina alla possibilità che lo zio Pietro potesse raccontare quella sua marachella al padre, ed alla punizione che ne sarebbe conseguita. Forse il papà l'avrebbe punita negandole la vacanza al mare da Sandra, sua cugina, alla quale teneva immensamente.
Questo pensiero la turbò per tutto il tempo della scuola. Ed anche al ritorno, durante il tragitto, il suo pensiero non riusciva a spostarsi di un millimetro da quel timore.
Maddalena si tolse tutti i dubbi,quando vide i genitori radiosi accorrere verso di lei. Li guardò sorpresa, e fu contenta quando le annunciarono che si sarebbero recati in città dall'avvocato Mainardi dove si sarebbero trattenuti per la cena.
Aggiunsero che lei non si doveva preoccupare, tanto aveva la compagnia di Wanda che aveva da fare i servizi.
La bambina si mise a pranzare in compagnia della donna delle pulizie con la quale si trovava bene, forse perché riceveva da lei quelle accortezze e premure che la madre non riusciva ad esternare.
Durante il pranzo tutta la tensione della mattina si era allentata, e lei mangiò di gusto e con allegria, anche le verdure che di solito odiava. Quindi si mise a fare i compiti.
Pensava allo zio Pietro con meno timore ed anche con un po' di simpatia perché non aveva raccontato niente al suo papà.
Dopo aver fatto i compiti scese in giardino a giocare con l'altalena e mentre si dondolava lo zio Pietro sbucò da dietro il cespuglio di rose. " Maddalena sei contenta che non ho raccontato niente a tuo padre"? Le chiese lo zio. Lei rispose con un sorriso.
Si misero a parlare e lei gli confessò che quella mattina aveva fatto un po' di confusione perché giocava a fare il cavallo sulla scacchiera. Lo zio Pietro con aria comprensiva si mise a ridere e le raccontò che a lui piaceva moltissimo giocare a scacchi e che possedeva questo meraviglioso gioco, così la invitò nella sua stanza per mostrarglielo. Maddalena, superata la diffidenza verso di lui, lo seguì. Lo zio prese delicatamente da un enorme cassetto la scatola che conteneva la scacchiera con i suoi preziosi personaggi e glieli mostrò, uno ad uno: erano meravigliosi, in avorio di tricheco finemente intagliati. Lei rimase estasiata davanti a tanta bellezza.
Poi, lo zio le si avvicinò e mostrandole la regina disse: "Tu sei la mia regina"!
Maddalena si girò verso di lui con un sorriso, ma indietreggiò sorpresa vedendo la sua inusuale espressione. Il volto dell'uomo era paonazzo, gli occhi sembravano quelli di un pazzo, anche i capelli rimanevano dritti sulla testa, come gli aculei di un riccio.
Maddalena fece alcuni passi indietro, quell'espressione la terrorizzava. Lei retrocedeva, ma lo zio si avvicinava sempre di più, lo sentiva ansimare rumorosamente fino a che le si era avvicinato al viso, ripetendole come una tiritera: “ Tu sei la regina! Tu sei la regina! Tu sei la regina degli scacchi.”
Maddalena cercò di allontanarsi dirigendosi verso la porta, ma lui nonostante gli acciacchi che spesso lamentava, la fermò stringendole il braccio ed immobilizzandola.
La ragazzina provò ad urlare, Wanda dalla cucina avrebbe sentito e sarebbe accorsa in suo aiuto, ma il grido rimase paralizzato nella sua gola senza riuscire a raggiungere una via di uscita.
L'uomo disponibile a giocare con lei, si trasformò in un attimo nell'orco delle fiabe, nell'uomo nero, nel mostro orrendo.
Era divenuto il ragno gigante che spesso le appariva la notte a popolare i suoi incubi e, che adesso, in pieno giorno, era riuscito a sorprenderla facendola rimanere impigliata nella ragnatela che aveva tessuto per lei.

