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Raccolta di testi in prosa di Gennarino Ammore
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Il pilota dei sogni

Ho fatto un sogno e, per dirla con Freud che di sogni ne capiva, dovrebbe essere nato “sua sponte”, e non pilotato da me che ho una certa abitudine a far volare i sogni nella direzione che preferisco, forzandoli, o se preferite pilotandoli,così come fa un bravo skipper con la sua barca a vela, andando anche contro vento.
Infatti, se un sogno non è almeno un po' pilotato, allora che sogno è? Forse un incubo, oppure immagini confuse a seguito di cattiva digestione e libagione eccessiva, o magari un sogno premonitore, ma non un sogno come lo intendo io.
In quel sogno ero un aviatore provetto, proprio io che temo di volare troppo in alto e soffro di vertigini. Pilotavo un aereo speciale, senza elica né motori, una specie di vecchio caicco con l'albero prodiero più alto di quello verso poppa; insomma una barca con due vele, adatta sia per portare carichi, che per diporto. L'imbarcazione galleggiava su nuvole vaporose, ed il vento faceva la sua parte, gonfiando le vele.
Io, ed è questa la stranezza, non potevo pilotarlo quel sogno, perché il Caicco era privo di timone e quindi vagava nel cielo infinito, qual rondine che cerca la sua terra calda per svernare.
Il carico che portavo erano sogni, di tutti i tipi, ma con una matrice comune: erano sogni d'amore. Qualcuno li aveva stipati in capienti otri sotto forma di pioggia, ed ogni vaso era l'uno diverso dall'altro. Giungevo su un villaggio, ed una sorta di vento scoperchiava un otre, quasi fosse comandato da una mano divina o comunque soprannaturale, facendo cadere pioggia sulle case, e quindi dispensando quel sogno. Poi si chiudeva quell'otre e se ne apriva un altro, quattro nuvole più avanti, in vista di un nuovo paese.
Curioso, ebbi l'idea di prelevare un po' di pioggia da ogni otre e mi accorsi di un fatto alquanto strano, che fino ad allora non avevo mai sospettato potesse essere la matrice comune dei sogni d'amore, quelli degli uomini come me, più o meno giovani, di qualunque paese venissero e quale fosse la loro lingua: in tutti quei sogni c'era una “donna del sud”, sia che il mio aereo speciale sorvolasse la Svezia o la Nigeria, mari o laghi, oppure montagne innevate. Lei, questa immaginaria e sensuale donna del sud, compariva sempre nei diversi sogni d'amore.
A quel punto, nel sogno, divenni marinaio, e quel piccolo espediente mi permise di capire: il sud del mondo è emozione, incertezza, paura del nuovo, avventura in terre sconosciute, mari caldi ed accoglienti, isole lussureggianti, mentre il nord è sinonimo di freddo, di già vissuto, di sogno ibernato. E la donna è proprio così che la vogliamo, o la sogniamo noi uomini: calda, sensuale, disponibile, enigmatica, una donna che ti faccia sentire importante, amato, cercato...la sua bellezza sta tutta racchiusa nelle sue qualità di donna, non nelle fattezze o negli abiti che indossa, e nemmeno dove è nata e quale lingua parla.
Improvvisamente è apparsa a bordo, come uscita dalle onde di una nuvola, anche la “mia” donna del sud; mi sorrideva, mi invitava a possederla, lo capii presto, e per darmi la certezza che era mia fece una cosa che mi lasciò senza fiato: si levò con grazia le mutandine e me le mise in una mano, con un gesto che pareva volesse dire: ecco le chiavi del Paradiso, sono tue. Puoi aprirlo quando vuoi.

Ero talmente felice ed emozionato che mi sono svegliato di soprassalto, eccitato, intimorito da quel vento di libertà sessuale, da quella visione onirica. Ed allora ho deciso che quel sogno andava pilotato, come so fare io da anni, e mi sono di nuovo addormentato portando a terra quell'aereo che diventava, come per magia, un bel letto, grande, spazioso, accogliente, caldo, insomma un letto che profumava di sud del mondo, di miele, limoni e terre fertili.
E se mi chiedete cosa intendo per “donna del sud”, sappiate che esiste sempre un sud per ogni nord del mondo; fosse anche l'equatore, quel nord.


*

Il maestro di biliardo

“Chi di noi può dire di non aver avuto maestri nella vita? Io no di certo, anzi devo ammettere che ne ho avuti molti, un numero talmente alto che penso di non riuscire nemmeno a contarli. Il fatto è che fin da ragazzo mi guardavo in giro e vedevo tutti più belli, bravi, intelligenti e capaci di me.”...

… come potrei dimenticare, per esempio, Massimo. Lui aveva un altro nome, che ho scordato, ma tutti lo chiamavano così perché era un campione di biliardo, il massimo, per l' appunto. Nessuno può dire che abbia mai perso una partita, anche se pur di giocare lo faceva ad handicap, regalando punti agli avversari di turno. Io nemmeno la ricordo una sua sconfitta, ed allora ecco spiegato perché lo studiavo attentamente e cercavo di imparare i suoi colpi segreti, eleggendolo a mio maestro.
Aveva qualche anno più di me, e giocava contro quelli ancor più grandi, Massimo. A soldi, per giunta. Io sedevo su una sedia nell'angolo della sala e mi annotavo nella mente il suo modo di usare la stecca, mai uguale; per ogni tiro c'era una posizione delle mani di appoggio, un particolare effetto, un colpo. Era uno spettacolo solo guardarlo, e poi a me piaceva perché era uno spaccone, come nel film. A volte faceva passare la stecca dietro la schiena, e si piegava ad arco. Poi chiudeva gli occhi, tirava e faceva punti. Paul Newman a lui faceva un baffo, anche come attore, giuro.
« Cinque punti e messa... », dichiarava dopo aver studiato tutte le possibilità.
« Boooooooom... » rispondevano gli avversari e gli spettatori, all'unisono.
« Gennaro, tu che dici...non fai booooom? », mi diceva sorridendo intanto che si piegava pancia in giù sul tavolo verde, alzando una gamba al cielo, piegata ad arte per far notare le scarpe nuove, comprate coi soldi vinti l'ultima partita.
Io mi sentivo orgoglioso che lui mi reputasse adulto, era il solo a chiamarmi Gennaro, ed allora rispondevo a tono, serio serio, preso dalla parte:
« No, non faccio boooooom, io dico che ce la fai... »
E così accadeva, sempre; aveva la precisione di un orologio svizzero. Se dopo aver fatto i cinque punti non ne usciva la messa, poteva capitare, per lui era un colpo fallito. Allora si accendeva una sigaretta, guardava il gommino della stecca, e lo ingessava per bene. Poi, spavaldo, ma in tono bonario, dimesso, lanciava una borra al padrone del bar:
« Michè... o compri le stecche o cambi i gommini. »
Fenomeni così ne nascono pochi, in un rione come il nostro poi. Eppure era talmente bravo che a volte guardava con gli amici i campionati alla televisione, italiani ma anche mondiali, e dopo un gran tiro del vincitore aveva la sua da dire:
« Bel tiro... ma facile »
Una volta si superò, perché dimostrò che il gran campione, non ricordo chi fosse, aveva preso una decisione sbagliata. Dopo l'applauso degli amici per il gran colpo di colui che aveva vinto il titolo, sbottò:
« Ma chi applaudite, uno che ha scelto il tiro più facile e meno redditizio? »
« Perché, tu avresti fatto meglio? » era la domanda collettiva. Anche Michè era curioso, ed allora offriva l'orologio delle biglie, magari per mezz'ora, pur di vedere cosa s'inventava Massimo. Lasciava il banco e si accostava al biliardo, un Mari extra lusso con le sponde in finta radica che era il suo fiore all'occhiello.
A quel punto partivano le discussioni, e le scommesse. Io ero scombussolato, mi girava la testa; arrivavano gli aperitivi, e venivano messe le banconote in palio sotto il portacenere. Lui era talmente sbruffone che quella volta arrivò a dire:
« Oggi sono a grana, pago doppio se non faccio meglio di quell'americano.. Chi punta cinquanta, prende cento. »
I soldi erano parecchi, a me facevano paura, temevo sempre qualche lite o discussioni strane che potessero degenerare. Quando ci sono i soldi di mezzo, si sa.
Venivano posizionate biglie e pallino sul biliardo, ed iniziavano le controversie. No, il pallino era più in qua, almeno cinque centimetri. La biglia stava più vicina alla sponda, e via discorrendo. Quando tutti avevano accettato la posizione, e Michè dava il benestare, Massimo iniziava il suo show.
Si levava la giacca, la sistemava con cura su una sedia, poi si accendeva una sigaretta. Ricordo che fumava pesante, quelle francesi dal nome improponibile. Poi si spalmava le dita della mano sinistra di borotalco, per far scorrere bene la stecca, ed iniziava a preparare il gommino con colpi di gesso secchi e precisi. Faceva ruotare la stecca e ripeteva almeno tre volte l'operazione. Io credo che cercasse la calma, con quei gesti.
Mentre completava l'operazione, aveva l'abitudine di dire:
« Calma e gesso... è quello il segreto. »
Girava intorno al biliardo e posizionava la stecca sul tavolo, studiando le traiettorie. Si abbassava con gli occhi all'altezza del piano, e faceva pure dei segni sulle sponde, leggeri, con il gesso blu della stecca. Sembrava un geometra.
Quella volta sentenziò:
« Sette sponde con la mia biglia, otto punti e messa... della messa non sono sicuro »
Iniziò la discussione. Otto punti li aveva fatti anche quel campione, con un tiro più facile, senza fare la messa. Dove sarebbe stato il miglioramento del colpo di Massimo, sostenevano gli altri.
Fu così che dovette accettare il fatto che nella scommessa fosse compresa la messa.
Si piegò, allungandosi sul tavolo, e cominciò a far scorrere la stecca dentro l'indice, che aveva formato un cerchio, sostenuto da tutte le altre dita in appoggio sul palmo della mano.
Con la stecca scorreva svelto e si fermava ad un centimetro dalla biglia. Ogni volta pareva fosse il colpo buono, ed invece si fermava. Poi, finalmente, il colpo sordo della stecca sulla palla d'avorio. Aveva impresso un effetto impressionante a sinistra e la biglia scivolava sulle sponde ruotando come un mappamondo, in senso orario. Prima sponda, seconda, alla terza schivò di un niente la buca... mi accorsi che a quel punto gli era nato un sorriso beffardo sulle labbra.
« E' fatta ragazzi, il peggio è passato, la buca. Ora guardate e imparate... » , diceva mentre faceva il gesto di alzare il portacenere con i soldi.
Eravamo tutti ipnotizzati da quella biglia e quando dopo sette sponde colpì quella avversaria, fece gli otto punti fermando le biglie in una posizione che una palla non “vedeva” l'altra, cioè in messa, ci sembrò di aver assistito ad una magia. Massimo, a quel punto, insisteva a fare lo spaccone, ma in modo meno eclatante: doveva dimostrare che per lui era stato facile, quel tiro, quindi non esultava. Si metteva i soldi in tasca, accendeva una sigaretta ed offriva da bere.
A me quel tiro l'ha insegnato più tardi, quando ero già grande; non era un colpo facile, ci volevano molte abilità pur sapendo come e dove colpire la biglia. Ma basta poco per sbagliare e combinare un disastro... le sette sponde amplificano l'errore, giocoforza.
Ancor oggi lo ricordo, ed a volte quando trovo un biliardo libero lo provo, ma mi va bene una volta su dieci, è questa la differenza.
Massimo l'ho visto perdere una sola volta, a biliardo, ed anche gli amici del bar rimasero di stucco.
Entrò con una bionda più alta di lui, bella come il sole, sembrava straniera, pelle bianca ed occhi azzurri. Cominciarono a giocare dopo aver messo un centone sotto il posacenere, e si guardavano in cagnesco, senza una parola. Che lei fosse muta, ci chiedevamo, oppure non capisse la lingua.
Massimo era teso, preoccupato, giocava bene sì ma lasciava sempre buon gioco a lei che non sbagliava un tiro. Lui sembrava soggiogato, intimorito. Quando andò a pagare il conto e l'orologio, mentre lei si prendeva i soldi sotto il portacenere, Michè gli disse:
« Proprio con una donna dovevi perdere?... non ti chiami più Massimo, per me. »
Lui sorrise, si avvicinò alla ragazza, le circondò la vita e le diede un bacio da film, sulla bocca. Poi disse, guardandola negli occhi:
« Quando c'è l'amore, è bello perdere... »

