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Raccolta di testi in prosa di Ivano Mugnaini
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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L’inseguitore





L'INSEGUITORE


Troppo nitidi, troppo statici. Ho provato, quando mia moglie non guardava, a girarli e rigirarli tra le dita, gli occhiali, a far ruotare le lenti come trottole sul legno del tavolo. Niente da fare: dopo un po’ il metallo riacquista il suo peso e la lente rallenta sempre più fino a restare immobile, un pezzetto di vetro che riflette le pareti del laboratorio, le finestre semichiuse, l’enorme orologio a pendolo appeso alla parete centrale.
A mia moglie è sempre piaciuto il pendolo dell’Ottocento, l’orgoglio, il simbolo stesso del nostro negozio di ottica e orologeria. C’è sempre stato, qui nel corso principale di Lido di Camaiore, questa città di mare sospesa tra il caos e l'oblio, la sabbia arroventata della spiaggia e i silenzi delle pinete. C'è sempre stato. fin da quando ero ragazzo, forse l’ha comprato mio suocero, o il padre di mio suocero, o forse anche loro l’hanno trovato già lì. Scandisce i movimenti, le azioni, le parole che dici e quelle che non osi nemmeno sognare. C’è, si fa pensare, e a volte credo che anche lui pensi a me, e rida, di ogni gesto quieto, paziente, scandito a bacchetta dalle lancette di ferro e di ottone dei suoi secondi e dei suoi minuti. Mi raggiunge continuamente, il tempo, mi piazza un braccio nerboruto sulla spalla e non si stacca più, come un ubriaco in un bar che ti chiede da bere e ti racconta una storia lunga, incomprensibile, costantemente identica a se stessa.
Mia moglie assomiglia un po’ al pendolo: è di legno liscio, saldo, smaltato con cura, senza screpolature e senza ammaccature. E’ precisa, puntuale, ama il suo lavoro, l’attività che è chiamata a svolgere. Procede in senso orario senza mai perdere un colpo, senza una pausa, un’esitazione, un dubbio. Mi invita ad imitarla, ad essere attivo e zelante, a prestare attenzione ai clienti, a mostrare attaccamento. Ha ragione, sì, ha senz’altro ragione lei.
Una lente ferma tra le dita è uno specchio, due lenti che girano nelle mani sono un’idea, due ruote che corrono sull’asfalto lucide come lenti sono una fuga. Mia moglie ha ragione, è dalla parte del giusto. Io ho solo una bicicletta rossa fiammante e corro in direzione opposta. L’asfalto del Viale Europa non è mai grigio, o meglio, non è mai grigio allo stesso modo. Non è del colore del giorno prima, non ha lo stesso profumo e la stessa consistenza, le salite rincorrono le discese e il sudore sulla fronte trasforma un tramonto in un’alba.
Esco in silenzio dalla porta laterale del negozio e monto in sella con l’espressione di un bambino che sale sul cavallo più bello di una giostra. Svolto l’angolo ed il negozio non c’è più. Non c’è lui per me né io per lui. Solo un rettilineo assolato, l’odore dei pini e del mare, il riflesso delle macchine che mi sfilano accanto piene di ragazze in maglietta e di asciugamani colorati. Respiro a fondo, indosso gli occhiali da sole presi a prestito nel negozio ed inizio l’inseguimento. Non c’è nessuno davanti a me, solo un viale alberato, automobili e moto. Eppure io lo vedo, è laggiù, a un centinaio di metri da me, ha un passo regolare, basta aumentare la frequenza delle pedalate e posso raggiungerlo. E’ lui, il compagno di viaggio ideale, quello che, a seconda del mio umore, procede cupo al mio fianco o ride e scherza con me. E’ laggiù, il ragazzo eternamente torturato, vittima di tutti i regimi. Lo riprendo e cerco i suoi occhi per un attimo. Non c’è bisogno di parole, pedaliamo spalla contro spalla unendo forza e fragilità, fendendo la stessa aria, sognando insieme il traguardo di una valle silenziosa dove poter distendere le braccia, posare la schiena sull’erba e chiudere gli occhi vedendo e pensando solamente il sole.
