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Raccolta di testi in prosa di Salvatore Romano
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Etrom

brano tratto dal Capitolo VIII di -ETROM-

Rita non era quello che credeva o, meglio, Rita era tutto e niente.
Ora gentile, dolce, piena d’amore.
Ora egoista, capricciosa, insensibile all’amore.
In lei vi erano due personalità, l’una forte quanto l’altra.
Incomprensibile, vigliacca, melliflua, insipida, santa, puttana,
forte, ingenua, debole, scafata, ingrata, generosa, misericordiosa,
assassina, che si dondola nei pensieri buoni del mattino e in quelli
sereni della sera, e che si crogiola nelle pieghe dei dolori degli altri
e dell’autoassoluzione.
Incerta, timida, sciocca, cenerentola coi calli.
Decisa, forte, capera.
Tutto e il contrario di tutto.
Come abbiamo già scritto, non giudichiamo la persona ma ne
evidenziamo azioni e comportamenti.
E, come direbbe Giacomo, mio figlio, studente universitario di
Psicologia, bisognerebbe analizzare e approfondire anche le situazioni
familiari di origine e accadimenti dell’infanzia.
Perché Rita, nonostante tutto, soffriva veramente. E forse moriva.
E nessuno scrutava nel profondo, tra le fenditure dell’anima,
cosa si nascondesse o cosa le stesse accadendo.
Un’anguilla nei sentimenti e, nelle espressioni del viso, sfuggente,
quasi imprendibile.
Mimetizzava negli occhi tutte le sfumature.
Antonio, di contro, era ed è riservato, forse in modo eccessivo;
scriveva poesie; mutevole negli stati d’animo, quasi come la lancetta
dei minuti.
Un sognatore. Un fatalista. Uno che aspetta gli eventi come fossero
previsti e non discutibili.
Pretendeva che gli altri capissero da soli ciò che accadeva nel
suo cuore, fossero amori, fossero desideri, fossero emozioni, fosse
solo un ombrello per ripararsi dalla pioggia.
Ed era questo che Rita gli rimproverava.
Il non andare incontro agli avvenimenti e l’attenderli sull’uscio
della porta.
Ma Rita avrebbe potuto capire
Ma Rita avrebbe dovuto capire.
Questa è la miserevole storia di un paio di corna e di diverse
dabbenaggini: errori malaticci.
Vettori matematici: oggetti che possono essere sommati fra
loro e moltiplicati per dei numeri, fino ad annullare l’iniziale dualità
dell’amore.
Questa è la dolorosa storia del giovane Antonio che nelle notti
di luna piena, come licantropo, ulula al vento il suo canto d’amore.
Antonio, sulla collina, scrive versi pur odiando la poesia.
Antonio spazza via virgole e punti che possano emozionare.
Spazza via i baci e le carezze.
Antonio raccoglie, differenziandole, le scorie di una storia a
brandelli.
Ma chi dei due è stato più cattivo verso l’altro?
Ai tre o quattro lettori la risposta.





È dunque questo il destino di chi perde tempo con i sonetti o
con le rime?
Soffrire per poter scrivere?
Non ci siamo.
Che siano gli altri, quelli privi di rime e sonetti, a dover scendere
le scale della felicità.
Che siano gli altri, quelli che non hanno niente da dire, a dover
sparire oltre l’anonimato.
E, d’altronde, nemmeno vuole che la geometria di un verso
prenda il sopravvento sulle semplici parole.
Scriverà versi che abbiano la purezza e l’essenzialità della margherita
di campo.
La vecchia – sdentata - di cuore fa rima con amore, sia interdetta
alla collina e ai suoi venti.
Sia la poesia anche bestemmia, sia rabbia e imprecazione.
Si accompagni non solo alla gazzella ma anche all’ippopotamo.
Si spogli anche nuda e senza parole.
O si copra senza l’uso di seta o di velluto.