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Raccolta di testi in prosa di Davide Stocovaz
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Sul far della sera

22 giugno 2020.

Mi sta succedendo qualcosa. Qualcosa di strano…

Mentre stendo queste poche righe, sento un tremolio alle mani; la testa mi pulsa, un pulsare continuo, soprattutto alle tempie. Faccio non poca fatica a mantenere la concentrazione sul foglio, mentre la penna vibra sulla pagina, come fosse dotata di vita propria.

Il braccio destro è avvolto da un formicolio persistente, bruciante, come fosse attraversato da centinaia di tizzoni ardenti. Lì, nel punto del morso, la mia pelle presenta un’escoriazione circolare di un rossore vivo, dalle sfumature violacee. Mai visto nulla di simile.

Ripenso all’accaduto di stamattina. Stavo tornando a casa dal supermercato. Per me, doveva trattarsi di una giornata comune, uguale a tutte le altre. Me ne sarei tornato a casa, un pranzo frugale e mi sarei rimesso all’opera sul mio nuovo romanzo. Feci la solita strada, passando in un vicolo laterale che mi avrebbe, presto, condotto alla mia abitazione. E proprio lì, in quel vicolo, mi si parò davanti una ragazzina; aveva i capelli biondi gettati alla rinfusa sulla testa, appiccicati alla fronte; indossava un abitino di un celeste spento, sporco di fango; il suo corpo fremeva, come scosso da profondi singulti. Mi sembrò lampante che non stesse bene. Mi fermai a guardarla. Aveva occhi gonfi, arrossati, fissi in un’espressione stralunata. Spinto da preoccupazione, mi avvicinai a lei chiedendole se si sentisse male. Ma lei non rispose.

Si limitò a rivolgermi un’occhiata raggelante. Ricordo di aver posato a terra la borsa contenente la spesa e di aver allungato il braccio destro verso il suo volto; sì, volevo accertarmi non avesse febbre. E lei, fulminea, aprì la bocca e affondò i denti nella mia carne. Lanciai un grido, misto tra sorpresa e dolore. La ragazzina sembrava non voler mollare la presa. Spinto dal terrore, la colpii con l’altra mano. Ricordo di averle dato dei pugni piuttosto violenti, che di certo avrebbero steso un uomo adulto. Ma lei sembrava non accusarli; sembrava non sentire dolore. Così strattonai il braccio destro, le diedi un calcio al ventre. Solo allora si staccò da me. Cadde a terra. Ricordo di averla guardata con terrore. E un altro terrore, più profondo, mi colse quando la vidi rimettersi in piedi, folgorandomi con uno sguardo di sfida. Avevo già raccolto la borsa della spesa. Le mie gambe si mossero in modo autonomo. Fuggii, semplicemente.

In fondo al vicolo, mi girai a guardarla, temendo che mi stesse inseguendo. Ma lei, invece, stava avanzando dalla parte opposta, tremando sulle gambe esili, come se nulla fosse successo.

Ricordo di aver preso una boccata d’aria. Il braccio, nel punto del morso, aveva subito iniziato a dolermi. Corsi a casa. Ricordo di essermi fiondato in bagno, di aver preso il disinfettante e di essermi cosparso un’ingente dose.

Poi, venni colto da vertigine. Il salotto, la mia abitazione, il mondo intero, sembravano contorcersi, dilatarsi. Crollai sul divano, mentre la testa prese a ronzarmi. Ricordo di aver percepito il mio stesso cuore aumentare i battiti, come fosse una scimmia impazzita che cerca di uscire da una gabbia.

Lo stomaco si chiuse su se stesso. Provai un profondo senso di nausea. Iniziai a boccheggiare. La saliva si fece acidula. Mi alzai di scatto, arrancando verso la cucina. Arrivai appena in tempo.

Un conato di vomito mi scosse le viscere. Non so per quanto tempo rimasi chino sul lavandino. La sostanza che usciva dalle mie labbra contratte era densa, un misto di bile e sangue. E nonostante stessi vomitando anche l’anima, le viscere continuavano a contrarsi, come spire di un enorme serpente.

Poi, finalmente, tornai in salotto, lasciandomi cadere sul divano. E crollai in un sonno profondo.

Ora l’orologio batte le diciannove. E tutt’ora non mi sento bene. Guardandomi allo specchio, ho notato che la mia carnagione si è fatta più spenta, cinerea. Gli occhi mi si sono gonfiati: sento i bulbi oculari pulsare come due piccoli cuori.

Stendo queste righe perché, lo sento, mi sta succedendo qualcosa… qualcosa di terribile… e desidero lasciare traccia di quanto mi è capitato.

CARNE!…

Oddio! Perché ho scritto questa parola?! Cosa… mi sta succedendo?!

Sento… sento come qualcosa muoversi dentro di me… È come… come se ci fosse un’altra entità, che non chiede altro di uscire allo scoperto… di svelarsi, e di condurre una sua vita.

CARNE!

Oh, Dio ti prego, aiutami… CARNE! CARNE! CARNE!

Mi sto spegnendo! Il mio Io si sta spegnendo! Non riesco a resistere! Non ce la faccio!

CARNE!

Oh… ho fame. Una fame tremenda. Devo… devo trovare qualcosa da mangiare, subito!

CARNE! CARNE! CAR…!

 

FINE

 

 

 

Ringraziamenti:

Desidero ringraziare Francesco Carbone per i suoi preziosi consigli e suggerimenti.

 

*

Nina

Fin da bambino, coltivo la passione per le passeggiate in bosco. Trovo non ci sia niente di più rilassante che staccare dalla città e immergersi nel verde, magari incrociando qualche suo abitante di passaggio, un capriolo, un cinghiale, anche uno scoiattolo. La passione per la Natura mi ha accompagnato fin dalla prima infanzia, con le gite in famiglia.

Un giorno, accadde un evento che cambiò la mia percezione del Carso, per sempre.

Era una giornata di inizi settembre. Il Carso, tutto, si stava già vestendo d’autunno.

Avanzavo lungo un sentiero che serpeggiava nella macchia. L’aria fresca del bosco, mi inebriava i sensi. Il suo odore, pungente, sollevava lo spirito dalla frenesia della città. In giornate come queste, le ore lavorative sono una eco lontana.

Dopo svariati minuti di cammino, il sentiero si fece sempre più stretto. Più avanti, l’erba alta lo ricopriva del tutto.

Allungai il collo, vedendo che riprendeva poco più in là. Avanzai verso l’erba alta. Ne scostai gli steli con la gamba destra. La sinistra, però, non trovò più il terreno. Capitò tutto in un secondo. Prima che potessi veramente realizzare cosa stava accadendo, mi trovai a cadere. Petto e braccia cozzarono sul terreno. Poi, ebbi la sensazione di un vuoto assoluto attorno a me.

Caddi.

Rovinai su una superficie dura. Il fiato svanì dalla gola. Un dolore lancinante bruciava la spina dorsale. Per un attimo, non sentii la gamba destra. Provai a muoverla. Ma non ci riuscii.

La guardai. Ciò che vidi, mi paralizzò. Il ginocchio era piegato in una posa innaturale. Poco sotto a esso, un osso bianco, circondato da un rivolo di sangue, faceva capolino dai pantaloni.

Alzai lo sguardo. Un’apertura a taglio, come una ferita nel terreno, stava a sei metri da me. Oltre a essa, vidi le fronde alte di alcuni pini marittimi. Steli d’erba alta danzavano sull’orlo.

Ero caduto in un fosso.

Un pianto mi scosse tutto. Come avrei fatto a uscire vivo da lì?

Lentamente, sofferente, alzai il busto dal terreno cosparso di sassi. Mi guardai attorno. Ero circondato da una parete di roccia liscia, ben compatta. E, comunque, con la gamba ridotta in quello stato, non sarei riuscito a compiere un solo passo. 

Sospirando dalla tensione, estrassi il mio cellulare dalla tasca del giubbotto. Era a metà.

L’urto col terreno sassoso, l’aveva distrutto.

Allora, mi portai una mano a coppa davanti la bocca. Gridai con quanto fiato avevo in corpo. Imploravo aiuto.

Rimasi in ascolto per alcuni istanti. Silenzio assoluto.

Un’ombra scese su di me. A giudicare dalle dimensioni del sentiero, era evidente che non si trattava di una via molto frequentata. Ero in trappola.

Gridai di nuovo.

E questa volta, una voce sottile, vellutata, si alzò nell’aria.

<< Devi essere paziente. >>

Sussultai, perché quel suono era stranamente molto vicino.

Volgendomi, sgranai gli occhi dalla sorpresa. A pochi passi da me, immobile contro la parete di roccia, stava una ragazza; era mora, i lunghi capelli le coprivano le spalle minute; gli occhi grandi, nell’ombra risaltavano scuri; indossava un abito leggero, bianco, sporco di terriccio e di erba, che le metteva in risalto le braccia sottili e le gambe esili. Era scalza.

Rimasi senza parole, per tempo che mi sembrò interminabile. Lei non si scompose. Sulle sue labbra sottili, sembrò persino disegnarsi un flebile sorriso.