Oppure, quando sono di buonumore, mi metto sulle tracce di Mercks, il più forte, l’eterno vincente. L’ho anche conosciuto un giorno Eddy Mercks, quello vero, in carne ed ossa. Gli ho chiesto l’autografo, ho accostato la bici alla sua e mi sono fatto scattare da un amico una foto che conservo come una reliquia. Mi ha sorriso il campione, ed ha provato a dirmi qualcosa in un italiano tagliente come una lama, pieno di erre appuntite e arrotate. Gli ho sorriso anch’io e gli ho detto grazie. Non sapeva, il belga, per fortuna, quello che pensavo in quel momento. Dicevo a me stesso che era forte, sì, era bravo il cannibale, ma io, se avessi potuto allenarmi a tempo pieno, lo avrei battuto prima o poi. E in ogni caso, mi dicevo, l’ho già battuto tante di quelle volte! Quasi ogni giorno lo immagino davanti a me, lo inseguo, lo supero e lo batto in volata. Povero Mercks, se sapesse quante volte l’ho sconfitto scoppierebbe a piangere come un ragazzino, come quella volta al traguardo di Sanremo quando fu costretto a ritirarsi dal Giro d’Italia. Per sua fortuna non sa niente, e io non ho intenzione di dirglielo. Lo lascio dov’è, nella leggenda, nella memoria, e sul viale che costeggia la pineta, pronto ad essere inseguito e staccato ogni volta che mi va di pedalare e di fantasticare.
Ne ho conosciuta di gente famosa in vita mia, ciclisti e atleti ma anche artisti e personaggi famosi. Ho incontrato la nipote di Puccini, un giorno, di fronte alle acque lente e sognanti di Torre del Lago. Bella come Tosca, come Madama Butterfly, vestita di colori accesi, delicata come un alito di vento, un filo di fumo, una melodia che danza sull’azzurro e sul verde. Mi sono perso nel sogno di lei, ed anche lei, forse, si è innamorata di me. Una cosa è sicura, ho ricorso la sua armonia, nel ritmo della fatica, nel cigolio dei pedali, nell’ombra disegnata sugli alberi, nel dipanarsi ondulato della strada che riflette le pulsazioni del cuore come il volo di un gabbiano che si specchia sulle acque di Torre del Lago.
L’ho inseguita, la musica di Puccini, si è lasciata raggiungere quando ha compreso che non volevo costringerla a seguire il mio cammino, volevo solo averla al mio fianco fino all’istante in cui avrei imparato, partendo da lei, a sentirne gli accordi nelle braccia e nelle gambe.
Ho inseguito anche un collega, l’occhialaio di Amsterdam: Baruch Spinoza, un uomo colto, un filosofo. Io, lo confesso, non sapevo chi fosse, me l’ha spiegato un mio amico. Sono ignorante, lo so, lo ammetto, ma lui mi ascolta, mi parla di filosofia, pedala e ride anche lui al mio fianco, dice cose assurde e cose vere come me. Non sa se i paesi a cui passiamo di fronte esistono davvero o sono immaginari, conosce solo le stille di sudore, l’imprecazione, la voglia di arrivare in cima alla salita per vedere cosa c’è lassù e cosa oltre, o magari solo per avere il vento fresco sulla faccia e sul petto, per quanto male possa fare.
Mi piace anche, di tanto in tanto, attraversare la città, sfrecciare sui viali pedonali e lungo la Passeggiata di Viareggio zeppa di gente. Con la bici luccicante, contromano, volo e vedo per un attimo breve le loro risa e le dita che mi indicano e tamburellano allusive sulla fronte. Corro, ed ogni istante cambia la gente, anche se la gente non cambia mai. Ma basta un colpo di pedale, elegante e potente come quello di Adorni, come quello di Koblet, e sono alle spalle. Spariti, andati, presenti e lontani.
A volte passo accanto a camion pieni di soldati. Seri, massicci, con le divise tirate a lucido. Passo a testa bassa come uno scalatore timido, Battaglin, Ocaña, Chioccioli. Passo piano e lascio correre i sogni. Immagino di poter montare a rovescio le ruote dei loro mezzi blindati e delle loro jeep come a volte faccio in negozio con le lenti degli occhiali. Mia moglie è convinta che lo faccia per sbadataggine e puntualmente si imbestialisce. Non sa che lo faccio apposta. Una lente rovesciata può essere magica, può far vedere il mondo a sghimbescio, può farti sbagliare strada e direzione e farti finire su una spiaggia dove gli unici proiettili sono gli zampilli che raggiungono la pelle dopo un tuffo tra le onde. Vorrei poter dire e fare davvero tutto questo, ma per ora so solo procedere muto. Continuo a inseguire però, a puntare lento e tenace verso la Cima Coppi, lo Stelvio, il Mortirolo, la più dura e la più ambita delle vette.
