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Raccolta di testi in prosa di Elio Corrao
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Cinzia Bizzarri: Prefazione ai Racconti Brevi di Elio Corrao

racconti brevi elio corrao

 

 

Mi è piaciuto leggere i racconti brevi di Elio Corrao, in primis perché tratteggiano una realtà, presente e passata, che non conosco a fondo, essendo io umbra ed “emigrata” in questa bella e difficile terra … E in secondo luogo perché queste narrazioni hanno il pregio di presentare, con pochi, semplici tratti, il cuore della “palermitanità”, così difficile da capire per chi è “straniero”.

I racconti sono, per lo più, riflessioni e frammenti di ricordi, in cui emergono anche volti e figure del passato di Corrao: dallo zio scrupoloso sistemista della Vincita, ad Ingegnaccio, lo zio inventore, cui l’autore bambino guardava con ingenua ammirazione nel racconto L’aereo in Giardino; fino ad arrivare alla descrizione di luoghi e fatti più recenti, su cui lo sguardo di Corrao si sofferma, con bonario sarcasmo, per cogliere l’assurdità pirandelliana di situazioni quotidiane e consuete nella Palermo di oggi.
In alcuni punti mi è sembrato di cogliere accenti quasi borgesiani (come nel finale di Ai funerali del mio maestro), in altri compaiono delle riflessioni che raccontano di un uomo che è abituato a guardare con una sorta di malinconica ironia allo straripante vociare della vita e della storia, per poi raccontarla, utilizzando poche fresche pennellate, proprio come Corrao fa con la sua vera passione: la pittura.

La brevità e la concisione sono due caratteristiche che in realtà sono difficili da utilizzare quando si racconta. Occorre possedere la capacità di cogliere gli aspetti salienti e di lasciare che la storia si intraveda, si snodi e si mostri solo attraverso pochi piccoli tocchi d’artista. E in questo Elio Corrao, benché in un terreno per lui abbastanza nuovo, mostra di essere bravo, perché tutto resta nel suo narrare leggero e fresco.

All’autore adulto, talvolta sarcastico e pungente – alle prese con una realtà che spesso si popola di furbi o prepotenti (come in A cu si scanta pi primu o ne Il venditore di niente), ma anche di visionari e sognatori – si sovrappone il se stesso bambino che guarda, con un sorriso divertito e ancora un po’ d’incanto, la varia umanità presente e passata che popola piazze e strade, nel tumulto caotico, ma vitale di questa problematica e affascinante città.

Particolari sono i finali di questi racconti, quasi aforistici e sempre pregnanti, in grado cioè di condensare in una manciata di parole il “succo” (u sucu, come si direbbe in dialetto) della storia, secondo la migliore tradizione narrativa.

Il piacere di narrare in Corrao è evidente, perciò ci auguriamo che continui a “cesellare”, tanto per usare un termine che rientri nell’ambito semantico a lui più vicino, altre storie e altri racconti, pieni di ironia, ma anche di nostalgia e di bonario umorismo.