<< Ma… chi sei?… cosa… ci fai qui? >>, chiesi in un mormorio roco.

<< Mi chiamo Nina… ma poco importa cosa ci faccio qui… ora tu devi stare calmo, ed essere paziente. Forse, qualcuno passerà. >>

<< Se non grido, non mi sentirà nessuno. >>

<< Fidati. Non c’è nessuno di passaggio, al momento. >>

L’adrenalina doveva aver terminato il suo effetto, perché, all’improvviso, un dolore acuto, insostenibile, salì dalla gamba ferita.

Gridai, questa volta dalla sofferenza.

Udii dei passi leggeri. E la ragazza si abbassò su di me. Guardò la ferita, con attenzione.

<< Te la caverai. >>

Mi prese una mano tra le sue. Provai un brivido caldo avvamparmi dentro, nei recessi dell’anima.

<< Ma… chi sei? >>

<< Non importa. Cerca di resistere. Rimani sveglio. Parlami un po' di te.>>

<< Non ho molto da dire. Sono qui, ferito, e presto morirò...>>

<< No, non succederà. Perché ci sono io, qui.>>

<< Ma… Oddio, sto già sognando. Mi sto… immaginando tutto…>>

A dimostrazione del contrario, la ragazza mi baciò la mano.

<< Questo l’hai sentito? >>

Annuii.

<< Allora non stai sognando. Te la caverai. >>

Una fitta di dolore risalì la gamba destra e si insinuò fino al cervello. Emisi un gemito soffocato.

La ragazza, Nina, mi guardava con sguardo dolce. Il suo volto fu l’ultima cosa che vidi. Un piacevole torpore mi avvolse. Poi, la tenebra cadde su di me. Persi i sensi.

 

 

Un vociare lontano. I latrati di un cane.

Questi suoni mi portarono alla realtà. Aprii gli occhi. Una tenebra densa avvolgeva il fosso. La luce di una torcia mi ferì gli occhi. Sbattei le palpebre. Guardai meglio.

Sul ciglio della buca, c’erano due uomini. La testa di un setter inglese stava in mezzo a loro. Guardava verso di me e abbaiava forte.

<< Ehi laggiù, tutto bene?! >>

Gridai con quanto fiato mi era rimasto nei polmoni. Dissi di essere ferito e di necessitare di cure mediche immediate.

<< Va bene. Adesso chiamiamo i soccorsi. Tieni duro! >>, urlò uno dei due.

La luce si spense. I latrati del cane si fecero meno intensi.

<< Ehi! Non andate via! Non lasciatemi qui! >>

<< Torniamo presto! >>

Mi guardai attorno. Ero salvo. Presto, sarebbero giunti dei soccorsi e mi avrebbero tirato fuori dalla fossa. Poi, un nome echeggiò nella mente: Nina.

Mi guardai attorno. Sul momento non la vidi. Poi, aguzzando la vista, notai che se ne stava in disparte, posata contro la parete di roccia.

<< Hai visto? Prima del previsto, anche. >>

<< Resisti Nina, presto, ce ne usciamo da qui.>>

Le tenebre stavano salendo alla svelta. Di lei, potevo solo distinguere il vestito bianco.

Non so dirvi quanto tempo attesi. So solo che, a me, sembrò un’eternità.

Poi sentii delle voci maschili crescere d’intensità. Vidi lampeggiare delle luci sull’orlo del fosso. Una corda venne fatta calare nell’apertura. E un uomo, in veste da soccorso, si calò con attenzione lungo le pareti del fosso. Quando mi fu accanto, si accertò delle mie condizioni. Parlò con i suoi colleghi, chiedendo una lettiga.

Altri uomini la fecero scendere nell’apertura. Quando fu a tiro, il soccorritore la prese e, con molta delicatezza, mi aiutò a sistemarmici sopra. Alzò un pollice in aria.

Disteso, ben legato, mi sentii sollevare a forza. Mentre risalivo, con la lettiga che sfiorava le pareti rocciose, iniziai a gridare: << Nina! Prendete anche la ragazza! Nina! >>

Dopo qualche minuto, fui di nuovo all’aria aperta. Tre uomini posizionarono la lettiga di lato. Attesero il ritorno del loro collega.

Quando questi emerse dal fosso, vidi che era da solo.

Sgranai gli occhi dalla sorpresa. Presi ad agitarmi.

<< La ragazza! Dov’è la ragazza?! >>

Il soccorritore ci raggiunse.

<< Non c’era nessuna ragazza… è sicuro di stare bene? >>

<< Ma… le ho parlato! Lei… era lì sotto, con me! Si chiama Nina! >>

<< C’era solo lei nella fossa. Mi creda.>>

Gli uomini sollevarono la lettiga da terra. Iniziammo a seguire il sentiero, diretti verso l’uscita del bosco.

<< Vi dico che c’era una ragazza... >>

Una sagoma scattante passò accanto la lettiga. Era il setter inglese.

I due uomini, che avevano dato l’allarme, ci stavano seguendo. Non potei non ringraziarli per il loro pronto intervento.

Uno di loro affiancò la lettiga. Era molto più robusto di me, aveva una lunga barba scura, indossava una camicia rossa. Dovevano essere boscaioli.

<< Questa… ragazza, aveva un vestito bianco, vero? >>

<< Sì, certo. L’ha vista anche lei? >>

<< Oh no, è grazie a Vasco, il mio cane, che ti abbiamo trovato. Deve aver sentito il tuo odore.>>

<< Lei, si chiama Nina… era anche lei nella fossa...>>

L’uomo si abbassò su di me, come per non farsi sentire dagli altri.

<< Hai detto che si chiamava Nina?.>>

Annuii.

L’uomo si fece più vicino ancora, le sue labbra mi sfiorarono l’orecchio.

<< Si chiamava Nina Simic. Abitava con la famiglia nel mio stesso paese, a Pecez. Un giorno svanì, nel bosco. Capitò un’estate del duemiladieci. La cercammo ovunque, ma non la trovammo.>>

Un brivido glaciale mi si fuse con il sangue. Per un attimo, sentii i peli delle braccia e dietro il collo drizzarsi.

<< Io… io >>, mormorai.

<< Non devi dire niente. E non parlarne con nessuno, o ti prenderebbero per pazzo.>>

Caddi allora in un silenzio profondo. E in questo silenzio, ricordai il volto dolce di Nina, la ragazza della fossa, la sua gentilezza, l’alone di mistero che l’avvolgeva. Una lacrima, solitaria, mi solcò la guancia, mentre venivo trasportato attraverso il bosco, verso l’ospedale più vicino.

 

 

Trascorso il periodo di riabilitazione, non riuscii a resistere. Tornai in quel tratto del Carso. Prestando la massima attenzione, ritrovai il fosso. Mi abbassai sul ciglio. Era una giornata limpida, il sole splendeva tra le chiome degli alberi, e mi fu possibile vederne il fondo. Era vuoto.

Chiamai Nina a gran voce. Ma lei, non rispose.

Allora, estrassi dalla tasca del giubbotto una rosa rossa. E la lasciai cadere nel vuoto. La vidi volteggiare in aria e posarsi tra i sassi del terreno.

<< Riposa in pace, cara Nina. Riposa in pace >>, dissi.

Mi alzai, con un macigno nel petto. E mentre seguivo il sentiero verso casa, ampie lacrime mi bagnarono le gote.

Grazie Nina per la tua premura. Per avermi assistito in un momento terribile. Possa il Cielo donarti il sollievo che meriti.

 

 

FINE

 

RINGRAZIAMENTI:

Ringrazio il mio amico Michele Pupo per i preziosi consigli e suggerimenti.

*

L’uomo uscito dal bosco

03 aprile 2018.

