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Raccolta di testi in prosa di Giuseppe Bisegna
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Un po’ incerto solo il cielo »
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Del santo e dell’albero di ciliegie »
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Il coraggio »
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Di un album di figurine o del tram n.8 »
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Di un metro, del cosmo e del riso soffiato. »
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Dell’anima, del vuoto e del pieno »
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Del tempo e del denaro »
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Microricordo 3 »
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Microricordo 4 »
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Il vizio »
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La Teoria delle fette di pane »
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Viaggio corto »
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Microricordo

Aspettava il treno alla stazione e s’aspettava gli sbuffi di vapore come nel Far West, ma gli sbuffi non c’erano, così come non c’era la poesia degli scrittori e dei diari di viaggio in quella attesa per andare e tutto ciò forse era buffo.
Forse sarebbe stato meglio il finestrino di un torpedone sulla statale, di quelli metallizzati e arrotondati come nei film degli anni ’40, con il latte in bottiglia fuori la porta, forse, si forse, una vita fatta di forse.
Comunque avrebbe avuto di che raccontare, gli piaceva raccontare, era buono a raccontare; ad ascoltare no, non lo era, non lo sapeva fare, gli mancava la pazienza.
Raccontava spesso delle sue donne, belle, sempre uniche, tutte andate via, forse perché non aveva pazienza, perché non sapeva ascoltare.
Mi disse di lei, l’unica di tutte, disse che stava male e che ultimamente era peggiorata, una cosa seria dissero gli amici di un tempo.
Prendeva il treno per andarla a trovare, dopo vent’anni di silenzio, dopo vent’anni di chissà.

Quando il treno arrivò rimase lì, non salì, fissò la porta richiudersi, aveva deciso di non andare, decideva sempre all’ultimo.
L’ultimo gesto di un gentiluomo, difficile da capire, forse. La volle trattenere nella mente come vent’anni prima – tempo balordo – come vent’anni prima, col succo di fragola, con le guance belle e coi pizzichi distratti su di una chitarra.
Così mi disse, ma forse così non era neppure, eppure io ci credevo, in fondo era così bravo a raccontare.

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Natiche da macello »
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La Scarpata »
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Una notte

