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Raccolta di testi in prosa di Giulia Bellucci
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Giuseppe senza cognome

Stava camminando da un po’ lungo quelle strade che gli erano ormai familiari. Erano quasi deserte da cui si poteva dedurre che fosse mattino presto, mentre la fitta nebbia, che offuscava tutto, impediva di orientarsi in base alla posizione del sole. Gradualmente però, mentre lui continuava a camminare, la nebbia andava diradandosi e tutto intorno iniziava a schiarirsi. Giuseppe non pensava a nulla, era l’abitudine a condurre i suoi passi. Ogni domenica mattina era solito attraversare tutto il paese, partendo da casa e facendovi ritorno, perché sapeva che il camminare poteva recare giovamento tanto all’anima quanto al corpo. In totale erano dieci i chilometri che percorreva ma quella volta non sentiva la solita fatica. Quando si ritrovò in prossimità della piazza dei Caduti, si rese conto di avere già fatto ben otto chilometri. Le abbuffate delle feste non erano riuscite, probabilmente, a metterlo fuori forma. Stava per passare dinanzi a uno dei muri della piazza dove venivano attaccati i manifesti funebri, quando intravide una sagoma provenire dalla direzione opposta alla propria. Quando la distanza si abbreviò a sufficienza, distinse nitidamente l’uomo che indossava un cappotto elegante e un cappello. Fu allora che riconobbe in quello il senatore De Luca, la persona più influente e rispettata del paese, che aveva visto qualche volta in televisione o sui manifesti elettorali o a qualche comizio in piazza, ma mai incontrato di persona. Strano vederlo quella volta in giro per le strade del paese giacché trascorreva la maggior parte dei suoi giorni nella capitale ma più strano gli sembrò vederlo sostare dinanzi ai manifesti! Si avvicinò ulteriormente e poté scorgere sul suo volto un’espressione mista di malinconia e compiacimento allo stesso tempo. L’altro dal canto suo sembrò non notare affatto la sua presenza. Giuseppe lo salutò in modo quasi ossequioso e quello rispose con un brevissimo cenno della testa, senza neppure voltarsi a guardarlo in viso.

Il rombo di un motore distolse poi la sua attenzione. Un furgone si fermò a qualche metro da loro e quasi non li investiva entrambi.

«Guarda tu questo disgraziato come guida! Con questa nebbia poi! Quasi ci investe!»

Il senatore invece non si scompose per nulla. Giuseppe notò che il furgone era di quelli del servizio delle pompe funebri, venuti ad attaccare qualche manifesto nuovo. Erano in due e scesero dall’auto senza guardarli. Giuseppe non li conosceva di persona ma farfugliò un «buongiorno» di circostanza, così come era abituato a fare per educazione. Non ebbe alcuna risposta però. 

Il senatore sembrava non curarsi affatto né di lui né degli ultimi sopraggiunti. Questi rabbrividivano per il freddo nonostante fossero totalmente coperti fino al naso dalle sciarpe e portavano i cappucci tirati fino a quasi coprire gli occhi. Giuseppe invece non avvertiva freddo e neanche il senatore, sempre impassibile dinanzi ai manifesti.

Giuseppe fu incuriosito dal fatto che egli continuasse a guardarli con tanto interesse e si fece più vicino per leggerli a sua volta. Si stava chiedendo chi fosse deceduto recentemente degno di tante attenzioni da parte del senatore De Luca, che non ricordava di aver mai incontrato a nessun funerale in paese. Quando aguzzò la vista, lesse su uno di quelli:

Ci ha lasciato prematuramente all’età di 75 anni circondato dall’affetto dei suoi cari 

il Senatore Enrico Filippo Mariano De Luca

Ne danno il triste annuncio la moglie, il figlio, la figlia e i nipoti tutti. I funerali si terranno nella Cattedrale di Maria Santissima delle Grazie alle 11,00 del 3 gennaio.

Giuseppe restò sgomento e lo fu ancor di più quando, guardando la parete, notò che tutti i manifesti lì affissi erano per il Senatore. 

‘Morto? E quando? Possibile che non ricordi di essere stato al suo funerale, che mi sia sfuggito l’evento! Forse un suo parente, cugino, di cui io ignoro l’esistenza?’

Pensava questo tra sé e sé, ma il senatore parve udire addirittura i suoi pensieri a giudicare dal gesto di stizza che fece girandosi a guardarlo per un breve momento, sufficiente a fargli comprendere un certo disprezzo nei propri riguardi. Forse perché non conosceva il tale di cui si annunciava la morte?

«Questi li leviamo tutti?» disse parlando a voce bassa il più giovane dei due scesi dal furgone.

«Lasciamo almeno quello del lutto cittadino. Lo toglieremo al prossimo giro. Il senatore ci teneva a essere omaggiato. Non facciamogli questo torto!» disse sardonicamente quello più anziano.

«Però, che morte triste! Si dice che volevano ucciderlo anni fa a Roma e invece è morto per un incidente d’auto nel suo paese!»

Giuseppe allora domandò rivolgendosi proprio al senatore:

«Ma chi era Enrico Filippo Mariano De Luca? Forse un suo parente? Un cugino? Io non sapevo della sua esistenza! E poi anche lui senatore?»

«Taci, idiota!»

Ricevette solo quel breve insulto dal Senatore e poi nulla più.

I due intenti a togliere i manifesti non gli risposero affatto.

Giuseppe allora commentò con un po’ d’ironia: «Mi stavo chiedendo, illustre senatore, che effetto faccia vedere il proprio cognome scritto a caratteri cubitali e posto all’attenzione di tutti, anche se questo piacere lei l’avrà ben avuto già in passato, sui giornali ad esempio.»

«Idiota!» replicò di nuovo il Senatore.

«Mi scusi senatore, scherzavo, naturalmente. Non era mia intenzione offenderla.»

In tutta quella situazione, a parte l’indifferenza a tutta la discussione dei due che mettevano i manifesti, ad impressionare Giuseppe erano gli insulti fuori luogo, secondo lui, che De Luca gli stava rivolgendo. 

Quando i due ebbero finito di togliere tutti i manifesti vecchi, quello più anziano disse all’altro:

«Prendi la colla che attacchiamo i nuovi manifesti.»

E così mentre il ragazzo spalmava di colla la parete, l’altro posizionava i manifesti con una precisione da maestro. Giuseppe leggeva via via i nomi: Pina Nunzio anni 95, Giorgio Bianchi anni 87 e poi quando stavano srotolando il terzo manifesto, il ragazzo disse: 

«Questo chi era? Sai che non lo conosco!»

«Questo è l’uomo che è stato investito dal senatore De Luca la notte di Capodanno.»

«Sì, questo lo so, ma non ricordo chi fosse. Forse non l’ho mai conosciuto!»

Giuseppe incuriosito da quelle parole si sporgeva cercando di leggere il nome stampato sul manifesto senza però riuscirvi. L’uomo continuò:

«Era un poveraccio venuto qui da un altro paese, uno senza passato. Era giunto in paese vent’anni fa e si manteneva facendo dei lavori qua e là come bracciante agricolo. All’inizio dormiva per strada, poi in una casa messa a disposizione dal comune. Si dice che avesse perso la memoria e per quanto abbiano cercato di risalire alla sua origine, non ne sono mai venuti a capo. Neanche io lo conoscevo molto, ci si salutava però quando ci incontravamo ma nulla di più. Sai in questa tragedia qual è la cosa buffa?»

Giuseppe, sempre più curioso, aguzzava la vista ma non riusciva ancora a leggere il nome.

«No! E quale sarebbe?»

«Sembra che in realtà il senatore sia stato colto da un infarto, forse dovuto allo spavento per aver investito il poveraccio, piuttosto che il contrario. Dicono che questo venga dimostrato dalla brusca frenata dell’auto, in quanto se avesse avuto prima l’infarto, non avrebbe mai potuto avere la forza di frenare dopo.»

«Che storia incredibile! E questo poveraccio dopo essere stato investito è rimasto in coma per settantadue ore prima di morire?»

Mentre pronunciava queste parole, il ragazzo srotolò completamente il manifesto e aiutato dall’altro lo fece aderire alla parete dove aveva in precedenza spalmato la colla.

«Non aveva nessuno? Nessuno che ora possa annunciare la sua morte? Nessuno che lo piangerà e raccoglierà il cordoglio della cittadinanza? Nessuno leggerà un elogio funebre al suo funerale?» esclamò il ragazzo.

«Purtroppo no! È la famiglia del senatore che ha deciso di occuparsi della cerimonia funebre, forse perché si sono sentiti responsabili in un certo senso della sua morte. Il loro padre non c’è più e loro hanno voluto rendergli giustizia in questo modo.»

«Giuseppe!» disse ad alta voce il ragazzo. «Si chiamava solo Giuseppe!?»

Giuseppe spalancò gli occhi, aguzzò la vista.

GIUSEPPE 

C’era scritto solo un nome, Giuseppe, su quel manifesto, non un cognome e non venivano citati i familiari di quel defunto.

«Che tristezza! Che miseria! Solo Giuseppe, neppure un cognome aveva questo disgraziato? Niente gli aveva dato la vita? Nessuno ora lo piangerà? Nessuno?»

Aveva urlato per lo sgomento così forte Giuseppe da pensare che l’avessero sentito ovunque nel paese ma i due delle pompe funebri rimasero impassibili come se non l’avessero udito; continuavano a parlottare tra di loro delle loro faccende. Solo il senatore gli rispose:

«Silenzio idiota! Cosa gridi? Chi vuoi che ti possa sentire se sei morto?»

«Morto? Io morto?» Fece una breve pausa e poi replicò: «Io? Morto? Quando? Perché sono morto?»

«Perché eri un idiota che se ne andava in giro la notte di Capodanno mezzo ubriaco per le strade del paese a sfidare il destino e per colpa tua sono morto anch’io!» gli rispose il senatore.

Allora il poveraccio ebbe un sospetto e lo manifestò tale e quale:

«Sono io quel tizio scritto là sopra? Io quello senza cognome che non riceverà le lacrime d’un familiare?»

A quel punto il senatore, che era rimasto per tutto il tempo fermo nel suo contegno di persona illustre e distinta, al pari di quello che era stato in vita, sbottò improvvisamente in una risata fragorosa che forse riuscì a giungere persino alle orecchie dei due viventi lì presenti. Infatti quei due avevano improvvisamente smesso di parlare, girandosi di qua e là, come alla ricerca di qualcosa. Fu solo per qualche secondo però e poi tutto tornò come prima. Finirono di mettere a posto l’attrezzatura e, prima di andar via, il più anziano disse: 

«Comunque sia, almeno ora questo tale senza un cognome avrà almeno da morto un po’ di attenzione da parte di tutti che si fermeranno a leggere il manifesto.»

«Ho avuto un’idea! Scriverò la sua storia. Un romanzo. Lo intitolerò Giuseppe Senza Cognome. Nessuno si dimenticherà più di lui.»

«Ma dai! Uno scrittore tu?»

«Sì, è quello che farò.»

Giuseppe sorrise soddisfatto.

«Ridi, ridi....Che te ne importa, ormai è tutto finito e poi vuoi questo? Passare alla storia come lo smemorato del secolo? Diciamoci la verità: smemorato eri in vita e smemorato sei rimasto pure da morto! Comunque da questa parte, se non l’hai ancora capito, non ti serve a nulla tutto ciò. Queste sono peculiarità terrene. I vivi che si attaccano a ogni cosa per sentirsi immortali. Ma, una volta che s’oltrepassa la soglia che separa la vita dalla morte, tutto finisce nel dimenticatoio, prima o poi: nome, cognome, indirizzo. Tutto! Questa è la sorte che tocca a tutti! Possono attaccare diecimila manifesti per il paese, spendere milioni di parole , versare fiumi di lacrime, ma non servono a te che sei morto. Sono cose che appartengono ai vivi che hanno bisogno di continuare a vivere, sentendosi protagonisti. Noi il desiderio di protagonismo l’abbiamo già perso. Io me ne sono già reso conto! A questo punto quel tale, che rispondeva al nome di Giuseppe, potrei essere stato io o io potrei essermi chiamato Giorgio Bianchi o Pina Nunzio. Non fa nessuna differenza!»

Così dicendo si immerse in quel banco di nebbia che persisteva poco più in là e scomparve. Giuseppe lo seguì dapprima solo con lo sguardo, ma successivamente prese la medesima direzione, non prima di aver dato un ultimo sguardo al manifesto su cui stava scritto il proprio nome o quello con cui era stato appellato da quando era giunto nel paese di S.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*

Un viaggio lungo una vita

Eravamo tutti lì ad attendere il momento della partenza verso una realtà ignota, ma non avevamo paura. Di certo io non ne avevo, questo lo so. Eravamo anime felici e l’unica cosa che ci turbava un poco era che non riuscivamo a comprendere la ragione di quel viaggio. Nostro padre aveva deciso così e sapevamo che era giusto perché lui aveva sempre fatto ciò che era giusto e necessario per i suoi figli.

«Chissà se ci incontreremo anche lì dove siamo diretti e staremo ancora insieme? Qualcuno dice che non potremo più ricordare nulla di ciò che siamo ora e quindi io credo che non saremo in grado di riconoscerci. Quando ritorneremo qui, perché dicono che alla fine si ritorna, forse ci ritroveremo ancora e staremo di nuovo insieme per sempre», disse uno dei miei fratelli, che mi stava più vicino degli altri.

«Per sempre!? Io comunque vi riconoscerò tutti ovunque, ne sono sicuro. Saremo fratelli per sempre, appunto!» gli risposi io.

Il tempo passava o meglio, non so come spiegarlo, tutto continuava a restare immobile. Eravamo illuminati da una luce dolce e amorevole, che effondeva felicità. Ne avevamo viste di anime partire, o forse sarebbe meglio dire che ci rendevamo conto delle partenze perché avvertivamo come uno spostamento d’aria intorno, un soffio di vento che si portava via qualcuno. D’un tratto comprendemmo che era giunto il momento di una partenza, perché sentimmo giungere un nuovo soffio. Il treno era pronto, e mi resi conto che era il mio turno solo quando ebbe effettivamente inizio il mio viaggio. 

Ora non potrei dire come fu o quanto durò...

Posso dire che mi ritrovai, forse all’improvviso o forse no, in una situazione di buio ma avvertivo però un calore confortevole sulla mia pelle ed ero circondato da acqua. Sentivo di non aver bisogno di nulla. Avvertivo a volte movimento, ma non mi disturbava e potevo sentire dei rumori e delle voci, che per me però erano totalmente indecifrabili. Era sicuramente una situazione nuova cui però mi abituai e mi trovai ben presto a mio agio. 

Ed ecco che dopo nove mesi, più o meno, il mio lungo viaggio di andata ebbe termine o inizio, dipende dal punto di vista. Era stato un viaggio che però aveva annullato in me la consapevolezza di tutto quello che avevo percepito prima. Ero come una lavagna su cui era stato cancellato tutto e che era pronta per essere incisa di nuovo. Mi sarei però reso conto successivamente che questa fase non era andata a buon fine ma qualcosa era andato storto, per cui ciò che era stato cancellato sarebbe tornato nel momento più impensato. 