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La Vincita

Verso la seconda metà degli anni cinquanta, mio zio Federico aveva deciso di cambiare vita, economicamente parlando,pertanto si era dato anima e corpo al gioco del totocalcio; che allora prevedeva dodici punti per la massima vincita.
Federico trascorreva i primi due giorni della settimana, impegnandosi nei pronostici calcistici, suffragato dalla consultazione dei giornali specializzati, che sovrabbondavano nella sua casa.
Dopo essersi fatta un’idea sull’andamento delle partite in schedina, passava alla parte ostica, costituita dalla trascrizione manuale di tutte le schedine che il sistema richiedeva.
All’epoca , non solo non esistevano i computer e le stampanti, ma non erano ancora previste le schede da sistema e nemmeno quelle a ricalco; quindi, Federico era costretto a scrivere una “infinità” di schedine per includere tutte le combinazioni da lui previste.
Federico iniziava a “scrivere” il martedì sera e, a seconda dei suoi impegni lavorativi, “scriveva” anche di notte, poiché bisognava completare la trascrizione del sistema entro il venerdì sera.
Il sabato mattina , il sistema era pronto per essere convalidato in ricevitoria. Devo dire che già da ragazzino ammiravo la ferma volontà con la quale Federico portava avanti i progetti in cui credeva, anche se stressanti, come in questo caso.
Queste “performances” durarono un paio d’anni e ogni tanto la “fortuna” faceva capolino nella vita di Federico, senza mai nulla di eclatante, piccole vincite, che però gli consentivano di continuare a perseguire il suo obiettivo.
Ma ecco che un giorno, la dea bendata bussò alla porta di Federico, gratificandolo di un pieno “dodici”.
Quella notte, non si dormi nel palazzo dove tutti abitavamo; Federico, invitò subito tutti gli amici ed i parenti, che si precipitarono copiosi nella sua casa, per complimentarsi con il “fortunato”, ma soprattutto per gustare sfincioni, pizze, pollame e ogni possibile tipo di dolci e libagioni varie , che nel mentre, Federico aveva ordinato.
Le prime luci dell’alba videro mio zio presso la sede del totocalcio, in via Terrasanta, dove all’epoca si procedeva allo spoglio delle schede e si attendeva di conoscere l’entità delle vincite.
Quella volta il “dodici” vinse duemila lire, Federico aveva sborsato quattromila lire per cibi e libagioni varie.
Mio zio Federico non “giocò” mai più e ancor oggi , quando qualcuno gli ricorda l’aneddoto, sia pure con una risata, non riesce a nascondere il suo, più che giustificato, disappunto.

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La Balilla

Quando ero ragazzo, nei cosiddetti “favolosi” anni sessanta, uno dei sogni più frequentati da quelli della mia generazione era di poter avere la patente di guida e quindi l’automobile.
Ricordo che cominciai a preparare i “documenti”, con largo anticipo rispetto al compleanno, allo scopo di avere “subito” il famoso foglio rosa.
In effetti, pochissimi giorni dopo aver compiuto i diciotto anni, ero in possesso del desiderato documento.
Esercitazioni alla guida ne feci poche, perché in realtà sapevo già guidare, in quanto con Vittorio, mio amico e compagno di mille marachelle, guidavamo già l’auto di suo padre che ,ovviamente, non ne sapeva nulla.
Un mese dopo il rilascio del foglio rosa vi furono gli esami, ai quali mi presentai con un amico già patentato; superai brillantemente gli esami e conseguii la patente.
All’epoca la patente era considerata da noi giovani come l’indispensabile chiave d’accesso alla “vita”; infatti l’automobile non era solo sinonimo di velocità, ma era anche la certificazione di appartenenza a una società tecnologica oramai evoluta, cui non si poteva rimanere estranei. Ma l’auto aveva anche un altro importantissimo valore: serviva per “rimorchiare”.
Tuttavia, una volta giunti in possesso della patente, si poneva un problema: “Ci vuole la macchina”. Fu così che riuscii a ottenere ventimila lire da mio padre e con Vittorio andammo allo “sfascio” a comprare una macchina in società.
All’epoca i pochi sfasciacarrozze si trovavano prevalentemente nei pressi di piazza Fonderia e li fu facile fare “amicizia” col simpaticissimo “zu Vicè” che ci vendette una Balilla del millenovecentotrentatrè, che non aveva sfasciato, perché a suo dire, perfettamente marciante e da lui garantita mediante pittoreschi giuramenti su tutte le generazioni che l’avevano preceduto. Valga per tutti un test di efficienza: bisognava iniziare a frenare a piazza Croci , per fermarsi al “Politeama”.
Quella Balilla appagava il “sogno” di noi ragazzi, ricordo che la riverniciammo con i rimasugli di vari colori che nella loro miscela avevano prodotto un’indescrivibile colore “can che fugge”, che tuttavia , a noi piaceva moltissimo.
L’auto consumava più olio che benzina, eppure era per noi un mito con la sua linea austera, ben piantata sulle quattro ruote, lei che era stata anche il “sogno” di chi ci aveva preceduto trent’anni prima. La Balilla era servita solo da approdo a una realtà, prima solo sognata e che una volta raggiunta cominciava già a vacillare.
Le “esigenze, che, all’epoca, crescevano ogni giorno a dismisura, ci fecero prestissimo dimenticare l’agognata “macchina” e presto la Balilla fu riportata allo “zu Vicè”, che provvide a sostituirla -questa volta non avevo soci – con una più recente Topolino b del millenovecentotrentotto.
Era, praticamente, iniziata la corsa al consumismo, del quale, la mia generazione con i suoi modelli culturali è stata in gran parte responsabile.
Negli anni successivi cambiai tantissime automobili, tutte rigorosamente usate, fino a quando nel ’68 finalmente comprai la mia prima vettura nuova: la “Cinquecento f” altra pietra miliare della mia vita d’automobilista; ma questa è un’altra storia.
La Balilla occupa un posto particolare nella mia memoria e quando s’affaccia nei miei ricordi, la penso rivivendo l’entusiasmo del momento, ma anche con un pizzico di malinconia.