Quando Maddalena riuscì ad uscire da quella ragnatela era come in trance. Riuscì a raggiungere la sua cameretta. Si mise a lavarsi, senza nemmeno rendersene conto: la sua mente era vuota, ed ogni parte del suo corpo sembrava trafitta da tante frecce appuntite.
Wanda la chiamò per la cena; Maddalena sentì gridare il suo nome, ma non capiva. Era lei che doveva rispondere? Era lei la Maddalena, che chiamavano?
Wanda continuava a chiamare la ragazzina che dopo un po' riuscì a rispondere. La voce le uscì tremante e rauca. L'orco le aveva fatto giurare di non raccontare a nessuno, ciò che era accaduto.
I giorni passarono, e spesso l'orco invitava Maddalena nella sua stanza a fare la solita partita a scacchi, dalla quale lei usciva sempre sconfitta. Maddalena era molto cambiata. La bambina giocosa, che amava correre ed andare sull'altalena, non esisteva più.
I genitori imputavano tutto ciò, alla precarietà dell'adolescenza ma, presi com'erano da impegni lavorativi e mondani, non se ne curavano più di tanto. Passerà, soleva ripetere la mamma, questa è un età difficile, passerà.

Quando lo zio Pietro morì i genitori di Maddalena rimasero male, soprattutto perché con lui se ne andava anche quella somma per la quale erano riusciti a vivere agiatamente.
Maddalena per quella morte non provò niente, né dolore ne gioia, si sentiva vuota, priva di sentimenti e reazioni.
Quando riuscì a prendere la maturità classica decise di andare a Perugia a frequentare l'università.
Lasciò quindi la casa paterna senza rammarico, anzi con molto sollievo, e per anni non ci tornò più.
Adesso che si era decisa a rompere quella cortina nera che la divideva dai luoghi della sua infanzia recisa, aveva trenta anni e un lavoro di giornalista che le dava molte soddisfazioni.
Era riuscita a prendere la decisione di tornare dai genitori, nei luoghi della sua infanzia dopo anni di lunghe e costose sedute dai più bravi psicologi di Perugia.
Quella del ritorno a quella casa, a quel corridoio a scacchiera, a quel giardino, all'altalena dove aveva appoggiato la sua veste leggera di fanciulla per indossare il cilicio, sarebbe stata veramente la prova del nove, della sua avvenuta guarigione.
Era consapevole anche che non avrebbe più potuto indossare la veste leggera della sua infanzia, abbandonata troppo presto.
Adesso che la sua misura era cambiata, servivano altre vesti, altri abiti, eleganti, leggeri, femminili.
Nel suo guardaroba Maddalena ne aveva diversi che, molto presto, avrebbe sicuramente indossato.

*

Eleonora


Quel giorno pochi i clienti. Erano già due ore che nessuno si presentava.
La crisi si avvertiva anche in quel settore.
Eleonora, nell'attesa, pensava al Natale, a quando sarebbe tornata  a casa dai suoi sempre colma di doni, come un babbo Natale in gonnella.
I suoi vecchi le avrebbero chiesto: “Come vanno gli affari Ele”?
Lei avrebbe risposto: “Alla grande famiglia”!
L'avrebbero guardata con orgoglio.“La mia Eleonora si è fatta una posizione al nord” diceva Enza con orgoglio, alle sue amiche.
La zia Giusy, le chiedeva: “ E quando lo vediamo u piccirillo girare dentro casa! Ca solo vecchi siamo”!
Allora Eleonora rideva, rispondendo: “Non c’è fretta, zia.”
Saro il suo fratellino, adesso si era fatto grande, un bellissimo ragazzo del sud che la prendeva per la vita e la faceva girare.“Adesso, sono io che ti strapazzo, come facevi, tu con me”! La faceva girare, girare, come una trottola,tanto che Enza doveva intervenire: “Ragazzi, basta tutto è pronto ! Sedetevi e mangiate!"
In quella tavola imbandita il cibo era profumato, colorato, saporito. L'appetito che al nord, stentava a venire, aspettava quella circostanza per uscire tutto insieme, all'improvviso. Allora lei mangiava quelle pietanze veramente di gusto.
Sulla fine del pranzo, si presentava Salvo a bere un liquorino, come di consuetudine
insieme alla famiglia Passalà. Guardava Eleonora con adorazione.Lei avvertiva quegli sguardi che la imbarazzavano molto. Lui le chiedeva facendosi coraggio:“Allora, Ele, quando torni al paese”?