Ma procediamo per gradi. Il buio a un certo punto si diradò e non fu piacevole per nulla, anzi fu una sensazione molto sgradevole, tant’è che non potei fare a meno di urlare giacché venendo alla luce provai freddo, dolore e paura. La mia paura fu originata da un urlo che sembrava provenire da una belva della foresta più selvaggia. Ad urlare era stata quella che conobbi come madre, ossia il treno che mi aveva condotto nel nuovo posto.

Pian piano mi abituai anche a questa seconda nuova situazione, amai i miei genitori, mamma e papà, e i miei nuovi fratelli, cioè una sorella e un fratello. Imparai a vivere, amare, essere felice, sensazioni che non erano neppure paragonabili a quelle corrispondenti che avevo provato in precedenza e che erano state cancellate in me. Imparai anche a soffrire, provare dolore, odio, gelosia, desiderio sfrenato di individualità, egocentrismo, invidia, sentimenti che invece prima del viaggio non esistevano. E l’insoddisfazione accompagnava i miei giorni. E mio Padre!? Quello originario? No, di lui non mi ricordavo più. Mi fu inculcato il concetto di Dio, forse un surrogato della reale figura paterna. Il mio sguardo non andava oltre ciò che vedevo e toccavo. Desideravo soddisfare solo i miei bisogni fisici.

Ebbi un discreto successo nella mia vita e questo appagava il mio ego. La felicità però durava poco poiché era molto eterea e così rincorrevo sempre qualcosa, che potesse regalarmene di nuove.

Poi un giorno ci fu un accadimento che pose termine all’errore in cui stavo vivendo.

La mia vita procedeva a gonfie vele, per usare un termine marinaresco, ed io ero diventato un imprenditore affermato. Vivevo in una villa tutta mia, grande abbastanza da potervi ospitare una decina di persone comodamente e in modo definitivo. Ognuno avrebbe potuto avere la sua stanza singola e poi c’erano quattro bagni e persino una piscina. In realtà a pensarci bene era un vero spreco perché io vi vivevo da solo. Ogni tanto mi accompagnavo a qualche bella donna: qualche attrice o qualche modella, o altro. Restavano per dei giorni e poi io tornavo libero a godere della vita.

Un giorno, rientrando, trovai proprio vicino al mio cancello una donna che elemosinava. Era sicuramente una rom e aveva vicino a sé un piccolo moccioso.

«Dammi qualcosa per comprare un panino al mio bambino!» disse con uno sguardo implorante.

«Ma perché non te ne vai a lavorare visto che vuoi mangiare e anche fare figli? Te li devono crescere gli altri i figli?» gli risposi con tono sprezzante, mentre attraversavo il cancello. Non mi voltai indietro, non mi fermai e non mi importò nulla di quella che sarebbe stata la sua reazione.

Dopo qualche giorno ricomparve di nuovo, stessa posizione, identica richiesta e io non potei fare a meno di domandarmi perché era tornata visto che non gli avevo dato nulla la prima volta. Questa volta mi sembrò che il bambino avesse uno sguardo più triste. Ovviamente questo non mi provocò alcuna reazione.

Il terzo giorno che la vidi, fu davanti al cancello della mia azienda. Sembrava proprio la medesima persona e anche il bambino, che teneva tra le braccia stavolta, sembrava lo stesso. Accelerai il passo e andai dritto verso il custode e gli chiesi di allontanarla per una questione di decoro. Il custode evidentemente riteneva esagerata quella mia richiesta, perché tentò di contraddirmi ma desistette dal momento che gli risposi in modo alquanto scortese.

Trascorsi alcuni giorni rividi la donna davanti al centro estetico che frequentavo di solito. Stavolta mi disse:

«Dammi dei soldi per comprare le medicine per il mio bambino, che sta molto male. Non lo vedi?»

A quel punto ero davvero seccato. Mi sembrava di essere perseguitato da lei e con tutta la scortesia che riuscii a tirare fuori, le ingiunsi:

«Rivolgiti al Pronto Soccorso dell’Ospedale e non farti più vedere sulla mia strada altrimenti chiamo la polizia e ti faccio arrestare.»

Passarono ancora dei giorni e una sera mi affacciai con la mia compagna di turno sul balcone della mia lussuosa villa e la vidi ancora lì, proprio davanti al mio cancello. L’istinto mi diceva di chiamare la polizia ma ero concentrato sul fare altro. Rischiavo di lasciar sfuggire la mia preda quindi decisi di ignorarla per quella sera. Mi svegliai al mattino presto e mi preparai per uscire, come al solito.

La giornata si preannunciava splendida e per quella sera, ciliegina sulla torta, avevo un altro appuntamento galante. Nulla avrebbe potuto rovinarla se non che, uscendo, la donna era ancora lì, nella stessa posizione in cui l’avevo vista la sera prima e stringeva tra le braccia il suo bambino, che sembrava dormire. Lei stava piangendo e gli accarezzava i capelli lunghi e biondi. Contemporaneamente diceva strane parole, incomprensibili per me. La cosa mi colpì molto e, mentre sulle prime provai a passare oltre, poi tornai indietro a osservare meglio quella scena. Non so dire se ero spaventato, seccato o disgustato.

La donna mi guardò e si alzò e, mentre mi mostrava il bambino, disse:

«Ecco il mio bambino, è morto. Lo avete ucciso quelli come te con la vostra indifferenza.»

Volevo scappare via perché mi sembrava che quella fosse una trappola e che la donna avesse l’intento di estorcermi qualcosa, ma le sue parole mi colpirono come una spada che si conficca nello stomaco facendo uscire tutto ciò che vi è contenuto all’interno. In effetti credo che ciò che era stato cancellato all’inizio del mio viaggio terreno, venne fuori da me improvvisamente, creandomi stupore e pentimento per tutto ciò che ero stato fino ad allora.

Le parole che mi stravolsero furono:

«Fratello, ti ricordi di me? Di quando dicesti che mi avresti riconosciuto ovunque e mi avresti aiutato? Io ti ho riconosciuto e pensavo che avresti mantenuto la tua promessa e invece mi hai abbandonato. Non ricordi di come eravamo legati?»

Tutto mi fu chiaro in quel momento ma non ebbi il tempo di chiederle scusa perché il mio viaggio era già terminato e io mi ritrovai, senza capire come, di nuovo a casa, quel meraviglioso posto luminoso da dove ero venuto!

 

 

 

 

*

Il tempo del ritorno

«Non preoccuparti, papà, non vado via per sempre. Studierò e poi tornerò, e ti darò una mano con la terra. La trasformeremo in una grande azienda agricola.» 

Con queste parole di speranza Damiano salutò suo padre, e non erano parole di circostanza, ma sancivano una promessa solenne, una sorta di giuramento. Luigi Enrico aveva guardato suo figlio con tristezza ma aveva taciuto. Gli aveva porto un rotolo di carta, che aveva celato nella sua mano forte e ruvida, dicendogli di farne buon uso. Erano i soldi che aveva appena ricavato dalla vendita dei fichi di quella stagione e costituivano per Damiano un regalo che si assommava agli altri che il padre gli aveva già dato. Che in una grande città, come Bologna, la vita fosse molto più costosa, era risaputo e Luigi non voleva che suo figlio si trovasse in difficoltà. Erano soldi guadagnati con fatica e sudore ma erano ben spesi se investiti nel futuro di suo figlio. 

Si salutarono sotto il vecchio ulivo, all’ombra del quale Luigi Enrico soleva sedere quando voleva rinfrancarsi dopo ore di duro lavoro. 

Damiano partì alla scoperta della vita in città. Fino ad allora non aveva visto niente al di fuori della sua Calabria, a parte Roma durante la gita del quinto anno di Liceo. Aveva imparato il mestiere del contadino seguendo suo padre fin da bambino, quando, al ritorno da scuola, si dedicava a raccogliere le olive, a falciare erba, a fare quello che c’era da fare in quel periodo dell’anno. Studiava di sera, anche quando gli toccava farlo a lume di candela perché non avevano ancora l’energia elettrica. 

Ora partiva e sarebbe tornato con una laurea in Giurisprudenza, perché un contadino illuminato è meglio di uno ignorante: per non essere imbrogliato da coloro che erano più istruiti e furbi e per aiutare gli altri poveri come lui.

Mantenne la promessa fatta a Luigi e in quattro anni divenne dottore in legge con 110 e lode.

Tornò a casa da suo padre, che si sentiva fiero di lui e non lo nascondeva affatto anzi se ne vantava con tutti i conoscenti. Damiano però rimase in Calabria solo qualche mese perché una strada non si lascia incompiuta e c’era già uno studio legale a Bologna che lo attendeva per il tirocinio in vista dell’esame che gli avrebbe consentito di iscriversi all’albo degli avvocati.

Luigi Enrico gli diede la sua benedizione una seconda volta. Il peso degli anni iniziava a farsi sentire sulle spalle un po’ curve e le sue mani, indurite dai calli, facevano ancora più male. Però un padre stringe i denti e va avanti perché un figlio non si può abbandonare prima che si sia definitivamente sistemato. 

L’impegno di Damiano si dimostrò ancora una volta lodevole e quando fu avvocato tornò da suo padre. Tutto però gli sembrò più piccolo, ristretto dal tempo, come succede alla biancheria di lana dopo un lavaggio con acqua calda. La casa era più piccola, persino la terra, e suo padre, ancora più curvo, non era più quel gigante che lo portava sulle spalle da bambino. Anche le strade del paese erano più corte e la piazza vuota. I suoi amici erano altrove: a Roma, a Milano, a Londra e qualcuno in America. E lui cosa ci faceva lì e quale futuro lo attendeva? Suo padre gli diceva:

«Apri uno studio legale e nel tempo libero mi aiuti a tirare avanti l’azienda.»

«Sì, ma i clienti in un paese ormai deserto, dove li trovo? A Bologna nello studio dell’avvocato Bergotti mi aspettano. C’è un posto per me e non so per quanto tempo ancora ci sarà. Voglio andare, papà. Devo costruire altrove il mio futuro, giacché qui non ce n’è! Troverò una casa grande e tu e mamma mi raggiungerete. Vivrai meglio, non dovrai più ammazzarti di fatica.»

«Figlio, io non posso trattenerti. Vai!»

Damiano ritornò a Bologna ma suo padre non volle seguirlo, neppure quando, alla morte di sua moglie, rimase solo.

Damiano per convincerlo, perché non si sentiva tranquillo a pensarlo da solo, e giacché si faticava a trovare manodopera per i lavori di campagna, decise di vendere il terreno. Luigi Enrico si sentiva sconfitto e cercò di persuadere Damiano.

«Questo terreno lo aveva acquistato mio nonno Luigi nel lontano 1895, più di un secolo fa! Qui vi nacque mio padre Damiano Antonio, e poi io e infine tu. Devi sapere che ai miei tempi, dopo il servizio di leva, mi si presentò l’occasione di restare nell’esercito e fare carriera. Ma io non ho abbandonato la mia terra e la mia famiglia. Ho scelto di restare. Questa terra è stata mia e ora è tua. Non può finire in altre mani. Vedi quell’ulivo? Fu il primo albero che vi piantò Luigi, quando ne entrò in possesso. Se ti siedi sotto la sua ombra e presti orecchio, lo sentirai parlare. Esso custodisce tutte le voci della nostra famiglia. Perché i giovani abbandonate così le vostre terre?»

«Papà, cerca di capirmi. Tu sei anziano e non te ne puoi occupare. Bisogna venderla, non abbiamo scelta.»

Luigi si arrese e accettò di vendere, ma non di seguire suo figlio a Bologna.

Lo attendeva un posto nella casa di riposo del suo paese e chiese di poter rimanere in quella, che era stata da sempre la sua casa, fino a quando il nuovo proprietario non sarebbe venuto a demolirla per costruirvi una fabbrica. 

Un giorno venne un postino, che Luigi non conosceva. 

«Siete voi Luigi Enrico Gatto?»

«Sì! Sei nuovo! Da dove vieni?»

«Sono di Corigliano e non conosco ancora tutte le strade del paese, soprattutto le contrade. Perché non vi trasferite in paese, qui intorno non ci vive più nessuno. Una persona anziana non può stare da sola lontano dal centro abitato!»

Poi gli consegnò una raccomandata. 

«Io non ci vedo bene» gli disse Luigi. «Me la leggi?»

«Dice che il 10 settembre verranno le ruspe per buttare giù tutto e per allora devi essere andato via.»

«Va bene» rispose.

Dopo due settimane tornò con un’altra lettera e gli domandò:

«Vuoi che te la leggo?» 

«Grazie, non c’è bisogno.»

Passati degli altri giorni, arrivò una terza lettera e poi, il 6 settembre, l’ultima e tutte finirono stracciate senza essere aperte. 

La mattina del 10 settembre Luigi Enrico si svegliò e attese l’arrivo delle ruspe. Verso le 10,00 sentì il rumore di motori. Pensò che fosse il momento ma lui non  sarebbe uscito da lì, non vivo.

Sentì una voce gridare il suo nome e non rispose. 

«Non c’è più nessuno, possiamo procedere. Voi due abbattete gli alberi vicino all’abitazione, per primo questo ulivo. Voi altri iniziate a piazzare l’esplosivo nel fabbricato.»

Luigi Enrico ascoltava in silenzio, rassegnato a tutto. Eppure gli dispiaceva più per l’ulivo che per se stesso.

Si udirono delle voci concitate ma non distingueva le parole. Pian piano una di esse assunse dei connotati familiari. Era Damiano o forse era solo una sua fantasia?

«Fermatevi, l’assegno non era coperto, era solo un imbroglio. E io ho cambiato idea, non vendo più. Qui nessuno butta giù nulla.»

Gli operai si guardavano increduli.

«Credo che dobbiate vedervela con De Benedetto. Noi ce ne andiamo...» disse uno e così ripresero ciascuno il proprio mezzo e se ne tornarono indietro da dove erano venuti, borbottando e imprecando per il viaggio fatto inutilmente.

Solo dopo che se ne furono andati, Luigi Enrico uscì fuori speranzoso. 

«Perché sei qui?» chiese a suo figlio.

«È tempo di vendemmia!»

Luigi Enrico non capiva e lo guardava a bocca aperta.

«C’è un tempo per ogni cosa, papà. Uno per andare, ma anche uno per tornare e sono tornato per avere il tuo perdono. È tempo di ricominciare. Qui! Nella mia terra. La nostra terra.»

 

 

*

Un altro pianeta

Correva l’anno 4019. Si era nel mese di Maggio e il cielo era completamente sgombro di nuvole. Cam si accingeva a studiare storia. Era stata diramata un’allerta meteo con codice rosso, dovuta a un elevato rischio derivante dall’esposizione, sia pure breve, ai raggi ultravioletti provenienti dal sole e alle temperature che erano davvero improponibili: cinquanta gradi all’ombra già alle otto del mattino! Si consigliava di uscire di casa solo dopo il tramonto del sole e, in caso di necessità, indossando le tute salvavita. Le scuole erano rimaste pertanto chiuse. Gli studenti avrebbero ugualmente seguito le lezioni previste da casa sui canali web dedicati.