*

Gli occhi di Gaetano

Il mio indiscusso maestro di “corteggiamento” è stato Gaetano, un convinto assertore del motto: poche parole, molti fatti.
Io, povero scugnizzo venditore di pesci, avevo un unico modo per esternare i miei sentimenti: l'urlo. Avrei fatto fortuna, immagino, nella New York del dopoguerra; nessuno mi avrebbe battuto, come strillone. Io, la stessa cosa che loro facevano in Wall Street, la facevo al mercato del Rione Sanità, a Napoli, mia città natale.
Gaetano invece era un teatrante, ed esternava usando quanto aveva di meglio, regalo di madre natura: bella presenza, faccia da schiaffi, occhi talmente penetranti che quelli del mago Houdini, al suo confronto, li potremmo definire lucciole in carenza di fluoro.
No, la parola gli mancava, o meglio non la usava per paura di far brutta figura, talmente era dislessico, e a volte perfino balbuziente.
« Parla poco Gennarino, verba volant, occccc...chi mannett... », diceva senza sapere bene cosa significassero quelle parole antiche.
Le aveva imparate, storpiandole, dal professore, un brav'uomo che veniva al mercato a raccogliere la merce rimasta invenduta. Per i suoi gatti, diceva. Ma i gatti mangiano le mie sardine, non le melanzane o le carote che vendeva Gaetano. Và buono, ma il professore a noi voleva bene, e noi a lui. Ci raccontava storie della scuola, quando ancora insegnava lettere in un liceo del centro, il Vincenzo Cuoco che, a suo dire, era stato un grande storico.
Insomma, tornando a Gaetano, lui comunicava con gli occhi, e doveva pure averci la calamita dentro, e anche la corrente elettrica perché attirava le ragazze come il formaggio i topi; e poi le fulminava.
« L'interruttore della scarica lo premono loro, Gennarino...non devi neppure faticare », diceva spesso.
Per me restava un mistero come facessero le ragazze a capire quel che dicevano quegli occhi, era come se fossero tutte laureate in oculistica, o anche in lingue dell'occulto. E invece erano ragazze di borgata, del nostro rione, popolane insomma, come noi, non è che avessero studiato tanto.
Io provavo e riprovavo ad imitarlo, ma le lettere che uscivano dai miei occhi parlavano una lingua straniera, per loro. Trovavo una moretta dalla pelle di cioccolato al latte, e le dicevo con lo sguardo: bella gioia, fammela baciare quella tua pelle, fammi annusare i tuoi capelli neri, vieni con me tra i fiori del male... ma intendevo quelli del bene, almeno a me avrebbero fatto bene di certo. E quella, dispettosa e ignorante, nel senso che non capiva la lingua dei miei occhi, diceva alle amiche:
« Che vuole questo... lo conoscete?... », e se ne scappava.
Io mi offendevo per quel suo chiamarmi “questo”, non per altro. Però capivo che il mio sguardo parlava una lingua difficile, e dovevo aiutarlo in qualche modo.
Fu così che iniziai a fare il mimo. Fermavo una ragazza, la guardavo negli occhi come se volessi ipnotizzarla, e con le mani facevo dei gesti: tu, a me, daresti un bacio?...l'ultima mossa la facevo con la bocca a culo di gallina chiudendo gli occhi. A volte pigliavo borsettate in testa, oppure la sentivo urlare, scappando:
« Aiuto, un maniaco...è pure muto »
Ma Gaetano insisteva nel volermi insegnare. Aveva una sua teoria, in fatto di donne.
« Bisogna trovare il punto debole, la chiave del cancello che apre il loro cuore. Bisogna scardinare 'o sentimento » , ripeteva quando qualcosa andava storto.
Era arrivato ad una specializzazione tale che riusciva perfino a capire se una ragazza fosse miope, e nel caso adeguava la distanza dei suoi occhi, messaggeri d'amore, alle diottrie della vittima.
« Se vedi che chiude gli occhi a fessura come fanno gli indiani nei film, è segno che soffre di vista corta. Allora avvicinati tu... », era uno dei suoi motti.
« E se invece si allontana, i casi sono due: o è presbite, ma è difficile a quell'età, oppure puzzi ancora di sardina... » , era l'altro suo motto.
Ma io mi lavavo tre volte al giorno, e mi profumavo con l'acqua di colonia che zia Matilde aveva portato da Lourde. Era un'acqua magica che scacciava tutto: malanni, raffreddori, zanzare e odori cattivi di ogni tipo, anche quello di uova marce o dei vestiti ammuffiti nelle stanze con gli armadi a muro.
Il colpo da gran maestro Gaetano lo mise a segno in una vecchia balera di Fuorigrotta, dove si ballava il liscio e si cantavano canzoni napoletane. Eravamo andati lì a bordo dell'Ape diesel di suo zio Salvatore, quello che vendeva legna secca per i forni del pane, giù al mercato.
Il cassone era pieno di cortecce di ulivo e di foglioline, e quando partivi svolazzavano dietro noi, come tante farfalle in primavera.
Eravamo entrati vestiti a festa, sembravamo Al Capone e Jack lo squartatore di femmine.
Lui adocchiò al volo una tortorella, una splendida castana che pareva delicata al punto tale da farti pensare che se l'avessimo toccata avrebbe potuto rompersi, tanto era fragile, come di ceramica.
Una statuina di Capodimonte. Lui si avvicinò, la fissò alla maniera di Geronimo, nel qual caso i suoi occhi così parlavano:
« Tu donna bianca molto bella; io uomo rosso d'amore. Vieni nella mia tenda e ti farò felice con la mia collezione di francobolli », che invece erano tutte le mutandine che aveva raccattato in giro per conquiste in tutta la costiera.
Lei fece una smorfia; era talmente evidente che la videro tutti, ma proprio tutti. Stava crollando un mito. Nell'aria c'era una elettricità che non faceva presagire niente di buono.
Allora Gaetano si avvicinò, e giocò la carta vincente, quella che teneva di scorta come i viveri K : annegò i suoi occhi in quelli della vittima, orientò il polo magnetico in direzione lui-lei, e azionò l'interruttore della corrente, nel timore che non lo facesse lei stessa. Era la prima volta che arrivava a tanto, non ne aveva mai avuto bisogno.
Non ci crederete; lei si ritrasse ancor più, fece con la bocca la stessa smorfia che si fa per segnare il tre di briscola, con l'angolo delle labbra che si allungano verso l'orecchio e il muscolo del collo che si tende, e disse, alzandosi e andando via:
« No, grazie... non mi interessa. »
Io ero interdetto, e la cosa risultava strana anche per chi era lì presente, tutta gente che conosceva Gaetano e la sua fama di femminaro, come direbbe Montalbano.
Avessi potuto, ma non sapevo come, me la sarei presa io la colpa, tanto ci perdevo poco o niente... ma per Gaetano era diverso, non sarebbe stato più lui dopo quella volta. Era troppo cocente la sconfitta, giocando in casa poi.
E invece ci pensò lui a salvarsi in corner, alla faccia di quelli che lo credevano knock-out.
« Ma che gli avevi detto, Gaetano... », gli chiedevano in coro i presenti, convinti che non avrebbe saputo dare risposta.
« Niente di che... le ho chiesto se voleva uscire con il mio amico Gennarino... » , e intanto guardava me, schiacciandomi l'occhio.
Era proprio un grande quando usava i suoi occhi, Gaetano...e quella volta lo fu il doppio.
Io restavo lo sfigato di sempre, e lui l'uomo che non doveva chiedere mai. La famosa legge dello Status quo, avrebbe detto il professore.