Eleonora si passò una mano sulla fronte, per allontanare quei ricordi. Ma ormai un magone le aveva invaso lo stomaco.
Tutto di un colpo, sentì il desiderio di tornare a casa. Si alzò, dalla poltrona sgangherata, si guardò intorno. Nessuno. In giro non si vedeva un’anima.
Gettò una bottiglia d'acqua, sulla fiamma del fuoco che ardeva, con bagliori intensi.
Prese la borsetta, e si mise a camminare lungo la statale, i tacchi, le impedivano di camminare speditamente. Si accucciò allora per toglierseli.
Uno strattone al braccio inferto con violenza la fece cadere. Si alzò incontrando uno sguardo duro, udì la voce di Franco dire:“Che fai, dove credi di andare?!” “Alzati e torna al tuo posto “Puttana”
    

*

Lo scialle di seta

 
 
 Rita dormiva nel suo letto. Il volto sereno come quello di una bambina chissà cosa stava sognando in quel momento....suo malgrado si svegliò.
Il sole entrava dalle feritoie delle finestre, il suo bagliore rifletteva nelle gocce del lampadario scomponendosi in una miriade di luci colorate, formando sulla parete un prezioso luminoso ricamo. Rita come ogni mattina si soffermò a guardare quegli affascinanti ghirigori che le ricordavano le decorazioni dei vasi cinesi.
 Il sogno aveva lasciato in lei una gioia immensa, ed una dolcezza, che non assaporava da molto tempo.
 In un attimo grigi nuvoloni coprirono il cielo e la luce si spense. L'angoscia tornò ad albergare nel suo animo. Ricordi neri, le sfilarono davanti come fotogrammi.
Tutto era precipitato, quando Rita aveva scoperto di aspettare il bambino.
Doveva abortire, non c'era altra via d'uscita tutto poi sarebbe tornato come prima.
Si ricordava quando aveva salutato Tatumi, il cui  sguardo disperato le era rimasto nel cuore. Le aveva dato quel pacchetto incartato con tanto amore che lei non aveva nemmeno guardato.
Si era diretta in quel laboratorio in uno dei vicoli di Bangkok, senza pensare. Era entrata come un'automa, ciò che era accaduto dopo, non le apparteneva. Poche ore e si era liberata per sempre.
Il giorno seguente aveva preso l'aereo ed era tornata in Italia. Lasciando tutto alle sue spalle.
 
Si infilò frettolosamente la vestaglia, scacciando quei pensieri e rabbrividì Poi accese la Moka aspettò che la bruna aromatica bevanda, suonasse la musica di sempre, si versò due tazze di caffè bollente, si cambiò, mettendo un paio di jeans e la felpa glicine. Subito dopo si mise al lavoro. Il pennello intriso di colore, accarezzava la pura seta bianca, rianimandola. disegni armonici uscivano da quei pennelli, per entrare nella delicata trama di quella preziosa stoffa, facendola brillare di una luce magica.
Rita doveva terminare, alcuni scialli da sera che le erano stati commissionati, da una famosa casa di moda da consegnare indiscutibilmente quello stesso pomeriggio.
Lei, amava moltissimo il suo lavoro, che svolgeva senza grossi sacrifici, anzi quel rapporto con il colore, le forme l'armonia, contribuiva a rilassarla. Mentre era occupata nelle rifiniture suonò il campanello della porta. Lalla, la gatta acciambellata sul cuscino si svegliò di soprassalto emettendo un miagolio scomposto, i peli le si rizzarono sul corpo, facendola assomigliare ad un grosso riccio. Rita, guardò dall'occhio della porta e notando che era la vicina di casa aprì. Emy la giovane ragazza asiatica che viveva nell'appartamento di fronte era leggermente agitata, diceva di aver fatto un brutto sogno. Rita intenerita dalla sua aria smarrita la fece entrare offrendole un succo di frutta, che Emi bevve tutto di un fiato, poi si mise a parlare del sogno che l'aveva sconvolta. Raccontava di draghi, di creature capaci di trasformarsi in animali, di stregoni, di maledizioni e di lupi mannari. Rita la ascoltò, notando il lato comico che emergeva da quella strana conversazione, soprattutto mentre Emy raccontava confusamente il sogno, con il suo buffo accento . Pensava di scoppiare in una grossa risata da un momento all'altro, ma il terrore che le lesse negli occhi  la trattenne dal farlo e lasciò che la ragazza si sfogasse. Quando finalmente i suoi occhi si acquietarono, Rita, tirò un sospiro di sollievo. Le propose di rimanere a farle compagnia, mentre lei dipingeva. Quindi riprese i pennelli mentre Emy si mise ad osservarla tranquillamente. Appena terminate le rifiniture al disegno su uno scialle di seta, Rita lo mostrò ad Emy, era venuto un bellissimo lavoro, di cui essere fiera, il fiore fantastico da lei creato era una meraviglia così circondato da arabeschi dorati, sembrava un grosso medaglione decorato. “Allora Emy, che ne dici, ti piace?” Chiese Rita mostrandole, lo scialle terminato. Emy fissava l'oggetto in modo curioso, poi impallidì, dalla sua bocca uscì un grido soffocato, si buttò sul divanetto a righe gialle e respirò. I suoi occhi a mandorla erano ancora più terrorizzati di quando era arrivata. Rita non riusciva a capire per quale motivo adesso fosse così ulteriormente spaventata. Emy poi, ammiccando lo scialle, disse: “ E' uguale, è identico a quello che indossa la ragazza del sogno. “Ancora quel brutto sogno”disse Rita." E' venuta a trovarmi avvolta da quello scialle e la cosa spaventosa è che in braccio teneva un feto. Ho ancora le sue urla nelle orecchie e quello scialle con quello strano fiore non lo dimenticherò mai.” Rita era un po' scossa, da tutto ciò e continuò ad esserlo mentre Emy aggiungeva nuovi particolari. Diceva che la ragazza le narrava di essere vittima di una maledizione ad opera di uno stregone taoista e la implorava di aiutarla, però subito dopo svaniva  mentre il suo scialle volava in alto nel cielo, rimanendovi come un aquilone, senza filo." Infine, Emy si svegliava, sudata e piena di agitazione, rimanendo per tutto il giorno nell'angoscia per non aver saputo dare un aiuto a quella ragazza. Un incubo che si ripeteva, lasciandola spossata.
 