L’argomento di storia che il professore Adamo avrebbe affrontato quel giorno era ‘Il secondo Medioevo’, secondo quanto aveva anticipato alla fine dell’ultima lezione.

Cam era davvero molto curioso. Dopo aver fatto colazione con latte sintetico, biscotti di riso e proteine di alghe, sedette alla scrivania dinanzi allo schermo acceso. Il professore era già pronto e stava  incitando gli altri allievi a non perdersi in chiacchiere. Cam sorrise.

«Ma, professore! Dai! Non si può stare chiusi dentro casa a parlare sempre delle cose ormai passate, che non esistono più!»

Il professore Adamo lo guardò da dietro lo schermo, gli occhialini piccoli e rotondi proprio sulla punta del naso, con tono di rimprovero.

«Quante volte devo dirti che noi siamo il frutto del nostro passato. Dobbiamo quindi conoscerlo non già per emularlo, ma per imparare a correggere i nostri comportamenti odierni. Per questo studiamo la storia», replicò dispiaciuto.

«Come sarebbe stato meglio nascere all’epoca quando ancora si poteva uscire all’aperto senza preoccupazioni e godere di una giornata così limpida, facendo una lunga passeggiata e magari rotolandosi in uno di quei prati fioriti di cui molti parlano e che oggi sono tanto rari da trovare. E invece? Bisogna restare incollati davanti a questo schermo! È una follia. Perché non si può? Quando mia madre mi permette di uscire, il sole non c’è mai. Perché certe cose dobbiamo poterle vedere solo nei video che ci sono stati tramandati? Perché non è rimasto tutto com’era allora?» Cam continuava a manifestare il suo disappunto.

«Sicuro che sono veri? E non delle costruzioni come quelli che si possono vedere nella realtà virtuale? Io ho fatto un viaggio in un bosco grazie alla realtà virtuale immersiva. Sentivo addirittura il profumo del bosco, dei funghi, dei fiori. Mio padre dice che non ne sono mai esistiti nella realtà di più belli e il vantaggio è che non ti sporchi e non hai bisogno di indumenti e scarpe adatte!» gli fece eco Sam.

«Certo che sono esistiti. È tutto documentato. Non sono fake. Non date retta a supposizioni infondate. Sono solo una consolazione davvero magra. Ora basta! È andata così ed è inutile lagnarsi. Potrete passeggiare per la città ma dopo il tramonto, ora bisogna studiare, così magari un giorno sarete in grado di trovare una soluzione che vi consentirà di recuperare parte della bellezza antica del vostro pianeta. Ok, ci siete tutti?»

La risposta fu corale dagli utenti connessi: «Siiiii!»

«Inizio questo discorso dicendo che si definisce Secondo Medioevo o Medioevo-bis quel periodo storico che va dal ventesimo al ventunesimo secolo. In quell’epoca l’uomo aveva acquisito nuove tecnologie e la scienza avanzava a passi da gigante in ogni campo del sapere umano. Soprattutto, come voi già sapete, iniziò una crescita smisurata della digitalizzazione della vita su questo pianeta.  Ci fu però un appiattimento culturale. Il virtuale iniziò a sostituire lentamente il reale in ogni campo, finanche nei rapporti umani tra simili e tra uomo e natura. L’uomo si rese conto a un certo punto della pericolosità di alcuni suoi comportamenti, ma non si fermò e non corresse il proprio agire, per egoismo forse e per superficialità sicuramente. Così facendo ha portato la vita sul pianeta terra fino alla condizione attuale, che noi abbiamo ereditato. Questo è ciò che affermano i maggiori storici.»

Gli studenti seguivano con grande interesse la tele-conferenza del docente. Cam era molto affascinato. A un certo punto il professore mostrò le immagini di una cartina geografica in cui era evidenziata la suddivisione in continenti risalente a quell’epoca. Tutti si stavano chiedevano come mai il loro continente a quei tempi apperiva diviso in due continenti distinti, mentre ora ne costituivano uno solo.

«È stato così fino al trentaduesimo secolo, quando avvenne l’unificazione», spiegò il docente agli allievi. «Ma dobbiamo partire da ancora prima, più di un millennio prima. Storicamente quelli del nord, i cosiddetti europei, popolo più ricco e avanzato e con un grado di progresso di gran lunga superiore, rivolgevano lo sguardo a Sud, cioè all’Africa, solo per attingere alle loro risorse, anche umane. Il divario tra le due parti era davvero enorme e nel ventesimo secolo il popolo africano, stanco delle violenze subite nei propri paesi, stanco di morire ancora di fame e malattie, a causa anche della sovrappopolazione, iniziò a intensificare le sue migrazioni verso il nord, nella speranza di trovare condizioni di vita migliori. Il Nord dapprima ne accolse una parte, anche perché venivano sfruttati come manodopera per i lavori più faticosi e umili e perché si accontentavano di basse ricompense. Molti sparivano nel nulla, usati per l’espianto di organi. Ma quando le migrazioni divennero di massa, iniziò il respingimento generale, da quasi tutti i paesi occidentali.»

Continuò a parlare e parlare per quasi un’ora e senza interruzione da parte dei giovanissimi studenti. Ma a un certo punto grande meraviglia suscitarono le foto di persone dell’epoca passata, che passavano sullo schermo. Erano foto vecchie, molto sbiadite. Quelle immagini antiche erano state recuperate da alcuni giornali cartacei conservate in varie biblioteche. Reperti difficili da trovare. Tutto ciò che era stato conservato nei siti web era andato perso intorno al trentacinquesimo secolo a causa di un virus letale che aveva cancellato tutte le banche date digitali. Pur essendo sbiadite, da quelle foto emergeva un diverso colore della pelle tra i soggetti raffigurati.

«Professore, mi scusi, ma perché alcuni hanno la pelle così scura e altri no?»

«Il colore della pelle scura sembra che servisse da difesa dai raggi solari, quindi quelli che vivevano nell’Africa assolata avevano la pelle più scura. Oggi, grazie al rimescolamento totale dei due gruppi, la differenza si è smorzata e inoltre, poiché ormai non ci esponiamo più al sole, la colorazione è diventata più chiara per tutti.»

«Io ho sentito dire che il colore della pelle era anche il fattore usato per fare una discriminazione fra i due popoli. Ho sentito usare la parola razzismo a riguardo. Cosa significa?» chiese Ivan.

«Il razzismo è la convinzione errata che il genere umano possa essere suddivisibile in razze biologicamente distinte, con diverse capacità intellettive, etiche, morali e che perciò sia possibile determinare una gerarchia secondo cui un particolare raggruppamento razziale possa essere definito superiore o inferiore a un altro.»

«Che stupidate sono? Beh, anche in questo siamo certamente migliori dei barbari che ci hanno preceduto», dissero in coro i ragazzi.

«Ora la lezione finisce qui! Continueremo questo argomento più dettagliatamente domani durante la lezione di sociologia.»

*

Una strana notte di Natale

Ogni anno, all’approssimarsi del Natale, la gente viene investita da una sorta di frenesia dei preparativi. Tutte le case si illuminano di luci, addobbi, alberi da cui far pendere gioiose palline di qualsivoglia forma e colore, fiocchi, nastri, e via dicendo. C’è anche chi, invece, preferisce allestire un presepe, grande o piccolo non importa. Poi bisogna ricordarsi di preparare i regali per tutti i parenti e gli amici. Alcuni invece scelgono di partire per qualche posto lontano. Peccato però che tutto sembri risolversi, alla fine, solo in un grande bluff, perché la gioia dell’attesa s’arresta e presto se ne va, lasciando solo nuovo vuoto. Anno dopo anno, tutto si ripete in modo identico.
Anche Alfio detestava trascorrere le vacanze di Natale in città. Uscire di casa e imbattersi per le strade o all’interno d’un centro commerciale in qualche Babbo Natale, lo irritava. Per non parlare dell’effetto che avevano su di lui le illuminazioni festose che sembravano assalire, attraverso i suoi occhi, tutto il suo essere: un assalto feroce e insopportabile. 
Durante una passeggiata in montagna, che aveva fatto in un’estate circa un decennio prima, aveva scovato una vecchia baita isolata. Era raggiungibile solo dopo un tratto a piedi lungo all’incirca tre chilometri. Era immersa nella vegetazione selvaggia del bosco, ma in buono stato. Aveva notato fin da subito che doveva essere abbandonata. Se ne era innamorato e aveva fatto di tutto per risalire al suo proprietario e convincerlo a vendergliela. In realtà non era stato difficile poiché il tizio ormai viveva lontano. Alfio ne aveva fatto il suo rifugio e vi si recava durante le vacanze. Era un insegnante di italiano e latino e, inoltre, aveva la passione di scrivere. Quel posto faceva proprio a caso suo perché gli consentiva di trarre da quel silenzio la sua ispirazione. 
Da dieci anni trascorreva lì tutto il periodo delle vacanze natalizie. Aspettava che finisse l’ultimo giorno di scuola, lasciava l’appartamento in città caricandosi in macchina poche cose necessarie e partiva per immergersi in un sodalizio con la natura. 
La baita era circondata da abeti e faggi. Gli unici rumori che lì si potevano captare erano i versi degli animali, che lentamente Alfio aveva imparato a distinguere. A volte gli capitava di provare il desiderio di scappare per un senso di paura occulta, ma poi svaniva quando rifletteva sul fatto che in realtà nulla di male gli sarebbe potuto capitare. 
In città nessuno sapeva molto di lui in quanto era nuovo del luogo e vi era giunto solo da una quindicina di anni. Non parlava molto di se stesso, neppure con le poche persone con cui aveva stretto rapporti più confidenziali. Nessuno sapeva perciò dove andasse in quei periodi in cui spariva dalla circolazione: estate, Natale, Pasqua e diversi fine settimana.
Quell’anno, il ritiro nel bosco era stato davvero agognato da Alfio a causa di una strana sensazione che l’aveva assalito fin da inizio novembre. Quello che era giunto dopo, era stato un mese di dicembre freddo più del solito e lassù in montagna era già caduta la prima neve. Alfio però non aveva desistito e si era buttato tra le braccia della natura. Ogni anno in estate provvedeva a fare una cospicua catasta di legna con quella raccolta nel bosco e caduta durante l’inverno passato. Inoltre faceva una buona scorta di riserve alimentari, soprattutto scatolame e roba a lunga scadenza e sottovuoto. Tutto il necessario per trascorrere lì una quindicina di giorni. In quella baita nascosta buttava giù fogli su fogli. Le pagine più belle della sua vita le aveva scritte lì e ne aveva tirato fuori un bellissimo romanzo che aveva avuto un discreto successo. Ma Alfio non aveva voluto nulla del ricavato delle vendite, il proprio guadagno lo aveva devoluto interamente alla ricerca sulle malattie rare, senza che nessuno ne sapesse nulla.
Nel camino della baita, il fuoco crepitava allegramente e Alfio se ne stava seduto su una vecchia sedia di paglia ad attizzare i ciocchi ardenti. Era la sera della Vigilia di Natale e lui era giunto lì quella mattina. Il tempo era buono e la neve poca. Solo alle spalle delle baita, salendo a quote più alte, lo strato di neve accumulatosi era già alto. Ad Alfio piaceva guardare tutto quel bianco che sovrastava dall’alto. Una civetta era venuta a pigolare su un albero vicino, ma Alfio non era superstizioso e lo aveva accolto come un segnale di vita. Aveva sentito, lontano, un latrare di cani selvatici o forse lupi. Un lieve vento aveva iniziato a sibilare, scuotendo gli alberi. Aveva udito dei colpi come di qualcosa che urtava contro qualcos’altro. Aveva pensato che si trattasse del ramo dell’abete che aveva visto a una spanna dal tetto. Il vento probabilmente ve lo sospingeva contro: sarebbe dovuto salire e spezzarlo il giorno dopo per evitare tale inconveniente, ma ora era buio e doveva per forza tollerarlo. Aveva fatto fatica ad addormentarsi a causa dei rumori. Si era però svegliato dopo qualche ora a causa dei colpi netti. Avrebbe preferito ignorarli ma non c’era riuscito. Si era reso conto che, a parte quei rumori, fuori il silenzio era totale. Tutto gli era apparso improvvisamente strano: anche se il vento non infuriava più, i colpi continuavano a susseguirsi. Si era reso conto che qualcosa stava sbattendo contro la porta. Aveva preso la torcia e, con fare circospetto, si era avvicinato all’uscio. Lo aveva aperto appena e, dalla fessura, aveva visto un bambino simile a una statua di ghiaccio. Addosso aveva uno strato di neve che lo ricopriva completamente e, anche dietro di lui, tutto era bianco. Aveva spalancato la porta e lo aveva fatto entrare. Aveva atteso qualche istante pensando ci fosse qualcun altro dietro di lui, ma nessuno era apparso. Allora aveva richiuso la porta dietro di sé. Aveva iniziato a rivolgergli mille domande senza ottenere alcuna risposta: il bambino sembrava mummificato. Allora aveva riattizzato il fuoco e ve lo aveva portato vicino, gli aveva scrollato con un asciugamano la neve di dosso, tolto i vestiti bagnati e avvolto in una coperta. Aveva preparato per lui del latte caldo. Lentamente e a fatica il piccolo ne aveva sorseggiato un po’. Alfio non poteva fare a meno di osservarlo. Poteva avere sei anni o qualcuno in più. Non riusciva, in quella semioscurità, a distinguere con chiarezza i tratti del suo volto. Aveva riprovato a fargli alcune domande, ma con lo stesso esito. Il bambino appariva sotto shock. 
Alfio lo aveva fatto sdraiare sul letto buttandogli addosso una coperta e il bambino aveva chiuso lentamente gli occhi e si era addormentato. Alfio rifletteva su quello che avrebbe dovuto fare e, da qualunque punto di vista esaminasse la situazione, giungeva sempre alla stessa conclusione. Forse il bambino si era perso, forse c’era un’altra baita in qualche punto del bosco e magari si trovava lì con i suoi genitori. Forse si era allontanato da solo e aveva perso l’orientamento. Questo pensiero gli aveva messo un’ansia indescrivibile addosso. Immaginava una madre disperata che cercava suo figlio; occorreva trovarla e rassicurarla. Ma cosa poteva fare lui, a quell’ora della notte? Non c’era segnale telefonico, forse a causa della bufera che si era abbattuta sul bosco, e quindi non poteva telefonare a nessuno. Aveva guardato di nuovo fuori:  c’era almeno mezzo metro di neve e continuava a nevicare incessantemente. C’era un’unica cosa da fare: attendere la luce del giorno.
Non aveva preso più sonno per il resto della notte. Si era addormentato solo verso l’alba e quando si era svegliato una luce bianca e abbagliante proveniva da fuori. La nevicata era cessata e il sole splendeva, ma un muro di neve alto poco meno di un metro si opponeva all’uscita dalla baita. Il bambino dormiva ancora nel letto. Alfio si era avvicinato e lo aveva osservato bene. Un grande stupore lo aveva colto all’improvviso vedendo la grande somiglianza con suo figlio Mattia, morto quindici anni prima, a soli cinque anni, a causa di una malattia rara di natura genetica. Era accaduto tutto una mattina di Natale. Senza alcun preavviso il suo cuoricino si era fermato e, con esso, si era spenta in sua moglie la voglia di vivere. Era morta anche lei pochi giorni dopo, schiantandosi con la sua macchina contro un camion. 
La vista del bambino aveva rievocato in Alfio un grande dolore che, pur appartenendo al passato, non era riuscito a seppellire.
Il bambino, sentendo l’uomo muoversi nella stanza, si era svegliato e si era messo a sedere sul letto. A quel punto Alfio non era più riuscito a trattenersi e gli aveva chiesto: «Chi sei? Da dove sei sbucato stanotte e cosa ci facevi da solo nel bosco?»
«Mi chiamo Mattia» aveva risposto. «Sono venuto a salvarti.»
Alfio aveva spalancato gli occhi e il suo cuore aveva preso a palpitare. Pur facendo finta di nulla, lo aveva guardato ora che era sveglio e aveva notato ancor di più quella somiglianza negli occhi verdi e nello sguardo, sebbene sapesse che era davvero improbabile qualsiasi collegamento concreto tra un evento così lontano e l’oggi.
«Chi sono i tuoi genitori? Dobbiamo ritrovarli! Dimmi il numero di telefono della tua mamma in modo che io possa rintracciarla. Sarà sicuramente in pena per te.»
«Mia madre mi attende in cielo.» aveva risposto il bambino.
«Vuoi dire che è morta?»
Il bambino aveva annuito.
«D’accordo. E il tuo papà?»
«È laggiù, in città.»
«Ricordi il suo numero di telefono?» lo aveva incalzato Alfio.
«No, puoi portarmi tu da lui?»
A quel punto Alfio aveva pensato che il bambino si prendesse gioco di lui. Aveva preso il telefono con l’intento di chiamare la polizia o i carabinieri. Si era reso conto che non c’era alcun segnale e la batteria stava per esaurirsi. Lo aveva dimenticato acceso. Mentre rifletteva sul da farsi, aveva preparato la colazione al bambino con latte e biscotti. Si era affacciato dinanzi alla baia e aveva notato che, più in alto, aveva ripreso a nevicare e tra breve la neve sarebbe tornata a cadere anche lì. Se voleva riportare il bambino in città, doveva fare presto.
«Ok», aveva detto rivolgendosi al piccolo, «Avviamoci».
Aveva fatto salire il bambino su una tavola di legno liscio a mo’ di slitta, cui aveva legato una corda per trainarlo e lui aveva inforcato gli sci. Così erano partiti sul sentiero che li avrebbe condotti verso il posto dove aveva lasciato l’auto. Pensava che, forse, lì la neve sarebbe stata più bassa. Era stato davvero difficile trascinare la tavola col bambino sopra, la neve era soffice ancora, e qua e là affossava. Alfio faceva fatica e più volte aveva dovuto fermarsi. Dopo quasi un’ora, aveva intravisto la macchina a un centinaio di metri, l’altezza della neve caduta era diminuita di molto. In quel momento aveva udito un rombo molto forte, misto a un boato. Si era voltato nella direzione da cui proveniva il rumore e aveva visto una grossa valanga che si andava a schiantare proprio sulla zona della baita. Gli alberi erano scomparsi completamente sotto quella enorme massa bianca. Dopo, il silenzio. Si era voltato a guardare la tavola. Il bambino non era più lì. Si era guardato intorno, ma nulla. Allora aveva iniziato a chiamare a gran voce il suo nome. Niente, nessuna risposta. Sulla neve intorno non una sola traccia di passi. Sembrava svanito nel nulla. Era stato allora che aveva ricordato le prime parole dette dal bambino quella mattina. Aveva sentito il proprio corpo investito da un’improvvisa ondata di calore. C’era qualcosa di impalpabile vicino a lui.
Aveva cercato di raggiungere l’auto con una convinzione nuova per rientrare in città. Da allora aveva deciso di tornare alla baita solo in periodi meno disagiati e non più con il desiderio di sfuggire al mondo, ma con quello di sentire di nuovo la vita rinascere dentro di lui, come era accaduto in quella strana notte di Natale.