So correre anche all’indietro, so inseguire, guardando dritto davanti a me, anche il tempo, lungo viali illuminati da lampioni potenti come stelle o sulle pietre e la polvere degli stradoni, ai bivi sperduti delle campagne. Per chiedere indicazioni ad Alessandro il Grande, a Giulio Cesare, a Napoleone. Con la scusa di domandare come si arriva ad un borgo inventato, invitarli a pedalare con me, ad accorgersi che basta un campo di papaveri su cui stendersi quando si è stanchi e un ciglio di strada per vedere orizzonti e confini senza bisogno di oltrepassarli, senza la foga di sentirli tuoi, perché restano liberi, sempre, nonostante tutto, nonostante te.
Anche e soprattutto le donne, la bellezza, ho inseguito. Ragazze da marito e donne sposate, salite dolomitiche, erte, insidiose, rosa come la pelle e celesti come gli occhi baciati dal sole d’alta quota. Le ho inseguite, paziente, ammaliato, pedalando morbido e seguendo con le dita le curve dei fianchi e del seno. Mi hanno staccato spesso, per forza, per necessità, oppure, alla fine, mi sono lasciato sfilare io, ho fatto l’elastico lasciando che prendessero metri e filassero via, per paura, per lasciare spazio a nuove chimere e nuove fughe. Perché è bello a volte anche guardare la bellezza che si allontana sapendo che è stata tua, ha condiviso con te un tratto di strada, la meraviglia, la lucertola e il gatto che attraversano di fronte a te e ti sembra che ti sorridano come se avessero capito, come se conoscessero, loro, la magia dell’attimo: il rischio e il privilegio dell’asfalto, saper scivolare senza paura, contenti dell’istante che scalda di follia e di passione.
La mattina, dopo notti di amore rubato, tornavo al negozio ad incastrare frammenti geometrici di vetro. Le mani erano docili, per qualche minuto, riuscivo a guardare mia moglie e a sorridere alla sua saggezza. Lei capiva senza parlare, o magari si accorgeva, come me, che era meglio non capire, a volte è così, per sopravvivere.
La rispetto, l’ho sempre rispettata, è parte di me. Mi perdona, non mi insegue, ed io so bene che se volesse potrebbe raggiungermi in qualsiasi momento. Potrebbe mettersi di traverso sulla strada e bloccarla, guardarmi in faccia e obbligarmi a fissarla negli occhi. Non lo fa. Lascia che io vada, che sparisca senza preavviso lasciando negozio e clienti, soldi e porte spalancate. Lei è qui, sempre, la sento, so che c’è. Ci perdoniamo a vicenda: lei ha le sue ragioni, io la fortuna di averla e di scappare da lei.
Fuggo, sì, spesso da solo, a volte in compagnia. Con Enrica negli ultimi tempi, soprattutto con Enrica, una ragazza che pedala come un uomo, borbotta con una voce aspra che non riesce a nascondere e fa ondeggiare le spalle tozze, la testa e gli occhi che sorridono nel pianto. Vorrebbe raccontarmi storielle da caserma, barzellette sceme da osteria, da caraffa di vino rosso da un litro. Invece, regolarmente, finisce per parlarmi di sua zia, la vecchia Cesira che l’ha tirata su fin da quando è morta sua madre, tra preghiere, mani giunte, profumo di naftalina sullo scialle color Pentecoste e sulla gonna di velluto grezzo che respinge l’estate, la tramuta in una stanza cieca, una macchina da cucire dei primi del Novecento con una ruota arrugginita e una pedana su cui poggiano gambe gonfie. Mi parla di sé Enrica, del terrore e del desiderio di diventare come sua zia, delle albe già in attesa del crepuscolo, della bicicletta appoggiata al cancello del cimitero quando le ombre preparano la notte e resta solo il custode all’interno, quasi cieco, quasi pazzo, sempre preso a pregare e bestemmiare, a parlare coi morti e ad accarezzare le foto dei bambini e delle donne più belle. Entra di soppiatto là dentro, Enrica, con un fiore bianco colto in un prato da portare alla zia. Per pregare e respirare assieme a lei il silenzio della notte.