Stamattina avrebbe dovuto essere una giornata uguale alle altre. L’alba stava sfumando in un azzurro più intenso e il sole si affacciava sul mio terreno, facendo salire scintillii di fuoco dalla terra rossa. Dopo colazione avevo preso la zappa, alcuni sacchi di semi e avevo raggiunto il campo dietro casa, poco distante dal pollaio. La zappa affondava nel terreno a ogni colpo poi, con un gesto delicato, sistemavo i semi nelle buche. Se tutto fosse andato per il verso giusto, i pomodori sarebbero cresciuti bene, pronti per essere raccolti in agosto. Qualcuno avrebbe trovato monotono il processo di semina. Io no. L’aria aperta di campagna, quel terreno che mi arrossa la pelle, le gocce di sudore, i muscoli che vibrano, sono un rito al quale non potrei mai rinunciare. Dopo aver coperto l’ennesimo solco, mi sono guardato brevemente attorno, inalando l’aria fresca. Il mio sguardo si fermò verso l’estremità opposta del campo, dove il terreno lascia spazio a una striscia d’erba alta che anticipa un boschetto fatto di alberelli e di arbusti ammassati tra loro. A quell’ora, sono solito vedere una famigliola di caprioli che laggiù si ferma a brucare l’erba, per poi saltellare nella macchia alla mia vista. Ma stamattina, al posto loro, c’era un uomo. Se ne stava immobile tra l’erba alta e sembrava fissarmi da lontano. Ho alzato una mano in segno di saluto, ma senza ricevere risposta. Allora ho alzato le spalle e mi sono rimesso a zappare il terreno. Mi sono sentito subito inquieto. Sentivo quel suo sguardo lontano posato su di me. L’ho guardato di nuovo e, quando notai che si stava muovendo nella mia direzione, ho pensato fosse un forestiero che si era perso. Tenendo la zappa in mano, mi sono mosso verso di lui. Ciondolava le spalle, strascicava le scarpe. Pareva sul punto di perdere l’equilibrio a ogni passo sul terreno smosso. Il sole inondava la sua figura e i suoi abiti scuri, che risaltavano nel rossore che saliva dalla terra. Quando fummo più vicini, tanto da vederci distintamente, mi sono fermato di colpo. Ho sentito un peso annidarsi nello stomaco e lungo le gambe. L’uomo non si fermò. Continuava ad arrancarmi incontro. Ho notato i suoi abiti logori, stracciati, che lo coprivano per miracolo. Ciò che mi ha inorridito, è stato il colorito della sua pelle: una tinta cenerea, grigio-chiaro con alcune sfumature bianche in diversi punti del volto e delle mani. Sono stato investito da un odore pungente, difficilmente sopportabile, come di carne putrescente. Ho stretto la zappa in mano. Quando l’uomo fu ancora più vicino, ho visto che aveva gli occhi sgranati, tanto da sembrare spiritato, e la bocca aperta in una O muta. Ho notato anche un filo di bava che gli colava dal labbro inferiore. Non sono riuscito a muovermi. Ero totalmente rapito dalla sua figura, così innaturale. Gli ho chiesto se stesse bene, se avesse bisogno di aiuto. L’uomo non ha risposto. Non ha rallentato. Ormai eravamo vicinissimi. Ha proteso le braccia verso di me e la sua bocca si è aperta ancora di più, rivelando denti marcescenti. Quando ho capito che voleva aggredirmi, mi sono spostato di lato, ho alzato la zappa, l’ho fatta roteare e l’ho lasciata cadere sulla sua testa. L’uomo è crollato sulle ginocchia. Non ha emesso un solo suono. Allora sono fuggito, con la zappa in mano. Mi sono guardato indietro e ho visto, con orrore, che si stava già rialzando. Le mani piantate nel terreno, la testa e quegli occhi spiritati di nuovo puntati verso di me. Quel colpo avrebbe steso chiunque. Mi sono chiuso in casa, ho bloccato la porta d’ingresso e ora sono seduto in camera che stendo queste poche righe. Temo che quel tale possa trovare il modo di entrare. Mi domando se ce ne siano altri, di tipi del genere, vaganti per le campagne, o peggio ancora, per le strade, del mio paese. Temo per l’incolumità dei miei compaesani e spero vivamente… oddio, qualcuno sta battendo sulla porta, sembrano pugni. Vado a vedere…

*

L’orrore di Sant’Antonio

L’uomo si trovò avvolto da un’oscurità palpabile. L’unica oasi di luce presente era il bagliore fioco emesso dalla lanterna che reggeva in mano. La caverna, un antro buio e umido, si spalancava davanti a lui. Da fuori echeggiavano lo scrosciare continuo della pioggia e i boati del cielo. L’uomo, che altri non era se non un prete, avanzò lentamente. Il suo lungo abito talare in lana nera era zuppo d’acqua e frusciava a ogni passo; il bianco collarino a punte sembrava essersi incollato alla veste. Dietro a lui, avanzava una ragazza con indosso ciò che potevano considerarsi degli stracci piuttosto che dei vestiti: i capelli bagnati le stavano incollati alla fronte. A chiudere la fila c’era un secondo prete, più giovane del primo. Tutti e tre reggevano una lanterna ciascuno, che rischiarava i loro volti tesi. Dal buio si alzò uno sgocciolio ritmato e continuo. L’aria si fece più umida, man mano che si inoltravano all’interno. I barlumi delle lanterne rischiararono la porzione di una grossa stalagmite. Alzando lo sguardo, l’uomo poté distinguere delle sagome lunghe e affilate protendersi verso di loro dalla volta oscura. Il prete avanzò ancora, trattenendo il respiro. Passo dopo passo, immergendosi in quel mare di tenebre, ricordò il vociferare che aveva udito qualche settimana addietro: l’oste di una taverna, assieme a quattro carsolini, si erano recati alla stessa grotta e con lo stesso intento di trovare il tesoro nascosto; ma qualcosa, lì dentro, li aveva terrorizzati oltre ogni modo; tornati a casa, esausti e traumatizzati, nel giro di qualche giorno, i quattro carsolini erano misteriosamente passati all’altro mondo; l’oste, dal canto suo, sembrava aver completamente perso il lume della ragione. Il prete ricordò di aver raccontato al giovane i fatti accaduti all’oste e ai quattro carsolini, poi gli aveva raccontato la leggenda che si celava dietro a tutta quella vicenda: in un tempo remoto, il monticello di Sant’Antonio era un’isola, teatro della continuazione di una grande guerra che aveva avuto inizio sulla terraferma; un cavaliere, intento a partire col proprio tesoro, venne colpito da una freccia; caduto al suolo, moribondo, desiderò donare le sue ricchezze a favore dei poveri, pensando di placare l’ira di Dio che lo sovrastava, per punirlo delle ruberie e degli assassinii commessi. Appena il cavaliere esalò l’ultimo respiro, vicino al suo corpo apparvero un angelo sfolgorante di luce e un orribile demonio; il primo sosteneva che, in base al testamento del defunto, il tesoro apparteneva ai poveri e ch’egli era incaricato della distribuzione; l’altro intendeva che quelle ricchezze fossero di sua appartenenza, perché carpite con saccheggi e uccisioni. Dalle parole vennero ai fatti e, dopo una lotta, vinse il demonio. Questi, nella fretta di fuggire, esaltato per la vittoria, correndo, precipitò in una grotta trascinandosi dietro il cassone, che gli si rovesciò addosso rompendogli una gamba. Per questo accidente, non poté proseguire il viaggio fino all’inferno e dovette fermarsi nella grotta, se voleva custodire il tesoro. Il giovane prete aveva ascoltato tutto con molto interesse e, appena l’altro si era dichiarato intenzionato a esplorare la grotta in questione, si era reso subito volontario nel seguirlo. Entrambi erano convinti di avere più coraggio rispetto all’oste e ai suoi compari, e che nulla avrebbe impedito loro di prendere il tesoro se lo avessero trovato. In paese, avevano chiesto alla ragazza, loro conoscente, se fosse stata disposta ad aiutarli per una faccenda importante, poi, al suo assenso, le avevano raccontato sia la vicenda dell’oste, sia la leggenda; sentendo parlare di tesoro nascosto, i suoi occhi, di un azzurro spento, si erano improvvisamente fatti lucenti. I tre avevano atteso la notte più burrascosa per lasciare il paese, sincerandosi così di passare inosservati. E adesso si trovavano nel cuore della caverna, bagnati fino al midollo osseo. La ragazza camminava alle spalle del prete, guardandosi attorno circospetta: anche se aveva accettato la missione per fame di ricchezza, continuava a chiedersi cosa mai potesse aver terrorizzato a morte l’oste e i quattro carsolini; col passare dei minuti, la tensione che le attanagliava il cervello si fece terrificante; la sua fantasia iniziò a creare forme paurose e orripilanti in agguato nelle tenebre, mentre l’oscurità che l’avvolgeva sembrava premere realmente contro il suo corpo. Deglutì un nodo di saliva, continuò ad avanzare. Stavano aggirando un macigno grande quanto una colonna, quando le loro orecchie captarono un fruscio sollevarsi dall’oscurità. E, prima di poter esalare anche il minimo sussurro, due occhi fiammeggianti si fecero loro incontro, accompagnati da un grido acuto, tanto forte da far esplodere i timpani. Il prete vide un enorme rostro acuminato spalancarsi davanti a sé, si gettò di lato, mentre ali gigantesche scuotevano l’aria. La ragazza urlò dal terrore. Il giovane le afferrò una mano, trascinandola a sé. Entrambi, si lanciarono verso l’uscita. Il prete, trovatosi con le spalle contro il macigno, pensò di essere giunto alla fine dei suoi giorni; la creatura era a un passo da lui: celata in gran parte dalle tenebre, sembrava avere una stazza notevole: un muso allungato, coperto da lunghe penne nere, e arti anteriori ben sviluppati, muniti di artigli micidiali. Nel barlume della lanterna, l’uomo vide il rostro aprirsi e, d’istinto, lo colpì con quest’ultima. La creatura gridò, facendo tremare le pareti. L’uomo si gettò verso l’uscita, mentre poté sentire le fauci della creatura schioccare, mordendo il vuoto. Corse con la forza della disperazione e, senza rendersene conto, si ritrovò nella boscaglia. Riuscì a scorgere il giovane e la ragazza in lontananza, che fuggivano urlando. Ognuno raggiunse la propria abitazione e si lasciò crollare sul letto, esausto, con ancora quel grido nelle orecchie. Ognuno dei tre fu subito colto da un denso senso di sonnolenza, la mente pesante, una generica spossatezza che si intensificò col passare delle ore; era come se le ossa dei loro corpi si fossero sciolte in una brodaglia. Non ebbero nemmeno la forza per alzarsi dai loro letti e mangiare qualcosa. Poi arrivò la febbre; i loro cervelli si fecero di fuoco; fitte lancinanti si rincorrevano lungo tutto il loro corpo. E, qualche giorno dopo, i tre esalarono il loro ultimo respiro.