S'addice passeggiar di notte ai demoni e ai gatti, e io allora forse un po’ demone lo sono, e anche un po’ gatto, nel completo nero, elegante e discreta cornice ad un corpo carico di pensieri e forse sono anche un po’ suicida, perché la mia passeggiata notturna lo so, ma fingo di non saperlo, mi porterà su uno dei tanti ponti della città, che scavalca l’acqua gelida e putrida di un fiume stanco di scorrere e di vedere e sentire sempre le stesse cose.
Eh la notte, che magnifica cosa, ti parla come una poesia, con l’intuito e con le percezioni, il giorno invece, involgarito dalla frenesia parla come la prima pagina di un giornale, con strilli, clamori e colpi di scena.
Trovo di una bellezza unica caricarmi la pipa di un odoroso tabacco e farmi cullare dalle volute di fumo a spasso nella notte; una notte preferibilmente umida e fresca, che a parer mio sposa perfettamente la pipa e la sua natura, che nemmeno la compagnia di una donna o della donna, potrebbe eguagliare la bellezza di alcuni momenti e stati d’animo che una buona pipata sa regalare.
La pipa, come diceva un mio caro vecchio amico è una donna meglio della donna, sa dare piacere e allietare i momenti infelici, ma non si lamenta, non si fa aspettare, sa capire il tuo umore, non ti tradisce, non ha amiche, non ti mette pensieri e una volta che la pipata è finita il ricordo di tale piacere resta giusto quel po’ e poi svanisce come il fumo, alcune donne invece anche se hanno tagliato la corda da un bel pezzo proprio non vogliono saperne di sparire.
È notte inoltrata, i tacchi delle mie scarpe fanno fin troppo rumore in questo fresco silenzio, da lontano arriva l’urlo squarciato di qualche automobile che va ancora in giro, qualcuna ancora gira per la città, tagliando i riflessi dei lampioni sull’asfalto lucido. Dovrebbero abolirle le automobili, hanno violentato il ventre delle città e continuano a farlo, partorendo figli degeneri, esauriti e indiavolati sempre in corsa contro l’ultimo minuto, sempre pronti a scaricare tutta la frustrata cattiveria contro chi interrompe per un istante, al semaforo o ad uno stop, la frenetica corsa al secondo, guadagnando minuti su secondi ma non aggiungendo nemmeno un decimo alla meschina vita che gli è stata riservata.
Tutto ha un tempo, imposto, in queste gabbie da matti, più si ha tempo e più si cerca di intossicarlo di appuntamenti, di compiti da sbrigare, nessuno mai che si prenda il tempo per passeggiare senza una metà su quel viale e non su quell’altro, per prendere un buon caffè in quel chiosco lì in quella piazzetta così bella, per leggere quel libro con quella bella rilegatura, per ascoltare quel qualcuno sconosciuto che sembra non abbia nulla di interessante da dirci; perché, qualcuno di voi ha cose più importanti da dire o da fare di qualsiasi altro? Inutile affannarsi signori, sotto un buon metro di terra ci si finisce tutti, e nello spazio di quattro tavole certo non ci sarà posto per quello che avrete accumulato, ci sarà posto solo per un corpo, il vostro, quindi cercate di accumulare voi stessi, è un consiglio da amico, di uno che stanotte sarà l’ultima.
Fortuna del mio cappotto, comincia a fare fresco, un cappotto nero e lungo a cui ho fatto cambiare la fodera, quella di “serie” era banalmente nera, io ne ho fatta cucire una a motivi e colori psichedelici, è una soddisfazione tutta mia, togliermi l’indumento scuro e discreto e svelare come uno scrigno un caleidoscopio di colori, un pugno nell’occhio dei curiosi.
