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Raccolta di testi in prosa di Grazia D’Altilia
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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A teatro, la mia storia

                                            A TEATRO, LA MIA STORIA.

 

 

 

Davanti allo specchio guardo il mio corpo. Stento a riconoscerlo. Stentavo a riconoscerlo anche tre anni fa. Tre anni fa, quando allo specchio mi ci piazzavo davanti per timore di non ritrovarlo più. Quando allo specchio, mi ci appiccicavo e con un pennarello contornavo quel mio corpo per vederlo poi racchiuso in una linea tremolante e imprecisa.

Il mio corpo che da giovane tronco si era trasformato e assottigliato giorno dopo giorno. Fino da tronco vederlo ondeggiare quasi filo d’erba. Tre anni fa.

Quel giorno tremai più degli altri giorni. Ero un filo d’erba flagellato da un coro di venti. Ebbi paura. Tanta paura. Paura di morire. Anche se la morte, dentro me, già da tempo si era rannicchiata. Ma, dentro me la paura, quel giorno, mi ricordò la vita che nella sua valigia stava infilando le ultime cose prima di andare via….Elide mi ha aiutata a farla restare…

 

2 aprile 2008

            Domani mi sposo. Domani sarò per tutta la vita la sua donna. Sono così felice che ho paura di scriverlo. Ho paura di questa felicità. Che non sia vera. Mia nonna mi diceva che chi è felice è pazzo. Forse aveva ragione. Ma a poterlo fare, le direi che sì, è vero, sono pazza, ma pazza d’amore per lui….

 

Davanti allo specchio guardo il mio corpo. Nella mano, righi scritti di mio pugno. Stento a credere a quanto leggo. Stento a credere che sia stato proprio il mio pugno a scriverli. Meglio non aver potuto dire nulla a mia nonna. Ed è stata una fortuna che lei non mi abbia visto.

Mi avrebbe detto scherzando che le donne “mazze” non piacevano ai suoi tempi e che, comunque in ogni tempo, un po’ di carne sulle ossa era sempre meglio della sola pelle. Dopo, senza più scherzare, lasciando da parte detti e proverbi, mi avrebbe solo guardato, aspettando che io rispondessi al suo silenzio.

Io avrei risposto. Sì, lo avrei fatto. Con il mio silenzio. Con uno sguardo abbassato dopo pochi secondi perché troppa tristezza non fosse colta.

Ci saremmo intese. Nel silenzio e tra gli occhi ci saremmo capite. Noi donne abbiamo onde di comunicazione speciali. La nostra sensibilità è speciale. Su quelle onde e attraverso quella sensibilità mi avrebbe tirata a sé. Abbracciata. Nel silenzio di un dolore condiviso.

 

15 aprile 2008

            Appena tornati dal viaggio di nozze. Sono felice. Felice. Felice. Sono sua. Solo sua. Lo sarò per sempre. Mi ama così tanto che ha trovato da ridire persino sul sorriso del comandante di bordo quando ci ha accolti all’inizio della serata di gala. “Dai – gli ho detto – sorride a tutti così!”

Mi ha anche un po’ rimproverata quando, mentre lui dormiva ancora, sono andata a sbirciare nella cabina comandi, nella zona accessibile ai turisti.

“Senza di me non vai da nessuna  parte. Non voglio che ti accada nulla.”

“Dai, cosa poteva accadermi?! Ero curiosa. Lo sai che sono curiosa…” gli ho detto. I suoi occhi hanno scintillato.

È meraviglioso avere una persona che tiene tanto a te. E lui tiene tanto a me.

 

            Davanti allo specchio guardo il mio corpo. Da filo d’erba sta  tornando giovane tronco. La corteccia incisa.

Guardo il mio volto. L’espressione incredula. Non è esercitazione di mimica. È incredulità pura. L’incredulità per provare ancora incredulità. L’incredulità del possedere ancora sentimenti. Sentimenti per me.

“Se non ti ami , la tua carne diventa pasto per i cani”, diceva mia nonna. Le vorrei dire quanta ragione avesse. Glielo vorrei dire con il silenzio. In un abbraccio. Da donna moderna a donna antica. Da donna a donna.

 

4 maggio 2008          

Ieri sera siamo andati a una festa. Una cena tra amici. Colleghi di lavoro. I suoi. Mi ero messa il vestito azzurro. Quello che sapevo piacergli e che quando indossavo stimolava una valanga di complimenti. L’ombretto in tinta sulle palpebre. Il rossetto e una spennellata di fard. Mi sembravo carina. Mi sentivo carina. Già pronta ad ascoltare la gioia di essergli sua. E lui mi ha sentita così sua da dirmi, appena mi ha visto, che abito e trucco non erano adatti alla situazione.