 

 

FINE

*

Senza fare rumore

Antonio Ribero rincasò tardi anche quella sera. La prima cosa che udì, appena varcata la porta d’ingresso, fu un vociare acuto, leggermente ovattato, di una lite in corso. In fondo al corridoio, vide un chiarore soffuso proiettarsi sulla parete, facendo sfumare le ombre del salotto. Chiusa la porta, avanzò piano, posò le chiavi sul mobiletto accanto al telefono e, superato il corridoio, andò a sedersi sul divano a penisola.

Melissa Tabbia se ne stava piantata poco più in là; gli occhi sgranati, eccitati, mentre assorbiva le immagini provenienti dalla televisione. Questa trasmetteva un famoso programma di cucina, e quelle grida venivano lanciate da uno chef stellato a quelli che dovevano essere degli aspiranti cuochi.

Antonio diede un colpo di tosse.

Ciao”, mormorò.

Melissa lo zittì con un sibilo. Non riuscì a staccare gli occhi dallo schermo.

In quel momento, Antonio si sentì maledettamente solo. La stanchezza, provata per le ore di lavoro, venne sovrastata da un senso di bile che gli si diffuse nello stomaco; avvertì anche un roccia piantarglisi al centro del petto. Ogni pensiero gli defluì dalla mente, e ogni parola ritornò giù lungo la gola e si spense. Abbassò il capo.

Il programma venne interrotto dalla pubblicità. Melissa non si mosse. Sospirò tesa e roteò gli occhi.

Antonio sollevò lo sguardo. La guardò. Una serie di quesiti iniziarono a rombargli nella mente: com’erano arrivati a questo?, chi è veramente la donna qui davanti a me?, cos’è che mi fa tornare ancora qui, tra queste mura e da questa persona?

Melissa emise un altro sbuffo.

La cena è in frigo”, mormorò.

Antonio non si mosse. Continuava a guardarla; la stava guardando come mai aveva fatto prima, la stava vedendo. E lei, nemmeno se ne rese conto.

Vorrei dirti una cosa”, esalò lui.

Più tardi.”

Non ci fu più parola; solamente il ruggito della pubblicità, tra biscotti gustosi, nuove automobili e profumi di ogni genere.

No, Antonio non le disse che “più tardi” sarebbe sicuramente crollato dal sonno. Non le disse che quel “più tardi” significava una martellata al cuore, né le disse che “una cosa”, quella cosa, era importante, perché si trattava della sua promozione sul lavoro.

In quel momento, la promozione stessa perse qualsiasi genere di importanza. Già, la tanto agognata promozione; la tanto sudata promozione; con conseguente riduzione di preoccupazioni economiche; e conseguente possibilità per Melissa di potersi ingozzare di quei suoi programmi preferiti.

No, Antonio non disse nulla.

Si alzò dal divano. Si sentiva confuso, stordito. Era come se avesse ricevuto un pugno sulla fronte o avesse assunto un potente sedativo. Si trascinò in corridoio e virò a sinistra, entrando nella camera da letto. Si sedette sul bordo del letto e fissò il parquet con sguardo vago. Le grida e gli schiamazzi dello chef ripresero a vorticargli nelle orecchie.

Altre domande gli germogliarono nella mente:

Perché sono qui?, c’entro veramente qualcosa con lei?, dov’è che mi sono perso?, cosa diamine mi lega ancora a lei?

Melissa esplose in una risata. La sentì battere le mani.

Col passar dei minuti, il senso di bile nello stomaco si era acuito; era come se un ruscello si fosse trasformato in un mare tempestoso.

Antonio comprese che, nonostante la stanchezza, quella notte non sarebbe riuscito a chiudere occhio. E comprese, dannatamente, che nemmeno in quel caso Melissa gli sarebbe stata accanto. Avrebbe dormito al suo fianco, dandogli le spalle. E al suo primo lamento, gli avrebbe risposto:

Dormi. Non fare il bambino”.

Ma lui non sarebbe più riuscito a prendere sonno. Solo dopo qualche ora, sarebbe crollato privo di energie. E per risvegliarsi il giorno dopo, per uscire da quelle quattro mura, lavorare e ritornarci la sera dopo, di nuovo lì, di nuovo da lei e di nuovo con la tremenda certezza di essere solo.

Antonio inspirò ed espirò a fondo.

Qualcosa si mosse dai recessi del suo pensare. Era il barlume di un pensiero pratico. E, col passare dei minuti, quel barlume divenne fiammella. E più la contemplava, più il senso di bile si affievoliva tornando alle dimensioni di un rigagnolo; la mente si faceva meno rintronata. Volti di persone e nomi a lui cari gli apparvero come diapositive impresse nel cervello.

E, quando quella fiammella avvampò in un incendio, Antonio Ribero si alzò dal letto. Attraversò il corridoio e si piantò sull’uscio del salotto.

Melissa era tornata muta spettatrice del programma. Il chiarore della televisione le deformava i lineamenti sottili del volto, conferendole l’aspetto di un fantasma dagli occhi dilatati e la postura rigida.

Antonio si schiarì la gola, per sovrastare le urla dello chef.

Io… esco…”

Melissa rimase in silenzio. Tra il chiarore e l’ombra che l’avvolgeva, Antonio percepì un suo movimento col capo, un assenso; ma non ne fu poi tanto sicuro.

Così Antonio Ribero imboccò il corridoio, afferrò le chiavi posate vicino al telefono, aprì la porta e ne varcò la soglia.

La chiuse piano, senza fare rumore.

 

 

FINE

*

La notte delle notti

Una pioggia torrenziale sembrava voler affondare il mondo intero.

Malco incitò il proprio cavallo ad aumentare il passo. Chino sulla sella, con il fez talmente intriso da gravargli sul capo, lanciò un’occhiata dietro di sé. I sue due compagni di viaggio, ognuno sulla propria cavalcatura, erano ombre confuse in una tenebra acquosa. Puntò i tacchi nei fianchi dell’animale. Lo sentì compiere uno slancio timido. Improvvisamente, da lontano, vide un barlume danzare nel mare di tenebre. Malco spronò il cavallo per un ultimo sforzo. Il barlume si fece via via più distinto. Proveniva dall’interno di una stalla dal tetto spiovente, le pareti storte. Malco scese a terra. Elisha e Guria lo imitarono e il trio si riunì. Il cavallo di Malco, dal manto così scuro da fondersi con la notte, sbuffò; a quello di Guria, rosso brunastro, tremavano le zampe; quello bianco di Elisha scrollò la testa. Gli uomini si guardarono negli occhi per qualche secondo; sguardi decisi, volti duri come pietra. Malco annuì. E appena si mosse verso la stalla, un grido acuto, colmo di dolore, si levò nell’aria. Malco scattò tirandosi dietro il cavallo, spostò con forza il piccolo steccato che fungeva da ingresso e fu dentro. Elisha e Guria lo seguirono, ognuno col proprio animale. Malco compì pochi passi, sufficienti a svelargli quanto stava accadendo. Un uomo in età avanzata se ne stava in ginocchio; era talmente magro che le ossa del bacino erano visibili sotto il tessuto della sua veste bianca; aveva uno sguardo saturo di apprensione; la sua fronte stillava sudore che scendeva sulle guance e veniva inghiottito dalla folta barba grigia. Le sue mani tremanti reggevano la testa di una donna, che si girava e rigirava come fosse preda delle convulsioni; tra i denti stretti usciva un brontolio continuo mentre, di tanto in tanto, la lingua saettava fuori, si divincolava nell’aria e ritornava dentro; una veste lunga, color grigio cenere le copriva le forme leggere del corpo fino a scivolarle completamente via all’altezza delle cosce, rivelando il resto delle gambe sottili e i piedi minuti; questi battevano sul pavimento punteggiato di fieno. L’uomo girò uno sguardo stralunato verso i tre: Vi prego, aiutateci”.

Malco si fece avanti, si chinò al suo fianco e, posandogli una mano sulla spalla, mormorò: Andrà tutto bene, Yaqim”.

Nel frattempo, Guria si era portato verso i piedi della donna, mentre Elisha badava a legar per bene i cavalli a uno dei tronchi che reggevano il tetto. Guria incitò la donna con voce calma: Avanti Ciria, spingi, avanti”.

La donna strinse maggiormente i denti. Un grido si levò dalle sue labbra distorte. Le sue gambe sbandierarono per qualche secondo. E dopo qualche istante, Guria si ritrovò tra le mani il neonato; aveva una carnagione ambrata, la testa rigonfia, al posto del naso due fessure verticali.