Un cappotto che non mi costò molto, ma che calza in maniera impeccabile, non è mai fuori moda; la moda, che cosa sciocca e insulsa, dove sta scritto che un manipolo di personaggi ambigui e frivoli debba dire cosa si indossa oggi o domani? Gli stilisti sono tutti ipocriti, ne avete mai visto uno che indossi gli abiti che produce? Io mai. E poi cosa producono se non sciocchezze e addobbi da baraccone, stando a loro le donne sarebbero tutte guerriere o mandriane, coperte a suon di stivali, cinturoni, borchie e mantelli, insomma quello che cent’anni fa avrebbe indossato un proprietario terriero a cavallo. Mentre gli uomini tutti damerini impomatati chiusi in ridicole camicette inamidate e in pantaloni da macero.
Mah! mi resta talmente difficile come la gente riesca a farsi trasportare da tanta ridicolaggine, la massa è una cattiva madre, partorisce figli senza ragione e amor proprio, trovo quasi eccitante restare al di fuori dei circoli viziosi, dei soliti locali, dei soliti amori, delle solite parole, delle solite cazzate, permettetemi, del solito e monotono spettacolo dell’uomo, imbastito sulla mediocrità, sull’osceno e sul sensazionale e sul “tanto lo fanno tutti” , resto fuori non per protesta o per una velata frustrazione, ma per il solo gusto di farlo, carico di presunzione ritengo che ci siano cose più degne di me!
Metto le mani in tasca per stringere a me il cappotto, fa freddo o è l’ultima ora che si avvicina, sento nelle tasche qualcosa, un pacchetto di fiammiferi, un rosario, qualche centesimo, un pezzo di carta, lo apro, è gualcito, un abbozzo di poesia, forse qualcosa che pensai per lei. A volte se non ci fosse la poesia sarei perso, ma anche lei purtroppo oggi si è avvilita e poi mi rende sempre nervoso e scontroso quando mi dicono – dai, recitami una poesia - le poesie non si recitano, se ti interessa la leggi da te, la poesia parla da sola non ha bisogno di intermediari, se hai il coraggio devi porti tu di fronte alla pagina e sfidarla, stai sicuro che avrà qualcosa da dirti.
Eccolo qui il ponte, mi sporgo dal parapetto, abbastanza alto e con poca acqua in questo tratto del fiume, farà male, ma sarà un attimo, svuoto la pipa nel frattempo, aspetto.
Si avvicina un uomo, forse un libero disperato come me,
-avete una sigaretta? –
-no, non fumo sigarette, sono troppo volgari –
-ah, volgari? contento voi… -
-anche voi a spasso di notte, un disperato pure voi? –
-stacco da lavoro tardi e mi piace tornarmene a casa nella notte, disperato? Si abbastanza, ma mai infelice –
-giusto ben detto amico mio, mai infelice! –
-arrivederci –
-arrivederci –
L’incontro inatteso se ne andò con un bel sorriso sincero tra le guance ricamate di una barba fulva e sottile.
Aspetto ancora, osservando il marmo bianco del parapetto. Passa un gatto, lo guardo è simpatico, amo troppo i gatti.
Non so quanto tempo sia passato, una macchina si ferma a scaricare pacchi di giornali fuori un edicola, la cosa mi fa pensare che tra non molto sarà l’alba.
Accidenti non si è visto nessuno e di aspettare il giorno non mi va, risistemo la sciarpa, mi stringo nel cappotto e mi incammino verso casa, ebbene si, ho un ego talmente spropositato che sarebbe deprimente morire senza un pubblico che assista al mio tragico e teatrale epilogo!