 

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L’Aereo in Giardino

Quando avevo tra gli otto e i dodici anni – e me ne rendo conto adesso – penso di aver vissuto uno dei periodi più fantastici della mia esistenza.
A quel tempo stavamo tutti nella palazzina del mio bisnonno, noto pittore palermitano, vissuto a cavallo fra ottocento e novecento.
Quel palazzo era abitato e frequentato da svariati personaggi che erano, rappresentavano, o avrebbero in seguito rappresentato, “qualcosa”, specie in campo artistico e letterario.
Ma oggi voglio parlare di quello zio “un po’ svitato” che trascorreva il suo tempo, tra un corso per corrispondenza di radiotecnico e le sue trovate da “archimede pitagorico”.
Ricordo che quando ero libero dallo studio gli stavo quasi sempre appresso e cosi assistevo alla sua opera di assemblaggio della radio a galena, che ogni tanto (persino!) funzionava. Allo stesso modo vidi la nascita e lo sviluppo di tanti altri marchingegni che mai funzionarono, se non nella mente del suo ideatore.
Tuttavia Emilio o “Ingegnaccio” – cosi lo chiamavamo noi bambini che gravitavamo intorno alla sua ”orbita”- spaziava per” quasi tutto lo scibile umano” e aveva inventato, tra l’altro, una candela ad elettrodo mobile per motori a benzina, che per ovvie ragioni non ebbe alcuna fortuna.
Ma il vero “capolavoro”di Ingegnaccio fu la costruzione di un aereo nel giardinetto interno al palazzo.
Ricordo che partì dalla progettazione e, dopo aver consultato qualche rara pubblicazione di aeromodellismo e aver fatto degli schizzi di come doveva “essere” l’aereo, ne iniziò senza indugio la costruzione.
Io ed altri bambini seguivamo i “lavori” con vorace interesse. Interessantissima la piegatura dei correnti di legno, tenuti in acqua con un peso per facilitarne la curvatura.
La costruzione dell’aereo durò, tra varie interruzioni, quasi un anno e ad un certo momento il suo scheletro con le sue centine apparve come d’incanto, non aveva le ali, ma aveva il timone di coda e la carlinga era provvista di sedile, complessivamente l’aereo aveva l’aspetto di un tozzo siluro lungo circa due metri.
Un giorno “Ingegnaccio”, montò anche due ruote di passeggino sotto la carlinga e l’aereo sembrò allora proprio pronto a decollare.
Ovviamente non mi era sfuggito che un aereo senza ali e senza motore non può volare, senza contare che in giardino c’era appena lo spazio per girarci attorno.
Ma Emilio senza saperlo mi aveva fatto un grande regalo, mi aveva fatto volare molto in alto, facendo dispiegare le mie “ali” in quel mondo infinito che è il regno della fantasia.
“Ingegnaccio” mi aveva insegnato che l’entusiasmo è un motore potentissimo che riesce a muovere qualunque idea e che nella vita occorre molta fantasia, perché è lei la vera fucina delle idee.
Emilio, poi, stette male e non lo rividi per lunghi anni.
Penso che, ogni tanto, tutti dovremmo avere una “vite un po’ lenta”, perché sono le “viti allentate” che ci consentono di superare le inibizioni e i pregiudizi culturali, conducendoci per quelle vie in grado di cambiare in meglio i destini dell’uomo.