 Due occhi verdi intanto, assistevano sconvolti alla scena, leggendo 'inquietudine e disperazione negli occhi di Emy e  sconcerto in quelli di Rita.
All'ora di pranzo, la giovane decise di tornare in casa, salutò l'amica e se ne andò. Rita si mise a fermare la stampa dei dipinti, era in preda all'inquietudine, ma doveva terminarli.
Gli occhi verdi fissavano i suoi movimenti, con astio e rabbia, “ Come era stato possibile sopprimere freddamente una vita.” pensava la creatura dallo sguardo magnetico. Come la odiava! La sua rabbia era dovuta soprattutto al fatto di non essere stata in grado di procreare.
  Era riuscita però a trovare il modo di placare la sua ossessione, di raggiungere quello che era diventato l'unico scopo della sua esistenza. Riuscendo a raggiungere quel barlume di felicità, pagato duramente.
 “Lei che in fondo aveva dato il suo aiuto ad una moltitudine di ragazze, “di sciagurate” lei così definiva coloro che le si rivolgevano, per liberarsi di quelle potenziali creature definite, niente altro che delle palle al piede.
Era riuscita a farsi impiantare nel suo utero quell'embrione. Per questo, poteva ringraziare lui, Jeff, suo collaboratore in quel laboratorio. Impianto riuscito.
“Dove non arriva la chirurgia, arriva la magia” soleva spesso ripetere quel mago/chirurgo.
Lei era nata: splendida creatura, bella, sana. Un anno di enorme felicità insieme. Finché quel mostro di jeff, era intervenuto.... Un sortilegio l'aveva ridotta così, solo perchési era rifiutata di condividere un'esistenza sentimentale con lui.
Così, quando la piccola ebbe un anno, dovette lasciarla.... Aveva assistito a quella scena, affranta, invisibile e impotente. Gli assistenti sociali, erano venuti a prelevare la sua bambina, strappandogliela dalla culla, avvolgendola nel suo scialle di seta.
 