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Francis, una birra e la città di notte

Sembrava che Francis avesse altro da dire, tirò fuori una sigaretta dal pacchetto sul cruscotto, l’accese, tirando una boccata pensierosa, il semaforo si illuminò di verde, ingranò la prima e ripartimmo nella sera.
- Il tempo non esiste… - mi disse
- Come? che dici? -
- Il tempo non esiste, o meglio esiste solo in funzione dell’uomo -
- Spiegati meglio Francis -
- Vedi, il tempo esiste perché esistiamo noi, siamo noi a crearcelo, altrimenti non esiste, il tempo fine a se non esiste, esiste in funzione dell’uomo -
- Vabbè Francis, allora le stagioni, le lune, i tempi della natura? Dove li metti? –
- Beh, non sono certo tempo, sono cose che si ripetono ma non sono tempo, sei comunque tu, essere umano, a codificare tali processi con gli schemi, o permettimi, con i tempi del tempo –
- Uhm… -
- Immagina di prendere un essere umano, un bambino, che non abbia mai avuto cognizione del tempo, che non gli sia stato mai detto delle ore, dei minuti, degli anni, dei secoli, prendi questo bambino, ebbene egli non saprebbe cosa è il tempo –
- Ma come fa a non averne cognizione Francis? Allora se vede che si fa giorno e si fa notte, che alla bella stagione c’è la cattiva, come fa a non pensare al tempo?-
- Perché dovrebbe? Il bambino in esame lo stai facendo ragionare con la tua testa, cerca tu di ragionare con la sua… -
- I cicli della natura avverrebbero anche senza tempo, il giorno e la notte si succederebbero anche senza la misura del tempo…mi capisci? Senza che ci sia l’uomo a dire: fra quattro giorni entra l’estate, fra un’ora farà buio… –
- Uhm… Francis, la fai troppo facile… -
- Allora ascolta, immagina che da quando eri bambino, da quando hai cominciato ad imparare, ti avessero insegnato che un ora dura ottanta minuti, ora tu sapresti che un ora è di ottanta minuti e se io ti dicessi che invece è di sessanta tu non mi crederesti, o quanto meno avresti sempre i tuoi ottanta minuti come parametro di riferimento –