*

Furto al castello

Il capo della polizia di Edimburgo, Scozia, quel mattino fu svegliato da una chiamata urgente che proveniva dalla Centrale. Strana circostanza; non era mai accaduto prima che lo disturbassero mentre era ancora a letto.
« Capo, hanno svaligiato il castello del barone Mackenzie, questa notte... ci ha chiamati or ora; è su tutte le furie »
William Scott non riuscì a fissare con esattezza le parole, e il suo mal di testa che lo aveva torturato per tutta la notte si impennò bruscamente, aumentando la confusione dei suoi pochi neuroni attivi. Aveva intuito solo che si trattava di una persona importante, c'era un castello di mezzo, gli pareva, ma il nome del proprietario gli sfuggiva. Edimburgo era piena di castelli, dopotutto.
« Chi è... quale castello? » , disse con voce impastata, sbadigliando.
Dall'altra parte del telefono, niente, nemmeno un respiro. Probabilmente si stavano facendo beffe di lui in centrale, e allora riattaccò.
La sua fama di “ispettore del mistero” gliel'avevano appiccicata addosso ai tempi delle sue indagini sugli attentati ad un asilo nido, che erano passati alla storia come la famosa “sparizione delle merendine”. Scott aveva seguito una pista improbabile di spaccio della droga, convinto che le merendine fossero state il mezzo di trasporto di piccole dosi di cocaina.
E dire che i suoi collaboratori, pur dotati di scarso acume poliziesco, gli avevano fatto notare che tra i bambini c'era una coppia di gemelli esageratamente obesi. Niente, non aveva voluto seguire quella pista troppo facile. La sua frase preferita era:
« Quando un caso è troppo evidente, gatta ci cova... »
Ed il caso era rimasto irrisolto, nonostante le indagini avessero impegnato parecchi agenti per molti mesi. Poi la sparizione di merendine cessò, di colpo: la famiglia dei due gemelli si era trasferita a Londra. Ma a Scott la cosa passò inosservata e fece proseguire le indagini per un altro mese, cocciutamente.
Se lo avevano trasferito da Scotland Yard a quell'incarico di provincia, ci doveva pur essere un motivo.

Si alzò con riluttanza, si preparò una colazione squallida a base di tè e fette biscottate stantie, cosparse di burro rancido e marmellata ammuffita, e si diresse in bagno. Si guardò allo specchio con occhio spento e decise che avrebbe potuto fare a meno di radersi: la barba non era poi tanto lunga.
Erano anni che trascurava sia l'alimentazione che l'aspetto fisico, proprio da quando la moglie era scappata di casa con un italiano che il sabato sera gli portava le pizze napoletane, un certo Gennaro che nell'ambiente era stato soprannominato “ Little Januaryn ”, il re galante del servizio “ pizza porta a porta”. Un servizio professionale, in tutti i sensi; amorevole, si potrebbe ben dire visto che terminava sempre in grandi fughe d'amore.
Arrivò in centrale che ancora non connetteva bene, e si chiuse in ufficio senza salutare nessuno, nel tentativo di incasellare al loro posto i pochi neuroni rimasti nel suo cervello.
Si era già dimenticato del furto al castello, o forse era stata la sua stessa autodifesa esistenziale a rimuoverlo, quel furto, orientata com'era ad evitare rogne e cercare la via della fuga ai problemi polizieschi, mai risolti. Sentì bussare alla porta, e si indispettì.
« Che c'è, santa Regina... di primo mattino... »
Era il suo vice, l'ispettore John Fox, detto “ Gionny la volpe “. Gli rammentò l'urgenza di andare al castello del barone Sir Charles Mackenzie per un'accurata ispezione dell'accaduto, quel furto anomalo avvenuto senza che i molti dispositivi di sicurezza fossero intervenuti.
Al nome del barone , William Scott saltò dalla sedia e cominciò a sudare. Sistemò la divisa alla bell'e meglio, si rigirò tra le mani il pessimo nodo alla cravatta, storto e malfatto come sempre, nel tentativo estremo di sistemarlo, si diede una lisciata ai capelli brizzolati con la punta delle dita e si apprestò ad uscire.

Arrivarono al castello in tarda mattinata, lui, il vice ed un poliziotto fidato e sveglio, George. Il maggiordomo li accolse con tutti gli onori, e li fece accomodare nel salone Vittoriano. Mentre erano intenti ad ammirare quadri e trofei, notarono che sulle pareti vi era il chiaro segno delle sparizioni.
In alcuni punti la tappezzeria era di colore più chiaro e disegnava esattamente la dimensione dei quadri sottratti.
Nient'altro si poteva notare; per il resto regnava un ordine perfetto e si sarebbe detto, di primo acchito, che i ladri erano stati abili, molto precisi, ordinati e di buona educazione essendosi preoccupati di lasciare il salone così come lo avevano trovato, senza altri danni aggiuntivi se non quelli del furto.
Finalmente giunse il barone, il cui aplomb era noto ed aveva fatto il giro della Contea, nella quale era conosciuto anche per le sue disavventure sentimentali. Correva voce che fosse stato lasciato dalla moglie, anni prima, ed in seguito anche da numerose amanti, improvvisamente e sempre con le stesse misteriose modalità.
Dopo le presentazioni di rito, il barone, aiutato dal fido maggiordomo, elencava i danni subiti a causa del furto a Scott e al suo vice, Fox per l'appunto. Intanto il poliziotto subalterno si recava in cucina per interrogare la servitù.
« Dunque, Archibald, aiutami a fare l'inventario delle sparizioni, sono un po' confuso... » disse il barone, quasi che la cosa non lo riguardasse. Anche un carabiniere italiano avrebbe capito al volo che i suoi pensieri erano da tutt'altra parte e gli oggetti scomparsi rappresentavano l'ultimo dei suoi problemi.
Il maggiordomo, meticoloso e preciso come un orologio svizzero, li elencò senza battere ciglio, anzi fece ancor meglio.
« Signori » , disse rivolgendosi ai due ispettori, « è presto detto. Mi sono appuntato tutto su questo foglio... prego ».
Dalla lettura dell'elenco si poteva capire immediatamente quanto il furto avesse riguardato solo oggetti di ingente valore, in alcuni casi anche abbastanza ingombranti.
Mancavano all'appello, in definitiva: soldi in contanti, prelevati dalla cassaforte senza nemmeno scardinarla, esattamente ottantamila sterline, tre quadri importanti, tra i quali un Sisley e un Cézanne, di valore inestimabile, diversi mobili d'epoca tra i quali uno scrittoio medievale, interamente in radica di noce, tutta la cristalleria di Boemia, ben quattro servizi di posate, di cui tre decorate in oro zecchino e una d'argento massiccio, un vaso cinese della dinastia dei Ming, collane in perle autentiche ed anelli vari in oro 18 carati ed inserti in platino, con diamante a 102 sfaccettature incastonato a sbalzo, collane di perle e braccialetti vari. La lista continuava, ma a quel punto Scott smise di leggere, si mise il foglietto piegato in tasca, e si rivolse al suo vice:
« Dov'è quel pelandrone di George; il caso si fa serio... vallo a chiamare immediatamente. Dobbiamo iniziare immediatamente le ricerche ».
Espletati i convenevoli e rassicurato il barone che le indagini si sarebbero svolte con la massima celerità e precisione, i tre si misero in macchina alla volta di Edimburgo.
Durante il tragitto, visto che i capi non proferivano parola, George, seduto dietro, si sentì in dovere di informarli su quanto aveva raccolto dagli interrogatori della servitù.
« Il caso è già risolto, direi... » , esordì.
William Scott, che in quel momento stava pensando ad un probabile collegamento con i più famosi ricettatori di Edimburgo, lo guardò distrattamente dentro lo specchietto retrovisore interno. Sfoderando il suo fare più laconico, disse:
« E cosa mai, di grazia, te lo farebbe credere? »
« Quello che c'è scritto anche sul vostro elenco, signore, informazioni che la servitù mi ha fornito con tutti i particolari. Insieme agli oggetti preziosi è scomparsa Lady Sabry, l'amante del barone, e il giovane autista italiano, napoletano verace, noto pizzaiolo e contrabbandiere di diamanti che solitamente nasconde nelle cassette di pesce, conosciuto anche come “ Little Januaryn ”.
Poi è scomparso pure il furgone Mercedes Benz in dotazione allo chef, usato per il rifornimento viveri, e la Bentley Continental grigio perla. E Lady Sabry amava molto guidare auto di grossa cilindrata, a quanto ho saputo...» .
William Scott guardò sorridendo il suo vice alla guida, poi si voltò per un attimo. Fissò il povero George negli occhi, fulminandolo, e spiattellò la sua frase preferita:
« Quante volte devo dirtelo, mio caro...quando un caso è troppo evidente, gatta ci cova... »
L'auto della polizia intanto proseguiva il suo triste cammino, e qualche orecchio dall'udito sopraffino avrebbe potuto sentire un lamento nel rombo di quel motore:
« Chissà mai quanta strada inutile mi faranno percorrere, costoro. Ahimè... »