*

Un faro nel tunnel

 

Accadono cose a volte che stravolgono totalmente le esistenze delle persone coinvolte. Così successe a Elisabetta in quel giorno in cui suo marito e il suo unico figlio morirono fatalmente in un incidente d’auto. Tre furono in realtà le vite stroncate in un unico giorno. Elisabetta si spense completamente nell’anima ma non nel corpo e il suo corpo continuò a vivere distante da essa. La sua esistenza divenne priva di qualsiasi altra gioia o nuovo dolore. Continuò a svolgere il lavoro di prima e nello stesso modo. Non si evidenziavano mancanze da parte sua: sempre precisa ed efficiente. Poiché reputava eccessivo per lei sola lo stipendio percepito, ne spendeva la metà in generi alimentari o indumenti per la Caritas del suo paese. Ma non prendeva parte alla preparazione o distribuzione del cibo ai poveri. Sentiva di non riuscire più ad accettare nessun tipo di contatto umano. Non riusciva a emergere dal tunnel in cui era caduta.

Era la vigilia di Natale e si recò il pomeriggio presto al centro commerciale da dove uscì col carrello pieno di cibo. Faceva fatica a spingerlo. Aveva il portafoglio in mano e, non appena si trovò fuori all’aperto, si sentì pervasa dal freddo gelido. Le temperature erano sotto zero, fatto insolito per il periodo e per un posto di mare. Aveva le mani gelate e perse il portafoglio senza neppure avvedersene. Un bimbo solo osservò la scena e con timidezza, dopo averci pensato per un po’, lo raccolse, la raggiunse quando lei era ormai vicina alla sua macchina e glielo restituì. Elisabetta lo guardò solo un istante, mentre prendeva da quelle mani il portafoglio, farfugliando un grazie quasi impercettibile e guardandolo solo di sfuggita in viso. Poi caricò le borse sull’auto e passò a lasciarle alla sede Caritas. Rientrò a casa propria dove l’attendevano solo i ricordi di un passato ‘presente’ in cui era rimasta imprigionata. Trascorse quella sera come tante altre e infine andò a letto al solito orario. Il suo fu un sonno molto agitato, perché la sua coscienza iniziò a rielaborare l’episodio di quel pomeriggio e tutti quei particolari, passati inosservati sul momento, si accesero e divennero chiari.  Si rivide davanti al centro commerciale e c’era il bambino che le si avvicinava per restituirle il portafoglio. Lo guardò solo allora in viso e vide i suoi grandi occhi neri, enormi in un viso smunto e sofferente. Notò gli indumenti strappati e inadatti a quel clima così freddo. Poi si svegliò e fece colazione sempre con quell’immagine ben fissata in mente. Era la mattina di Natale  e in televisione davano un telefilm sul tema. Una profonda tristezza la pervase. Spense e accese la radio. Trasmettevano il radio giornale e il giornalista stava parlando di un bambino di colore trovato morto davanti al centro commerciale. Le cause sembravano essere la denutrizione e l’assideramento. Dalla descrizione comprese che si trattava del bambino che le aveva restituito il portafoglio.

Uscì di casa in preda alla disperazione, sentendosi colpevole come un’assassina perché non aveva voluto vedere. Si rendeva conto di essere diventata una persona arida e insensibile. Vagò a lungo presa da un’angoscia che le faceva mancare il respiro. A un certo punto si trovò davanti alla porta della Chiesa e per qualche oscuro motivo varcò quella soglia. Il prete stava celebrando la messa di Natale, ma per lei non c’era Natale. Tutti erano là, dentro la Chiesa, in silenzio a pregare. Poi si inginocchiarono quando il prete passò al rito della Comunione. Fece altrettanto, automaticamente. C’era tanta convinzione apparente in quei gesti così consueti per chi in Chiesa ci va sempre. Ma per lei no! Non c’era un senso. Eppure prese anche lei a recitare insieme agli altri: “ Oh Signore, non son degno di partecipare...” A questo punto scese il silenzio e restò solo la sua voce a riecheggiare solitaria nella Chiesa. Tutti si voltarono verso di lei e urlarono: “Taci peccatrice, assassina. Certo che non sei degna.” Anche il parroco scese dall’altare, andò verso di lei e le disse: “Devi uscire da questo luogo sacro, peccatrice!”

Allora iniziò a piangere e a chiedere perdono, ma restarono tutti impassibili e anzi lentamente quei volti iniziarono a diventare sempre più sfocati. Solo il dolore permaneva vivido. Si svegliò di scatto e si trovò nel buio della propria stanza immersa nel sudore. Il ricordo del sogno non era svanito, come non lo era quello del bambino. Erano le tre di notte. Si vestì frettolosamente mossa da un presentimento causato da quel sogno e uscì di casa. Salì in macchina e, senza neppure fermarsi a pensare,  guidò per quelle strade buie finché vide le luci del centro commerciale da lontano e si diresse verso di esse. Fermò la macchina in prossimità dell’ingresso e percorse a piedi la facciata principale da un angolo all’altro, guardandosi intorno. Il freddo intenso le faceva battere i denti, mentre incredula si domandava perché era lì. Ebbe ella stessa il serio dubbio di aver perso totalmente la ragione e ogni contatto con la realtà, a causa della grande solitudine in cui era ricaduta negli ultimi anni. Finito di percorre la facciata principale, girò l’angolo e si inoltrò lì su uno dei lati meno illuminati. Vicino ai bidoni dell’immondizia, riuscì appena a scorgere un fagotto per terra sopra un cartone. Si avvicinò e lentamente quel fagotto prese le sembianze d’un bambino. Quando si avvicinò lo riconobbe, era proprio il bambino del portafoglio. Lo chiamò ma quello non si mosse. Comprese che stava male. Chiamò allora il 118 e, nonostante fosse la notte di Natale, sopraggiunsero dopo solo pochi minuti. 

Quella notte due furono le vite salvate, quella del bambino del portafoglio e quella di Elisabetta che grazie a questo evento riuscì a riemergere dal tunnel in cui si era vista sprofondare.

*

Il testo smarrito

Luigi Rizzo era un signore di cinquant'anni addetto alla biblioteca del liceo classico Alessandro Manzoni a Milano. Vi lavorava fin dal lontano 1990. Svolgeva il suo lavoro con diligenza encomiabile. Eppure un giorno una dimenticanza, una fatale svista perché un telefono aveva squillato nel momento sbagliato ed ecco...

Il preside del Liceo, Matteo De Parolis, onorabile professore di Letteratura italiana, lo aveva richiamato severamente. Come aveva potuto smarrire una delle rare copie originali de I Promessi Sposi, risalente al 1840 che era stata donata al Liceo da un suo prozio dopo la Prima Guerra.

Il povero Luigi ricordava che il prof. Roberti, anch'egli insegnante di Letteratura allo stesso Istituto, aveva preso in prestito il testo per mostrarlo alla sua classe ma poi lo aveva restituito nella stessa giornata. Mentre lo stava rimettendo nella giusta collocazione, aveva squillato il telefono, poi buio totale… Adesso rischiava la denuncia.

Nell’attesa di un chiarimento, continuava a svolgere con regolarità il suo lavoro. Un giorno mentre riponeva un testo sentì tremare lo scaffale. Restò immobile ma quello tremo' ancora più forte tant'è che alcuni libri scivolarono ed uno lo colpì con violenza. Luigi ruzzolo' a terra battendo la testa. La nube di polvere che si alzò gli causò un attacco d'asma improvviso.

In mezzo a tale nube gli apparvero due tali armati di coltello, baffi arcuati e cappelli, che egli identificò con i tal bravi che minacciarono don Abbondio. Uno di essi gli mostrava il testo smarrito mentre l’altro gli puntava il pugnale al collo:

"Un tale errore non s’ha da fare. Ci manda il nostro creatore: Alessandro Manzoni, ha presente? Dobbiamo solo ricordarle che questo testo è sacro e non va mai confuso con romanzetti d’appendice. Non si deve perdere di vista un istante. Esso è il Caposaldo della Letteratura Italiana e va trattato col rispetto che si merita. Lo ricordi sempre altrimenti ci rivedremo”.

L’altro, rimasto in silenzio, ripose il testo nella giusta collocazione e poi svanirono così come erano apparsi.

Poi tutto si oscurò. Luigi si risvegliò sdraiato su una barella d'Ospedale, ma tornò presto al proprio lavoro. Non raccontò mai a nessuno di quell'incontro, anche perché egli stesso non riusciva a comprendere cosa fosse successo realmente. Sembrava tutto così nitido nella sua mente: i brividi, la paura, l’immagine dei due, le loro parole: tutto insomma. Ma come poteva essere realtà? Comunque il testo era tornato al suo posto ed egli teneva sempre d’occhio la sua posizione. Ogni qualvolta qualcuno lo chiedeva in prestito, si faceva sempre consegnare i documenti e alla restituzione lo riponeva gelosamente senza perderlo di vista un solo istante.

*

L’Aquilone

Un giorno una piccola farfalla uscì dal suo bozzolo dove era rimasta per molto tempo imprigionata quando era ancora bruco. Si guardava intorno con grande curiosità poiché con gli occhi di farfalla non lo aveva mai guardato prima. E che sorpresa riuscire a volare. Una sensazione bellissima, poteva muoversi velocemente di posto in posto. Passando vicino a un ruscello guardò giù e vide la propria immagine riflessa: accipicchia, come era diventata bella, non si poteva certo dire che un giorno era stata un bruco viscido e vischioso. Subito dopo la sua attenzione fu catturata da un ranuncolo giallo su cui si posò gaiamente e poi di nuovo spiegò le sue ali e riprese il suo girovagare. Dopo un po' dei fiori bianchi la colpirono con il loro profumo inebriante e si diresse verso di essi.
​Ma ecco in quel rovo di spine giaceva una farfalla enorme, tutta colorata e bellissima: macchie rosse, gialle, blu e arancioni. La piccola farfalla pensò che non aveva mai incontrato nella sua breve vita una farfalla così grande e bella. Ma cosa faceva così distesa, immobile? Sembrava morta. Ma quando le si stava avvicinando spirò un alito di vento e quella si agitò rapidamente. "Oioioio che paura, cosa mi doveva capitare", la piccola farfalla si spaventò e volò via.
​Incontrò lungo il suo cammino una rondine che le domandò: "Dove vai così di fretta, farfallina?".
"Fuggi, fuggi, un mostro, una farfalla gigante stramazzata su un rovo di biancospino, fingeva di essere morta. Mi sono avvicinata per vedere cosa le fosse capitato, ma mentre mi avvicinavo ha iniziato a muoversi in modo minaccioso".
"Sei sicura?", replicò la rondine. "Dov'era? Fammi vedere."
Così la farfallina e la rondine, l'una dietro l'altra, si avviarono caute verso il luogo del terribile incontro.
Ed ecco che mentre volteggiavano per l'aria avvistarono laggiù nel medesimo punto del primo incontro la farfalla gigante. Giaceva ancora a terra, impigliata tra le spine. Le due eroine non sapevano cosa pensare.
"Mai vista una cosa simile. Forse ha bisogno di aiuto e noi dovremmo aiutarla."
Iniziarono la discesa lentamente ed incerte non sapendo cosa le aspettava. Non erano affatto tranquille. Poi presero coraggio e si avvicinarono sempre più.
​Ma come la prima volta un colpo di vento ancora più forte fece agitare quel mostro, che sollevandosi da una parte colpì le due malcapitate, che riuscirono a scamparla schizzando via come due razzi, si fa per dire ovviamente.
Li incontrò una colomba che fu travolta dai due fuggitivi mentre gli urlavano: "Attenta, un mostro. Mettiti in salvo".
​La colomba guardò giù e vide quell'enorme cosa che giaceva sul biancospino, tra il curioso e lo spaventato si avvicinò ad esso e più si avvicinava più si convinceva che non c'era da preoccuparsi.
Quando si avvicinò abbastanza fu attratta da una cosa sottile e filiforme proprio vicino all'enorme farfalla. Le parve un verme e pensò di catturarlo e portarselo nel proprio nido. Lo afferrò col becco e si alzò in aria e riprese il volo. L'enorme farfalla, sospinta anche dal vento, cominciò a volargli dietro. Girandosi la colomba capì che erano strettamente legati il verme e l'enorme farfalla!
"Accipicchierina, ma quale verme e quale mostro? Ho pescato un aquilone".Si il povero aquilone era stato sospinto su quei rovi dal vento e poi era precipitato, impigliandosi alle spine. Era proprio bello e si divertì tanto a dargli un po' di vita, portandolo a spasso per il cielo. Vedendolo passare, la rondine e la farfalla si spaventarono ancora pensando che il grande mostro volesse catturare la colomba. Ma questa spiegò loro tutto ed essi si sentirono un po' sciocchi ad aver avuto paura di una cosa tanto meravigliosa.
Mai farsi ingannare da quello che appare a prima vista. Perciò non abbiate paura, quelli che appaiono mostri il più delle volte non lo sono, ma possono celare cose molto belle.