Rita, intanto piegava i capi pronti, quando si diresse nell'altra stanza per prendere la carta ed impacchettarli, la creatura si sedette sulla sedia vicino al tavolo e vide lo scialle, con dipinto il talismano. Era sul tavolo davanti a lei! Ebbe un sussulto, la fessura dei suoi occhi si spalancò e ricordò le parole di Jeff:- “Solo quando ritroverai lo scialle riprenderai le tue sembianze.”
 Come avrebbe fatto a sottrarlo a Rita? Pensò.  Capì che era quello il momento di agire, quindi con un balzo lo tirò giù dal tavolo. Lo scialle cadde a terra adesso, assomigliava ad un grande uccello con le ali spalancate. Così lo trovò Rita. Esso aveva perduto la sua freschezza, quindiì lo raccolse e lo pose sulla spalliera del divano decidendo di consegnare solo gli altri.
Quella circostanza favorì la creatura che, appena Rita uscì di casa, approfittò per saltare sul divano. Lo scialle le cadde sul corpo, avvolgendola interamente. Pochi minuti di attesa ed il sortilegio svanì e finalmente tornò, nei suoi panni. Ed uscì per sempre da quella casa.
Rita, dopo aver consegnato i lavori tornò a casa. L'accolse un insolito silenzio.  " Dove si sarà mai nascosta quella birba di gatta" si trovò a pensare.  Dopo aver ispezionato in lungo e in largo, le stanze interne, decise di rivolgersi ad Emy. Suonò il campanello ma anche la vicina non sapeva niente dell'assenza della gatta. Rita colse l'occasione per invitarla a cena, Emy non se lo fece ripetere più di una volta. Pranzarono insieme in armonia, come si conoscessero da sempre. Emy era molto simpatica e Rita molto contenta di averla come vicina di casa. La giovane amica riuscì a distoglierla anche dal pensiero della mancanza della sua gatta che, sicuramente sarebbe tornata. Si salutarono, con la promessa di rivedersi l'indomani.
Rita, passò nel laboratorio per chiudere le persiane, lo scialle di seta bianca, da lei dipinto attirò la sua attenzione, disteso così sulla spalliera del divano, evidenziava tutto il suo splendore, il grande fiore di loto dipinto al centro sembrava vivo, tanto che a Rita parve di coglierne il delicato profumo.
Ed in un attimo decise che l'avrebbe tenuto.

 

*

Giulia



Quando la musica si ferma, guardati intorno ed esplora il mondo, sentirai un'altra musica suonare.......

Questa frase le martellava nella mente, da quando si era alzata, senza darle un attimo di tregua.
Quale il significato........ Giulia stentava a comprenderlo, però quella frase la attirava e, la angosciava nello stesso momento.
La musica per lei si era fermata...... o forse non era neppure mai iniziata.
Giulia voleva sentirla quella musica, avrebbe fatto di tutto per vivere con la musica dentro.
Adesso dentro la sua anima c'era il silenzio, un silenzio piatto. Le sue giornate trascorrevano tra doveri, sacrifici, lavoro duro nei campi, tutto questo scorreva tristemente sulla medesima linea nera che, sembrava non aver mai fine e, che per lei era fonte di grandi angosce.
Le sue sorelle pur facendo la medesima vita di Giulia, non si lamentavano, vivevano alla giornata, accontentandosi di ciò che avevano, le sentiva spesso cantare, specialmente Linda, che aveva una voce da usignolo.
Giulia le diceva – Potresti diventare qualcuno nel mondo dello spettacolo, con la voce che hai! - Linda rideva, a lei non interessava cambiare.
Possibile non avere sogni ? Si chiedeva Giulia...
Per lei che di sogni ne aveva parecchi, era difficile comprendere le sorelle.
Anche l'altra sorella, Livia, era serena, innamorata da poco di Ferdinando, si sentiva appagata da quell'amore. -Beate loro!- Pensava Giulia.
Lei invece si sentiva costantemente addosso un senso di inquietudine, di insoddisfazione che le rendeva la vita, arida, priva di musica.
La musica invece suonava intensamente, per i suoi padroni, che abitavano nella superba villa, davanti alla sua casa.
Dove si svolgevano solitamente feste e banchetti.
Lei, osservava dalla sua finestra, tutto quell'andirivieni di dame, elegantissime, che le passavano davanti ostentando abiti sfarzosi confezionati con tessuti pregiati, era attirata soprattutto dai cappellini ornati di fiori, tulle, nastrini, paillettes, veramente deliziosi.
Le dame entravano con grazia nel grande portone, accompagnate da signori in frac
Gente importante, altolocata, gente chic che, spariva dietro quella porta..........per poi riapparire sul palcoscenico dei suoi sogni:
Il sipario si apriva e loro apparivano: scintillanti, evanescenti, nella loro bellezza, nella loro eleganza, muovendosi sicure, nei sontuosi saloni di villa Gabriella che, lei conosceva molto bene.
Portandole storie, mai banali, mai monotone, sempre piene di musica.