*

La pioggia sul pinnuto

Per diventare poeta, o meglio per tentare di scrivere in versi qualcosa di decente, ho cominciato a studiare, leggere, sfogliare. Fu così che trovai questo poeta, forse di origine partenopea dal momento che aveva lo stesso nome della rosticceria vicina alla bottega di Pino, il mio amico d'infanzia che lavora il rame battuto: Da Nunzio.
Questo gran poeta ha scritto una poesia che a me fa venire i brividi anche a ferragosto: La pioggia nel pineto. Forse ha sbagliato a chiamarlo pineto; credo pensasse alla pineta ma ha usato il maschile perché, forse, non gli piacevano le donne; chissà. Ma bravo era bravo, anche se non è diventato famoso, forse a causa dei suoi strani gusti sessuali.
E allora anch'io mi sono cementato... mi segnala errore il mio programma, dice cimentato, non mi piace ma è lo stesso. Ecco la poesia... ah, la categoria è ironia, non pensiate che sia una vera poesia,
scritta sulla via di una grande magia. Anzi, chiedo pure scusa al sommo Da Nunzio, non vorrei m'avesse a maledire...

La pioggia sul pinnuto

Taci, su le sogliole
del banco non odo
parole d'amore che dici
tra i mici
c'è confusione ma odo
parole più nuove
il cefalo sodo
tu vuoi... ora piove
su le cassette di triglie
sui paraghi folti
incartati ed avvolti
piangono i volti
silvani
nascosti da ruvide mani
e piange il pinnuto
un sarago appena venduto
dal muso pizzuto
piove sulle argentate
sardine ignude
(son buone anche crude)
sui granchi più fieri
venduti ancor ieri
piove di un pianto
lontano, sui rami d'ontano
dei tuoi vestimenti
ove va la mia mano
che scivola, piano
come dita sul piano.

Odi, la gran confusione
ma piove, o sventura
su la solitaria verdura
di Ciccio il grassone
e sul suo tendone
che cader fa la pioggia
come pianto di brina
su quella mia ombrina
che la signorina
stringe al suo seno
ch'io vedo ben pieno
ne' i suoi vestimenti.

Gennarino che dici...
sotto le tamerici
faresti un peccato di gola
con quella sua viola
leggendo la favola bella
mentre l'alma novella
si schiude
nel sogno d'amore
che ieri ti illuse
che oggi ti illude
o guaglione?




*

Mi sono innamorato di te

Mi sono innamorato di te e adesso non so più cosa fare, ogni volta che passi, in me si agita il mare.
Dentro il cuore: che male, nei pensieri sentieri, come oggi anche ieri, bella com'eri, nei tuoi passi fieri.
Ogni mattino tu passi, la mia mente sconquassi, ma io sono felice perché il mio cuore ti dice: buongiorno bellezza, e se tu non ti volti io chiudo gli occhi, abbagliati dal sole riflesso nei tuoi capelli arruffati, ti parlo e ti dico parole d'ammore, mi sento poeta, tu sei la mia meta, le mie gambe di creta sento tremare... non importa, reggo la parte, ti mostro il mio pesce, e divento un po' rosso.
Il mio banco è in subbuglio, è dicembre ma è luglio, le triglie si fanno ancora più rosse e l'orata dorata, l'anguilla ora brilla, e pur la sardina, dall'occhio un po' morto, non vuol fati torto, diventa regina.
Mi passi davanti, con passo felpato, che bello esser nato in questo rione... mi sento coglione dietro il mio banco, sorrido ma arranco, scrivo dei versi, questa poesia ti vuole già mia, ma te ne vai via battendo sui tacchi, un bel ritornello, non ce n'è di più bello, sei come un ruscello che invade il mio cuore, tu sei come un fiore ed io il tuo prato dove lui è sbocciato.
Batte il tuo passo, sul triste selciato, batte il mio cuore, mi manca il fiato, tu procedi assai fiera, del mio amore bandiera, di giorno e di sera, ti voglio sognare.
La mia bocca si apre, ma suono non esce, mi sento incantato, ti mostro il pesce, ti offro un'occhiata,
ma procedi beata, mentre gli occhi miei stanchi ti guardano i fianchi, la mente confusa ti fa già le fusa quasi fossi una gatta la mia penna è già matta e scrive parole, sbocciano viole, dentro i pensieri, di oggi, di ieri...
Ormai sei lontana, la folla ti cela, ma la tua sottana, del color della mela, corta, attillata, mi ha lasciato nel petto una gran coltellata che fa sanguinare, tu donna d'amare, tu dolce miraggio, è dicembre ma è maggio, sbocciano rose, sono queste le cose che scrivo e che sento, come un triste lamento.

*

Lettere d’amore

Fin da ragazzo, come tutti quanti noi maschi, penso, avevo ben chiari certi espedienti ai quali si ricorreva per conquistare una ragazza, ingannandola. Che poi non mi è ancora chiaro se loro, le donne dico, amassero, oppure no, essere ingannate in certi modi. Per esempio quello dei soldi, o della bella macchina - oggi sarebbe magari un elicottero o la gran barca -, gioielli e quant'altro.
Bene, pur avendoli chiari questi abominevoli trucchi, decisi di non usarli nella maniera più assoluta. Non mi fu difficile. Intanto i soldi dei quali potevo disporre erano poche migliaia di lire, quelle che mi restavano andando col motorino a consegnare pizze e generi alimentari per conto di Pino il pizzicagnolo. Quella volta che invitavo una ragazza al cinema, poi restavo in bolletta.
La macchina, beh quella non l'avevo, anche se per la verità potevo disporre della mitica Ape Diesel del nonno di Gaetano, un super furgone a due posti che aveva pure la possibilità di chiudere con una tenda verde il cassone, sul quale ci stava comodo comodo, all'occorrenza, un bel materasso a molle. Ma io, fedele assertore che l'amore non vuole inganni, non ostentavo il lusso nel quale potevo navigare, e giravo per Napoli con un motorino che avevo trovato abbandonato giù al mercato.
Era uno splendore. Un Ciaino ultima generazione, di colore rosso fuoco. Lo avevo anche elaborato, con l'aiuto di Ciro il meccanico, soprannominato “pistone magico”, ed avevo montato un sellino in pelle per il passeggero, smontabile in caso di bisogno.
Per “truccarlo”: un cilindro da 65 centimetri cubici, una marmitta ad espansione, la mitica Simonini che aveva un suono argentino da orchestra filarmonica, un carburatore maggiorato, un 13/13 con relativo allargamento del tubo di aspirazione, ed il gioco era fatto; viaggiavo come un Pascià e mi bevevo pure le moto di grossa cilindrata, in ripresa. Chi è che partiva per primo ai semafori, secondo voi? Io! E nonostante la velocità supersonica da Ferrari su due ruote, non ero mai caduto, e non avevo fatto nemmeno un incidente.
Cosa c'è ancora? Ah, i gioielli; quelli li avevo, ma non potevo certo regalarli; erano solo due, e il mio povero nonno me lo diceva sempre: perdi tutto ma non i tuoi gioielli, ti serviranno nella vita. E quando passi davanti a un cimitero, oppure c'è un funerale, stringili bene, con rispetto parlando. Non si sa mai.
E' un'usanza del rione Sanità, continuava, e si dice che lo facesse pure Totò, anche se era un principe. Lui è nato a cento metri da casa nostra, lo sapevi, diceva orgoglioso?
Che bei ricordi ho del nonno, era un buon uomo, e anche spiritoso. No no, nonno, i gioielli li ho, e mi sono troppo cari, non preoccuparti. I tuoi consigli sono oro per me, me li tengo stretti.