*

La lampadina spenta

Sono ferma davanti allo specchio, immobile, e non mi riconosco. Non amo guardarmi. Ciò che vedo non mi piace. Vedo diverse rughe che solcano il mio viso. Credo che il tempo mi sia sfuggito di mano, scivolato così in un unico soffio. Non voglio fare bilanci, ma credo che adesso tutto ciò che riguarda i miei figli, abbia priorità assoluta. Questo deve essere il mio primo pensiero quando mi sveglio al mattino e l’ultimo quando chiudo gli occhi alla sera.

Mentre la mia mente vaga così, senza una meta ben precisa, squilla il mio cellulare. È Francesca che mi invita a casa sua per partecipare a una dimostrazione di prodotti cosmetici. L’argomento non mi interessa minimamente. Nella mia vita non ho mai puntato sul mio aspetto, non credo di dover cominciare ora! Certo riuscire ad apparire più bella mi sembra improbabile, ma più gradevole forse sì, potrei anche farci su un piccolo pensiero. Ma quasi subito mi dico no! Preferisco scacciarlo in quanto futile. Decido comunque di prestarmi perché la mia amica me lo chiede quasi come un favore.

Ed eccomi in macchina al mattino successivo. Dopo aver accompagnato alle dieci mio figlio a scuola, mi dirigo verso casa di Francesca, ma prima passo a prendere anche Laura, altra amica comune.

Vengo accolta con grande cordialità e Francesca è davvero una squisita padrona di casa. Ha persino preparato un buffet per deliziare il palato delle sue ospiti. Ma su tutto, prevalgono le essenze profumate dei prodotti che la promoter sta già mostrando alle signore arrivate prima di noi.

Incoraggiata, mi sottopongo anch’io alla pulizia viso con detergente e maschera, dopo aver miseramente ammesso di lavarmi il viso, d’abitudine, con lo stesso prodotto con cui mi lavo le mani e a questa mia affermazione consegue una fragorosa risata. ‘Ho fatto la figura della scema? ’, mi domando tra me e me. Provo poi il prodotto per il contorno occhi e le creme protettive per la sera e per il giorno. E infine (perché no?) i prodotti per le mani. Infine Elena, questo è il nome della promoter, quando ormai sento già la mia pelle emanare un profumo intenso, mi chiede di sottopormi al trucco. No, questo no! Non mi sono mai truccata, potrò cominciare ora? Mio marito penserà male. Non se ne parla proprio! Lei desiste e io mi tranquillizzo.

A conclusione acquisto, quasi come ringraziamento per il trattamento ricevuto, il detergente e prometto di acquistare successivamente anche la maschera. ‘Ipocrita’, penso di me stessa, sapendo che non lo avrei mai fatto. Chiedo il prezzo del detergente e, quando mi viene detto venticinque euro, quasi mi viene un infarto e mi chiedo, tra me e me, se il sapone da due euro che uso di solito non sia assolutamente nocivo, se per averne uno con gli effetti benefici declamati ci vuole una somma dodici volte superiore! Scanso subito quel tragico pensiero e pago la somma richiesta.

Sopraggiunge anche Martina, rappresentante dei genitori della classe dei nostri figli cioè di Francesca, Laura e me. Il discorso cade sulla ormai prossima esibizione nell’annuale concerto natalizio che vede impegnati tutti i bambini della scuola.

«Ci sarà anche la raccolta per la beneficenza alla Caritas, come ogni anno. Ognuno può fare l’offerta che ritiene più opportuno, però, per evitare polemiche, mettiamoci d’accordo prima sulla cifra di modo che non ci siano poi differenze», dice Martina.

«Io penso che tre euro a testa siano sufficienti. Purtroppo personalmente non mi sento di mettere di più: troppe spese in questo periodo», dichiara Laura.

«E così sia. Penso che anche le altre mamme saranno d’accordo. Ne ho già consultata qualcuna e volevano dare anche solo due euro. Poi comunque ci aggiorniamo.»

La promoter intanto consegna i prodotti che ciascuno ha scelto e non posso non notare che le altre signore hanno speso cifre ben superiori alla mia e mi vien voglia di fare una proposta che risulterà certamente inusuale. Mi è balenata così l’idea, come una lampadina che si accende all’improvviso. Mi verrebbe da chiedere se non possiamo fare a meno per un semestre di quei prodotti e dare la cifra che occorre per acquistarli per qualche giusta causa (la Caritas, la ricerca o per i bambini dell’Africa, che muoiono per fame o malattie, che non possono essere curate per mancanza di medicine). In fondo quei prodotti non sono vitali per noi e forse sono anche eccessivi. Vorrei proprio dirlo ma la voce mi resta strozzata in gola e, da buona codarda, taccio. La lampadina allora si spegne. Prendo il mio prodotto e faccio ritorno a casa mia, con un senso di amarezza proprio qui nel mio cuore!

*

L’abbraccio dei due ulivi

“Nando, questo è il nome del protagonista di questa storia, era un ragazzo del paese di venticinque anni, orfano di entrambi i genitori. Era il 1985 quando accadde lo pseudo miracolo. Egli giunse qui la sera del ventuno marzo e si sedette proprio sotto quello dei due ulivi che c’era allora. Intorno c’erano silenzio e pace, il cielo era limpido e qualche stella timidamente entrava già in scena. Il fiume mormorava parole incomprensibili, aggirava i sassi sul letto creando delle micro cascate; il suo scorrere era regolare, proprio come ora. L’acqua si increspava di tanto in tanto a causa di un timido venticello. I ricordi riaffiorarono incontrollabili nella mente di Nando. Solo un anno prima aveva incontrato in questo stesso posto Federica, la protagonista femminile della storia. Prima di quell’incontro, lui l’aveva corteggiata a lungo ma lei era sempre stata timidamente schiva e quasi non riusciva a guardarlo negli occhi. Fuggiva ogni volta che lo vedeva. ‘Perché?’ si chiedeva Nando ma una risposta non c’era. Lui era stato ostinato: ogni ragazza del paese aveva ceduto alla sua corte pressante, perché quella sedicenne no? Era diventata una sfida da vincere per non perdere la propria sicurezza e la fama di giovane più desiderato in paese. A volte lei gli dava l’impressione di osservarlo quando lui non la guardava, ma poi distoglieva rapidamente lo sguardo. Ogni giorno lui l’attendeva all’uscita da scuola e lei gli passava davanti con quell’apparente aria distratta, allora la salutava ma in cambio riceveva solo un fugace cenno. Un giorno, però, passandogli davanti, Federica aveva stranamente rallentato il passo, si era voltata verso di lui, l’aveva guardato negli occhi e l’aveva salutato per prima. Lui aveva chiesto di poterla accompagnare e lei accettò. Fecero un centinaio di metri assieme e prima di salire sull’autobus che l’avrebbe portata a casa, lei gli aveva consegnato un biglietto. Sopra c’era descritto questo posto e c’erano segnate una data e un’ora: ventuno marzo (del 1984 naturalmente) alle ore 19,30. Nando si presentò qui all’ora indicata e lei lo raggiunse quasi subito. Concesse a lui tutta la sua innocenza e gli sussurrò le parole d’amore come mai al mondo furono dette, proprio sotto questo stesso cielo stellato e al chiaro di luna. Poi Nando la riaccompagnò fin sotto casa quella sera e il suo cuore batteva forte per lei, sentiva di amarla come non avrebbe mai più amato nessuna. Il giorno dopo si presentò davanti alla scuola ma lei non uscì da quella porta e non lo fece per tutta una settimana. Un giorno di mattina presto sentì i rintocchi del campanile a lutto. Quando uscì per andare a lavoro nel negozio di famiglia, si accorse di un nuovo manifesto funebre su cui compariva il nome di Federica. Comprese e il dolore fu immenso. Seppe poi che il giorno dopo il loro incontro in riva al fiume, Valeria era entrata in ospedale per un delicato intervento alla testa ed era morta sotto i ferri. Lo seppe da un’amica comune che gli consegnò un biglietto: Valeria glielo aveva affidato la stessa mattina prima di andare in Ospedale. Sentiva che sarebbe morta. Nel biglietto diceva solo: ‘Sei stato la cosa più bella della mia vita. Se non saprai dove trovarmi, ricorda che sarò proprio lì, nel medesimo punto dove sono stata tua, ad attenderti’. Lui non riuscì a tornarvi: il ricordo era troppo doloroso. Dopo un anno esatto dalla prima volta, trovò in maniera inspiegabile il coraggio e alla stessa ora della prima volta vi tornò. Notò subito questo ulivo, non ricordava di averlo visto la sera in cui aveva incontrato Federica e gli sembrò strano. Le foglie dell’ulivo mosse dal vento così come il fluire dell’acqua del fiume sembravano volergli dire qualcosa. Le ascoltava e la nostalgia e il dolore per la scomparsa prematura di Federica si acuivano nel suo petto. All’improvviso i rami dell’ulivo si abbassarono e lo cinsero, quasi abbracciandolo. Lentamente e miracolosamente il suo corpo si tramutò in quello di un albero, precisamente in quello di un secondo ulivo, proprio vicino al primo e a esso avvinghiato. Ecco spiegato perché questi due alberi si intrecciano come se volessero abbracciarsi !”

Giovanni si volse verso Alessandra e osservò il suo volto rigato dalle lacrime per la commozione.

“Ti avevo detto che ti avrei stupito con il racconto! Dai, suvvia, smetti di piangere, è solo una leggenda!”

*

Storia di ordinaria incoerenza

“Se le braccia facessero tutto ciò che la bocca dice, non saremmo appartenenti alla razza umana.”

 

 

«Ecco signora, le consegniamo tutte le carte con le informazioni necessarie alla nuova scuola per accogliere suo figlio», disse Giovanni, segretario della scuola Media.

«Sì, signora, lei deve stare tranquilla. C’è proprio tutto! D’altronde l’insegnante di sostegno accompagnerà suo figlio in ogni passo necessario per un inserimento totalmente indolore. Siamo disponibili per qualsiasi cosa», aggiunge la Preside con gentilezza e cordialità.

«Li consegna lei o ce ne occupiamo noi d’ufficio?» mi domandò Giovanni.

«Non c’è problema, vado io, così porto anche Andrea che sperimenta già l’ingresso nella nuova scuola. Grazie di tutto!»

«Non si preoccupi, è nostro dovere», mi risposero in coro.

Ed eccomi giungere con Andrea nel nuovo plesso che tra alcuni mesi sarà la sua scuola e inizia ora un nuovo percorso di vita: nuove tappe, nuovi ostacoli, altre preoccupazioni. Andrea fa resistenza a entrare ma, grazie alla presenza del fratello che ho portato con noi, alla fine entra. Prima tappa: segreteria. Consegna delle carte. Chiedo delle informazioni e giunge, previo avviso, il Preside, desideroso di fare la nostra conoscenza.

«Signora, noi le richiediamo la massima collaborazione perché possiamo rendere tutto più semplice per lei e per noi. Qualsiasi cosa ce la dobbiamo dire, tra noi occorre che ci sia dialogo. Il dialogo scuola-famiglia è importantissimo.»

Le premesse sono buone. Devo fidarmi!

Mi sono richieste delle informazioni di carattere generale e mi viene anche detto che l’assegnazione dell’insegnante o insegnanti di sostegno avverrà poco prima dell’inizio della scuola, allorché il quadro interno sarebbe stato più chiaro. Nell’udire il plurale attribuito a insegnante, sobbalzo un po’ e ritengo di dover dire ciò che pensi.

«Chiedo scusa Preside, però vorrei far presente che per la patologia di mio figlio e considerato che per lui qui sarà tutto nuovo, dai compagni alla struttura e professori tutti, sarebbe meglio che questo primo anno avesse un’unica figura di riferimento, proprio per facilitarne l’inserimento.»

«D’accordo, ne terremo conto, anche se in un secondo momento io ritengo positivo che le sue figure siano più d’una.»

Andrà bene successivamente, penso tra me e me, ma all’inizio però no. Poi trasformo il pensiero in parole e sembra che lui sia convinto. Mi aggiunge poi:

«Sarà opportuno che già dal primo giorno suo figlio raggiunga la scuola con il pullmino messo a disposizione dalla Protezione Civile. Magari per i primi giorni, per stare tranquilla, lo seguirà a distanza.»

«Mi scusi, ma il pullman che orari fa?»

«No signora, la provincia stanzia dei fondi per ciascun ragazzo, in base al chilometraggio, quindi sarà personalizzato. Se suo figlio viene alle nove ed esce alle dodici, il pullman dovrà necessariamente fare quell’orario.»

Bene, mi sembra quasi una favola! Tutto è chiaro e programmato!

Mancano cinque giorni all’inizio della scuola, quindi mi reco di nuovo a scuola insieme a mio figlio per capire cosa ci aspetta il primo giorno. La prima informazione che a stento riesco ad ottenere (il Preside non c’è) è che gli insegnanti saranno due e dal vicepreside mi sono illustrati tutti i meravigliosi vantaggi che mio figlio ne ricaverà. Che cosa devo fare? È già tutto deciso. Non voglio innescare polemiche che possono guastare i rapporti. A farne le spese sarebbe mio figlio! A quel punto chiedo del servizio di trasporto. Mi viene subito specificato che il servizio probabilmente non partirà dal primo giorno e soprattutto farà un unico viaggio d’andata e un unico viaggio di ritorno. Ecco, un’altra cosa su cui c’è dell’incoerenza. Va bene, mi rassegno. Preferisco la copertura al ritorno! Perché ogni anno è sempre la stessa storia, si dicono cose, soprattutto durante le riunioni dei gruppi di lavoro, che poi non trovano mai riscontro con la realtà?