Che lei regista e spettatrice, confezionava a suo piacimento.
Mentre i personaggi delle sue storie si animavano, alimentate dalla sua fervida immaginazione, sentiva la musica scenderle dentro, entrare e scorrere nelle sue vene ed, allora viveva anche lei, con loro quei momenti intensi ed emozionanti....partecipando alle loro fantastiche avventure.
Era come se rubasse ad ognuno di quei personaggi alcune piccole note che le servivano per avere anche lei il suo pezzo musicale che riuscisse ad interrompere il silenzio opprimente che, l'assillava.
Questo era un suo segreto, di cui nemmeno le sorelle erano partecipi.
Adesso però, questo non le bastava più.....
Doveva trovare un modo di vivere una sua vita, che la appagasse, che la emozionasse, non poteva sempre accontentarsi di quella degli altri.

*

Ringraziamento.





Un cambiamento di lavoro, non volontario, motivato, sofferto, fece fare una improvvisa svolta al mio percorso di vita. Si presentò innanzi a me, una diversa, sconosciuta realtà che, all'età di ben cinquantaquattro anni non è facile da accettare e comprendere. Chi l'avrebbe detto che, io, così piena di fantasia e di voglia di cambiare il mondo, mi sarei ritrovata catapultata bruscamente sulla poltroncina nera di un ufficio, davanti ad una scrivania ad inserire dati da una fredda e anonima tastiera.
“ Grazie a Dio che hai un lavoro” mi ripetevano familiari ed amici. Ma io, non avevo voglia di ringraziare proprio nessuno.
Il rapporto con la maggioranza dei colleghi fu da subito di facile impatto. Mentre quello con “ Lui” si rivelò invece essere: difficoltoso e problematico. Tutto ciò mi impensieriva molto, perché con lui dovevo lavorare a stretto contatto.
La mattina appena mi affacciavo, lui era già lì che mi aspettava. Lo avrei volentieri ignorato ma ciò non era ovviamente possibile.
La nostra relazione sopratutto da parte mia era pervasa da una diffidenza sconcertante, che lui percepiva e ciò non era assolutamente proficuo per il lavoro che dovevamo condividere.
Lo giudicavo freddo e inutile, non nutrivo verso di lui alcuna fiducia, ciò mi portava a commettere errori grossolani dei quali gli attribuivo sempre la colpa.
Certo lui, non  risparmiava mai nei miei confronti  i suoi sarcastici commenti.
La mia vita, a causa sua era divenuta insostenibile, un vero inferno
Chissà cosa avrei fatto per non vederlo più, sopratutto per riuscire a fare a meno di lui.
“ Giulia non puoi continuare così mi ripeteva Laura, la mattina, scorgendo la mia solita espressione angosciata.”
“ Laura ma come devo fare se non riesco ad andarci d'accordo, le risposi stremata”
“  Dobbiamo assolutamente trovare una soluzione, così non va! Mi rispose”
In seguito Laura mi suggerì di andare a casa sua, dove avremmo potuto parlare con più calma. Acconsentii con la speranza che i suoi consigli, mi avrebbero aiutato a ritrovare la serenità perduta.
Prendemmo un caffè e ci mettemmo a parlare, quando con mia grande sorpresa e disappunto lo scorsi...Laura pensò di farmelo conoscere meglio, forse l'ambiente casalingo più accogliente meno freddo di quello che regna in un ufficio avrebbe facilitato la nostra relazione.
Con il suo innato savoir faire, Laura ci fece avvicinare...Il suo intento era quello di farmi scoprire il lato positivo, che lei sapeva lui celasse.
Ci trovammo spesso a casa di Laura ed i nostri incontri si fecero sempre più frequenti.
La frequenza era direttamente proporzionale al piacere ed il piacere stava veramente crescendo.
Avevo cominciato ad aprirmi con lui a fargli spesso anche delle confidenze e ciò riusciva ad alleggerire parte della mia tensione.
Non avrei mai pensato di innamorarmi così intensamente, alla mia età.
Quando decisi di portarlo in casa le mie figlie e le nipoti rimasero sconcertate.
Per amore affrontai anche il giudizio di mio marito. Pensavo che mi dicesse o me o lui, invece, stranamente fece buon viso a cattivo gioco.Il nostro rapporto professionale ne beneficiò talmente tanto, da farmi quasi provare piacere per quel tipo di lavoro, o almeno mi permise di accettarlo.
La nostra conoscenza si è costruita e approfondita giorno per giorno e ciò ha favorito sempre di più la nostra relazione.
A casa poi, stiamo, molto insieme. Io non mi sazio mai della sua presenza.
Condividiamo spesso momenti appassionanti: quando le mie mani, lo percorrono con intensità, insieme riusciamo a volare sulle ali delle emozioni in mondi fantastici, che scopriamo all'unisono.
Sono riuscita ad aprirgli il mio cuore e la mia anima inondandolo di poesie.
Quotidianamente lo colmo di racconti fantastici e di fiabe, addirittura di filastrocche.
Lui, non si annoia mai, anzi mi porge generosamente il suo aiuto, nelle correzioni e nella scelta di vocaboli più consoni alle mie storie. Senza chiedere niente in cambio, sempre discreto e paziente.
Mi ha fatto avvicinare al mondo del Social Network, nel quale ho fondato un gruppo di scrittura che mi permette insieme a tanti amici di esprimermi e dare libero sfogo alla fantasia, che credevo intrappolata per sempre.
Da questa nostra passione sono nati dei fantasiosi libri per bambini.
Tutto ciò mi ha fatto riavvicinare al mondo infantile, un mondo che ho sempre amato, del quale mi sono occupata per trenta bellissimi anni della mia vita giovanile.
Adesso che ho raggiunto l'età pensionabile, lui, continua a farmi molta compagnia ed a fornirmi sempre più aiuti concreti.
Come potrei fare adesso, senza la sua quotidiana presenza?
Per questo approfitto per poterlo ringraziare pubblicamente:
“Grazie, mio PC, grazie piccolo magico strumento che hai saputo rivoluzionare il mondo e un po' anche della mia vita.
Grazie infinite di avermi preso per mano e trasportato in un sentiero di cui pensavo avere smarrito la strada.”