L’auto saltellò su un tombino e la cenere della sigaretta andò tutta a ricamare i jeans di Francis all’altezza del ginocchio destro.
Le luci della città, con la notte estiva fresca e ancora giovane scorrevano insieme alla vita fatta di auto, bus, marciapiedi, semafori, cartelli, cani, gatti e persone che prima o dopo sarebbero rientrate in casa o in albergo o sotto un ponte o nell’androne di un palazzo, perché si sarebbe fatto tardi…eccolo il tempo, onnipresente, si sarebbe fatto tardi perché di una misura di tempo ne sarebbe rimasta una più piccola, insufficiente all’azione da compiere.
- Beh Francis, su questo non posso darti torto, in fin dei conti viviamo incassati in matrici che esistono prima della nostra nascita, diciamo pure che le convenzioni ci precedono… -
- E il tempo è una convenzione! Vedi che allora ci inventiamo tutto noi, l’uomo si lega le mani da solo! –
- Si, ma se non ci fosse un minimo di ordine… -
- Non so fino a che punto si possa chiamare ordine, ma questo poi è un altro discorso, rischiamo di passare tutta la serata a delirare, ti va una birra?-
- Ok dai! dove andiamo? -
- Sinceramente non mi va di rinchiudermi in un locale, prendiamo due bottiglie e ce ne stiamo in macchina on the road , non c’è miglior locale di una città in una sera d’estate –

Francis accostò la sua Micra, completamente scassata dalla vita cittadina, in seconda fila, fuori da un bar come tutti gli altri, ma dove qualche luce soffusa e un arredamento minimale, conferivano quella dignità, se così si può chiamare, da esclusivo locale costiero.
Entrai tra la folla di camicie bianche, pelli abbronzate, sguardi curiosi e fatali.
Chiesi due birre piccole in bottiglia alla barista che fingeva di essere stressata, ma non ne avevano, o meglio il rapporto prezzo/bevanda, mi fece optare su una bottiglia grande, un gran bel birrone ghiacciato!
Mentre uscivo dal locale incrociai lo sguardo curioso e sorridente di una ragazza, per una frazione di secondo sembrò che ci fossimo detti tutto, ma anche niente e che quindi si doveva stare insieme per dirselo.
Ma le occasioni che succedono nei film sono molto rare o pressoché nulle nella vita, e quindi io uscii dal locale e lei continuò a parlare con le sue amiche, tutti e due coscienti che per un infinitesimo due battiti di cuore si erano accordati sullo stesso…tempo.
Francis diede il primo sorso tra una sillaba e l’altra di una canzone degli Oasis.
- Francis, se come tu dici, il tempo non esiste, allora tutte le cose che sono state, tutte le cose fatte e non fatte, dette e non dette, dove vanno a finire? -
La Micra scassata aveva intanto ripreso la sua corsa notturna.
- Spiegati -
- Allora… quando perdiamo un’occasione, quando subiamo un dispiacere, ci diciamo che il tempo farà passare tutto no? che ci vuole solo tempo per alleviare le cose… ma se il tempo non c’è, tutto questo rimane sempre e quindi questo tempo che fa da coperta a ciò che non vogliamo più vedere, non copre nulla… -

Francis mi guardò, le labbra sembravano disegnare un leggero sorriso, poi guardò fuori dal finestrino, allungò di nuovo sul pacchetto di sigarette, ne accese un’altra, tiro una grossa boccata e disse:
- Non chiedermi di spiegarti ciò che ti sto per dire, perché non ne sarei capace, solo che mi è arrivata un’intuizione, e non so nemmeno se crederci o no pure io… -
- Dai spara… -
- Vedi, tutto, ma dico proprio tutto, dal primo fuoco acceso, a Giulio Cesare che scruta l’orizzonte, ad uno sconosciuto contadino bretone del ‘600 che stringe una fascina di rami, a noi che stiamo qua in macchina…ebbene tutto è già successo, tutto sta succedendo, tutto dovrà succedere –
- Aspetta… un eterno presente? –
- Più o meno… credo di si –