 

 

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IL Venditore di Niente

 

Questa volta voglio raccontarvi di un venditore di “niente”, che avevo” scovato” durante i miei giovanili “bagni di vita”, e che aveva la sua “sede operativa”nella villetta antistante la chiesa di S. Francesco di Paola.
Devo dire che anche questo venditore era un teatrante nato, “un’artista” che aveva sviluppato tecniche di vendita non esenti da importanti intuizioni psicologiche. Il“negozio”constava di una bancarella metallica ricoperta da un drappo damascato, sulla cui superficie erano disposte in maniera ordinata una grande quantità di boccette di vetro,contenenti un liquido verdastro.
Il “maestro delle vendite”si serviva di due compari, che io avevo prontamente individuato. Quindi, iniziava la presentazione del “prodotto”, che in esordio veniva proposto come potente smacchiatore.
“Ecco, vedete questo signore- indicando un “compare”- ha la giacca macchiata!” E senza attendere alcun assenso, andava a strofinare una pezzuola imbevuta della verdognola mistura sulla manica dell’indumento che effettivamente tendeva a ravvivarsi dando un senso di nuovo e di pulito; ne dedussi che il liquido conteneva una qualche sostanza molto aggressiva che non poteva certo giovare all’indumento.
E questo era solo l’inizio. Infatti, il “maestro” rivelava a tutti gli “spettatori” che il suo “preparato” serviva anche per i calli, ed ecco l’altro “compare” pronto a offrire il piede ignudo, ben provvisto di calli e duroni, che dopo essere stati cosparsi del “miracoloso” liquido, di colpo non facevano più male.
Ma la parte più esilarante era sicuramente il momento in cui il “ maestro” dichiarava che il suo “prodotto” aveva proprietà taumaturgiche: infatti comunicava in maniera solenne che il prodotto serviva anche per l’acidità di stomaco, per il mal di denti e come crema di bellezza per il viso!
Può sembrare sconcertante, ma vi assicuro che tanta gente, dopo l’input dei “compari”, comprava le boccette “miracolose”.
Io me la ridevo alla grande e non potevo, nonostante la mia giovanissima età, non considerare che in fondo tutti quei creduloni avevano avuto ciò che meritavano: “una boccetta di niente”.
Ero soddisfatto di come avevo trascorso il mio tempo e sicuramente le mie simpatie andavano più al “maestro delle vendite”che agli sprovveduti consumatori della sua mistura

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A cu si scanta pi primu

 

Un giorno, messomi in macchina, decisi di “prendere nota” di ciò che avveniva intorno a me.
Nemmeno il tempo di sedermi al volante che una moto mi taglia la strada esibendosi in uno “slalom gigante” da fare accapponare la pelle. Riesco a frenare, a scapito dei miei valori adrenalinici e proseguo verso il primo semaforo, non prima di essermi beccato il gesto dell’ombrello da un automobilista, che non avendo rispettato la precedenza, riesce a passare prima di me.
Imbocco quindi la “Favorita” in direzione di Mondello, operazione che nonostante i rallentamenti di alcuni, dovuti alla particolare fauna reperibile lungo i viali, mi conduce al viale dell’Olimpo e da lì, svolto in direzione di Sferracavallo.
Inizia una vera e propria “odissea”, tutti pensano di essere all’interno di un gigantesco autoscontro, con l’unico obiettivo di dimostrare la propria prepotenza, la propria maleducazione e l’assoluto disconoscimento del diritto stradale.
Auto e moto sembrano impegnate in un carosello che impone un nuovo tipo di gioco,che serve a mettere in mostra chi ha i nervi più saldi.
Vedo ad un incrocio due automobilisti lanciati a forte velocità, nessuno dei due sembra intenzionato a “cedere”, ma a un certo momento, quando lo scontro sembra, ormai, inevitabile , uno dei due” blocca i freni”e l’incidente viene evitato per un pelo. A Palermo “si camina a cu si scanta pi primu”; così mi disse un veterano dell’automobilismo Palermitano.
Ovviamente, intuiamo cosa succede quando si incontrano “due” che non sanno cos’è la paura.
Forse, ma solo forse, avrei fatto meglio a non prendere nota del traffico di questa nostra Palermo e abbandonarmi al torpore di una consuetudine che non consente cambiamenti culturali.