*

Istanbul

 
Notte blu. Il Bosforo blu. Il tuo vestito blu.
Solo il biancore della luna e quello perlaceo del tuo seno, illuminano questo silenzio blu.
Sei seduta sugli scalini di un edificio di questa città magica, per sempre ponte tra Oriente e Occidente e, aspetti...
Un gatto scuro, forse blu, miagola per la fame. Ahmet, non è venuto.
Vi eravate conosciuti all’Università, in un modo troppo banale: lui ti aveva riportato la stilo
che avevi lasciato sul banco.
Poi vi eravate incamminati insieme, conversando. Fino ad arrivare in quella piazza, piena di gente, dove le poliziotte invece di manganelli e mitra, portavano in braccio mazzi di fiori.
Ne avevi sentito il profumo che ti aveva inebriata. Gli occhi di Ahmet erano preoccupati, non ne capivi il perché, i tuoi radiosi.
Da quel momento i vostri tempi si uniscono e, volano insieme.
“Volare” Spesso gli cantavi la bella canzone italiana, intonandone il ritornello: “Nel blu dipinto di blu” Lui rideva quando la cantavi.
Mentre lo aspetti, il silenzio è infranto da un trambusto. Vedi sfilare davanti a te una serie di camionette della polizia. Sono blu, come il colore di questa notte, che trasmuta e che adesso, ti fa rabbrividire. Ti infili un golfino.
Il canto intermittente di un mitra assale all'improvviso la quiete. Un odore pungente di polvere da sparo cancella il lieve ricordo di fiori profumati.
Ti alzi, barcollando, aggrappandoti a quel blu, che si scioglie e lentamente cade lasciandoti spoglia e sola, in un luogo che adesso non sembra avere più nessuna parvenza di magia.
Dopo pochi passi frettolosi, concitati, ti ritrovi nel vicolo:
Ahmet, giace a terra, i suoi occhi spalancati portano dentro l'ultima porzione di quel magico blu di quella strana notte. Mentre i tuoi occhi incontrano il rosso scarlatto del suo sangue, annegandovi per sempre.