Dentro la vetturetta calò un forte silenzio, per qualche attimo, nonostante i finestrini abbassati e gli Oasis in sottofondo, tutto sembrò ovattato e discreto.
E come il mio amico anche io ebbi un’intuizione, o almeno così mi sembrò.
- Allora Francis, la morte? Non esiste? –
- Beh se tanto mi da tanto, credo proprio di no –
-Quindi il corpo…un cappotto da togliere al momento giusto…quando non è più freddo… -
- Detta così mi piace! –
- Anche a me Francis! –
- La birra è finita… -
- Beh appunto deliri! dai prendiamone un’altra –
- Si dai, tanto ancora è presto, abbiamo ancora molto tempo, anzi non ne abbiamo proprio! -

Francis rise di gusto e fece ridere anche me, con la sua camminata strana mentre scendeva dalla macchina ed entrava in un altro dei tanti bar.


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Una storia cattiva


Accadde che Giulia, fosse molto invidiosa della bellezza della sua compagna universitaria Grazia e del fatto che ella potesse essere felice con un ragazzo, tale Michelangelo.
Giulia, aveva un’ antipatia innata verso Michelangelo, un sentimento senza una razionale spiegazione, in fondo si conoscevano poco, giusto perché frequentavano alcuni corsi insieme, e screzi tra loro non ve ne erano mai stati, quindi non vi erano motivi all’astio che la ragazza aveva verso il ragazzo.
Michelangelo corteggiava Grazia come meglio gli riusciva, era un po’ maldestro, questo ad onor del vero bisogna dirlo, ma spontaneo e a quella ragazza gli voleva davvero un gran bene.
Grazia era sfuggevole, chiusa nelle sue paure e nei postumi, non ancora pienamente smaltiti, di una passione andata a male, ed in effetti, ancora intorpidita da sentimenti scaduti, aveva paura che potesse nascere qualcosa di serio tra lei e Michelangelo, più di una volta aveva detto che sbagliava a non accettare le attenzioni del ragazzo, ma sbagliava sapendo di sbagliare, perché secondo lei in quel momento della sua vita doveva andare così.
Di questi ragionamenti illogici, tipici delle donne, Michelangelo non se ne curava più di tanto e continuava ad insistere, a cercare di essere sempre presente nella vita di Grazia, a fare il buffone insomma, perché in certe situazioni gli uomini sono dei pagliacci e rivederli con gli occhiali del tempo procura una gran pena.
Giulia era al corrente delle paure e dei dubbi di Grazia, in quanto questa le si confidava spesso e sapeva come ben sfruttarli a suo piacimento, per soddisfare quel suo desiderio di controllo su una relazione a lei estranea. Molte donne hanno questa perversione, cioè quella di interessarsi morbosamente alle storie e ai sentimenti altrui e di gestirli, di averne parte in causa, Giulia era una di queste.
Cominciò a far leva sulle paure, a mettere in giro strane voci su Michelangelo, a dipingerlo, agli occhi dell’ignara Grazia, come un volgarotto, come un nulla di buono ecc. ogni occasione sconveniente era buona per portare sulla bocca Michelangelo.
Grazia, per sua natura ingenua ed insicura, cominciò a dare credito alle voci che man mano si diffondevano e di conseguenza cominciò ad allontanarsi, per quel poco che si era avvicinata, da Michelangelo.
Passo tempo e Grazia si fidanzò con un tipo che la apprezzava solo per la sua dote fisica e a parte i momenti “fisici”, la trascurava e non la calcolava per quello che davvero valeva.
Passarono degli anni e al dito di Grazia ci fu una fede nuziale, passarono ancora altri anni e la donna cominciò a trasandarsi, a sentirsi disillusa, i sogni da ragazza, al tempo dell’università, non si erano avverati, si ritrovava a fare la casalinga, moglie di un avvocato, insoddisfatta passava tutto il giorno in casa con le sue antiche paure, che ogni tanto, e questa cosa non gli era mai successa, assumevano la forma del rimorso.
Una mattina allo specchio si accorse di avere delle rughe, le contò, di giorno in giorno continuò a contarle, aumentavano, stava invecchiando nella sua casa, tra le sue cose, tra le sue paure.
A forza di mangiare cibi congelati, il suo giovane vecchio cuore si congelò a sua volta e divenne duro come un sasso.
Un giorno come tanti, uguale a quello prima e uguale a quello dopo, frugando tra le nostalgie e i sogni impolverati, ritrovò un vecchio libro di poesie che anni e anni addietro gli aveva regalato Michelangelo, dapprima si chiese anche chi fosse quello sconosciuto, che nell’interno della copertina gualcita gli scriveva quella dedica, cosi carica di sentimento schietto e sincero, poi d’improvviso, come una ventata tornarono i ricordi, le parole, gli sguardi, i sorrisi e forse qualcosa di più.
Ma ormai era troppo tardi, la vampata di calore che la colse gli squagliò il cuore di ghiaccio e senza dolore si accasciò a terra.
Giulia non poté recarsi al funerale della sua cara amica, perché talmente invecchiata, pure lei, e obesa da non potersi muovere, rimase tra le sue tele e la sua collezione di quadri, come aveva sempre fatto.
Di Michelangelo si dice che qualcuno lo abbia visto da lontano mentre calavano la bara nel loculo, con la faccia serena, rilassata, e fin troppo giovane per l’età che dovrebbe avere.