Da buon napoletano calcolai che avevo bisogno di qualche espediente, diciamo che mi servivano dei succedanei che potessero gareggiare dignitosamente contro gli “status simbol” del momento, denaro e vestiti, automobili e gioielli.
Sì, c'era l'esempio di Gaetano che usava il potere magico dei suoi occhi, e funzionava, eccome, sicché anch'io mi ero esercitato ad impostare il mio sguardo per farlo diventare magnetico. Facevo allenamento davanti allo specchio del bagno, ma era rotto nel mezzo e la vista mi si incrociava. Smisi ben presto, dal momento che stavo diventando strabico.
Perché mi guardi così, dicevano le ragazze, cosa ti ho fatto che mi guardi storto? Meno male che dopo un paio di mesi tornai normale.
Mi sentivo perso, ed avevo già pensato di abbandonare la partita “amore”, rimandandola a tempi migliori, quando fossi arricchito, magari per la classica botta di culo.
Qualche freccia in faretra per diventare ricco l'avevo, per dire il vero: bella voce, da tenore, giocavo bene al calcio ed ero più alto di Maradona di almeno un paio di centimetri, sapevo recitare come comparsa, riuscivo a convincere la gente con la mia faccia d'angelo, insomma se qualcuno mi avesse assunto come commesso viaggiatore a percentuale, avrei sfondato certamente.
Ma in attesa di arricchire, cosa potevo fare nell'immediato?
Ad indicarmi la strada fu un articolo che lessi sul Corriere del Mezzogiorno, in terza pagina, un lunedì mattina che il mercato era deserto: Le donne di Gabriele D'Annunzio, questo il titolo molto accattivante.
Io fino allora non sapevo chi fosse questo Gabriele, ma quando lessi di tutte le donne che aveva avuto, capii che era quella la strada da seguire. Nell'aspetto mi sembrava anche meno bello di me: magrolino, con un pizzetto da capretta tibetana, pochi capelli, basso, anche se il portamento pareva quello dell'uomo di una certa stazza. E poi lo sguardo, niente di che: Gaetano se lo sarebbe mangiato in due bocconi. E allora, come avrà fatto, mi chiedevo. Forse le ipnotizzava.
Nemmeno il suo gioiello era gran che, lo si vedeva da una foto in bianco e nero pubblicata a corredo dell'articolo. In una cosa lo battevo certamente, era già un buon inizio.
Cominciai a leggere l'articolo avidamente, anzi me lo conservai come una reliquia dopo che capii quale era il suo grande potere: sapeva scrivere lettere d'amore e poesie come nessuno, almeno di quelli che conoscevo io a Napoli e che passavano per gran donnaioli.
In quell'articolo di giornale si parlava di una donazione al Vittoriale di Gardone Riviera, la villa che il Vate si era fatto costruire e nella quale scrisse più di cinquecento lettere d'amore.
Un certo Zanetti, mercante e mecenate con il pallino degli studi e della pittura, le aveva trovate sparse per il mondo e ne faceva dono a quello che ormai si poteva definire un Museo, a tutti gli effetti: il Vittoriale degli Italiani.
Sul giornale c'era pure la copia di una lettera, fra le tante, scritta di suo pugno da D'Annunzio. L'incerta calligrafia, degna di essere paragonata a quella di un medico, non mi impedì di fissare alcune frasi significative, che poi io ebbi modo di elaborare così come avevo elaborato il Ciao, nel tentativo di potenziare e personalizzare quelle lettere d'amore.
Eccone una, che diventò il mio cavallo di battaglia amorosa: “ Amica nemica, delizia delle delizie, tormentatrice di là da tutti i tormenti, alla fine dell'ultima lettera mi raffiguri la tua bocca, rossa più dell'inferno... Volevi baciarmi? Sapevi di bruciarmi? Piccola, mia piccola, sono stregato, sono attossicato. Non posso resistere fino a domani. Vorrei cadere nel baratro delle tue braccia, ora, non più tardi, svenire di gioia nella stanza del tuo incantesimo, precipizio di sensi per le mie brame.... Se non vuoi che tutto questo accada, fammi avere le tue ingiurie più sanguinose. Ma se hai il ricordo della pietà che una donna deve avere per un'anima innamorata come la mia, allora rispondimi con un semplice sì, e perdona la mia franchezza di volerti, ad ogni costo, come un fanciullo vuole la sua parte di tenero possesso, fosse anche un cioccolatino...”
A me quelle frasi sapevano tanto d'altri tempi, di esagerazione, di giri di parole atte a circuire la vittima facendole credere di essere pazzamente innamorato, cosa che non poteva essere visto che aveva avuto più di cento donne, questo Gabriele; quando tutti sapevano, per esempio, che mio nonno era stato solo con mia nonna, perché l'amava davvero.
Ma ormai avevo deciso di usare quell'espediente delle lettere d'amore, e ne scrissi parecchie copie, in bella calligrafia, usando la veccia penna di zio Carlo, l'unico della famiglie che aveva studiato. C'erano ancora i pennini e l'inchiostro nella sua stanza e, quando imparai ad usarli, scrissi lettere che il povero D'annunzio se le sognava, specialmente per la chiarezza della calligrafia.
Come andò a finire la storia, vorrete sapere. Male, e come doveva finire. Dopo le prime conquiste, che avevano contribuito a far sì che mi si attribuisse la fama di “femmenarùlo”, feci l'errore di mandare la stessa lettera anche ad una ragazza della quale mi ero innamorato, già impegnata con un bullletto del Rione, per altro. Era una copia delle altre, tale e quale, con qualche vezzo in più.
Quando mi incontrò per strada, Gaia, era questo il suo nome, apparve subito rabbuiata e seria, altro che gaia. Mi lanciò in faccia la lettera e mi disse, in malo modo:
« Pure attossicato sei... me lo avevano detto, girava già la voce... »
Fu così che smisi di fare il Vate, ricadendo nel limbo della solitudine. Ma io Gabriele D'Annunzio lo devo ugualmente ringraziare perché, anche se non ho avuto la possibilità di frequentare le scuole alte, mi sono appassionato alla poesia e alla narrativa e da quel giorno poeti e romanzieri sono diventati i miei idoli da imitare. E perché mai sarei su La Recherche, così non fosse?