*

Nonno Giorgio


Nonno Giorgio


Guardava l'orizzonte, lasciandosi accarezzare dagli ultimi raggi di sole.
Gli erano rimaste solo quelle carezze, che per lui erano le più belle perché a senso unico.
Guardava l'orizzonte, cercando risposte alla sua solitudine.
Adesso, anche la sua gatta l'aveva lasciato. Era proprio solo il vecchio Giorgio.
Lui, di quella solitudine, aveva paura.
E pensare che l'aveva tanto bramata quando il suo locale sul mare si riempiva di gente.

In quei momenti di confusione si sentiva oppresso, nervoso, e avvertiva il desiderio di scappare per rimanere solo.
La moglie spesso gli ripeteva :

« Se questa gente non ci fosse, di cosa vivremmo? »

Lui annuiva, mentre continuava a impastare e infornare pizze fantastiche che la gente divorava con gusto.
Sembra che all'impasto aggiungesse un ingrediente segreto, capace di aumentarne la fragranza.
Quando la moglie morì, all'improvviso, rimase frastornato ed incredulo.
Lei, così solare...se n'era andata.
La loro gatta, enorme come una palla, si attaccò ancora di più a lui, e lui a lei.
Da alcuni mesi vivevano in simbiosi; non c'era un giorno che si staccassero l'uno dall'altra.
Adesso che il locale aveva chiuso i battenti in attesa della prossima stagione, nonno Giorgio si godeva le giornate andando a pesca con la sua barca, sempre in compagnia della sua gattona.
Tornava a casa la sera, quando il sole si tuffava nel mare. Mangiava qualcosa insieme alla gatta e
poi andava a dormire.
Non lo avevo mai visto versare una lacrima, per la moglie morta.
Lo andai a trovare nel suo locale, in novembre.
Le onde d'argento del mare, così simili nel colore ai suoi baffi ed ai suoi capelli, con il loro sciacquio smuovevano il grigiore del silenzio di quel mese di inverno.
Lui sembrava una creatura marina : il vecchio del mare, il dio del mare. Guardandolo, avvertivo fortemente come fra di loro esistesse un profondo ed intenso legame.
Non si poteva evocare la sua figura senza veder apparire in coppia il ricordo del “mare.”
Parlammo........gli dissi che c'erano le nostre nipotine che lo aspettavano.
Lo sentii solo, distante. Lessi la disperazione, nei suoi occhi di mare d'inverno.
La morte della gatta gli aveva offerto, su un piatto d'argento, quella solitudine che lui andava cercando.
Adesso che aveva potuto vederla da vicino, sperimentarla e assaporarla, si era reso conto che la solitudine integrale non gli piaceva affatto, anzi lo angosciava. Questo stato d'animo l'aveva impaurito, e spiazzato.
Se avesse voluto, non sarebbe stato del tutto solo.
Per questo avrebbe dovuto scendere a compromessi, che lui amava.
Il suo cuore era freddo. Non perché ci fosse assenza d'amore, anzi di amore ce n'era in quantità, ma tutto ciò rimaneva impigliato nel ghiaccio, incagliato come un relitto nel mar glaciale artico, senza riuscire a trovare nessun sbocco per uscire.
Io di tutto questo non mi sono mai chiesta il perché; lui era così e basta.
Guardò il mare e ne respirò l'intenso profumo.

Le onde smosse dal vento investirono di fredde gocce il suo corpo, che ebbe un brivido.

Fu allora che il suo cuore cessò di battere.
Un'onda salata lo spruzzò, con una miriade di goccioline di cristallo più tiepide, ed i suoi occhi cominciarono a lacrimare gocce salate che cadevano confondendosi con altre gocce salate.

I suoi capelli, i suoi baffi argentei e le sue povere membra si fusero con l'argento del mare, e divennero mare.
E lui tornò mare......il dio di quel pezzetto di mare di Versilia che costeggiava il suo bagno.
In inverno, quando il mare sfoggia la sua gamma di grigio e mostra al mondo i suoi splendidi toni argentei, io ritrovo il volto di nonno Giorgio.

Allora gli parlo. Ho sempre molte cose da dirgli e sono certa che lui sta ad ascoltarmi.