“Così sei provocante. Provocante devi esserlo solo per me. Ricordatelo. Conosco i miei colleghi. Sono uomini. E so come ragionano gli uomini. Certi pensieri su di te non voglio che si facciano.”

“Ma tesoro io sono con te. I tuoi colleghi sanno che sono tua moglie. Non penseranno nulla. E poi dovresti essere contento di avermi  al tuo fianco così bella…”

I suoi occhi hanno scintillato. Sono andata a cambiarmi. Ho sfumato l’ombretto fino a renderlo quasi invisibile. Ho tolto il rossetto con una spugnetta. Infilato un pantalone e una maglietta.

Prima di chiuderci la porta alle spalle, mi ha sorriso, baciata e mi ha sussurrato all’orecchio “Bella devi farti solo per me”

Ed io sono stata contenta per tanta esclusività.

 

Davanti allo specchio guardo il mio corpo. Ripenso all’abito azzurro. Alla sua linea aderente. Realizzo che mi starebbe ancora largo nonostante abbia recuperato molti chili. Stento a credere alle trasformazioni del mio corpo. Ai cambiamenti del mio animo. Agli adattamenti del mio cuore.

Devo ringraziare Elide. Se non l’avessi incontrata, la vita dentro me avrebbe chiuso la valigia e sarebbe andata via da un pezzo. Invece sono qui. Davanti allo specchio a guardare il mio corpo, mentre stretto tra le dita, tengo ciò che è rimasto del mio diario. Strappato da lui in un momento di rabbia.

 

3 settembre 2008

            Sei mesi di matrimonio. Festeggeremo l’anniversario. Non al ristorante. Né in pizzeria. Neppure un gelatino al bar o un pasticcino. Festeggeremo a casa. Fra qualche ora. Appena rientra dal lavoro. Io e lui.

Sono contenta certo. Tante attenzioni solo per me. Nessun locale pubblico. I suoi soli occhi devono posarsi su di me, ha detto. Devo esistere unicamente per lui, ha sottolineato.

“Ma io esisto solo per te, amore. Esisto solo per te anche se andiamo a prenderci una pizza fuori” ho controbattuto.

I suoi occhi hanno scintillato.

Sono felice di tanto amore, certo.

Un uomo che mi vuole tutta e solo per sé!

Pensare, però, che vorrei lavorare. Il supermercato dell’angolo cerca una cassiera. Mi piacerebbe presentarmi al colloquio. Sfrutterei  il diploma di ragioneria conseguito con tanto orgoglio. Ma c’è qualcosa che mi frena dal dirglielo. Non so bene cosa. Forse lo scintillio nei suoi occhi. Fa una luce strana. Però, se ci provassi, in fondo cosa farei di male?! Un po’ di soldi in più, alla fine, tornerebbero utili. Li si potrebbe usare per una vacanza in estate. Insieme. Io e lui.

Ma quella luce strana nei suoi occhi….

 Strano come non ci abbia mai fatto caso prima….

 

            Davanti allo specchio, guardo il mio corpo. Stento a credere che volesse sparire. Che ci stesse riuscendo. Che stia risorgendo.

Al DAMS mi ci ha fatto iscrivere Elide. Doveva saperlo che sarebbe stato terapeutico.

È stato al corso di teatro che il mio corpo ha ripreso a bisbigliare, ha ricominciato a vibrare.

Un corpo sottile. Sottile quanto un filo d’erba. E quando le mani di Elide mi passavano sul viso, temevo di piegarmi. Mi vergognavo di quello che avrebbero potuto leggere sulla mia pelle. Mi vergognavo di quello che avrebbero potuto capire sotto la mia pelle. Mi vergognavo di come avevo permesso di farmi mettere in gabbia. Forse, però, non ero io a dovermi vergognare e le raccontai tutto, sebbene lei da subito avesse intuito.

 

10 gennaio 2009

            Da settimane ormai che la spesa non è più una  mia mansione. Per la precisione dal giorno in cui , preso coraggio, ho parlato del colloquio al supermercato.

“Ma come ti vengono certi grilli per la testa?” ha esclamato.

Grilli. La mia voglia di lavorare ridotta a “grilli”!

 Le mie parole tramutate in un insignificante frinire!

I suoi occhi hanno scintillato. Hanno bruciato le parole. Quelle che avrei voluto aggiungere per manifestare meglio il mio desiderio. Le hanno bruciate ancora prima che uscissero dalla mia bocca.

“Forse non hai ancora capito. Nessuno e ripeto nessuno deve posarti gli occhi addosso.”

Eravamo in piedi e lui mi ha stretta contro il muro. Il suo fiato mi ha scandito sul collo il desiderio che annullava il mio desiderio.

“Tu non esci più di casa se non con me. Ti amo troppo per dividerti con gli sguardi degli altri. Ti amo troppo!”

Quanto deve tenerci a me!