*

Bella Viola

Entrai al solito supermercato per spendere i miei dieci euro giornalieri in generi alimentari di prima necessità, insomma per farmi un panino magnum da buttar giù con una birretta scura doppio malto. Notai subito che c'era qualcosa di nuovo nel sole, anzi d'antico, ma non erano viole di Pascoliana memoria. Viole no, ma una Viola sì.
I maschi si giravano, al suo passaggio, e anche le donne si giravano, ma in un'altra maniera. Lei ancheggiava, sui suoi tacchi a spillo dodici, come un palmizio davanti al mare sferzato dal vento di libeccio...era troppo bella per quel postaccio. Che ci faceva lì, e come si chiamava? Glielo chiesi, avrei rischiato che il panino mi si piantasse nello stomaco come un chiodo arrugginito se fossi rimasto con quel pensiero per tutta la giornata.
Bella, disse, mi chiamo Bella. Genitori intelligenti, risposi io. Allora la chiamerò Bella Viola, fa molto primavera. Lei sorrise, e cominciò ad ancheggiare diversamente, come la barca di Vincenzino al dolce vento di scirocchetto di levante, ma in maniera più sexy del gozzo in legno del mio fornitore ufficiale di pesce. Certo potevi avere il dubbio che non fosse del tutto naturale quel movimento ritmico di poppa, ma studiato ad arte da Bella per sembrare ancor più Viola di quanto era già per grazia ricevuta da madre natura. Ma come non perdonarla per quel suo vezzo, tutto sommato innocente.
Girava nel mezzo delle corsie alla stessa maniera di una pantera in agguato, seguita dai carrelli, che erano manovrati dagli uomini presenti nel negozio alla maniera di un bolide di formula uno. Alcune mogli strattonavano i mariti con la classica scusa, non c'è niente che ci serve in questo reparto, dove stai andando... ma si sa, ne tira più un pelo di pantera... insomma tutti a cercare per finta prodotti fantomatici, pur di rallentare e restare in posizione privilegiata, in coda a Bella Viola.
Io invece la puntavo con gli occhi spudoratamente, e mi sentivo autorizzato a farlo dal momento che noi due ci eravamo presentati; avevo più diritti degli altri, o no?
Accostavo il mio carrello al suo e depositavo prodotti a casaccio senza guardare che merce era. Avevo già un piano: avrei abbandonato il carrello prima di mettermi in fila alla cassa e mi sarei portato a mano le quattro cose che mi servivano per il mio panino giornaliero.
Improvvisamente lei si voltò, mi guardò sorridendo come solo la testimonial di una pasta dentifricia può fare, e disse divertita:
« Anche lei ha un bebè, vedo... e la mamma dov'è? »
Non ci crederete, quella frase mi scioccò. Cercavo di tradurla, forse era un messaggio segreto a sfondo sessuale, e rimasi imbambolato per un tempo che mi sembrò troppo lungo per restare agganciato a Bella Viola. Mi salvò l'istinto maschile e, senza sapere bene cosa stessi dicendo, azzardai:
« No no... o meglio, sì ma..., cosa intende per bebè, scusi? »
Lei si avvicinò pericolosamente, per il mio equilibrio emotivo intendo, e mi stavo già inebriando del suo profumo. Ero in procinto di entrare in una sorta di coma esistenziale, una confusione di pensiero che avevo provato solo alle scuole medie, quando l'insegnante di storia mi faceva domande sulle due guerre mondiali, proprio a me che di mondiali seguivo solo i campionati di calcio. Annegai i miei occhi semichiusi nel lago dei suoi; non potevo far altro che affondare in quell'azzurro, oltretutto non avevo mai imparato a nuotare nel paradiso del sesso, anche se mi ci tuffavo a capofitto.
Mi ero aggrappato al carrello come un alpinista in parete si aggrappa alla sua corda di sicurezza, altro non potevo. E pensavo continuamente a questo fantomatico bebè...
« Bebè, bambino piccolo... vedo che ha preso i biscottini Plasmon, e i pannolini... », disse lei con disinvoltura. Non capivo il senso di quelle parole. Dietro di me sentivo il mormorio di fondo: carrelli che sbattevano, mogli che si lamentavano, mariti che prendevano mille scuse, e la mia confusione mentale aumentava.
Fu lo spirito di sopravvivenza che mi suggerì di guardare nel carrello, ed allora mi accorsi che i prodotti che avevo infilato a casaccio erano tutti per la prima infanzia. C'era perfino un talco per le irritazioni al sederino.
« Ah... sì, beh non è mio, è un nipotino, il figlio di mia sorella, Ciro... », riuscii a dire.
« Ecco... le volevo chiedere un consiglio su quei pannolini Pampers, se sono pratici, se assorbono davvero il doppio... li ha già provati? », disse lei.
« No no, per l'amor di dio... povero bambino, se lo facessi io si pentirebbe di essere nato... ahahahah », stavo già ritornando in me e in pieno possesso della mia vena umoristica.
« Io faccio solo il baby sitter, ma a cambiarlo è mia sorella... »
Bella Viola mi guardava con insistenza e curiosità, e a me pareva pure che lo facesse con un certo interesse. Mi sentivo invidiato, privilegiato, ero certo che chiunque fra i mariti che mi seguivano avrebbe voluto essere nei miei panni.
« Interessante... avrei proprio bisogno di un baby sitter. A cambiarlo ci penserei io, non è un problema », disse.
Bingo... ci stava provando, me lo sentivo. Possibile che una donna di classe come quella non avesse una baby sitter a disposizione? Avevo capito tutto, mi stava adescando. Sarei andato a casa sua, lei avrebbe preparato una bella cena ed avremmo bevuto un buon vino, come nei film americani, e poi mi avrebbe portato a letto. Aveva ragione mia sorella quando mi diceva: mettiti in ordine quando vai al supermercato, puoi fare un incontro galante anche lì, perché no.
Ero talmente emozionato che mi venne spontaneo sfregarmi gli occhi con entrambi le mani, come se mi dovessi svegliare da un incubo... ed invece era un bel sogno, anzi bellissimo.
Li riaprii, e capii immediatamente che era finito. I rumori del rione Sanità già occupavano le case ed il sole filtrava crudele nelle persiane della camera, riportandomi alla realtà.
Ciao Bella Viola, tu non lo sai ancora ma io in quel supermercato ci verrò ogni giorno, e vestito di tutto punto. Intanto mi allenerò pure a cambiare il bebè di mia sorella, lo giuro su San Gennaro e per sicurezza anche sul Vesuvio. Anche se, a ben pensarci, mia sorella il bebè non ce l'ha, anzi, non ho nemmeno una sorella.

*

Cantante per amore

Eccomi di nuovo qui, dietro il mio banco, a vender pesci e sognare tanto, negli occhi il pianto per l'ultima avventura: “cantante per amore”, è stata dura...
Andò così, che un fiore di ragazza, l'anima mia in pena, rendeva proprio pazza... passava ogni mattina, portava il sole in piazza, tra i banchi del mercato nella grande confusione nasceva tosto il sole, e in me la gran passione.
Ormai già lo sapete, le donne mi chiamano ammore per la mia propensione ad ammirarle tutte, le belle e pur le brutte, che poi io non ne vedo mai donne di questa fatta... c'è pure un cuor che batte, dentro non è di latta.
Insomma, ai banchi del mercato mi sentivo poeta, e quando vidi lei, la bella mia guagliona, mi credevo più importante perfin di Maradona.
Cantavo per la gioia, quasi fossi Caruso, e la voce mia squillante, vinceva ogni pertuso, sognando di far breccia almeno nei suoi occhi come fiore che sboccia in mezzo agli scarabocchi dei versi che cantavo, con enfasi intonavo, mi sentivo il più bravo, mentre m'innamoravo.

La poesia cessò quando a seguito di questo mio bel canto, al mercato mi notò un tipo, un impresario, in verità un po' dubbio... un uomo assai importante, venuto giù dal Norde, che con la sua proposta, toccava le mie corde. Ti porterò a cantare, diceva assai convinto, in mezzo a bella gente... lo farai in riva al mare, come in quadro dipinto, in un gran bell'ambiente. Ti verranno a sentire, tutte le belle donne, non sapevo che dire, la mia notte era insonne, pensando alla guagliona, dal bel nome: Simona.
Le prime mie serate, furono un gran successo, dimenticai i pesci, non ero più depresso, aspettavo il gran giorno che quasi per magia, lei mi venisse intorno, come nel girotondo. Nel pensiero era mia... vivevo in allegria, la nuova poesia, che credevo di trovare, sulla riva del mare, dove andavo a cantare.
E invece come fu, non lo saprò mai, persi la rima, la mia mente era inchiodata a quel sogno e la fantasia s'era come inceppata.
L'orologio del mio tempo batteva sempre su quella stessa ora, la lancetta bloccata come se la vita avesse subito un fermo, una sosta senza meta, se non quella di aspettare per vederla tra le mie braccia, abbandonata come barca alle placide onde di un mare in bonaccia.
L'uomo del Norde che mi aveva sentito cantare al mercato, io lo facevo per attirare i clienti, diceva: tu sarai il mio Cavallo di Troia del successo, faremo il giro del mondo... io all'inizio mi ero offeso, son sempre stato un bravo ragazzo, e una brava guagliona cercavo, non certo donne di malaffare. Gli chiesi spiegazioni di quello strano cavallo; mi parlò di poemi, di greci e di troiani, di Omero... oh m'ero confuso, gente forse di cattive compagnie, cavalcavano donne leggere, non era il caso mio. Non capii quella storia di Troia e gli dissi, lascia stare, fammi cantare e non parlar di troie che sto male assai al solo pensarci. Lui rideva, aveva un dente d'oro e una luce sinistra negli occhi, sembrava strabico, un occhio sì e l'altro no, sghembo come un bastone nell'acqua, pensava alla ricchezza e mi prendeva in giro.
L'impresario allestiva un grande palco in riva al mare, nei posti più belli, tutte le sere la gente veniva a sentirmi cantare, e il giornale della parrocchia parlava di me. Era mio cugino Salvatore che scriveva, non era bravo, gli correggevo io figuratevi un po'... la gente che mi incontrava mi diceva: Ammore, stasera dove canti, veniamo a sentirti ed io dicevo grazie, ascoltavo i consigli e mi sentivo Beniamino Gigli.
L'orchestra era buona: chitarre, mandolini e pure una vecchia batteria, suonavano proprio bene, accompagnavano le mie canzoni napoletane come un cane addestrato porta a spasso un cieco.
C'era pure un piano, serviva quando imitavo Peppino di Capri... storpiavo un poco le canzoni, Roberta la pensavo Simona e cantavo guagliona ascoltami, ti prego...e poi evitavo di dire ritorna, non era mai stata con me, allora cantavo col cuore in mano, ti prego vieni da me...ogni istante, sarà felicità, chissà se un giorno tu mi saprai amar...la gente capiva che qualcosa non tornava nelle parole, ma applaudiva, ed io ero felice.