Mi attrae e mi atterrisce la mia compagna di escursioni. Mi piace, ma ho paura a guardarla in faccia, è troppo pallida, troppo luminosa, sgraziata e attraente. Temo di innamorarmene. Mi viene da ridere a confessarlo ma è così. Provo affetto per lei, vorrei strapparla alla gabbia dei ricordi, alle tarme nere che le rodono la mente, al vaso di cristallo della tomba ogni giorno più giallo ed opaco.
Presto o tardi lo faccio. Anzi no, lo faccio oggi stesso. La invito a pedalare con me, a buttarci giù per la discesa del colle più ripido delle Apuane. Ad occhi semichiusi senza pensare a niente, giù, più veloci del cuore, del sangue nelle vene.
Oggi lo faccio, io e lei in picchiata lungo i tornanti leggeri come rapaci, rapidi come ciottoli levigati, ignari di mura, paracarri, lamiere di auto che ci corrono contro.
So che lei parte sempre prima di me. Pedala vigorosa, è difficile da raggiungere. Io sono inseguitore però, è il mio ruolo, il mio mestiere. Macino metri sereno e concentrato, so dove andare oggi, conosco la via e la meta. Tengo un’andatura sostenuta da passista veloce, aumento ritmo e forza ma non la vedo, non c’è. Accelero ancora, do tutto ciò che ho. Niente. E’ fuori del raggio visivo, una curva oltre. Non ho più forze, la delusione mi fa sentire ora tutta la fatica accumulata. Mi pianto, mi blocco di colpo, riesco a procedere con immenso sforzo solo pochi centimetri alla volta. La salita ride fiera adesso, coglie il suo trionfo, la rivincita. Sorrido amaro e metto un piede a terra. In quel preciso istante sento una mano grande e lieve che mi sfiora la spalla. Mi volto lentamente con gli occhi dilatati. E’ lei, Enrica. Mi sorride, e, senza bisogno di parlare, mi appoggia le dita sulla schiena e mi invita a riprendere il cammino. Mi ha raggiunto, ha tenuto con ostinazione estrema il passo folle del mio scatto. Era partita dopo di me, attardata da un contrattempo. Mi ha scorto all’orizzonte e si è messa sulla mia scia, ha aspettato che esaurissi le energie e mi ha ripreso, pedalata dopo pedalata.
Sono stanco ora. Di tutto, anche della stanchezza, del sudore che un tempo adoravo. Con lei al mio fianco però ritrovo la voglia di spingere ancora un po’ sui pedali, quel tanto che basta per scollinare, rialzare la schiena dolorante e abbandonarsi alla discesa. La sento accanto. Mi guarda dolcemente. E’ felice adesso, e sono felice anch’io, sento il vento nelle orecchie ed è identico al suo riso. Mi perdo in lei, nel profumo, nella mano che mi sfiora la fronte e mi invita a chiudere gli occhi. Non c’è occhiale ora, non c’è lente, non c’è parola esatta e graduata che possa convincermi a tenere le palpebre aperte. Ho corso. Ho respirato la polvere e il polline dei prati e dei viali, fremendo, imprecando, cercando di capire e smettendo di cercare per comprendere davvero. Ho scelto le linee, le traiettorie da impostare, il margine di rischio, la prudenza e il gusto dell’impatto, muro di mattoni rosso sangue. Come il mio sangue che colorerà la strada, come un bacio, una carezza.
Ho conosciuto Enrica, ne ho avuto paura, una paura stupenda. L’ho fuggita tenendola al mio fianco, mi sono lasciato raggiungere fingendo di non averla veduta, di non aver percepito la sua presenza alle mie spalle. Ora volo con lei in discesa verso il mare, ad occhi chiusi e braccia spalancate. Le ruote girano, brillano nel sole. C’è ancora la strada, l’essenza, l’ossigeno che non vedi ma è ovunque, dentro di te, nella realtà, nel sogno. C’è ancora la strada, e la amo ancora. Posso diventare un granello di asfalto, un cristallo di roccia con cui gioca una formica. Posso muovermi rapido, inseguire l’infinito ed esserne inseguito. Essere tempo e spazio, spazio e tempo: una parete di cemento e il riflesso iridescente di un attimo che vola nel traguardo della mente a braccia alzate, gli occhi e le labbra spalancati in un sorriso, nel flash breve di una foto che cattura un bagliore di eternità.