Dulcis in fundo, uno dei due insegnanti di sostegno mi dice che non è riuscita ad avere dalla segreteria della scuola l’incartamento di mio figlio che le avrebbe consentito di carpire le informazioni passate dalla scuola precedente.

Cosa? Vale a dire quelle carte che io avevo di persona consegnato due mesi prima e che avevo visto con i miei occhi inserire nel fascicolo di mio figlio!

Sì quelle ma il segretario non riusciva a trovarle!

 

*

Le antilopi e l’illusorio senso del possesso

Con la pancia piena non si comprende la fame ( detto popolare)

 

 

In mezzo ad un grande deserto c’era una bellissima oasi ricoperta di vegetazione rigogliosa e con una notevole riserva d’acqua. Non vi mancava il cibo, difatti ce n’era in abbondanza. Gli alberi presenti fruttificavano tutto il periodo dell’anno e i frutti erano succosi, dolci e profumati. Inoltre, nelle ore più calde, quando il sole picchiava forte, sotto le verdi chiome degli alberi presenti si poteva trovare refrigerio. L’oasi apparteneva ad un ricco Sultano, che l’aveva creata ingrandendo una piccola oasi naturale. Egli vi aveva vissuto per molti anni ma poi l’aveva lasciata allorché prese moglie e andò a vivere nel palazzo di una grande città. Sua moglie, difatti, non amava vivere nella solitudine del deserto. L’oasi però continuò a restare intatta, e il Sultano vi tornava ogni volta che aveva bisogno di quella solitudine per rigenerarsi nello spirito. Un branco di antilopi (Addak) vagava nel deserto da moltissimi giorni in cerca di cibo.  Il branco fu avvistato da alcuni felini e alcune perirono, altre si dispersero nel deserto. Un piccolo gruppo avvistò l’oasi e, poiché era disabitata, vi trovò riparo e vi rimase indisturbato. Un giorno giunse il Sultano sul proprio aereo, le antilopi compresero che si trattava del proprietario e intimorite gli chiesero di poter restare nell’oasi. Il Sultano rispose che non aveva nulla in contrario e chiese loro unicamente di rispettare e lasciare intatte tutte le bellezze che vi avevano trovato. I giorni passavano e la famiglia di antilopi era molto felice e si riteneva davvero fortunata. Decisero comunque di costruire una protezione tutt’intorno all’oasi per impedire agli intrusi di introdurvisi. Un giorno una gazzella del deserto, che viveva con la sua compagna e il loro cucciolo in un’oasi rimasta a secco di acqua e distante centinaia e centinaia di chilometri da lì, si avventurò con la sua famiglia nel deserto alla ricerca di nuove risorse. Vagavano in cerca di acqua e cibo da giorni ormai ma non trovavano nulla di nulla, intorno a loro solo sabbia e sole rovente. Il maschio si sentiva in colpa perché aveva rischiato tanto intraprendendo quel viaggio. Erano ormai esausti, sul punto di cedere e abbandonarsi all’inevitabile destino, quando il maschio esclamò: “Mio Dio, un miraggio!”. Gli era parso di avvistare in lontananza delle chiazze verdi. Chiuse gli occhi e li riaprì più e più volte e l’impressione fu sempre la stessa: laggiù c’era una speranza, la possibilità di trovare un po' di refrigerio. Comprendeva che era piuttosto distante e non sapeva che tipo di accoglienza avrebbero ricevuto. Inoltre il caldo era torrido e il buon senso gli diceva di attendere lì fino alla notte quando le temperature sarebbero diventate più favorevoli. Le energie fisiche di cui ancora disponevano, soprattutto il piccolo, erano poche e il rischio di non riuscire a raggiungerla sani e salvi era alto. L’arsura però si faceva sentire forte e la mamma e il piccolo presero a correre nella direzione della salvezza e così il padre li seguì. A metà percorso furono travolti da una bufera di sabbia che trascinò via il piccolo. Nel tentativo di salvarlo, anche la madre venne travolta. Quando la bufera si placò, il maschio faticò molto ma riuscì a tirarli fuori dal cumulo di sabbia che li seppelliva, per fortuna ancora in vita ma solo per miracolo. Finalmente riuscirono a raggiungere l’oasi e iniziarono a emettere dei richiami disperati. Le antilopi che avevano udito portarono loro un poco d’acqua ma non le lasciarono entrare, nonostante le gazzelle implorassero. Mentre quelle bevevano l’acqua e riposavano fuori dalla recinzione, esse si riunirono tra di loro per deliberare e alla fine sentenziarono: “Non possiamo dividere le nostre riserve con i nuovi arrivati. Saremmo troppi e le risorse a disposizione si ridurrebbero di colpo. Inoltre, anche altri animali vaganti potrebbero pretendere lo stesso trattamento. Noi abbiamo occupato per prime l’oasi e abbiamo certamente ogni diritto di ricacciarli nel deserto. Abbiamo già dato loro del cibo e dell’acqua, ora tocca alle gazzelle adoperarsi per trovare una migliore sistemazione per se stesse.”

 Inutili furono le suppliche delle tre gazzelle. Le antilopi erano più numerose. 

Giunse in quel momento il Sultano e inorridì per ciò a cui aveva assistito. Quindi proferì con decisione:

“Quest’oasi non è di nessuno di voi. Sono stato buono con voi antilopi, non vi ho lasciato morire nel deserto e vi ho accolto senza ripensamenti o dubbi nella mia oasi” e così dicendo rivolse l’indice verso se stesso e sottolineò la parola mia. Poi proseguì: “Sono stato molto generoso con voi, non mi sono preoccupato che in mia assenza avreste potuto deprivarmi di cotanta bellezza. Tutto ciò non vi ha insegnato nulla ma vi ha reso ancora più egoiste! Pensate forse che sia già tutto vostro ciò che vi circonda? Non ricordate più che non lo è? Perché non usate la stessa compassione nei riguardi di chi soffre come già è successo a voi stesse? Cosa accadrebbe se io ricacciassi anche voi nel deserto?  O se questa oasi svanisse come un miraggio? Non è forse meglio accettare di dividere con gli altri ciò che c’è  piuttosto che restare senza più nulla?” 

Così dicendo schioccò le dita e l’oasi scomparve nel nulla e così anche il Sultano. Le antilopi si ritrovarono nel mezzo del deserto e non riuscivano a comprendere cosa fosse accaduto ma una cosa la capirono e rimpiansero per sempre il loro egoismo.

*

Fuga da Recanati

Dopo tre ore e mezza di viaggio, eccoci, finalmente, giunte alla nostra meta, Recanati. Parcheggiammo distante da Palazzo Leopardi.  Mi accompagnavano le mie inseparabili amiche, Laura e Maria; frequentavamo insieme la facoltà di Lettere Classiche all'Università di Roma. Io stavo ultimando la mia tesi di laurea su Giacomo Leopardi. 

Scendemmo dalla macchina e mi sentii subito trasportata in un'altra dimensione. L'emozione di visitare i luoghi, laddove era maturato il pensiero poetico e filosofico di Leopardi, intensificava in me i già presenti brividi dovuti alla febbre. 

"Sicura di stare bene, Teresa?" chiese Maria.

"Ho preso una tachipirina. Ora mi passa."

Recanati è un paese sito su un colle, dal quale lo sguardo si perde spaziando nei dintorni. Prima di procedere, ci soffermammo un po' a guardare il panorama affacciati da una ringhiera lungo la strada: era il mese di maggio e ciò che si poteva scorgere da lassù era un vero tripudio di colori. Da una parte si intravedeva il Monte Conero che domina sui dintorni e in lontananza  l'azzurro del mare con la riviera adriatica, dall'altra parte, invece, si potevano ammirare le campagne variopinte perché variamente coltivate: vaste zone di marrone dei campi arati alternati al verde scuro degli alberi ed al verde più brillante delle coltivazioni.  Dopo esserci deliziate dell'amena vista, abbiamo proseguito all'interno delle mura quattrocentesche che delimitano il centro antico. Il pensiero che si faceva  spazio nella mia mente, era: 'Chissà quante volte il grande Leopardi percorse queste strade e cosa provava percorrendole? '  La strada ci portò direttamente davanti a Palazzo Leopardi, la casa natale del poeta. Tuttora il palazzo è abitato dai suoi discendenti, ma è in parte messa a disposizione del pubblico, difatti è possibile visitarne la biblioteca, che custodisce oltre 20.000 volumi, raccolti dal padre del poeta, il conte Monaldo. Ed era proprio da lì che sarebbe iniziato il nostro giro, per poi proseguire verso il Colle dell'Infinito e quindi la Torre del Passero Solitario.

La Biblioteca mi apparve subito molto suggestiva anche se aveva un aspetto davvero austero e freddo. Migliaia di testi posti su tutte le pareti, irrefrenabile era il desiderio di prenderne uno a caso e sfogliarlo. Vicino ad una finestra c'era lo scrittoio di Giacomo, dove aveva speso il suo miglior tempo tra le sudate carte. Sopra vi stava ancora il suo calamaio. Mi chiedevo: 'come si può immaginare un fanciullo rinchiuso oggi in questa biblioteca, invece di giocare spensierato, come fanno i ragazzini del nostro tempo? Sembra contro natura. Ma d'altronde, se non fosse stato così, oggi non potremmo godere della bellezza racchiusa nella sua produzione letteraria'. Mi pareva di vederlo lì seduto che ogni tanto si alzava e si avvicinava alla finestra per porgere l'orecchio ad ascoltare la soave voce della giovanissima 'Silvia'. 

Dopo aver sostato per un po' all'interno della Biblioteca, ci dirigemmo all'esterno verso la cima del monte Tabor, ossia il colle dell'Infinito. Proseguii da sola poiché Laura e Maria dovettero tornare verso la macchina per recuperare le pillole per l'asma di Maria.

Giunsi all'interno del parco posto sulla cima del monte, dove trovai le indicazioni per il Centro Mondiale della Poesia e della Cultura, sede di manifestazioni culturali varie. Io mi diressi verso la muraglia con su scritto: Colle dell'Infinito. Il panorama era bellissimo, si riusciva ad avere una percezione dello spazio circostante straordinaria. Osservando il paesaggio da là, Leopardi diede vita all'Infinito, massima espressione, secondo molti, della sua poetica. Ciò che sentii in quel momento fu un'emozione grande e mi sentii come sotto ipnosi e trasportata in un passato di cui giammai fui testimone. Mi sedetti per un po' sul prato verde e dopo aver osservato il cielo di maggio limpido, totalmente sgombro da ogni nuvola, chiusi gli occhi per pochi minuti ricordando l'Infinito. Poi mi rialzai e a pochi passi da me scorsi, seduto con fogli e calamaio, uno strano giovane. Non pareva affatto del mio tempo, aveva lo sguardo perso nel vuoto ed un'aria alquanto malaticcia, il viso molto pallido. I suoi vestiti mi parvero ottocenteschi. Avendo deciso di proseguire, non appena mi avessero raggiunto le mie amiche, verso la torre del Passero solitario, pensai, con qualche incertezza, di chiedergli informazioni. Avvicinandomi mi resi conto che doveva essere poco più di un ragazzo, aveva l'aria di essere totalmente immerso nella lettura dei fogli che teneva in mano. 

"Mi scusi, posso disturbarla un attimo?" chiesi.

Alzò lo sguardo dai suoi figli e si soffermò con tenerezza sui miei. Intravidi in quegli occhi tanta tristezza, ma dopo qualche secondo si accesero meravigliati: "Teresa, siete voi?" domandò. Pensai tra me: 'ma come fa a sapere il mio nome? Dove ci saremo conosciuti? Possibile che io non ricordi'. 

"Si, sono io", risposi con grande incertezza.

Allora si alzò quasi di scatto, così di scatto che gli caddero i fogli e il calamaio per terra. La sua postura era completamente incurvata in avanti. D'istinto mi abbassai a raccogliere i fogli e, dando una sbirciatina fugace, lessi: "Sempre caro mi fu quest'ermo colle/.....", poi li consegnai all'uomo che mi stava di fronte. Ero alquanto incredula, restai ammutolita, letteralmente senza parole: non poteva essere reale. Riprendendosi i fogli, l'uomo mi disse: "Mi avevano detto che eravate morta un anno fa. Pensavo che la vita fosse stata così crudele a troncare la vostra giovane vita nel pieno dei sogni e delle più belle speranze. Mi hanno ingannato! Ma allora anche per me ci possono essere speranze ancora".

D'istinto, con gli occhi bagnati di lacrime, per la forte emozione che mi assaliva in quell'istante, risposi:

"Certo che c'è speranza. C'è sempre speranza". Pronunciai quelle parole con una convinzione tale, che lo sconosciuto che mi stava di fronte ne risultò nell'aspetto totalmente rinfrancato. Fu un istante e poi nella mia mente si riaffacciò la domanda: "Ma voi chi siete? Come mi conoscete?".

Egli mi guardò stupito e rispose: "Sono Giacomo, il figlio del conte Leopardi, per cui lavora vostro padre". Seguirono attimi di silenzio, in cui io non sapevo come rispondere. Quel tale era Giacomo Leopardi che mi scambiava per Teresa Fattorini?

Fu lui a rompere il silenzio ancora una volta: "Ma se non eravate morta, dove siete stata tutto questo tempo?".

"A Roma".

"A Roma! Sapevate che dopo la vostra presunta morte ho tentato di fuggire anch'io da Recanati, progettavo di andare a Milano, ma non avevo il passaporto, quindi mio padre ne è venuto a conoscenza e mi ha fermato. Da allora mi fa sorvegliare sempre anche da vostro padre. Non vuole concedermi di andare via, di conoscere il resto del mondo".

"Ma perché desiderate tanto fuggire da Recanati, qui è così bello".

"Non è Recanati, bensì la gente. Qui ho speso i miei migliori anni nello studio profondo ma la gente non mi capisce, quasi con disprezzo dicono di me saccentuzzo, filosofo, eremita. Unico divertimento a Recanati è  lo studio: l'unico divertimento è quello che mi ammazza. Al di fuori di Recanati c'è la vita ed io devo tentare ancora, prima che per me sia tardi, perché magari sarò già morto".

Allungò la sua mano e raccolse la mia, poi mi guardò, quasi implorandomi: "Se voi siete riuscita ad andare via, aiutatemi, indicatemi una via. Di voi sento di potermi fidare, di altri no".

"Va bene, vi aiuterò. Ci sono le mie amiche che mi attendono lungo la strada che esce da Recanati. Seguitemi, possiamo portarvi con noi fino a Roma".

"Allora raggiungiamo le vostre amiche prima che qualcuno ci possa vedere".