Poi, una brutta sera, il patatrac... arrivò lei. Era in prima fila accompagnata da un uomo che conta, un ricco signorotto, vecchiotto ma potente, lo si vedeva dalla gente che lo omaggiava, e baciava a lei la mano.
Non potevo più staccare i miei occhi dai suoi, erano annegati dentro quella meraviglia di colori, imprigionati come un topo nella stiva della Concordia... anche il mio cuore affondava in quella nave, nel piacere, nella speranza che lei capisse il mio sentire.
E allora, feci l'errore fatale... decisi di dichiararle il mio ammore cantando una canzone di Modugno, che conoscevo bene nelle parole, ma la musica mi sfuggiva e non era nel repertorio dell'orchestra.
Presi il microfono: l'uomo del Norde sgranava gli occhi, l'orchestra cessò e si fermò il brusio in sala. Annunciai che avrei cantato la più bella canzone di Modugno, “Tu si' 'na cosa grande...”...
Il batterista appoggiò le bacchette sul tamburo, con una smorfia, il pianista fingeva di girare lo spartito, e i suonatori di mandolino posarono gli strumenti per terra, guardandosi con aria interrogativa.
Dissi in un fiato: questa canzone è per il mio amore segreto, la canto solo a lei... e già in sala ritornava il brusio.
Presi una chitarra, la suonavo pure maluccio, e sprofondai anema e core nei suoi occhi, mentre lei capiva e si stringeva al braccio del suo uomo, dandogli di gomito, come a dire, che vuole questo, sta guardando a me?
Certo che guardavo lei, non vedevo altro, tutto il resto era buio...il suo volto luminoso mi faceva sentire in trance, ero quasi in uno stato ipnotico, come se fossi appena uscito da una seduta sul lettino di Freud... anzi, era proprio come se fossi io Freud, uscito di senno, redivivo in questo nostro mondo. Ero confuso come potrebbe esserlo lui dopo aver condotto una seduta di terapia di gruppo con: Balotelli fresco di parrucchiere, capelli a cresta di gallo, gialli come il grano, Lady Gaga con uno spinello in bocca che tira calci al pallone, un metallaro rock con una parrucca cadente sulle spalle che mastica cicca americana mentre smanetta su un tablet, e Donatella Rettore con un coltello in mano e i denti finti di Dracula che urla “ dammi una lametta che mi taglio le vene, mi faccio meno male di un trapianto del rene “... poveraccio, ve lo immaginate Freud alla fine della seduta...ecco, io ero così, ma pure trasognato, imbambolato, ritornavo poeta, la guagliona la meta, con quella pelle di seta...
Ero tanto emozionato che la voce se ne jette, pure 'na corda di chitarra se rumpette, ed io che declamavo con voce stonata...tu sì 'na cosa grande pe' mme, 'na cosa ca me fa 'nnamurà.... cantavo col cuore, ma in platea sentivano 'a voce, e quella usciva malamente dalle corde vocali ingrippate, accartocciate, non lo sapevo ma stava finendo la mia carriera di cantante, non ero più il cavallo di Troia, ma nemmeno o cucciariello del Rione Sanità.
Mi fischiavano, mi dileggiavano, e io non li sentivo. Guardavo 'a donna dei miei sogni e continuavo, con le lacrime agli occhi... e dimmelo, 'na vota sola, si pure tu stai tremanno, dillo ca me vuo' bene... e insistevo, 'na vota sola, ma dimmelo, 'na vota soooooola... la voce si incrinava, la carriera se n'andava, mi sentivo investito dalla lava.
Cominciarono ad arrivare sul palco ortaggi di ogni sorta, tant'è vero che Carmine, quello che tiene il banco da verduraio accanto a me giù al mercato... è sempre qui dietro il palco che aiuta il padre elettricista con le luci di scena... si metteva a raccogliere nelle cassette: carote lunghe e gialle, sedano e cipolle, arance belle grosse, e pomodori San Marzano, quelli si vendono che è una bellezza.
L'uomo del Norde mi strappò il microfono di mano e m'accompagnò dietro il palco, dicendomi deciso, hai chiuso, non sei più il cavallo di Troia di nessuno, stasera non pigli nemmeno la paga, vattene e non farti più vedere.

Ora sto qui al mercato, canto la bellezza del mio pesce, che nessuno ce l'ha così bello e pulito, guardo le guaglione passare, e ricomincio a sognare, sulle onde del mare. Scrivo poesie, saran brutte ma mie, le regalo alle zie, facendo acrobazie, fra un verso e una rima, che mi dia l'autostima, mentre vendo a un bruna, che mi porta fortuna, la soglioletta gentile, incartata con stile, aspettando l'Aprile, d'una nuova primavera, con la bella infermiera che incontro la sera, davanti alla corriera, camminata assai fiera...
e il mio cuore che spera, non sia una chimera.

*

Felice e i giocattoli

La famiglia Pace non era di Napoli, e nemmeno dei dintorni. Venivano dalla Puglia, e il nonno, di professione ciabattino, aveva uno strano nome: Sperandio. Tutti noi ragazzi gli volevamo bene, perché le sue riparazioni di scarpe e ciabatte le faceva fuori dalla bottega, in mezzo alla strada. Era uno spettacolo sentire quei colpi di martello che inchiodavano le suole, una musica speciale, un ritmo che incantava. Non sbagliava un colpo, Sperandio, che noi chiamavamo “ciabatta”, ed era svelto. Intanto che lavorava aveva il tempo di cantare e contemporaneamente farsi pubblicità con la gente che passava.
“Scarpe come nuove, in un battibaleno e a poco prezzo”, urlava; poi riusciva anche a sorridere a noi ragazzi e schiacciarci l'occhio, come a dire: visto come sono bravo?
Aveva un modo tutto suo di prendere i chiodini che gli servivano per fissare la suola: ne prelevava una piccola manciata da una scatola in latta e li sistemava uno per uno stretti tra le labbra; poi, all'occorrenza, li acchiappava con pollice e indice della mano destra perché a battere il martello era mancino.
“Scarpe, ciabatte e stivaletti, uomo donna e bambino, sono il ciabattino più bravo del mondo”, diceva fischiettando e battendo, tagliando il cuoio, stendendo con un vecchio pennello quella strana colla scura dall'odore penetrante, che teneva in una scatola di latta di pomodori.
Aveva un banco di lavoro quadrato e basso, una seggiola di legno grezzo con le gambe tagliate a metà per stare all'altezza giusta, e indossava un grembiale robusto, di rozza pelle macchiata, sul quale a volte appoggiava la scarpa all'altezza dello sterno in modo da poter tagliare il cuoio in eccesso, insomma “rifilare” le suole, come diceva lui.
Sul banco, che sosteneva si chiamasse “desco” proprio come la tavola imbandita, ed era assai orgoglioso di sapere questa cosa, c'era di tutto: chiodi di ogni dimensione, lesine per fare i buchi, pinze, trincetti, coltelli robusti e dalla lama cortissima, vari martelli, fra i quali uno piccolo per battere all'interno della scarpa, forme in legno adattabili alle varie misure, e una quantità di spago di ogni colore, di quello cerato, resistente.
Ma l'attrezzo più magico era uno speciale incudine: il piede di ferro. Aveva una forma strana, a tre sbalzi, e lui ci spiegava che era fatto in quel modo per permettergli di entrare in ogni anfratto della scarpa o dello stivale.
Noi restavamo incantati a guardarlo, ma avevamo una speranza: se dopo quel tacco, o quella suola che stava cambiando, non aveva più lavoro in ordinazione, allora ci chiamava e ci faceva “ i trucchi”, come li intendevamo noi, ma lui li spacciava per magie vere e proprie.
Carte che sparivano e ricomparivano dalle nostre tasche, o dentro le scarpe riparate, palline di gomma che si metteva in bocca, le ingoiava e poi se le toglieva da dietro, come un uovo, soldi che uscivano in continuazione dalle sue orecchie o dai nostri capelli, e poi il gioco più stupido, il più semplice forse, ma che a noi ragazzi piaceva tanto: il gioco di Gigino e Gigetto.
Dunque il gioco era questo: prendeva due pezzettini di carta, magari da un ritaglio di giornale che usava per incartare le scarpe riparate, e se li incollava con la saliva sull'unghia di ogni dito indice. Poi iniziava la filastrocca, che così faceva: gigino e gigetto vanno a scuola, e mentre la recitava batteva alternativamente sul banco le due dita, su e giù, su e giù.
Poi veniva la frase magica: vola gigino...e mandava in alto il dito indice della mano destra che poi ricadeva sul banco senza il pezzettino di carta, che appunto era “volato”.
Idem per gigetto, incollato sulla mano sinistra...vola gigetto, e gigetto scompariva. Poi ripeteva la litania e diceva, torna gigino torna gigetto, mandando in alto alternativamente le dita che tornavano sul desco con il loro bel pezzettino di carta.
Gigino e gigetto vanno a scuola, vola gigino, vola gigetto, torna gigino, torna gigetto...
noi quella filastrocca la sapevamo a memoria e, quando “ciabatta” ricominciava a suolare, scappavamo via, magari col nostro pallone, cantandola come una litania. Non abbiamo mai capito come facesse a far volare quei due pezzetti di giornale, e poi farli ritornare incollati all'unghia, saldi come e più di prima.
Della famiglia Pace, quello che noi ragazzi non potremo mai più scordare è il figlio primogenito del ciabattino, Felice. Il papà, per dargli un lavoro, insomma per instradarlo come si diceva allora, gli aveva preso con i risparmi di una vita una specie di negozio in fondo alla via e Felice, che era un giocherellone, lo aprì proprio il primo dell'anno, in procinto della festa della Befana. Naturalmente vendeva giocattoli nel suo negozio, e ne aveva di bellissimi, alcuni anche fatti a mano da artigiani locali. Vendeva poco, poveraccio, perché il nostro Rione era di povera gente ed i giocattoli che venivano regalati in occasione della Befana erano di quelli poco costosi, se non riciclati o scambiati fra parenti. La solita tombola, il monopoli, giochi di carte, il meccano e il piccolo chimico, gli immancabili Lego, che duravano anni e annorum, diceva mia nonna.
Passata la Befana, il negozio non vendeva più, se non in occasione di qualche compleanno.
Sapete allora che faceva Felice, che cominciava a dare segni di un sano e simpatico squilibrio mentale, per farsi pubblicità? Veniva anche lui in strada come suo padre, che nel frattempo si era ammalato, e donava i suoi regali meno importanti a noi ragazzi. Non capiva che in quel modo le sue vendite diminuivano ancor più.
Lui, imperterrito, si piazzava davanti alla piccola vetrina e prendeva da un cestone di vimini un regalo. Poi aspettava che passasse di lì una mamma col bimbo in braccio ed allora metteva il pupazzetto, o l'aeroplanino, nelle mani della piccola creatura. La mamma ringraziava e tutti i bambini del rione Sanità gioivano. Felice era diventato il loro idolo, un mito. Chi non gli voleva bene, a Felice. Era una Befana maschio che durava tutto l'anno.
Lui faceva felici gli altri e però, nel mentre, diventava più triste. Il suo sguardo iniziò ad essere sempre più fisso e le stranezze aumentarono.
Oggi indossava gli scarponi da montagna, ed era estate, oppure veniva in strada a petto nudo ed era inverno pieno. Si vestiva alla cieca, senza cognizione, ed iniziava a declamare l'Inferno di Dante alla sua maniera, occhi fissi al cielo e giocattolo in mano.
Un bel giorno non lo vedemmo più; si diceva fosse fallito, ma qualcuno seppe dai suoi parenti che era stato ricoverato in una casa di cura per malattie mentali.
Morirà in un incidente in moto, dopo che era scappato dal manicomio con un amico. Andarono a schiantarsi contro una quercia secolare, al lato di una brutta curva.
Al suo funerale c'erano tutti gli ex bambini del paese, ormai diventati papà. C'ero anch'io, anche se papà non ero. Gli abbiamo coperto la bara di vecchi giocattoli e pupazzetti, per accompagnarlo nel suo ultimo viaggio... e il canto funebre “Quando busserò alla tua porta”, in cuor nostro lo cantavamo così:
Quando busserò alla Tua Porta,
avrò frutti da portare,
giochi belli da regalare
pupazzetti per bambini
dentro il cesto tante cose
da portare agli inquilini
di quel grande Paradiso
col sorriso sul mio viso...