L’uomo recise il cordone ombelicale con una lama e portò la creatura lontano da Ciria, oltre le mangiatoie, dove la luce non arrivava. Il neonato prese a muovere gambe e braccia. Le sue labbra sottili si aprirono e ne proruppe un basso ringhio gutturale. Quando i suoi occhi, dalle iridi giallo zolfo, si spalancarono, Guria emise un gemito strozzato. Elisha lo prese tra le mani, lo guardò con freddo distacco. Sollevò una lama arcuata e gliela piantò nel cuore. La creatura emise un grido acuto, tanto forte da far sussultare i cavalli. Ciria scoppiò in lacrime, subito sommersa dall’abbraccio di Yaqim. Elisha fu lesto: prima che l’essere potesse reagire, tolse il coltello dalle sue carni e gli tagliò la testa.

“Appena in tempo”, mormorò Malco.

Guria ed Elisha si avvicinarono alla coppia, esausta dalla sofferenza. Elisha raccolse i sandali della donna e glieli calzò con delicatezza.

“Quell’incubo… la profezia…”, biascicò Yaqim.

“Non temere. È tutto finito”, lo rassicurò Malco.

Ciria, in un fil di voce, domandò: E... cosa… cosa si dirà... di noi?”.

Malco le passò una mano sulla fronte ancora tremante.

“Racconteremo un’altra storia”, disse.

*

L’ultimo Plenilunio

Alberto Ghesizzi si fermò, il cuore in tumulto. Questa volta lo aveva sentito chiaramente: un ringhio basso, gutturale, che proveniva dalle tenebre davanti a sé. Si tirò su la cerniera dei pantaloni, arretrò di un passo dall'albero. Le orecchie tese, a captare il minimo fruscio; il fiato corto. Stava rientrando a casa da una festa passata con amici in centro città. Stando nel rione di San Luigi, aveva deciso di tagliare per il bosco del Farneto. A metà strada, aveva sentito il bisogno urgente di attaccarsi al primo albero per liberare la vescica gonfia di birra. Solo allora, aveva udito quel suono raggelante. Pensando a un cane vagabondo, afferrò una pietra dal sentiero. Tese i muscoli. I tonfi del cuore che batteva sembravano i passi di un gigante in arrivo. Niente. 

Il respiro gli creava nuvole di vapore intorno al volto. Niente. I rami di un albero vicino si scossero e sbatterono nel vento. Niente. Alberto riprese lentamente a camminare lungo il sentiero, ancora con la pietra sollevata a mezz'aria, sempre all'erta per captare un qualsiasi segnale di movimento. La luna splendeva alta nel cielo, rischiarando in gran parte il sentiero che serpeggiava tra gli alberi. Un'ombra scivolò tra le ombre. Alberto la vide con la coda dell'occhio destro. Si fermò, pronto a lanciare la pietra. Ci fu un trambusto tra una macchia di cespugli. Poi qualcosa balzò fuori puntando dritto verso di lui; qualcosa che nell'avvicinarsi ansimava e grugniva. Alberto rimase paralizzato. Il bagliore nel buio, forse di un occhio o di una zanna, gli fece capire che l'assalitore era quasi sopra di lui. Fece partire la pietra, che mancò il bersaglio svanendo nel buio. Mentre si rannicchiava istintivamente, gli arrivò all'orecchio un ringhio animalesco. Peli ispidi sulla faccia. Un colpo violento e lacerante al ventre. Uno strappo al vestito. Alberto Ghesizzi rovinò al suolo. Nelle orecchie aveva gli sbuffi e i ringhi della bestia sopra di sé. Il dolore al ventre gli dava le vertigini.

Con un’occhiata, riuscì a scorgere un muso allungato, con labbra contratte in un ringhio che metteva in risalto delle zanne grondanti bava. Notò lo scintillio di un occhio giallo. Poi sentì il fiato caldo della bestia sul volto, e il terrore lo pervase. Di colpo, si sentì invadere da una gradita sonnolenza. Come in un sogno, vide la luna alta nel cielo. Quasi dimenticò l'acuto dolore al ventre. E poco gli importò che la sua testa fosse tra le fauci della bestia. Si sorprese quando sentì le ossa del collo spezzarsi con un forte scricchiolio. Poi il buio. 

Un ululato spezzò il silenzio del bosco, dissolvendosi nel buio dei suoi recessi.  

 

FINE

*

Creatura

Il 17 maggio del duemiladieci mi trovavo a bordo di un peschereccio che solcava le profonde acque del Quarnaro, lungo le coste della Croazia. Il cielo era coperto da grosse nubi, che si addensarono nel primo pomeriggio. Non ricordo l'ora esatta ma, a un certo punto, la rete a strascico catturò qualcosa di grosso. Il capitano, Goran Simic, uscì sul ponte assieme agli altri membri dell'equipaggio. Abbassando lo sguardo, notammo una sagoma scura dibattersi nella rete. Iniziammo a tirarla verso la superficie. Gli uomini si armarono di fiocine e arpioni. Eravamo convinti di aver preso uno squalo. La rete era ormai vicina alla superficie. Colpimmo ripetutamente quella sagoma finché smise di muoversi e l'acqua intorno non si tinse di un rossore cremisi. Allora la tirammo a bordo per capire di cosa si trattasse. Restammo sgomenti.

Era una creatura. Mai vista prima. Era lunga quattro metri; aveva una forma cilindrica, con un diametro di tre metri; era sicuramente un pesce branchiato nel suo aspetto, ma presentava delle mutazioni: aveva zampe anteriori palmate, una bocca straordinaria, la pelle spessa e scagliosa; un unico occhio profondamente incassato.

Sorpresi, ci guardammo l'un l'altro, senza riuscire a dare un nome a quella cosa. Il capitano sorrise, disse che avevamo appena scoperto una nuova specie di pesce e che, di certo, tale scoperta ci avrebbe fruttato un bel po' di soldi. Il morale dell'equipaggio salì a dismisura. Ci stavamo ancora complimentando a vicenda, dandoci ampie pacche sulle spalle, quando l'intero peschereccio rollò sotto i nostri piedi. Dovetti reggermi al bordo per non cadere in acqua. Abbassando lo sguardo, vidi chiaramente una sagoma scura, lunga più di dieci metri, passare sotto il natante agitando l'enorme coda. Non ebbi il tempo di avvisare i miei compagni che il peschereccio si inclinò in maniera spaventosa, riversandoli in mare. Rimasi da solo, sul ponte. Li vidi annaspare tra le onde. Allora tutto il peschereccio gemette e vibrò, s'inclinò di nuovo e questa volta persi l'equilibrio e finii tra i flutti. Annaspai lontano, a diversi metri di distanza. Quando riemersi, vidi il natante rovesciarsi sul fianco travolgendo alcuni uomini urlanti. Gridai dal terrore.

Poco più in là, vidi il capitano che cercava di restare a galla. Qualcosa lo travolse dal basso, sollevandolo per mezzo metro fuori dall'acqua, poi svanì tra le onde agitando le braccia. Mi guardai attorno. La costa era lontana e il peschereccio fuori uso. Ero convinto di essere arrivato alla fine.

Un salvagente mi passò sotto il naso e lo afferrai con tutte le mie forze. Iniziai a nuotare verso riva. Qualcosa mi strusciò le gambe. Aumentai la velocità, preso dal panico. Poi la creatura emerse dal mare, proprio davanti a me. Il suo unico occhio, grande quanto la mia testa, mi fissava glaciale. I secondi passarono come ore, fermi lì, faccia a faccia. Sentii il suono acuto di una sirena. L'occhio svanì lentamente. Forse, la creatura era sazia.

Volgendomi, vidi un secondo peschereccio che si dirigeva verso di me. Fu il momento in cui ebbi più paura, mentre aspettavo che mi raggiungesse per trarmi in salvo. Forti braccia mi sollevarono strappandomi dal mare e dalle fauci di quella creatura senza nome.

Quando chiesi agli uomini se erano riusciti a vederla, questi mi guardarono stralunati asserendo di non aver visto niente, tranne il nostro natante che si rovesciava.

Descrissi loro la creatura e questi mi fissarono in silenzio, come fossi pronto a un ricovero immediato.

Ancora oggi, nessuno riesce a credere alla mia versione dei fatti. Non servono né psichiatri né psicologi, tanto meno le terapie che mi sono state sottoposte, perché quanto ho visto corrisponde al vero. E intanto quella creatura viaggia libera e indisturbata nelle profondità dell'alto Adriatico. Prego per voi, in modo che non possiate mai incrociare la sua stessa rotta.

 

FINE    

 

*

Storia di un’ Estate Lontana

La casa, avvolta dalla luce lunare, era vecchia e nascosta dietro a una cortina di alberi: un luogo solitario, silenzioso, costruito da qualcuno che evidentemente amava la solitudine.

Enrico Firmani si fermò a qualche metro dalla logora porta di ingresso.

La casa doveva essere abbandonata da anni, ormai.