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Parole nell’acqua

Ivano Mugnaini


PAROLE NELL’ACQUA


“Here lies one whose name
was writ in water”.
Qui giace un uomo il cui nome
è stato scritto nell’acqua.

Frase tratta dall’epitaffio
riportato sulla lapide di
John Keats



Lo sconosciuto guardava gli oggetti lasciati nelle macchine parcheggiate. Camminava lento, la mattina presto, sempre e solo con la pioggia. “Cosa posso fare per ognuno?”. si chiedeva. “Quale biglietto lasciare? Quali parole? Un consiglio, un apprezzamento per la sensibilità, un aiuto per la vita?”.
La mia è un’ipotesi. Follia. Come la sua. Forse peggiore. Ma non posso fare a meno di chiedermi in che direzione si muove, verso quale senso. Per avere una risposta devo sperare nella pioggia giusta, nel ritmo, nelle frequenze adeguate. Lo incontro. Lui trova me. E’ capace di morbidi agguati.
I suoi vestiti sfuggono agli occhi, vi rientrano in un secondo momento: colori soffici, fuori tono, in armonia solo con loro stessi. Sembra parlare tutte le lingue e nessuna, la sua cantilena oscilla su cadenze che spaziano dallo slavo allo spagnolo. In una mano tiene una vecchia mappa della città, nell’altra stringe con timidezza una cassa di plastica utilizzata per trasportare le bottiglie d’acqua minerale. Il contenitore, vuoto, diventa una sedia, solida, leggera. Fluida e mobile, come l’acqua che gli dava uno scopo, una funzione. Acqua lui stesso, nella pioggia, con in mano un guscio di plastica che un tempo racchiudeva acqua. Un circolo perfetto, perenne.
Ho bisogno di dargli un nome. La mente adora il superfluo. Potrei chiederlo direttamente a lui, come si chiama. Ma non sarebbe la stessa cosa. Mi mentirebbe, o risulterebbe banale, magari. Mi arrogo il diritto di battezzarlo io. Un appellativo bizzarro e solenne, su misura per lui, ecco cosa mi serve. Nuvolario, voilà. Perfetto. Almeno per me. Lui non è necessario che lo conosca. Nuvolario, miscuglio di assonanze fascinose: un capo indiano, un pilota di auto da corsa, un imperatore persiano. Tutto e niente. Lui soltanto.
Mi si avvicina di un altro passo, cerca con gli occhi il mio sguardo, e mi chiede informazioni su una strada. Mi porge la mappa della città e mi invita a indicargli il punto esatto. Mentre la apro mi sembra di cogliere un sorriso sarcastico. Ma forse mi sbaglio. Probabilmente è un riflesso, uno sprazzo di luce nel grigio del cielo. Ci sono tre vie che portano il nome che mi ha chiesto. Incredibile ma vero. Dislocate in punti estremamente distanti l’uno dall’altro. Glielo faccio notare, e lui allarga le braccia, serafico. Gli chiedo cosa deve fare di preciso, cosa cerca, una casa, un monumento, un ufficio, un palazzo... Sorride, senza aprire bocca.
Mi viene il sospetto che la richiesta di informazioni sia una scusa per parlare con persone che, per qualche sua personale ragione, o assenza di ragione, trova interessanti. Porre un quesito che presuppone tre possibili risposte, tutte ugualmente valide, e tutte identicamente errate, gli consente di non avere alcun obbligo. Né una meta precisa. Può girare continuamente con la consapevolezza del limite e delle potenzialità: dirigersi volta per volta verso un luogo che è sempre, allo stesso tempo, giusto e sbagliato. La schiavitù e la libertà.
Mi piace. Lo trovo affine. Non lo comprendo appieno, ma lo apprezzo. E’ un dubbio vivente che mi attrae. Sento di dover fare qualcosa per lui.
Qualche giorno dopo gli lascio un biglietto appiccicato con lo scotch sul contenitore di plastica posato sul suo marciapiede preferito.