*

Zia Carmela

E' la prima volta che vengo a trovarla, da quando l'hanno portata in questo ospizio a causa di quella sua crudele demenza senile. Mi pare ieri che la portarono via di casa, ma ne sono passati di mesi. Chissà se si ricorda ancora del suo Gennarino. Io credo, o spero, di sì.
Arrivo davanti ad una grande porta in vetro scorrevole, con telecamera. E' questo il suo reparto.
La fotocellula non funziona, e la porta non si apre. Rimango in piedi come un allocco, e guardo dentro.
Sì, perché c'è sempre un dentro e un fuori, non solo in questo luogo triste. Di là del vetro, dentro, c'è un uomo, seduto per terra. Mi guarda come se non mi vedesse. La sua faccia è immobile, una maschera. Anche le rughe sembrano disegnate. Gli occhi sono belli, hanno dentro tutta la vita passata, anche se io non riesco a leggerla. Ma sono chiari, luminosi; parlano, anche se sono muti.
Ci guardiamo fissi, lui non fa la classica piega, a me invece viene il magone. Per fargli capire che voglio entrare insceno una mimica: fingo di non accorgermi che c'è il vetro e ci sbatto la testa. Mentre me la gratto, lui si alza, preme un pulsante e la porta si apre.
Entro e mi accorgo che ha una divisa da ospedale, o da carcere: pigiama a righe, ciabatte, calze pesanti. Sorride, sorrido. Ora vedo meglio i suoi occhi, e riesco a leggere qualcosa ma è un racconto scritto in una lingua che mi è straniera, la lingua degli anni che passano e corrono più lunghi dei passi.
E' gentile, come lo può essere un fiore che appassisce senza lamento in un giardino dismesso.
Lui torna a sedersi davanti alla porta di vetro, forse la sua anima ha bisogno di luce, o forse ha bisogno di un contatto fisico con il fuori; io mi incammino nel lungo corridoio in cerca della stanza, la numero 17, che nella Smorfia napoletana è La sfortuna, 'a disgrazzia. Spero tanto che zia Carmela non se ne sia accorta, lei che giocava sempre al lotto.
In fondo al corridoio scorgo una vecchina minuta e curva, con una borsetta al braccio. Cammina a piccoli passi, svelti, come fa il passero quando cerca briciole di pane sulla neve. Poi si ferma, guarda nelle stanze, e riprende il suo viaggio, sempre con le stesse movenze. Anche lei mi sorride, e mi guarda. Mi piacerebbe tanto sapere cosa pensa, ma nei suoi occhi non vedo la strada, né la gente. Non c'è confusione, quella del mercato per dire, non c'è disordine in quello sguardo, non c'è vita. E' come se si guardasse dentro, a ritroso, specchiando i suoi occhi nei miei, trasferendo il suo vissuto nella mia giovinezza.
Le chiedo di zia Carmela; lei mi guarda e sorride. Io sorrido, e comincio a capire quel che mi aspetta in questo “mondo dentro”.

La stanza diciassette è l'ultima, in fondo al corridoio. Entro, e mi accorgo che regna la penombra.
Le persiane tengono fuori la luce di questa giornata di sole. Anche per il sole c'è un fuori e un dentro.
Alla mia sinistra, un letto con le sponde in ferro. Sembra vuoto, tanto è esile il corpo che gonfia le bianche lenzuola. Poi intravedo un testolina piccola, esce appena, sembra un uccellino nel nido che si guarda intorno stupito, e spaventato. Sulla destra l'altro letto, vuoto.
Zia Carmela è in un angolo, seduta davanti ad un tavolino. Una luce illumina a malapena la sua figura, e il cuor mi balza in petto perché la vedo invecchiata di colpo. Mi ricorda la nonna, prima di morire. Sta cucendo il vestito ad una bambola di pezza, e la sua figura curva mi dice tutto della sua fragilità.
« Ciao zia, come stai ? » , dico senza convinzione, come se fosse una frase obbligata dalle circostanze. Lei non si volta nemmeno.
« Buongiorno dottore... mi porta al mare, oggi? »
Mi avvicino e comincio a parlarle, e mi rendo conto che il groppo alla gola mi impedisce di dire parole sincere. Parlo, ma più per assecondarla che per dirle cosa provo. Mi viene in mente che zia ha sempre amato il mare e le barche a vela, quella passione non l'ha scordata. E nemmeno le bambole, ne aveva di bellissime e le cambiava spesso, le metteva sedute sul letto come se potessero far da guardia alla camera. E per ognuna aveva tanti vestiti, tutti diversi.
Mi chiedo come sia possibile che quella stupida malattia che l'ha colpita faccia dimenticare le persone alle quali si vuol bene, e invece ti lasci il ricordo delle cose. Che significato ha: che siamo più attaccati alle cose che agli affetti?
Esco dalla stanza amareggiato, anche se sono contento d'averla vista. In fondo al corridoio c'è l'uomo seduto. Si alza, mi apre la porta di vetro e mi sorride. Io gli sorrido, e non so quale dei due sorrisi sia più amaro. Forse il mio, il suo è quello di una maschera. Non è un sorriso.

Fuori è una giornata di sole; dentro non ci sono più giornate: solo attese.
Alzo gli occhi alla finestra e vedo l'uomo della porta di vetro. Io lo vedo, ma lui no. Mi guarda, ma il suo sguardo non è rivolto alla vita, è perso nel vuoto. E' uno sguardo dentro, e in quel dentro chi mai può dire cosa c'è.