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Una storia qualunque

Non saprete mai il mio nome, nessuno lo verrà mai a sapere, nemmeno dei collaboratori, perché non ne ho avuti, certe cose vanno fatte da soli è l’unico modo per non essere scoperti, da solo sei insospettabile e nessuno può tradirti.
Ho calcolato tutto nei minimi dettagli, ho riveduto decine e decine di volte tutto, le cause e gli effetti; a parte un benevolo shock sull’opinione pubblica e qualche titolone sui giornali, tutto filerà liscio come l’olio…almeno fino a questo momento, tutto è andato assolutamente bene, a riprova che il mio piano è perfetto!
Le cose più sono semplici e meno danno problemi!
Sono quarant’anni che ci lavoro su, ho settantadue anni, ma me li porto bene, diciamo che la fatica non mi ha mai ammazzato!
La guerra me la sono fatta di striscio, ma la paura, quella, la ricordo bene, sul volto di mia madre e nel ricordo di un padre che non c’era più.
Con molti sacrifici mi sono dato allo studio, una sorta di studio autodidatta, andando a cercare le cose che mi interessavano e dalle quali trovavo soddisfazione, sviluppando sin da subito una visione critica delle cose, di tutte.
A scuola facevo il giusto per andare avanti, già all’epoca, da giovinetto, cominciai a rendermi conto che la scuola ti insegna quello che qualcuno vuole che ti sia insegnato, gli amici, e soprattutto i nemici, te lo dicono loro chi sono, chi devono essere, la mente di un ragazzino è una tabula rasa su cui puoi scrivere di tutto, cosi come una tabula rasa lo era il paese appena uscito dalla guerra, c’hanno potuto scrivere di tutto.
Quando guardo i giovani e la scuola di oggi, penso che ci sono riusciti nel piano di rincoglionimento sistematico, hanno studiato tutto molto bene, ma di me… non hanno mai sospettato.
Poi è venuto un periodo di benessere, ma è stata una cosa effimera, un po’ come il gioco della carota e del bastone, il popolo cominciava ad essere intraprendente, libero, spensierato, sicuro, e questo non andava bene, non va bene, il popolo va sempre tenuto all’insicuro, la paura deve essere sempre presente in qualche modo, la paura è una grande macchina di controllo, la casta sacerdotale lo aveva capito da svariati anni.
Ancora oggi mi viene un amaro sorriso quando un bambino viene azzannato da un cane, quale più ghiotta occasione – così come le altre- ! Eserciti di pseudo-giornalisti sguinzagliati alla ricerca di tutti i cani che mordono bambini, per sviare l’attenzione pubblica dagli inganni e dai problemi seri; bisogna creare e cercare di mantenere con ogni mezzo possibile la disattenzione pubblica, perché quando sei disattento riesce più facile che le cose ti passino sotto il naso, senza che te ne accorga, e spesso sono quelle cose, che se il popolo stesse un minimo attento col cavolo che le permetterebbe.
La situazione non poteva reggere, cosa fare? Vennero gli anni di terrore, si crearono parti e controparti che si ammazzavano in strada fra loro, aizzate da chi poi andava a cena assieme, quante mangiate mi sono fatto anche io con quei personaggi. Si gozzovigliava fino a tardi e ci si metteva d’accordo su cosa dirsi l’indomani l’uno contro l’altro, per alimentare le rotative; sembrava come stare nei camerini di un teatro, si sceglieva la parte, la si imparava e la si recitava sul palco dei media.
E intanto fior di gioventù si scannava credendo chissà in cosa.
Il piombo era nei cuori di quei oscuri signori dietro le quinte, non in strada.
Ma torniamo a me, nel frattempo ero diventato ricco, molto ricco, li conoscevo tutti uno ad uno e a tutti facevo favori e loro in qualche modo dovevano ricambiare, ma io non chiedevo mai, li avrei tenuti sempre in caldo.
Spaziavo dal più piccolo segretario, al ministro, all’alto prelato; sapevo tutto di loro, delle loro bassezze, ero anch’io uno di essi e la cosa mi stava bene, era il mio mondo, la mia vita, ero fortunato in fondo!
Dapprima non sembrò una cosa tragica, poi man mano mi resi conto che la discesa era stata imboccata; quando cominciai a vedere che nei punti chiave venivano posizionati gli inetti e gli incapaci, perché questi te li giochi come ti pare, sono facilmente manovrabili; le persone con la testa sulle spalle sono quelle pericolose, se ad un certo punto una cosa non gli va o cominciano a farsi degli scrupoli, fanno di testa loro e non sia mai! La testa eravamo noi, loro il braccio per i nostri vigliacchi giochi.
Non perdevo la minima occasione, mondana e non, per ingraziarmeli, i modi più semplici erano: dire sempre ciò che loro volevano sentire e spillare soldi a volontà.
Davo feste in continuazione nelle mie ville, sulla mia barca, finanziavo di tutto, dalla mostra d’arte più insulsa all’iniziativa falsamente benefica.
Ad un certo punto della mia vita qualcosa cominciò a cambiare, la notte non dormivo più, avevo sempre un peso sullo stomaco, cominciavo a commuovermi per delle sciocchezze.
Un giorno decisi che avrei cambiato le carte in tavola, sarei stato io il “deus ex machina”, avrei dato uno scossone a questa acqua putrida e ristagnante; niente sistemi “democratici”, loro giocano pesante, anch’io dovevo farlo.
Mi posi il problema anche con Dio, ciò che maturava nella mia mente mi imponeva di farlo.
Avrei eliminato il cancro una volta per tutte; non sto qui a sciorinarvi tutti i dubbi che mi sono posto e che mi prendevano allo stomaco, alla fine mi convinsi di avere ragione, dovevo fare del male… per abbatterne uno più grande, la cosa vi sembra risaputa eh? Beh ci credo! Ma se per un giorno, per un solo giorno aveste potuto udire cosa quei signori, con quale facilità e con quale leggerezza macchinavano alle spalle di un popolo ignaro e ingenuo, senza dubbio sareste giunti alle mie conclusioni.
Il piano cominciava, invitai tutti coloro che muovevano le fila, le menti, quelle toste, quelle che dirigono e che mi credevano grande amico, ad una delle solite feste sfrenate che ero uso a dare, sulla mia nuova nave.
Tutto venne fatto nel massimo riserbo, d'altronde tra di noi le cose si facevano sempre cosi, il popolo non sapeva mai niente, c’eravamo abituati.
A tarda notte tutti erano a bordo, ordinai di servire vino e champagne a fiumi, la festa andò avanti per un bel pezzo, quando l’alcol cominciò a fare i suoi effetti ordinai all’esiguo equipaggio di riunirsi in sala comando, tutti i macchinari di bordo vennero messi fuori uso, cosi come nella sala macchine.
Ci allontanammo velocemente con uno scafo, l’unica scialuppa presente sulla nave.