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Sutta i Novanta

 

Quando eravamo “ragazzini delle medie”, le mamme ci davano trenta lire al giorno,che servivano per comprare una piccola colazione: quasi sempre un panino con panelle o comunque ciò che oggi, pur non avendo un’accezione negativa, viene definito cibo di strada.
Anche mia madre mi dava la “benedetta paghetta”ed io, regolarmente, me la giocavo quasi tutta, con i compagni, al “bigliardino”, luogo in cui c’era più fumo di sigaretta che ossigeno, oppure ai primi flippers, antesignani degli attuali giochi elettronici.
Negli anni cinquanta gli spazi antistanti le scuole pullulavano di improvvisate bancarelle, che vendevano un po’ di tutto. Apriva la fila la bancarella “casino”, gestita da due compari che “esercitavano” il “gioco delle tre carte”.
“L’asso vince l’asso perde, dov’è l’asso”? Con grande abilità e velocità, facevano in modo che l’asso “non l’indovinavi mai”.
Seguiva il panellaro , il venditore di sanguinaccio e di buccellato,sorta di farinaccio con una misteriosa farcia scura e sdegnosamente zuccherata; il venditore di mele “incilippate”, che erano piccole mele calate nel caramello e provviste di uno stecchino infilzato, per la presa.
Su tutti trionfava il venditore di iris e di cartocci, che s’era inventata una sorta di lotteria abbinata ai generi da lui trattati.
Il “titolare” aveva un sacchetto con i numeri della tombola e pagando dieci lire, potevi “prendere” tre numeri ,la cui somma doveva risultare inferiore a novanta; in tal caso “vincevi” l’iris o il cartoccio.
Già allora le probabilità mi sembravano molto sbilanciate, non certo a mio favore, tuttavia, quando riuscivo a distrarre dieci lire dal “bigliardino”, partecipavo alla “lotteria” e se ero “fortunato” , mangiavo.
Non riesco più a ricordare, quante e quante volte rimasi senza colazione.