Però, il calore del suo respiro  sulla mia pelle, come uno spillo appuntito, ha scoppiato la bolla della mia felicità. Dopo lo scoppio, brandelli di felicità mi penzolavano tra i pensieri.

Pensieri nuovi e tristi. Pensieri che non avrei voluto..

 

            Davanti allo specchio guardo il mio corpo. Negli occhi, riconosco il passaggio di quei primi nuovi tristi pensieri. Quelli che non avrei voluto. È  da essi che ho cominciato a raccontarmi. Da quelle sensazioni orribili che decretavano la perdita della mia libertà. Eppure ero pazza d’amore per lui, certa che l’amore non potesse far male  e lui diceva di amarmi alla follia.

Elide però intuì.

I nostri sguardi , una mattina, si allungarono sulla stessa traiettoria. Una linea che ci congiunse.

Si era affacciata sul balcone per sbattere un tappettino. Il suo balcone affiancava il mio. Ed era da appena una settimana che avevo notato movimento di tapparelle che si alzavano e si abbassavano e di finestre che si chiudevano e si aprivano.

D’istinto stavo per rientrare, ma mi bloccò. Mi chiese il nome. “ Mi chiamo Libera” le  dissi….

Davanti allo specchio guardo il mio corpo. Provo a sillabare il mio nome. È bello il mio nome. Non pensavo fosse così bello. Me lo fece notare Elide e io le ho voluto credere.

 

14 febbraio 2010       

            Mi ha appena telefonato. I suoi occhi hanno scintillato. Li ho visti attraverso la sua voce. Voce e occhi erano in perfetta sintonia. Ormai non ho neppure bisogno di averlo di fronte.

Stamattina ho fatto un errore mi ha detto. Un grave errore.

Ho cercato di ripassare velocemente nella mente tutte le azioni, di scandagliare la mattinata come fosse un fondale dove scovare un indizio compromettente. Non trovavo nulla e allora stavo per domandarglielo “Cosa avrei fatto amore?”

Ha riagganciato prima che io parlassi, lasciandomi perplessa e impaurita.

Cosa mi avrebbe impedito, adesso, ancora di fare per punirmi?

La nostra casa è la mia prigione. Il balcone l’unico spazio di aria aperta in cui mi è permesso uscire senza di lui.

Ho vivisezionato i minuti della mattinata per cogliere il grave errore. Alla fine ho capito.

Lui mi ha mandato dei fiori. Oggi è la festa degli innamorati. Lui mi ama alla follia. Mi ama così tanto da non volere altri occhi su di me. Mi ha mandato dei fiori e mi ha messa alla prova.

Non sarei dovuta uscire a ritirarli dalle mani del ragazzo. Avrei dovuto al citofono rispondere “Li lasci giù. La ringrazio. Fra un po’ scendo a prenderli.”

Invece mi ero permessa un contatto. Sessanta secondi di contatto con una persona che non era lui. Questa doveva essere stata la colpa di cui mi ero macchiata.

Ma come faceva a saperlo? Mi aveva spiata? Si era informato dal fioraio su com’era avvenuta la consegna del suo mazzo di rose?

Il bigliettino che le accompagna è in bellavista “Amo te…Tu che sei per me!”

Un tempo avrei gioito. Mi sarei detta pazza di felicità. Oggi tanto amore è veleno letale. Ne ingoio ogni giorno una pillola. La mia magrezza ne è un effetto. Ed è anche l’effetto dell’unica espressione di volontà che mi è rimasta.

 

            Davanti allo specchio guardo il mio corpo. È bello appurare che straborderebbe  dai contorni lasciati dal pennarello tre anni fa. Stento a crederci, se ripenso alle mille ferite, ferite invisibili, che di riflesso mi avevano allontanato dal cibo. Se non esisto, meglio sparire mi dicevo..

Invisibili, però, lo sono rimaste fino a quel San Valentino.

Davanti allo specchio passo l’indice sul sopracciglio sinistro. È tagliato a metà. Mi viene di chiudere l’occhio. Gocce di sangue, nel ricordare, scivolano sulla palpebra, imbrattano le ciglia, colorano di rosso le lacrime che fungono da parola. Perché io non parlo, piango. Non obbietto, piango. Non mi ribello, piango. Incredula nel parare i colpi che mi arrivano ovunque. Mi piego. Mi rannicchio, la schiena contro il muro. In una posizione di difesa. Contro il muro è una trappola. Contro il muro ferite invisibili e ferite visibili.

Non è amore alla follia.

È  follia senza amore. È solo follia.

 

25 febbraio 2010

Sul balcone ho conosciuto la mia vicina di casa. Ha un nome poco comune. Elide. Lei mi ha detto che il mio è bello. Io di certo non dovevo esserlo. Ho lividi sul viso e l’occhio ancora tumefatto. Sarei rientrata subito, però mi è sembrato scortese non risponderle.