Curioso, per un intenso senso di esplorazione che gli bruciava nelle vene, il trentenne superò i tre gradini e aprì la porta, che scricchiolò sul cardine.

Si trovò in una saletta angusta, dal pavimento di pietra coperto di polvere. Un grosso ratto saltò giù dalla cornice di una finestra per poi sgattaiolare in una stanza adiacente. Il soffitto era crollato, ed Enrico riuscì a vedere la stanza al piano di sopra, nella quale un camino di ferro era precariamente abbarbicato a una parete. Più in alto ancora c'erano travi massicce, decorate da un intrico di ragnatele: la nuda ossatura di una casa defunta.

Enrico stava per andarsene, perché nel luogo aleggiava un'atmosfera indefinibile e misteriosa, quando si accorse di una figura, immobile sul fondo della saletta.

Sembrava essere scivolata fuori dalle tenebre, senza fare il benché minimo rumore.

Enrico rimase fermo, il fiato strozzato in gola.

La figura si mosse lentamente verso di lui. Quando un barbiglio lunare le illuminò il volto, il trentenne spalancò la bocca in muta sorpresa.

Era una ragazza, dalla pelle bianca come l'avorio; i capelli, lunghi e corvini, le pendevano sulle spalle leggermente curve; gli occhi erano scuri, profondi come un abisso inesplorabile e incredibilmente tristi.

Oh, scusa. Non mi ero accorto che ci fosse qualcuno. Io... io stavo solo dando un'occhiata”, riuscì a mormorare il trentenne.

La ragazza non si mosse.

Va bene. Ma ti ho sentito entrare e mi sono chiesta chi fosse. Nessuno mi fa visita da anni. Questo posto è lontano dalla strada”, spiegò lei con una voce incredibilmente dolce.

Tu vivi qui dentro?”

Sì, laggiù. Le cantine sono ancora intatte. Non ho un altro posto dove andare.”

Enrico pensò che c'erano molti posti in cui avrebbe preferito vivere piuttosto che nell'umida cantina di una casa in rovina.

Ma... com'è possibile?”

La ragazza fece spallucce.

Basta abituarsi”, disse: “Ti va di parlare un po'?”

Enrico sorrise e annuì.

La ragazza lo guidò a un vecchio divano logoro, raccolse le gambe e prese posto nell'angolino. Enrico si sedette, avvertendo un brivido gelido dietro la nuca.

Non è proprio il massimo come sistemazione”, ammise guardandosi attorno: “Come ti chiami?”

Mi chiamo Xenia. E tu?”

Enrico si presentò, poi iniziarono a parlare del più e del meno. Xenia aveva sempre vissuto in quel minuto paese della Croazia, affacciato sul mare e circondato dalle campagne. Enrico, invece, proveniva dalla città ed era in vacanza con i suoi genitori, ospitato da alcuni lontani parenti.

Parlarono della loro adolescenza, dei loro piaceri. Entrambi erano cresciuti in famiglie tranquille, avevano ultimato gli studi. Xenia fu evasiva per quanto riguardava l'argomento lavoro, si limitò a scuotere lentamente il capo e ad abbassare lo sguardo. Enrico, invece, si disse ancora alla ricerca di un'occupazione. Gli occhi di lei si illuminarono quando toccarono l'argomento passioni e hobby, specie quando lui le disse di amare profondamente la lettura e la scrittura creativa: aveva scritto diversi racconti, partecipando a numerosi concorsi letterari, ma senza ottenere alcun riscontro positivo. Xenia si disse grande appassionata di scrittura: anche lei aveva scritto in passato diversi racconti, ma preferiva tenerseli per sé, non era ancora pronta al confronto in un concorso, o probabilmente non le interessava prendervi parte.

Così, tra una parola e l'altra, tra una risatina e l'altra, le ore scivolarono via. Fu Enrico a dover interrompere la conversazione, annunciando che doveva tornare dai suoi genitori, per non farli preoccupare troppo. Gli occhi della ragazza si spensero, abbassò lo sguardo.

Pensi che tornerai a trovarmi prima di partire?”, gli chiese.

Ma certo. Parto tra cinque giorni. Ci rivediamo domani. Promesso”, disse Enrico alzandosi dal divano.

Buona notte”, mormorò lei.

Grazie, anche a te; è stato un vero piacere conoscerti.”

Xenia sorrise debolmente. Ed Enrico lasciò la casa.

Sulla via del ritorno, lungo un sentiero che serpeggiava tra le campagne, Enrico si sentì di animo leggero. Nelle stelle, che costellavano la volta notturna, rivedeva gli occhi di Xenia. E quella sua voce, così dolce, simile a un alito di vento, lo accompagnò fino a casa dei suoi parenti.

 

 

Il giorno seguente trascorse in modo particolarmente lento.

Enrico, assieme ai suoi genitori, si recò al mare fin dal primo mattino. Mentre nuotava tra un'onda e l'altra, o mentre si crogiolava al sole, pensava alla ragazza della notte precedente.

Solo sua madre gli chiese dove avesse trascorso la serata, ed Enrico era stato evasivo, dicendole di essere andato in giro per il paese, a farsi una passeggiata.

Il trentenne non vedeva l'ora che calasse la sera, per tornare alla casa abbandonata e rivedere la ragazza.

E quando, dopo cena, il sole si spense, e la luna fece capolino nella volta celeste, il suo cuore iniziò a battere in modo incontrollato.

Annunciò ai suoi genitori di uscire per farsi quattro passi. Nessuno obiettò.

Lungo il sentiero tra le campagne, si trovò ad aumentare il passo. Voleva passare quanto più tempo possibile in compagnia della ragazza, dei suoi occhi profondi e della sua voce dolce.

Dopo svariati minuti di marcia, intravide la casa tra gli alberi, immersa in un silenzio abissale.

Entrò senza pensarci due volte e si fermò al centro della stanza.

Ehi! Xenia! Sono tornato!”, annunciò contento.

Una sagoma si staccò dalle ombre, in fondo. Ed eccola riapparire in tutto il suo splendore.

Un flebile sorriso le rischiarava il volto.

Credevo che non ti avrei più rivisto.”

Impossibile. Te l'avevo promesso.”

La risata cristallina della ragazza echeggiò tra le pareti sfatte, riscaldando il cuore di lui.

Ti andrebbe di fare quattro passi?”, propose Enrico.

Xenia annuì, sorridendo.

 

 

L'aria della notte era frizzante. La campagna attorno a loro sembrava un mare di pece. Seguirono il sentiero serpeggiante dietro la casa abbandonata e si inoltrarono in un boschetto di arbusti.

Una miriade di lucciole volteggiava nell'aria, tra gli alberi. E i due si fermarono a lungo ad ammirare i giochi di luce emessi dai piccoli insetti.

Xenia rideva divertita. Enrico ammirava il volteggiare di quei corpicini lampeggianti e sorrideva.

Quando ripresero a camminare, lei lo prese sottobraccio e gli posò la testa contro la spalla.

Avanzarono in silenzio per svariati minuti. E quando si ritrovarono immersi in un mare di tenebre, ben lontani dal paese, decisero di tornare indietro.

Si lasciarono con la promessa di rivedersi la sera successiva.

Le loro mani si separarono e ognuno tornò alla sua dimora.

 

 

Quattro giorni passarono in fretta. Enrico alternava le mattine e i pomeriggi passati con la famiglia alle notti trascorse assieme a Xenia. Parlavano e ridevano assieme. Enrico non vedeva l'ora che scendessero le tenebre per incontrarla di nuovo e godere della sua compagnia.

Il mattino dell'ultimo giorno, si immerse nelle acque cristalline e raccolse quante più conchiglie possibili. Con un filo le unì tutte insieme a creare una collana.

La notte stessa, si presentò a Xenia con il regalo.

Lei parve commossa, i suoi occhi profondi si fecero lucidi.

Così ti ricorderai di me”, mormorò Enrico.

Lei gli girò le spalle, e lui le si avvicinò allungando la collana verso il suo collo esile. La allacciò, ma questa cadde al suolo.

Xenia si girò verso di lui, gli occhi lucidi.

Enrico indietreggiò di un passo. Era sicuro, al cento per cento, di averle allacciato la collana al collo. E questa, staccandosi, aveva attraversato il corpo di lei finendo a terra.

Era come... era come se la figura di Xenia non avesse nulla di materiale.

Chi... cosa? Cosa sei?”, balbettò il trentenne, con gli occhi quasi fuori dalle orbite.

Un sogno, Enrico. Forse, sono solo un sogno.”

Enrico la guardò basito. Occhi negli occhi, labbra tremanti. Lei gli si fece vicino e gli stampò un bacio sulla guancia. Poi, con sguardo lucido, si ritirò tra le ombre.

Prima di svanire del tutto, disse: “Se mi ami davvero, amati.”

E il suono dolce, soave, della sua voce si spense, sovrastata da un silenzio abissale.

Enrico rimase immobile per svariati minuti, incredulo.

Poi, come se fosse scattata una molla dentro di sé, si lanciò nella direzione presa dalla ragazza. Scese nelle cantine della casa. Voleva parlarle ancora, rivederla un'ultima volta.