Camminavamo l'uno a fianco dell'altro sulla strada che scendeva dal colle. C'era silenzio, non sapevo cosa dire, ero stata così impulsiva: ma come avrei potuto negare il mio aiuto proprio a lui? All'improvviso, passando davanti a Palazzo Leopardi, udimmo un forte rumore simile ad un ringhiare di cani. Ci volgemmo nella direzione di provenienza dello stesso e scorgemmo un signore, anch'esso in abiti ottocenteschi, con due cani enormi, che veniva verso di noi, urlando: "Conte Giacomo, dove andate? fermatevi! Vostro padre vi cerca."

Indugiammo un attimo a guardarci negli occhi, ma all'improvviso i cani si lanciarono abbaiando verso di me. Iniziai a correre all'impazzata, non vedevo più nulla. Poi all'improvviso inciampai e caddi. Quindi persi i sensi. 

"Teresa!" rinvenni e vidi  Laura e Maria chine su di me. Intorno c'era molta gente accorsa da ogni parte.

"Ricorda cosa è successo? Come si sente?" mi chiedeva qualcuno che mi stava visitando, certamente un medico. Mi ripresi subito e non seppi spiegare nulla di ciò che era accaduto, sebbene il ricordo fosse ben nitido in me. Una volta tranquillizzate sul mio stato di salute, riprendemmo la strada per Roma. Più tardi, cercando i miei occhiali, nella tasca della mia borsa rinvenni una penna d'oca identica a quella con cui avevo visto scrivere il giovane incontrato sul Colle. Ma allora era stato tutto reale?

 

 

 

 

 

*

Impulsività

Quando Marta rientrò, Giorgia era seduta sul letto, le mani sulle ginocchia e lo sguardo rivolto verso la finestra della stanza. Sul comodino c'era una provetta.

«Giorgia! Ma allora ci sei? Cosa c'è? Hai una strana espressione! E quello sul comodino cos'è?»

Giorgia rispose senza girare lo sguardo:

«Cos'è? Vuoi saperlo? Va bene, te lo dirò: è un test di gravidanza. Non ne hai mai visto uno, forse? Neanche io fino a oggi. Ho letto diverse volte le istruzioni prima di usarlo.»

Interruppe il proprio discorso con una strana risata che sembrava forzata e nervosa. Poi riprese con apparente calma:

«Non ne avevo mai avuto bisogno fino a quarantadue anni e poi, proprio alla vigilia del mio viaggio in America, la più grande occasione della mia vita, l'ultima, forse, mi sono accorta di avere un ritardo notevole ed eccomi qui!»

Rise di nuovo. Marta la guardava incredula ed ebbe solo il coraggio di domandarle:

«Qual è l'esito?»

«Non l'ho ancora guardato.  Ci credi? Io non ho il coraggio!»

Le parole dell’ultima frase furono scandite lentamente.

«Voglio prima capire cosa farò se dovesse essere positivo! Devo pensarci prima, con la lucidità di chi non conosce ancora l'esito. Devo pensarci ora e da sola. Non ho parlato ancora dei miei dubbi con Sandro. Ho bisogno di mantenere la mia freddezza per decidere cosa è meglio.»

Seguì un breve silenzio che durò un minuto, ma sembrò a Marta e alla stessa Alessandra un’eternità.

Poi riprese con un tono di voce basso, quasi impercettibile:

«Tu mi vedi con un piccolo essere, minuscolo, tra le mie braccia, proprio così», simulò con le braccia l’atto di cullare, «seduta magari su una sedia a dondolo a canticchiare una ninna nanna come quelle che mi aveva insegnato mia madre? Eh, mi ci vedi?»

Una domanda che non era diretta a nessuno se non a se stessa, difatti non attese risposta. Sul suo viso scesero poche lacrime, lo sguardo melanconico e ancora perso nel vuoto. Si alzò all’improvviso e di scatto andò verso la finestra.

«Forse Sandro vorrebbe questo. Proprio questo!»

La sua voce divenne di nuovo decisa e appena più forte.

 «Così non partirò: questo è quanto lui crede!» Poi, alzando ancor di più la voce e con tono quasi adirato, asciugandosi le lacrime, aggiunse:

«Non era d’accordo che io partissi fin dall’inizio. È geloso?»

Dicendo ciò si volse verso l’amica, quasi come se l’accusa fosse diretta a lei. Tornò a sedersi e alzando ancor più la propria voce:

«No, non è così che andrà! Io posso», seguì poi un silenzio ancor più interminabile del primo e, dopo aver riabbassato la voce, come se non volesse essere ascoltata da alcuno:

«Posso abortire. Sono sicuramente poche le settimane di gravidanza.»

Marta restava in silenzio e immobile, sempre nella stessa posizione di prima. Ora con voce riflessiva, Giorgia riprendeva:

«Però anche l’occasione di essere madre non mi si ripresenterà più.»

Finì quella frase molto lentamente e voce bassa. Seguirono altri secondi di silenzio, mentre Giorgia si asciugava le nuove lacrime che le avevano bagnato il volto. Riprese con voce più alta e decisa:

«Non può essere. Non posso cambiare i miei programmi di vita. Questo viaggio in America è troppo importante per me, mi darà molto prestigio in campo lavorativo. Finalmente! Ho sudato tanto! Non rinuncerò per questo incidente. Se il test è positivo, abortirò e non dirò nulla a Sandro.»

Si volse di scatto verso Marta e si avvicinò, quasi urlando:

«Tu tacerai! Tacerai per me, capito? Non dovrà mai uscire nulla dalla tua bocca. Guai, altrimenti.»

La guardava, attendendo una risposta che non arrivava. Allora, in tono quasi minaccioso, ripeté:

« Tacerai per me, vero?»

L’amica frastornata fece con la testa un unico gesto di annuire.

«Va bene. Ora guarda tu la provetta e poi mi dirai.»

Marta fece per avvicinarsi al comodino ma Giorgia urlò:

«No, aspetta, non sono pronta.» Ci fu un po’ di silenzio, quindi: «Va bene, ora puoi.»

Marta prese la provetta, la guardò, poi guardò Giorgia con aria preoccupata:

«Sei incinta.»

Giorgia sedette e restò in silenzio per due lunghi minuti, mentre Marta non osava aggiungere altro né muoversi. Alla fine Giorgia prese il telefono e compose un numero:

«Sandro, corri a casa devo darti una notizia importante che cambierà tutta la nostra vita. Vuoi saperlo per telefono? Va bene: tu ed io saremo genitori!»

Marta la guardava esterrefatta, mentre Giorgia posava il telefono:

«Pensa, ha lanciato un urlo di gioia. Non potevo aspettare fino a stasera per dirglielo. È una notizia troppo importante! Avremo un bambino. Ci credi? Io sarò mamma!»

 

 

 

*

Società Odierna. Storia di ordinaria apparenza.

"Cara, sei già ai fornelli? Così presto!" dice Fernando a sua moglie Clara, entrando in cucina, e le dà un bacio sulla guancia come fa al risveglio ogni mattina. Ma quella è una mattina speciale, è il loro anniversario di matrimonio: il 48_esimo.

"Ma, caro, lo sai che abbiamo ospiti: vengono Antonio con tutta la famiglia. Hai dimenticato che giorno è?"
"Non l'ho dimenticato, infatti ho una sorpresa per te, anzi per noi."Tirò fuori dalla tasca un biglietto per andare ad assistere alla rappresentazione della Norma quella sera al teatro comunale.
"Hai sempre detto che ti dispiaceva di non essere mai andata a teatro e stasera ti porterò."
Clara ne fu davvero felice, la loro era stata una vita fatta dell'essenziale, il massimo divertimento erano state le feste in piazza per il Santo Patrono, qualche giornata al mare a pochi chilometri da casa e gli spettacoli trasmessi in televisione, ovviamente. Ma, ogni volta che facevano il bilancio della loro vita insieme, si reputavano felici.
Antonio era il loro figlio unico, quindi era sempre stato accontentato quasi in ogni richiesta, prima e dopo il matrimonio, soprattutto per intercessione di Clara che era la Bontà fatta persona, non adeguatamente ricambiata dalla moglie di Antonio. Gertrude, questo il suo nome vero, ma Apparenza era quello che le calzava meglio, invece non ricambiava tanto affetto. Faceva comodo anche a lei frequentare i genitori di suo marito, ma si manteneva fredda e distaccata. Era insegnante di matematica al Liceo Scientifico della loro città: una donna distinta, sempre in ordine, mai un capello fuori posto, ben truccata e ben vestita, abiti firmati, una vita di società impegnata. Ovviamente un tipo di vita così richiedeva un certo impegno economico. Antonio invece era un ingegnere impegnato nell'ufficio tecnico del comune, ecco perché Gertrude ci teneva tanto a mantenere una certa immagine. Avevano due figli: un maschio ed una femmina di quattordici e tredici anni, cui non facevano mancare nulla perché non dovevano avere nulla da invidiare ai coetanei che frequentavano.
A mezzogiorno Clara aveva già finito di preparare tutto per il pranzo. Antonio e famiglia giunsero poco dopo. Gertrude, vestita a puntino per l'occasione, con tanto di profumo, che si diffuse in casa ancor prima che potesse entrare lei, fece mille complimenti alla suocera per la bellissima tavola imbandita e poi per il delizioso pranzo. Durante il pranzo non mancarono le occasioni per pavoneggiarsi della loro vita, dell'influenza che Antonio aveva in paese, di quanti amici tra quelli che contavano in città li cercavano e delle loro importanti cene.
Dopo pranzo Antonio chiese al padre di potergli parlare in privato.
"Dimmi, Antonio, c'è qualcosa che ti preoccupa?"
"Sai papà, oggi la vita è molto difficile. Non è come ai tuoi tempi. Non è semplice arrivare a fine mese. Troppe spese. Siamo in arretrato di quattro mesi con l'affitto. Potresti farci un prestito, diciamo, di quattromila €. Giuro che te li restituiremo non appena sarà possibile."
Ferdinando sgrano' gli occhi e disse: "Ma come fate ad avere difficoltà ad arrivare alla fine del mese, due professionisti come te e tua moglie. Se è vero, dovreste cercare di moderare il vostro regime di vita. Avete comprato l'Audi sei mesi fa quando avevate già una BMW e un'Alfa. Avete fatto una vacanza di due settimane in giro per l'Europa solo un mese fa. Non vi sembra di condurre una vita oltre le vostre possibilità? Di questo passo dove andrete?"
"Hai ragione papà, ma oggi non si può fare diversamente, se si vuol stare al passo con gli altri. Per le posizioni che occupiamo in società, non possiamo venire meno a certi standard di vita. Gertrude ci tiene tanto, sai come sono le donne."
"Va bene, ne riparliamo domani. Ripassa da solo."
Antonio e famiglia andarono via verso le 17,00. Clara si era subito accorta che, dopo aver parlato con il figlio, Ferdinando aveva cambiato completamente umore: era diventato pensieroso e si era alienato per tutto il resto del tempo in cui Antonio e famiglia erano rimasti.
"Caro, cosa ti preoccupa. Di cosa avete parlato con Antonio? È da allora che ti sei oscurato" chiese Clara.
"Antonio mi ha chiesto un prestito di quattromila €. Sono in arretrato di quattro mensilità di affitto. Ti rendi conto? Una casa, con due stipendi come loro, avrebbero dovuto acquistarla. Dice che fanno difficoltà ad arrivare alla fine del mese."
"Ma come fanno? Comunque, se ci chiedono aiuto, forse glielo dovremmo dare. Siamo i genitori."
"Non è questo il punto. Ti rendi conto che le persone che non arrivano a fine mese non tengono tre macchine di quella portata? È vergognoso. Ti ricordi quando ci siamo sposati noi? Non avevamo una lira e nessuno ci ha dato nulla. Abbiamo acquistato una casa, abbiamo laureato un figlio. Ma tu, quante volte andavi al mese dall'estetista? E dalla parrucchiera, anzi coiffeur, che fa chic? E al ristorante? E quante vacanze hai fatto? Io non dico che non si debbano fare queste cose, ma, se poi non si riesce a pagare l'affitto, sarà il caso di rinunciare a qualcosa? Ma è possibile che oggi si pensi solo all'apparenza? Che eredità lasceranno ai loro figli, e parlo soprattutto di eredità morale? Quali valori si trasmettono alle nuove generazioni?" Era davvero arrabbiato Ferdinando.
Clara gli prese la mano e disse: "Le cose sono cambiate, è tutto diverso oggi. Loro sentono di dover fare come fanno gli altri per non trovarsi indietro".
" Cioè tu mi stai dicendo che noi facevamo le lotte per mangiare, per cose vitali e oggi la gente invece deve far le lotte per adeguarsi agli altri? Per essere accettati dagli altri? Ma di cosa stiamo parlando? Io non voglio prestarmi a questo. Non gli darò quella cifra. Forse prima o poi capiranno."
"Ma non servirà a nulla se non ad allontanarli da noi. Sai com'è Gertrude, sembra carina, gentile, ma serba rancore se non si sente onorata, se non si sente rispettata. Penserà che siamo cattivi e che vogliamo andarle contro" replicò Clara.
"Cioè devo far finta di niente ed essere accondiscendente? Ma se noi un giorno dovessimo avere bisogno, lei ci aiuterà? Non credo."
"Si, ma cosa importa. Noi dobbiamo farlo per nostro figlio e i nipoti. Vedrai, saremo ricompensati dal Signore, un giorno."
Alla fine la Bontà di Clara vinse un'altra volta su Ferdinando, che era una persona di sani principi e con una morale individuale davvero enorme e non era mai sceso a bassi compromessi conformisti nella sua vita. Grazie alla Bontà di Clara, vinse anche l'Apparenza, quella che caratterizza l'odierna società. Ma Ferdinando non mancò di precisare al proprio figlio che da allora egli non li avrebbe più aiutati ed avrebbero dovuto perciò trovare un modo alternativo per poter continuare a mantenere quel tenore di vita.