Avrà capito?

Mi ha invitata a casa sua. Le ho risposto che mi avrebbe fatto piacere, senza accennare che sarebbe stato difficile, se non impossibile, suonare al campanello della sua porta.

Avrà capito?

 

            Davanti allo specchio guardo il mio corpo. Devo esercitarmi. Domani ho le prove. Quelle finali prima di andare in scena. Stento a crederci. Sarò protagonista di una storia.

È la storia di una donna. Un pieno di ferite. Dentro e fuori. Me lo ha proposto Elide. Con fermezza e dolcezza. La stessa con cui, tre anni fa, mi ha invitata a guardare la  vita oltre l’area di mondo che vedevo dal mio balcone. E a guardare non solo dal mio balcone.

Lei aveva intuito. Perché noi donne abbiamo una sensibilità particolare. Perché noi donne leggiamo le ferite invisibili. Lo avrebbe fatto anche mia nonna, rimuginando su qualche suo detto.

 Quando ero fidanzata lei mi diceva “Libera, la campana si conosce dal suono, l’uomo da come parla”, per smussare un po’ il concetto che la felicità appartiene ai pazzi e per lasciarmi intendere che vedeva quanto lui mi amasse. A poterlo fare, glielo direi che sbagliava. La saggezza del suo detto non era di certo coniata per me. La campana ha suoni noti e chiari. Il mio uomo aveva parole che nascondevano trappole. L’ho capito tardi. Lo avrebbe fatto anche lei. Lasciandomelo intendere in silenzio, stretta in un abbraccio.

Elide non ha usato il silenzio. Elide mi ha strattonata. Elide con fermezza e dolcezza  ha convinto, dentro me, la vita a disfare la propria valigia e a restare.

L’ho fatta io la valigia, una mattina d’inizio estate. Elide mi ha ospitata. Per pochi mesi. Il tempo di far rifluire il sangue nelle vene, di riordinare qualche pensiero, di trovarmi un lavoro. Poi, il teatro. Elide insegna al DAMS.

            Davanti allo specchio guardo il mio corpo. Ci vedo anche il mio animo. Le mie mille ferite, che adesso sono in una valigia, che ho chiuso ma che non potrò mai dimenticare.

Devo esercitarmi. Domani ho le prove finali. Sono l’attrice di una storia.

A teatro, la mia storia.

                                

Grazia D’Altilia

 

 

*

Caro Gesù Bambino

Caro Gesù Bambino,

spero non sia troppo tardi per inviarti qualche rigo. E anche se lo fosse, so per certo che comunque troveresti due secondi per leggerli. D’altronde, può essere che la Tua corrispondenza sia meno fitta di quella di Babbo Natale e quindi che Ti avanzi del tempo. Sento spessissimo chiedere ai bambini “Hai scritto la lettera a Babbo Natale?” e di rado “Hai scritto la lettera a Gesù Bambino?”

Ma questo è subito spiegato. A Te non si possono indirizzare certe richieste. Tu non sei Quello addetto alla consegna di tablet, cellulari e giochi vari. Non hai renne e slitta. Tanto meno un sacco sulle spalle. E il Natale in buona parte è un bel film con scenografie colorate.

A Te bisognerebbe chiedere altro e di altro parlare. Discutere, tanto per fare un esempio, di una faccenda che sovente  mi pone un dilemma di grosso spessore. Un grande dilemma: fosse il nostro un difetto di fabbricazione o, se nati potenzialmente sani, affossiamo invece le potenzialità che ci qualificano umani per rammentarcene a malapena e con modalità transitoria solo in certe contingenze?!

Tanto per dire,  ricordiamo la pace quando è già guerra, l’altruismo dopo scelte egoistiche, la lealtà e la correttezza dopo opportunistiche vittorie, il rispetto dopo aver usato e abusato della noncuranza e dell’indifferenza, la vita se la morte colpisce.

Si pensa di “agire” il bene, quasi sempre dopo averlo visto fare al male.

Sono questi gli uomini?! Siamo questi?!

Ma quando, quanti, chi Ti avanza simili parole e perplessità?! Questa è preghiera inusuale.

Allora, a Te che rinasci Luce nella verità della parola “Amore”, volevo chiederTi un po’ di Luce. Una Luce che diventi carità. Che diventi accoglienza. Che diventi dialogo. Che diventi comprensione. Che diventi nuovamente e ancora Amore. Così da risolvere magari il dilemma. Così da ridare o ridefinire identità agli uomini. A noi uomini. A tutti gli uomini. Perché gli uomini o sono “uomini” o non lo sono. Ma anche perché carità, accoglienza, dialogo, comprensione, Amore…sono possibili. Io lo so.

 

Natale 2015