Siamo appena approdati, domattina i giornali, nel caso qualche peschereccio noti i relitti, parleranno di una nave misteriosamente affondata, e nei palazzi ci saranno molti assenti.





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Corri Francis!

Corri Francis, corri, attento a non scivolare, i sampietrini sono squallidi nemici appena ha smesso di piovere, corri Francis, corri, la corsa notturna non ci aspetterà.
Enzo è rimasto abbarbicato alla fiasca di vino e di venir con noi non ne ha voluto sapere.
Aveva i piatti da lavare, gran bravo ragazzo, offre spesso la cena, e che cena!
Corri, la paura è velata dietro la corsa di un autobus notturno, potrebbe scivolare sull’asfalto sudicio e umido e travolgerci spiaccicandoci contro le macchine in sosta, ehi Francis, tu porti le Clark e sei tranquillo, non ti sentiranno, invece guarda me e guarda quell’ombra laggiù, si avvicina.
Guarda come mi guarda minacciosa, ha tutta l’aria di essere un arconte potente, mi porterà con sé nei cerchi superiori. Accidenti non dobbiamo farci prendere, vero? Perché se prende me a te non lascerà libero Francis!
Dai spegni quella sigaretta, altrimenti ti taglia il fiato, c’è ancora una buona salita, fortuna ha smesso di piovere, la notte è il setaccio del giorno, la notte raccoglie tutti i silenzi e se gridiamo non ci sentirà nessuno Francis.
Se gridiamo di paura, ma se casomai urliamo di scemenza allora punteranno un dito e arriveranno gli sbirri, attento, la gente punta sempre i diti, gli riesce molto bene Francis.
Uno straccio capovolto, fradicio di quell’acqua che puzza di asfalto e foglie morte, ne è caduta a quintali oggi, ma lo straccio, oddio! è un morto Francis, non è paura, è un morto, lasciami la giacca, ho faticato per trovarla, si mi calmo è uno straccio, ma l’ombra di prima ora è salita sulla macchina grigia, non si sale in macchina dal lato passeggero se hai spazio al lato guida, lo vedi? sta rubando qualcosa o peggio farà saltare in aria la macchina, abbiamo dimenticato lo straccio!
Dai che la corsa è puntuale, è la seconda della sera, mai più da Enzo, beve troppo, e ti coinvolge coi suoi discorsi sulla rivoluzione!
L’ autobus è vuoto, un universo primigenio che sa di creolina e plastica, in movimento veloce ed incosciente, sfreccia troppo vicino alle macchine sostate o l’autiste è ubriaco o è un demiurgo, fa paura, ci schiantiamo se non la smette.
Corre troppo, però fa ridere.
Il motore è rabbioso ai semafori, dici che ci farà scendere Francis?
Risi come un cinico quando urtò l’ignara macchina a bordo marciapiede, pensa alla faccia del padrone domattina ah! ah! ah! gli guasta la giornata, ben gli sta.
Ma l’autista tira dritto è un folle non ci sono dubbi!
Chiamalo Francis, fallo fermare sotto casa, tu hai le chiavi, non della vita, di casa, chiavi della vita non ne voglio, ora mi interessa rientrare a casa.
Se non c’è un sinonimo allora che ti incazzi a fare? Sei tu che ti fermi, dai che nell’ascensore c’è Freddie Mercury, perché ha quella faccia seria? Ma no, dai che alla fine non regge e ride, fa il severo ma in fondo ride.
E non raccontargli balle, io non suono, non so suonare!
Chiudi la porta, io non ho le chiavi, comunque è raffinato, io dormo, ho sonno Francis, buonanotte!