*

Dialogo tra Elio e Geo


"Elio? Cosa fai? Non starai ancora dormendo beato?" gridò Geo a gran voce per catturare la sua attenzione.
"No, cara amica di innumerevoli viaggi. Continuo la mia passeggiata perenne, vestito della mia luminosa bellezza. Viaggerò tranquillo ancora per milioni e milioni di anni, almeno finché avrò ancora l'energia sufficiente per riscaldarvi tutti."
"E poi cosa farai?" rispose Geo, un po' preoccupata.
"Ah, finirò nell'oblio, diventerò invisibile nell'universo buio, come tante altre. Lo so, non manca neanche tanto, ma così sarà." Fece una pausa e poi riprese: "ma dimmi, cosa succede lì da te. È passata quella brutta tosse?"
"Ancora no, ma non mi preoccupo: sono mali stagionali. Passerà, certo che passerà."
"Cosa dicono i tuoi innumerevoli ospiti?" chiese curioso Elio.
"Ma sai la maggior parte continua il suo normale ciclo, senza lamentarsi troppo. Ma qui è una continua lotta per la sopravvivenza. Poi c'è una specie che è così patetica, tira fuori le sue teorie, cerca di sistemare le cose secondo il suo momentaneo bisogno. Credono che tutto l'Universo sia stato creato per rendere felici loro. E sapessi come si combattono l'un l'altro! Ognuno di essi pensa di avere più diritti e non è facile che riescano a comprendere che non è così."
"Parli di quella specie che s'é chiamata umana? Ti daranno molto fastidio, immagino. Menomale che io non ho ospiti, soprattutto così molesti."
"Ma no, tranquillo, amico mio" rispose Geo con aria pacata e serena. Poi proseguì, non dopo un piccolo colpo di tosse: "purtroppo è vero, respiro male, mi sono presa delle scottature qua e là, ma vedrai che se continuano così tra un po' resterò senza ospiti. Il maggior danno lo fanno a loro stessi, io in qualche modo sopravviverò. Riesco sempre a riassestarmi. Ti ricordi quanto tempo mi ci è voluto per raggiungere questo stato? Ti ricordi quei brutti raffreddori che mi prendevo a periodi? Ma sono sopravvissuta. Magari non potrò più avere ospiti, ma anche gli altri miei fratelli non ne hanno già. Che cambia? Io non solo sola. Ho tanti amici."
"Ben detto, amica mia. Certo che da quanto mi racconti tu, in quanto io da qui non ne avverto proprio la presenza, ne hanno fatto di cambiamenti i tuoi molesti ospiti".
"Già, proprio così. Sembra ieri che erano indistinguibili dagli altri. Erano taciti e poco pericolosi. Poi hanno cominciato a ragionare, dicono loro. Subito dopo hanno pensato che io, e quindi loro, fossi il centro di tutto. Non volevano accettarlo proprio che c'eri tu invece al centro. Pian piano poi hanno capito che nemmeno tu sei immobile. Proprio in questi giorni, poi, hanno fatto una gran scoperta e ne vanno tutti fieri."
"Raccontami cara, non sto nella pelle."
" Hanno scoperto che non molto lontano esiste un altro quasi uguale a te e sette altre entità simili a me ed ora stanno fantasticando".
"Cosa fantasticano? Non penseranno di andarci! Non penseranno che Dio li ha creati per loro, così da poterne usufruire quando da te non potranno più vivere?"
"Mah, sai da loro so che ti puoi aspettare di tutto. Io sto a guardare."
"Va bene, cara amica. Ci aggiorniamo più tardi. Vado a controllare che la combustione proceda secondo quanto stabilito."
"Ciao Elio e grazie per essere sempre presente, per la tua amicizia, il tuo calore e le belle chiacchiere. Io ti seguirò sempre."

 

 

 

*

Ordinaria Ipocrisia

"Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti." Luigi Pirandello

Saliva lentamente le scale Marcella, forse, per rinviare il più possibile quel confronto. Era da quella mattina, quando le era stata consegnata quella busta gialla, che attendeva quel momento ed ora più si avvicinava, più cercava di prendere tempo, per paura di affrontarlo. Si fermò davanti alla porta, infilò la chiave nella serratura ed entrò lentamente. Il cuore le batteva all'impazzata; da allora la loro vita non sarebbe stata più la stessa. Teneva in mano la busta con le foto che le aveva portato la sua amica Teresa. Scorse la figura di Gianni nell'ombra; era nel salone, seduto in poltrona con un bicchiere ed una bottiglia di whisky in mano. In quel momento squillò il cellulare e Gianni rispose: "Laura, si sono a casa" ci fu una pausa, "ormai è inevitabile, è già sul quotidiano locale." Ancora una pausa: "no, non ci sono né Marcella né Michele." Seguì un'altra pausa: "non so. Ormai la bomba è scoppiata. Non preoccuparti, non vi coinvolgerò. Forse dovrei dimettermi. Va bene. Ciao, ci sentiamo dopo". Si risedette, aveva l'aria distrutta. Si prese il viso tra le mani che poi si passò tra i capelli. Lo guardava Marcella in silenzio, da distante, e vedeva un uomo quasi fragile in quel momento: piccolo e fragile. Provava quasi un intimo sentimento di pietà, avrebbe anche potuto perdonarlo, pensò. Ma ricacciò subito quel pensiero lontano.
Gianni era diventato sindaco un anno prima, battendo il sindaco uscente, Andrea Giglio, di una coalizione avversaria. Era stata una vera battaglia. Aveva giocato sporco, però, Gianni. Con l'aiuto di Laura e suo fratello, allora braccio destro di Giglio, era riuscito a costruire una storia, con tanto di prove fasulle, di imbrogli e corruzione a carico dell'avversario. Gianni riuscì così ad impersonare il ruolo della persona onesta che aveva denunciato le irregolarità. Grazie a ciò, l'esito elettorale fu un plebiscito. In paese era diventato un eroe ed il suo unico figlio, che frequentava il quarto anno delle scuole superiori, si fregiava del titolo di figlio di eroe. Ma Giglio che innocente lo era, portò avanti la sua difesa, collaborando pienamente con i magistrati ed in segreto. Cosicché il castello di sabbia crollò. Quel primo pomeriggio gli era stato recapitato dal maresciallo dei carabinieri l'ordine di presentarsi il giorno dopo davanti al giudice, non gli era stato detto null'altro ma immaginava. Erano giorni che si era accorto di strani movimenti al comune. La cosa che lo preoccupava di più era quella di essere lasciato solo dai suoi complici ad accollarsi ogni responsabilità. Aveva interpretato bene, fino ad allora, il personaggio del sindaco buono, sensibile alle problematiche sociali dei suoi concittadini ed onesto. Ne sarebbe uscito distrutto nella sua immagine.
Marcella entrò nella stanza, Gianni alzò la testa e si guardarono negli occhi. Marcella teneva in mano la busta gialla ed esclamò, sollevandola: "Come hai potuto ingannarmi, per tutto questo tempo! Io credevo in te! Dimmi, perché?"
"Mi dispiace, mi sono lasciato prendere la mano. Sono stato solo usato."
"Usato? Chi vorresti ingannare?" replicò Marcella con gli occhi umidi e lo sguardo smarrito.
Udirono la porta di casa aprirsi. Era Michele, il loro unico figlio, che rincasava dopo la giornata a scuola. Aveva il tablet in mano. Entrò nel salone, aveva l'aria di essere sconvolto. Si diresse verso il padre, gli porse il tablet ed esclamò: "Dimmi che non è vero o non uscirò più di casa".
Restò in silenzio Gianni, guardando il tablet, poi lo ridiede al figlio e disse: "È un'esagerazione, si sistemerà tutto".
Marcella guardò sul tablet e lesse: 'Scoperte irregolarità durante l'elezione del sindaco a danno di Andrea Giglio, dell'opposizione. Sembra che sia stato l'attuale sindaco ad ordire la truffa.'
Michele si riprese il tablet ed uscì di corsa. Marcella guardò il marito disgustata, non riusciva a credere a quello che aveva letto. Rimase in silenzio senza riuscire a proferire parola. Gianni la guardò e disse: " Credevo che fossimo una famiglia e in famiglia ci si appoggia sempre. Perché mi guardi con tanto disgusto? Mi hai già condannato? Proprio tu? Non dovresti aspettare una mia spiegazione prima di giudicare?"
Marcella lo guardò scuotendo la testa. Poi disse: "Come si può portare una maschera con tanta disinvoltura e per tanto tempo?"
Piangeva, avrebbe voluto urlare, ma l'urlo restava soffocato in gola. "Il sindaco onesto, il padre amorevole, il marito fedele non sono mai esistiti. Hai mai pensato a Michele? Tu avresti dovuto essere il suo esempio e invece? Cosa apprenderà da te? Che la vita è tutta un imbroglio? "
Gli porse la busta gialla, Gianni l'aprì. C'erano delle foto che lo ritraevano mentre si baciava in macchina con Laura e altre scattate in una stanza d'albergo a letto con lei.
"Chi te le ha date? Sono dei fotomontaggi!" disse, senza avere il coraggio di guardarla negli occhi.
"Non offendermi. Come avresti potuto comportarti in modo onesto con i tuoi elettori, con tutta quella gente che ha avuto fiducia in te, se non sei riuscito ad essere onesto con noi che siamo la tua famiglia. E Dio solo sa da quanti anni va avanti questa storia. Proprio in casa nostra dovevi andare a cercarla. Proprio con la mia migliore amica, che frequentava casa nostra tutti i giorni, dovevi tradirmi. Ipocrita. Avevi anche il coraggio di fare il geloso con me! Ipocrita, sei solo un ipocrita." Restò in silenzio per qualche istante, quasi come se aspettasse che lui le dicesse qualcosa che potesse cambiare i fatti. Ma furono solo alcuni secondi, interminabili, di silenzio doloroso e opprimente. All'improvviso si riebbe e disse: "Esco ora, al mio ritorno tu non sarai più qui. Affoga da solo nella tua melma. Oramai hai imparato l'arte, vedrai, anche se questa tua maschera è crollata, te ne ricostruirai una più solida e duratura. Comunque sia, io non ci sarò nella tua rappresentazione."
Si girò e lentamente andò verso l'ingresso con una calma apparente e gelida, quindi uscì, senza voltarsi indietro.

*

Verso la libertà

Noori salì  sull’autobus delle 7, come faceva ogni mattina da tre anni ormai. Era ben rasato e vestito in maniera distinta: un gilè blu su camicia bianca e pantaloni eleganti. In mano la sua borsa ed il giornale appena preso all’edicola vicina alla fermata. Si recava in Ospedale al reparto di oncologia dove lavorava come medico. Durante il viaggio era solito dare un’occhiata al giornale. Una notizia su tutte catturò la sua attenzione: ‘Nuovi sbarchi di immigranti nella notte sulle coste del crotonese’. I ricordi lo assalirono, impedendogli a tratti di respirare. Si rivide bambino in Siria con sua madre, suo padre e sua sorella Raj di nove anni più piccola di lui. Guardò fuori dal finestrino ed osservò il via vai di gente frenetica in quella Roma tanto amata, ma gli mancava la sua terra, soprattutto l'infanzia con mamma, papà e Raj. All'improvviso il rumore dei bombardamenti, le urla, la paura riaffiorarono nella sua mente in modo prepotente. Ricordò il fratello di suo padre morto in un bombardamento vicino  Damasco  e  suo padre che qualche giorno dopo diceva: "Fuggiremo con la prossima imbarcazione per il Cairo, da lì saremo imbarcati per Lampedusa. Non voglio più rischiare la vita in questa terra maledetta da Dio”. Il  padre aveva dovuto pagare tanto per quel viaggio. Scacciò per un attimo quel ricordo doloroso e guardò sul giornale: se quattordici anni prima non fossero  partiti, non sarebbero andati incontro alla morte. O forse sarebbero comunque morti tutti sotto i bombardamenti successivi. Nessuno poteva dire come sarebbero adesso le cose. Ma partirono  con i cuori ricolmi di speranza. Lui aveva solo dodici anni, mentre sua sorella tre. Il mare però si oppose e si ribellò quella notte. Vivido in lui il ricordo delle onde che travolgevano l'imbarcazione che avrebbe dovuto dare loro la libertà. Ma l'unica libertà trovata fu la morte. Chissà come mai proprio lui era stato uno dei pochi sopravvissuti? Quante volte se lo chiese! Ricordava ancora di aver visto l'onda travolgere i suoi genitori che sparirono inghiottiti dalla furia dell'acqua. Raj stringeva la sua mano, ma un signore disse :"lasciala a me, sono più forte".

Arrivarono i soccorsi. Su 400 imbarcati solo 70 sopravvissuti. Tra i cadaveri ripescati lui riconobbe i genitori, ma non la sorella, di cui non seppe più nulla. Non poteva che essere morta.

Nel campo di accoglienza conobbe un professore universitario di Siracusa, docente a Roma. Non avevano figli, lui e sua moglie, e Noori era l’unico bambino sopravvissuto. Lo accolse in casa sua come un figlio, studiò, così si diplomò e poi si iscrisse a Medicina a Roma. Fu uno studente di grande intelligenza e si laureò con il massimo dei voti. Quanto gli mancò in quel giorno felice la sua famiglia! Grazie al professore ebbe la possibilità di fare il suo tirocinio al seguito del dottor De Bartoli, responsabile del reparto di oncologia.

L’autobus si fermò e, immerso nei suoi ricordi, non si era accorto di essere giunto a destinazione. Scese dall'autobus e raggiunse il reparto. Fu informato di un nuovo ricovero: una ragazza siriana di soli diciassette anni proveniente dal reparto di chirurgia. Era stata picchiata fino a ridurla vicina alla morte da alcuni uomini. Sembrava fosse entrata in un giro di prostituzione e sfruttamento ad opera di un gruppo di suoi connazionali. Ella aveva tentato di uscire da quella situazione e ne aveva parlato con qualcuno. Questo suscitò la loro ira ed era solo per un miracolo che era ancora viva. Da varie analisi fatte nel reparto di chirurgia era risultata anche affetta da tumore: leucemia. La ragazza prima non lo sapeva. Era in uno stadio avanzato e rischiava la morte. Stavano aspettando di fare altri esami e il parere di un altro oncologo. La sua vita era appesa ad un filo.

La storia colpì così tanto Noori che ebbe quasi un presentimento. Seguì il dottor De Bartoli durante la visita quella mattina. Quando entrarono nella stanza la ragazza dormiva. Noori la guardò, poi osservò che le mancava la falangetta del mignolo ed in quel momento ricordò che anche sua sorella Raj ne era priva in quanto se l'era troncata all'età di due anni. Coincidenza? pensò. Ma Raj aprì gli occhi ed i loro sguardi si incontrarono. Avevano un non so che di familiare. Purtroppo sua sorella aveva solo tre anni all’epoca del naufragio. Aveva sempre avuto un presentimento che fosse viva, ma era solo una sensazione.

"Raj?" non poté fare a meno di esclamare.

La ragazza lo guardò,  dimostrando di non comprendere. Tornati nello studio, dopo aver finito le visite, il dottor De Bartoli gli chiese: “Conosci Zahira?”

Allora Noori gli raccontò di sua sorella e del fatto che aveva sempre voluto immaginarla ancora viva e disse anche del particolare del mignolo mancante. Il dottore rispose che potava trattarsi di una coincidenza, anche se l’età e la nazionalità erano le stesse.

Il consulto oncologico confermò quanto già il dottor De Bartoli pensava: c’era un’unica cosa da fare per tentare di salvare la vita di Zahira: il trapianto di midollo ma, poiché non si conoscevano familiari, era pressoché impossibile trovare un donatore compatibile. Noori chiese di sottoporsi al test e con grande sorpresa risultò compatibile come solo il legame tra fratelli può portare. L’intervallo fu tentato e Zahira guarì. Successivamente Noori riuscì a ricostruire quanto era accaduto alla sorella dal giorno del naufragio. Era una brutta storia di sfruttamento da parte dell’uomo che le aveva salvato la vita. Era stata venduta, portata lontana e poi riportata in Italia all’età di undici anni ed obbligata alla prostituzione.

Il destino aveva voluto, però, premiare, dopo tanto dolore, i due fratelli. Dopo la guarigione, Zahira, ovvero Raj, seguì un lungo percorso verso la sua riabilitazione e recupero.

 

(Questa storia è totalmente frutto di immaginazione e non ha alcuna base reale)