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Il Pacco

Il pacco

Da ragazzino, “infilavo la porta di casa” e me ne andavo a zonzo a prendere visione di ciò che il quotidiano offriva. Abitavo in centro, nel palazzo avito, e quindi con grande facilità potevo di volta in volta scegliere i “palcoscenici” a me più graditi.
Particolare fascino aveva per me la vendita di paccottiglie varie che un espertissimo “venditore teatrante” ”offriva” a porta Carini.
Il “Guitto”, così esordiva: “siori e siori non siamo qui in questa pubblica piazza per vendere lamette, ma solo per regalarle; venghino siori e siori venghino”.
Intanto, come per magia, si formava un capannello di gente che nel prosieguo della piece diventava un’autentica platea.
E nel mentre il “guitto” esortava il proprio “giovane di studio” a distribuire le lamette, che a detta di qualcuno erano buone solo per raschiare la pelle.
Intanto il “miracolo” era avvenuto; la “platea” era lì, pronta a elargire il “tributo”in cambio dello spettacolo.
E il “guitto” continuava: “Guardate che finezza, e che ricamo”. E mostrava una tovaglia, dichiarandone le misure e facendola scomparire prima che qualcuno potesse verificarle.
E continuava: “Dimenticavo, questo pacco vale diecimila lire; vi può sembrare caro, ma io ci aggiungo una bambola di cinquanta centimetri, sei tovaglie da bagno e – mi voglio rovinare – ci metto dentro anche un servizio di posate per dodici”.
Dulcis in fundo il “guitto” concludeva: “ Ora vi dico che non voglio da voi le diecimila lire, e nemmeno cinquemila, ma neppure tre e neanche due. Io vi do il pacco con tutto il suo contenuto per sole mille lire. SOLO MILLE LIRE.” Ed ecco che una autentica “ovazione” esplodeva dalla “platea” e tutti si tuffavano nella mischia per non perdere il “diritto” al “pacco” di mille lire, che comunque negli anni cinquanta erano una cifra.
Non c’è dubbio che queste” sceneggiate”, alle quali così volentieri assistevo, erano prodromiche di certe televendite che si sarebbero poi viste molti anni più avanti.
In ogni caso le televendite non hanno mai avuto il fascino di un “guitto in diretta” e soprattutto, per me, non c’era più la fanciullezza.
E voglio ricordare che dire “ ti ficinu u paccu”” è assurto nello slang palermitano a inequivocabile significato di fregatura

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Un giorno in convento

Un giorno in convento

Carla, mia moglie, fa parte di un coro polifonico, composto da persone appassionate di musica e che ad essa si dedicano anche con molto impegno.
Un giorno, Carla mi “fa”: “Col coro facciamo un “master”, che fai, vieni anche tu?”
A una domanda di questo tipo – che ammette poche opzioni di risposta e che in un baleno ti fa venire in mente una enormità di possibili implicazioni – dopo fulminee valutazioni , dissi di si.
E’ così che, oggi, dopo una levataccia, mi ritrovo in macchina con Carla e con una corista sua amica, alla quale diamo un passaggio, non prima di aver indirizzato il “tom tom” verso Castronovo di Sicilia.
Arriviamo a Castronovo verso le nove del mattino e individuiamo subito il Convento che ci ospiterà per i prossimi tre giorni.
Il convento è , ovviamente, ispirato alla semplicità e si confà ad attività monacali o di ritiro come nel caso dell’attività coristica in corso.
Devo dire che il master, egregiamente diretto dal Maestro Marino, riesce pienamente allo scopo: tutti i partecipanti appaiono molto rilassati e sviluppano capacità di concentrazione, cui non è sicuramente estraneo il luogo, che porta inevitabilmente a considerazioni mistiche di tipo subliminale.
Ma per uno come me, cui tante volte la vita ha dato spunti d riflessione, abituato da sempre alla dialettica introspettiva quasi come regola iniziatica di vita si pone un problema non secondario: e mentre i coristi sono col loro maestro riuniti in “conclave canora”, io , che cazzo faccio?
Di colpo ti vengono alla mente mille pensieri e quelli successivi contrastano con i precedenti, oppure non c’entrano niente.
Altrettanto improvvisamente ti rendi conto che ciascuno di noi, tolto dal proprio ambiente operativo, se non direttamente “impegnato”, può avere difficoltà di adattamento.
Se a queste considerazioni, aggiungi le sfavorevoli condizioni meteorologiche, che non incoraggiano una sia pur rapida visita del paesino, non ti rimane che scrivere il racconto di questa giornata cosi particolare.
In futuro penso, che farò bene a essere più riflessivo in ordine ai cortesi inviti di Carla, principalmente perché risparmierò a tutti un altro “racconto breve”.