Ma le cantine risultarono vuote. E di Xenia non c'era traccia.

Preso da un terribile capogiro, Enrico uscì di corsa dalla casa fatiscente. Imboccò il sentiero serpeggiante tra le campagne. Lungo la strada, pianse lacrime amare, mentre l'eco della voce di lei gli martellava nella testa:

Se mi ami davvero, amati.”

Tornato in casa, non riuscì nemmeno a salutare suo padre; si chiuse in camera e crollò sul letto, ripensando a Xenia, dolce e stupenda figura che aveva colorato le sue notti altrimenti solitarie, e che era svanita così, veloce com'era apparsa.

 

 

EPILOGO:

Enrico Firmani tornò l'anno successivo, sempre d'estate, nella casa dei suoi parenti in quel piccolo paese della Croazia. La prima cosa che fece, fu di recarsi nella casa abbandonata tra le campagne.

Chiamò a gran voce Xenia. La chiamò con quanto fiato aveva in gola. Si ritrovò sull'orlo delle lacrime, ma lei non apparve.

Abbassando lo sguardo a terra, vide la collana di conchiglie sul pavimento.

La raccolse e, lentamente, se la mise al collo.

Poi, a testa bassa, con un macigno nel cuore, uscì dalla casa e si avviò verso il paese.

Non la rivide più. Mai più.

*

Per sempre

Berna si era svegliata sotto un sole potente. I tetti delle case luccicavano. Riflessi dorati si rincorrevano sulla superficie del fiume Aar.

La stanza della clinica aveva le pareti colorate di un azzurro che rilassava la vista.

Il dottor Noah Ruesch, sulla trentina, sedeva al capezzale; lo sguardo rivolto verso l’uomo steso a letto. Questi si chiamava Giuseppe Rondoni, sessantasei anni; guardava a sua volta il dottore con espressione bonaria, velata in parte dalla malinconia.

- La prego di ripensarci -, mormorò Ruesch in un italiano stentato ma comprensibile.

L’uomo spostò lo sguardo su un tavolino, sopra al quale c’era un grammofono che si era portato appresso.

- E io la prego di esaudire il mio ultimo desiderio -, sussurrò Rondoni.

- Cosa posso fare ? –

- Nella borsa vicino al tavolo c’è un disco. Lo metta su; voglio ascoltarlo per l’ultima volta. –

Un paio di mesi fa, medici italiani gli avevano dato la notizia che nessuno al mondo vorrebbe sentirsi dare. Cancro al pancreas. Incurabile.

Giuseppe Rondoni non aveva avuto esitazioni. Riscossa la pensione, era volato in Svizzera per compiere l’ultimo passo prima di soffrire le pene dell’inferno.

Il dottore si alzò e raggiunse la borsa. Ne sollevò fuori una busta gialla, ben sigillata. La aprì, svelando un vinile.

- Di chi è ? -, domandò curioso.

- Lei si chiama Anna Castelli. No, non troverà quel disco in nessun negozio del mondo. Quella che tiene in mano è l’unica copia esistente. –

Ruesch tornò al capezzale, si sedette e chiese, per prendere tempo:

- Mi racconti di lei. –

Rondoni sospirò dall’amarezza, dalla nostalgia.

- Ho avuto diverse donne nel corso della mia vita, senza per questo avere mai avuto la volontà di convogliare a nozze. Ero molto giovane quando conobbi Anna. Deve sapere, dottore, che arrivo da Trieste, la piccola perla dell’Adriatico. In quei anni, la città stava aprendo le braccia a un nuovo, grande evento. Si chiamava Settimana Classica. Io ero nel gruppo di organizzatori. Per una settimana, ci furono appuntamenti sul tema, come concerti nei salotti, mostre nei musei, concerti nei teatri che registrarono un sold out incredibile. Inoltre, c’era un concorso per giovani musicisti. Questi portavano i loro talenti al teatro più grande della città, sotto l’occhio e le orecchie di importanti critici. In palio c’era un’ingente somma di denaro. Lei, Anna, era una di quelle giovani.

Ricordo che si era esibita per terza. Oh, avrebbe dovuto vederla. Un angelo seduto al pianoforte. Lei e lo strumento sembravano fondersi in un’unica creatura sonante. Rimasi di stucco.

Durante l’aperitivo serale mi avvicinai porgendole i miei più sentiti complimenti. Lei sorrise in modo raggiante. Sentii l’anima vibrare, con gli stessi ritmi del cuore. Parlammo del più e del meno, finché lei mi confidò di essere di Milano, di non aver mai visto la città e di sentirsi un po’ sola. Mi offrii per farle da Cicerone il giorno dopo. E con mia grande sorpresa lei accettò. –

Rondoni inspirò ed espirò l’aria. Lo sguardo gli si fece nostalgico.

- Continui -, lo esortò Ruesch.

- Trieste si spalancò davanti a noi. La grande Piazza Unità, dove l’occhio spazia su gran parte del golfo. Il colle di San Giusto, dal quale si vedono scorci cittadini che restano impressi nella memoria. Il parco del Castello di Miramare, con la sua vasta raccolta di piante, fiori e alberi provenienti da tutto il mondo. E la magica Val Rosandra, fuori città, nella quale, tra i suoi vasti pennoni di roccia, scorre il torrente omonimo; i suoi sussurri, tra gli alberi, sono una melodia, ma mai paragonabile alla voce e alle risate di Anna. La scintilla non tardò ad arrivare e ci colse senza che ce ne rendessimo conto. Ci unimmo nella camera del suo albergo. E il giorno dopo, tornai al teatro per ascoltare la sua seconda esibizione -, sorrise dolcemente: - Mandò nuovamente la platea in visibilio. Continuammo a frequentarci durante la settimana finché arrivò il giorno delle premiazioni. Com’era eccitata. Tutta la sua figura vibrava per l’emozione. Arrivò seconda, per pochi punti. Era raggiante da tanta soddisfazione. Quella sera festeggiammo. Poi mi disse che voleva farmi un regalo, ma le serviva un pianoforte e una sala di registrazione. Ottenemmo entrambi attraverso la mia rete di contatti. E il disco che ora tiene in mano è proprio il suo regalo. –

- E poi com’è finita ? –

- Lei dovette ripartire per Milano. Restammo d’accordo di non risentirci, di non rivederci. –

- Perché no ? –

- Quei giorni passati assieme sono stati perfetti. Sono stati l’Amore che si sente nelle canzoni, che si vede nei film, che si legge nei romanzi. Perché rovinarlo con l’abitudine di ogni giorno?, che tira fuori sempre i difetti peggiori delle persone ? No, abbiamo vissuto un sogno assieme. Non volevamo doverci risvegliare. Adesso, la prego, mi faccia tornare in quei giorni. –

Ruesch andò al grammofono e posò il pick up sul vinile.

La composizione tagliò il silenzio. Aveva una struttura con un forte contrasto tra la parte centrale e le altre due. A cambiare non era solo la tonalità, ma la scrittura stessa, che si faceva via via più densa. Alla prima parte, sentimentale e dolce, se ne aggiungeva una inquietante e tormentata. Nella ripresa del tema, ricomparve il motivo di apertura, per finire con un arpeggio per moto contrario. In totale, la composizione durava sei minuti.

Il dottor Ruesch si lasciò talmente prendere dalla musica, dall’immagine romantica e speciale che si era fatto di Anna, da non rendersi conto che Rondoni si era allungato sul comodino e aveva ingerito la pillola di Pentothal in modo fulmineo; poi si era disteso, con lo sguardo rivolto al soffitto.

Quando l’occhio del dottore si posò nuovamente su di lui, aveva un’espressione pacifica. Accortosi dell’accaduto, il trentenne si alzò di scatto e gli si fece vicino.

- Ho avuto una vita piena -, mormorò Rondoni, sorridendo debolmente.

La musica continuava ad aleggiare nella stanza, quando Giuseppe Rondoni chiuse gli occhi per l’ultima volta.

 

FINE

*

Il Giardino dei Sogni Infranti

Linda, ti ricordi la prima volta che ci siamo incontrati?

Io, vagabondo giornaliero lungo i sentierini di quel bel giardinetto sotto casa, un giorno qualsiasi di primavera, ebbi il privilegio di incrociare i tuoi occhi nocciola, dai riflessi ambrati. Ti ricordi quanto tremavo, da capo a piedi, quando presi posto accanto a te?

Un solo “ciao”, e le porte del paradiso già si spalancavano lentamente davanti a noi. Tu stavi leggendo una raccolta di poesie di Pablo Neruda, io temevo di essere di troppo e formulavo frasi brevi. E quanto brio e gioia di vivere provai quando restammo d’accordo di ritrovarci il giorno dopo, su quella panchina vicina al laghetto dei cigni, per leggere qualcosa assieme.

Non scorderò mai i teneri pomeriggi passati con te, immersi in letture di testi immortali. I fiori nelle aiuole intorno a noi sbocciavano sempre più; uccellini invisibili tra le fronde diffondevano i loro canti come dolce sottofondo musicale; i passanti, i bambini che si riconcorrevano giocando, i loro schiamazzi, si dissolvevano in echi lontani al suono della tua voce. E ti ricordi il nostro primo bacio?