“Viene la siccità e viene la piena/ sugli occhi e nella bocca,/ acqua morta e sabbia morta/ in gara di dominio./ Acqua e fuoco deridono/ il sacrificio che negammo./ Acqua e fuoco roderanno/ le fondamenta in rovina da noi dimenticate./ Questa è la morte dell’acqua e del fuoco”.
Parole per scuoterlo, per incitarlo al mutamento. Versi di Eliot, dalla poesia “Morte degli elementi”. Ma di questi particolari non ritengo necessario metterlo al corrente.
Mi risponde il mattino dopo. Noto un foglietto bianco sul parabrezza della mia macchina. Penso lì per lì a un divieto di sosta. Invece si tratta di qualcosa di molto più articolato.
“Il mio centro è tempo-presente/ e ovunque i miei rami s’allungano/ pendono nel buio/. Non so discernere cosa da cosa/ luogo da luogo/ né se l’io appartenga all’io, o non esista”.
Lui è più generoso di me. Mi rende nota la fonte, l’autore dei versi, Nat Scammacca. Quasi un implicito invito a informarmi, a scoprirne di più.
Il giorno seguente, contro ogni attesa, è lui a rilanciare. Un altro foglietto, colorato stavolta, sotto il medesimo tergicristalli.
“Non invano è passato il non-amore/ la fatica, il digiuno, la sazietà,/ del desiderio mai toccato”.
Mi rendo conto che non è più un gioco. O, almeno, non solo. Ho il dovere di rispondere.
“La città, con te, è diventata/ una città di mare./ Ma l’arsura della verità/ è un gelo senza fine”.
Tutto tace, per molti giorni. Sconfitti, entrambi, dall’inverno del silenzio. Poi, una sera, sotto le luci gialle dei lampioni, un nuovo rettangolo di carta e parole sul vetro della macchina.
“Sono unito al mondo da tutti i miei gesti, agli uomini da tutta la mia pietà e la mia riconoscenza. Fra questo diritto e questo rovescio del mondo, non voglio scegliere, non mi piace che si scelga”.
Ancora lui, tornato a me. Tramite le parole di Albert Camus. Splendide, come il suo coraggio di scriverle ed affidarmele. L’uomo dell’acqua è sulla strada giusta. Ce l’ho fatta. Il mio impegno è servito a qualcosa. Sta diventando fertile, la sua pioggia, vitale. Ora voglio, anzi devo salvarlo del tutto. Posso riuscirci, so come operare la metamorfosi definitiva.
Gli lascio un biglietto con dei numeri, stavolta: il cellulare di Carmela. E’ grande, lei. Io lo so bene, è stata la mia donna per anni. E’ possente, Carmela, e il suo amore è sempre totalizzante. Sa inglobare il mondo e chi le sta accanto. Rendendolo identico a sé.
Passano varie settimane, e nessuno più cammina per le strade guardando gli oggetti lasciati nelle macchine. Ho vinto. La trasformazione ha avuto luogo secondo le più rosee aspettative. L’uomo dell’acqua è sfociato nel mare ampio di Carmela. Ora posso dimenticarlo. Lo archivio con gioia e legittima soddisfazione nella memoria.
Questa mattina però, a sorpresa, un nuovo segno della sua presenza. Lui non ha dimenticato me. Un altro biglietto. Azzurro, stavolta.
“Ti ringrazio”, mi scrive. “Il tuo dono è stato immenso. Più grande di me, e di quanto meritassi. Ti ringrazio di cuore, e, come ricompensa, prendo da te la sola cosa che non ti serve”.
Non capisco. E’ normale, comunque. Sono abile, certo, ma per i miracoli non sono ancora attrezzato. L’amico della pioggia resta sostanzialmente un folle. Civilizzato e fidanzato, adesso, ma pur sempre tale. Un folle felice, grazie a me.
Comincio a capire qualcosa, di colpo, nel momento in cui, lanciato a tutta velocità lungo una discesa, premo il pedale del freno. E’ morbido, docile, inservibile. Piove, chiaramente. Il fiume è gonfio, rabbioso, al di là dell’esile parapetto posto ai bordi della curva al termine del rettilineo. Corre come il vento la mia macchina. Fluida, leggera. Stretta in un abbraccio solido e poderoso di aria ed acqua. Volo, inarrestabile, verso il mare. Lassù, nel cielo, ridono le nuvole.