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Ai Funerali del mio Maestro

2. Ai funerali del mio maestro

Quando vai a un funerale “ci vai” , in genere, perché il defunto è una persona della famiglia o appartiene al giro delle tue amicizie. Ma in moltissimi casi “ci vai”perché non puoi farne a meno per non “dispiacerti” le persone che avevano caro il defunto.
Oggi al funerale del mio Maestro Augusto Perret, non c’era nessuno appartenente alla categoria di cui sopra. Chi c’era era sicuramente legato da un sincero personale sentimento verso Augusto.
Per la prima volta ho sentito, in circostanze come queste, un prete, dire delle cose che mi hanno toccato e che erano azzeccate, data la personalità dello scomparso.
E sulle note del violino del Maestro Mausner, ecco che come per magia mi affiorano alla mente le memorie di una vita, perché Giulio ,come affettuosamente tutti lo chiamavamo, occupa una parte importante della mia esistenza.
Ma non mi va di dire le solite scontate “cose” delle orazioni funebri; voglio soltanto mettere in evidenza che Giulio, prima ancora di essere un artista, era un uomo, un uomo che aveva la capacità di comprendere e di amare.
Giulio è stato, per me, con la sua fantasia critica, con la sua pungente ironia, con il suo continuo interrogarsi sull’esistenza dell’uomo , per me come per altri allievi, una potente forza propulsiva capace di “impollinare” le menti predisposte.
Oggi Augusto Giulio ha beffato la morte : era con noi, vivo, al suo stesso funerale.

13 maggio 2013

 

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Al Mercatino di piazza Marina

Al mercatino di piazza Marina

Spesso la domenica, per soddisfare le mie insaziabili curiosità, mi ritrovo a peregrinare per il mercatino “dell’antiquariato” di piazza Marina.
Per chi non vi fosse mai stato, dirò che trovo entusiasmante questa mia abitudine perché consente una sorta di “ritorno alle origini”, nel senso che, abituati come siamo alle frequentazioni degli ipermercati ,dove tutto è prestabilito nei minimi particolari e gli affari sono solo per la proprietà, trovo interessante tuffarmi in questa realtà commerciale ancora legata alle tradizioni.
Guardando tra le improvvisate bancarelle, piene di ogni “recente antichità”, non è difficile trovare tra mille oggetti le “cose” che da bambino potevi trovare nella casa della nonna.
Ed ecco che vedi un vecchio barattolo d’alluminio e subito ti tornano alla mente i biscotti che ti faceva la zia; vedi una vecchia radio a valvole e rammenti le interminabili serate trascorse ad ascoltarla. Ti tornano alla mente persino improbabili sapori di cibi, forse mai realmente mangiati, ma gustati attraverso l’immaginazione nutrita dall’entusiasmo.
Ed ecco che ti imbatti in un “negozio” formato da una tovaglia distesa sul marciapiede che ospita in bella mostra due grammofoni a tromba e tutta una serie di dischi golden age di cantanti lirici, che vanno da Tamagno a Caruso ,a Schipa , a Gigli. Tutti all’epoca “gettonatissimi”.
La particolarità di questi mercati è data dal vociare della gente, dalle infinite contrattazioni che un orecchio attento può cogliere e che sono spesso motivo di ilarità o di nuovo apprendimento.
Ma a un certo momento vedo una bancarella piena di scatoloni stracolmi di vecchie fotografie, mi avvicino, ne prendo qualcuna, le sfoglio: in alcune riconosco il Commendatore Antonio, il papà di un mio compagno delle Medie.
Il commendatore era ritratto con la sua famiglia sulla sua Fiat millecento, simbolo di benessere dell’epoca.
Diedi allora uno sguardo più attento anche ad altre fotografie, ma senza riconoscere nessuno.
Ad un tratto realizzai che quelle centinaia di foto che si trovavano sui banchi, non erano che un condensato delle speranze, delle aspirazioni più o meno deluse di tutte le persone che vi erano ritratte. Fotografie di persone che non avendo un seguito, o per chissà quali altri motivi che non ipotizzo, si erano accumulate presso i bidoni della spazzatura, e infine erano state traghettate sulle bancarelle del mercatino.
M’è venuto in mente che il commendatore e tutti quei volti, siamo noi tutti e che anche le nostre fotografie potrebbero un giorno affacciarsi alla ribalta dei mercatini per rivivere un’effimera danza del cigno, per poter far dire a qualcuno: ” chissà chi cazzo era”.