Capitò così, senza che ce ne rendessimo nemmeno conto. Occhi negli occhi, dopo una lettura, una sola carezza. Tutta la mia anima avvampò nel ritrovarti vicinissima. E poi, al tocco delle nostre labbra, tutto l’universo sfumò intorno a noi.

Mai dimenticherò il sorriso che mi regalasti quando riaprimmo gli occhi. Il giardino, tutto, sembrava risplendere di una luce venerea, scintillante quanto il tuo sguardo magnetico.

Quanta freschezza e leggerezza provavo nello spirito quando stavamo abbracciati, testa contro testa, a sussurrarci parole dolci nelle orecchie, immersi nel tranquillo far niente, con le voci incrinate dalle emozioni. Eri una boccata di ossigeno, eri l’estate che mi si spalancava davanti e mi accoglieva nel suo caldo abbraccio. E quanto brillavano di promesse i nostri occhi, ogni volta che si incontravano.

Linda.

Molto tempo è già passato dal nostro ultimo incontro. Le primavere e le estati scivolano via lasciando posto ad autunni e inverni sempre più tristi e cupi. I cigni non sguazzano più nel loro stagno. I fiori, anche d’estate, hanno perso ogni lucentezza dai loro petali. I canti degli uccellini si disperdono tra le fronde come echi di sofferenza.

Non ci sei più.

Non so chi potrebbe spiegarmi il perché accadano certe cose. Forse non esiste nemmeno un perché. Eri il fiore più radioso, e la malattia ti ha piegata e strappata, portandoti fin troppo lontano da me.

Io, vagabondo giornaliero lungo i sentierini di quel bel giardinetto nel quale abbiamo vissuto il nostro sogno d’amore, non manco mai di fermarmi alla nostra panchina e di fissare triste, malinconico, l’acqua immota del laghetto, sicuro che, prima o poi, le nostre anime si riuniranno tra cori di serafini, ma consapevole che, nei percorsi del mio viaggio, mai più incontrerò una come te.

 

FINE

*

L’ Incontro

La campagna di un piccolo paesino della Croazia era già mezza addormentata quando Ernesto Gherbaz, dopo una lunga giornata passata nei campi, decise di coricarsi.

A destarlo, svariati minuti dopo, fu un ronzio proveniente dalla finestra aperta. Era suono acuto, ripetuto, che sovrastava di gran lunga il frinire dei grilli.

Ernesto si alzò lentamente, brontolando qualcosa di incomprensibile. Andò alla finestra aperta, dalle tende smosse dalla brezza notturna. Si affacciò e rimase di stucco.

Dalla sua posizione aveva un'ampia veduta dell'orto posteriore; al centro c'era un enorme disco argenteo, percorso da lucette a intermittenza di colore bluastro sui fianchi. Le galline, nell'aia vicina, si disperdevano in cerca di riparo finendo con l'ammassarsi tutte in un angolo del recinto in un groviglio di piume.

Ernesto si staccò dal davanzale. Occhi sgranati dalla sopresa, respiro rantolante, spalancò le ante dell'armadio e afferrò il fucile.

Ancora in pigiama, scese le scale e uscì dalla casetta a due piani. Si fermò a una ventina di metri dal disco: aveva una forma oblunga, il suo diametro sarà stato di circa dieci metri.

L'uomo puntò l'arma davanti a sé, verso quello che sembrava essere uno sportello, l'indice a qualche millimetro dal grilletto.

Il ronzio acuto cessò di colpo. Il frinire dei grilli ritornò ad appestare l'aria. Lo sportello emise un suono metallico e iniziò ad aprirsi in parallelo al terreno. Apparvero due figure difficile da definire tali: erano agglomerati di luce intensa, dorata, alte quasi due metri, con una sfera rotonda che fungeva da “testa” e quattro appendici che dovevano essere gli arti superiori e inferiori.

Ernesto, sbalordito oltre ogni limite, abbassò il fucile. Il solo guardare quelle creature di luce gli aveva fondato nello spirito un profondo senso di pace, e mai sarebbe stato in grado di aprire il fuoco su di loro. Queste scesero a terra, fermandosi a pochi passi dal disco.

L'uomo si fece loro incontro, avanzando lentamente, piede dopo piede.

-Chi siete?... Cosa... Cosa volete? -, balbettò.

Una delle due creature avanzò ancora di un poco, mentre l'altra rimaneva ferma.

-Non vogliamo farti del male... - disse in un bruscio che aveva un che di elettrico nel tono; ed Ernesto comprese al volo quanto gli diceva, forse era trasmissione del pensiero?, oppure una specie di lingua universale facile da comprendere? La creatura continuò a parlare:

-Da molto tempo vi giriamo intorno e vogliamo conoscervi un po' meglio. Per questo è meglio partire dalle campagne, poi passeremo ai paesi più popolati arrivando infine alle metropoli. -

-Perché? -

-Per il semplice piacere di conoscenza. -

-Oh, buon Dio, ma cosa sta succedendo? -

-Non ti spaventare. Raccontaci un po' di te. -

Ernesto, pallido in volto, emise un brontolio sommesso, non sapendo da che parte cominciare, né se quello che stava vivendo era un sogno oppure la realtà.

-Per esempio, cos'è quella cosa che porti al dito? -, domandò la seconda creatura.

L'uomo si guardò la mano, poi risollevò lo sguardo.

-Questa? Si chiama Fede; è un anello che ci si mette quando ci si sposa. -

-Un anello? -

-Cosa significa sposa? -

-Ma come...? Significa unirsi nel sacro matrimonio. Significa condividere il resto della propria vita con la persona amata. Voi non vi sposate? -

-Noi no. -

-Non sapete cosa sia essere marito e moglie? -

-No. Spiegacelo cortesemente. -

-C'è tutta una cerimonia in chiesa, ci si promette cura e rispetto e amore, finché la morte non separa i due coniugi. Poi ci si mette la Fede. Si vive sotto lo stesso tetto, si è uniti sia nelle gioie che nei dolori della vita, si ha sempre qualcuno accanto sul quale contare quando si è in difficoltà. Molti di noi non sopportano l'idea di sposarsi, per me era un sogno. Grazia divina ho conosciuto Nadia, il centro del mio mondo. Non passa giorno che non pensi a lei. Eh, l'amore, c'è qualcosa di più bello?-

Gli esseri rimasero in silenzio per qualche secondo.

-Ma voi... sapete cos'è l'amore? -, chiese Ernesto sospettoso di non essere stato compreso.

-Sì. Noi lo chiamamo “entrare in relazione”. -

-Non stiamo a fare troppe cerimonie, da noi è quotidianità “entrare in relazione”. -

-C'è chi lo fa anche qui da noi, ma il matrimonio è una cosa seria. È uno degli eventi più importanti nella vita di un essere umano. -

-E dov'è l'altra persona con l'anello, Nadia? -

-Lei... mia moglie... -, la voce gli si incrinò dall'emozione: - non c'è più. È salita in Cielo qualche anno fa. -

-Quindi non sei più sposato? -

-Lo sono ancora. Oh, voglio esserlo ancora. Nessuna, mai, prenderà il suo posto nel mio cuore e nel mio spirito. -

-Capisco -, disse la prima creatura: - Questo tuo amore è un fatto potente, anche se quella cosa, come la chiamate voi, “matrimonio”, non esiste più per te. -

-Già, povero. Preferisci sentirti ancora sposato a lei per non soccombere al male della sua perdita. -, aggiunse la seconda.

Ernesto aveva gli occhi carichi di lacrime. Il solo parlare di Nadia gli aveva stretto la gola in una morsa di acciaio.

Un cane iniziò ad abbaiare non lontano.

-Sarà meglio andare prima di avere possibili guai -, annunciò la prima creatura, tornando al fianco della prima.

-Matrimonio... potremmo ragionarci su -, commentò la seconda.

-Però il termine suona male, piuttosto chiamamola “relazione forte” o qualcosa del genere-.

Entrambe tornarono a bordo del disco oblungo. Lo sportello si chiuse e, dopo qualche secondo, il ronzio acuto da esso emesso sovrastò il frinire dei grilli.

Ernesto, con ancora gli occhi velati di lacrime, rimase a osservare l'oggetto alzarsi in volo, sorvolare l'orto e poi svanire, con la velocità di un fulmine, in un punto imprecisato della volta stellata.

Il cane continuava ad abbaiare. Le galline tornarono a razzolare nel recinto, come se nulla fosse successo.

Avrebbe voluto che gli strani visitatori si fossero fermati a parlare con lui, a porgli domande, e poi fare anche lui delle domande a loro. Ma già comprese che da quel momento in poi non li avrebbe più rivisti.

Di quello strano incontro decise di non parlarne con nessuno, per evitare di diventare lo zimbello del paese e di essere etichettato come pazzo.La sua vita tornava nella normalità di ogni giorno. Quella di un uomo solo, ancora devoto alla moglie, che vive per e con la sua campagna.

 

 

FINE