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Raccolta di testi in prosa di Gennaro Vernice
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Il Bacco di seta

Il Bacco di seta

 

  

 

Come stelle a una punta sola, eravamo inchiodati lì, eretti e brilli, nel silenzio di una poltiglia che pochi minuti addietro aveva anche un nome e una data di scadenza.

I pelati erano andati a farsi benedire direttamente dal loro dio, e non c’era verso di poterli rincorrere per un ultimo abbraccio paletale.

Eravamo lì, io e la mia splendida Mini Minor color verde bottiglia, pronti a partire per quel viaggio carico di meraviglie culinarie.

Dallo spazio, quella pozza rossa, su sfondo asfalto, illuminata dalla luce gialla di un sole quest’oggi veramente pallido, avrebbe fatto sicuramente pensare alla formazione di un’ulteriore “voglia” sulla Terra, e cioè quel suo intimo desiderio di dimagrire fino a mostrare finalmente ai suoi amati acari il sacrosanto nocciolo della creazione.

Ci trovavamo nel sud Italia, sotto casa mia, sovrastati da matrone che, con un occhio rivolgevano il loro sguardo alle altre affaccendate come loro (intente sui balconi, oltre le vetrate, oltre i muri) e con l’altro puntavano le stelle: personalità con propria individualità e voglia di fare. Strabismi che conducono ad affermazioni strabiche di veneri attempate, rinfrescate da quegli umili calzini scuri stesi a ondeggiare e cavalcati, in quell’ora, non dal corrispettivo consorte, ma dal comune amante: il vento. Lo stesso che vi allontana da noi.

 

Sorato - 29 gennaio 2003 

ore 23.05 - S.S.98 Km 47.800:

il caos.

 

Di fronte all’incommensurabile scetticismo, riguardo alla possibilità di proseguire per la via maestra, azionate le quattro frecce lampeggianti, scendo dalla scatolina e faccio un giro tra le auto raggrinzitesi nella coltre di nebbia che, passo dopo passo, mi rivela emozioni come d’incanto.

Uno spettacolo senza tempo, un’opera da contemplare, un’installazione nella galleria della vita: metallo, carne e vino. Un microclima maculato al ketchup, un ecosistema cosparso di granuli e grovigli, una pace interiore che regna sovrana al grido del silenzio.

Convergono verso il mio naso i teneri e delicati aromi che vanno: dai sentori di fragranze di frutta dal colore cerasuolo, ai profumi caldi e solari dei fiori già sbocciati, senza vita, prematuramente sfioriti. Al palato mi risulta abbastanza fresco, ha un sapore sapido certamente godibile con una leggera venatura acida e un retrogusto di cadavere malconcio. Al tatto è denso e appiccicoso come la bava di una lumaca incontinente e alla vista è il caos.

Dai primi accertamenti risulterebbe, secondo quanto sostiene il maresciallo dei Carabinieri, Bubi Scariota (cervello in fiamme da 35 anni di onorata carriera, padre di due pargoletti: Tobia e Itler senz’acca) che quest’oggi qualcosa è successo.

Erano le 22, quando il barese d’adozione Everaldo Pomodoro, sbocciava sul parabrezza di una “Marea”. Erano le 22 e 05, quando il conducente della fiammante Fiat, che percorreva a tutta birra la strada statale viaggiando controsenso, si accorgeva della nota dolente.

Pasquale Tota, leader dell’emergente gruppo rock ruvese: i Necrophilus II, ora come ora può ben dire di essersi dato alla macchia.

Man mano che vi parlo, le auto coinvolte nello spettacolare incidente, riprendono ad accoppiarsi e raddoppiano, triplicano mentre la nebbia si dirada.

Si è formata una collina colorata tra me e l’orizzonte, e i “Kiss” rimbombano tra il cielo e la terra.

Io son qui che vi parlo e voi – e voi – non fate altro che morire!

Un abbraccio a voi altri in studio e un saluto particolare alla tenera Titti che oggi compie il suo fatidico primo anno.

-…Si si vabbè ma’, tra un po’ mi ritiro…

Il vento riprende a scorrere nelle mie vene e riecco le case attorno ai miei occhi; riecco quei calzini attorno al mio pensiero.

Giace, il verde della mia vettura vacante.


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EMERGENCY APULIA I

Emergency Apulia I

 

 

 Oggi, in viale dei Caduti, nella città di San Nicola, le luci d’oro dei lampioni cedono il testimone al giorno solo quando, Osvaldo Lamartina, intento al radersi, sobbalza.

Fuochi d’artificio in un mezzo dì, dedicato al Santo, che punta il naso verso il cielo; là dove esplode la fede dei concittadini più illuminati.

Traiettorie verticali di petardi che, a mezz’aria, falliscono l’ascesa. Un po’ come la religiosità di Osvaldo che, durante un’animata discussione di qualche giorno addietro, riesce a definire l’incomparabile Dio dei Cristiani: un complesso. Non Trash e neanche Pop ma una turba fantasiosa e birichina. Una catena di Sant’Antonio ultraterrena, una puzzetta condizionante fino allo spasmo.

La lametta crea la tacca sulla guancia e la schiuma da barba arrossisce. Nello stesso istante avviene l’imprevisto.

 

Per fortuna solo feriti oggi, sul lungomare di Bari e un bagno imprevisto per il Signor Sindaco che ammirava, le “lucine”, su di una imbarcazione.

Il popolo è colpito! Un fuoco “fatuo” ha pensato bene di puntare la folla, traiettoria orizzontale, purgatorio sulla terra viva!

E’ la notizia del giorno che Osvaldo ignora. Oggi, Osvaldo Lamartina reca in sé lo sguardo assente dei giorni nati storpi. Capita.

Osvaldo ama la fotografia ma è abituato a perdere gli attimi preziosi. Lui direbbe che: vivere un attimo non è mai come viverlo per imprigionarlo. Quando l’otturatore si chiude[1], è come se rimiri un film in Tv e all’improvviso salta il canale! Poi guardi come è andata dato il terzo incomodo: l’immagine fotografica che non può che essere un titolo di coda, un’escrezione. Interferenza di una macchina su di un moto. Il fine per un fotografo è l’Arte, per Osvaldo è la vita che non potrà mai esserlo. Per questo continua a veder scorrere le immagini nel mirino della sua Nikon dimenticandosi che esisterebbe un tasto di scatto. Per questo non sarà mai un grande fotografo.

Osvaldo legge Krishnamurti e un po’, se lo si vuole conoscere meglio, bisognerebbe andarsi a comprare uno dei classici dello spirito del luminare Jiddu: The penguin Krishnamurti reader.

Oggi è a pranzo da amici di amici. Siamo in tre ad attenderlo sotto casa già da una buona mezz’ora.

La ragazza che vedete citofonare si chiama Marylin, una donna rara come una mosca bianca che sorride alla vita senza troppi appetiti, raccontando al mondo della sua blefarite, vitiligine, gozzo, capelli radi e tendenti al bianco, pelle desquamata, tiroide disturbata, con tutta la precisione di un medico all’opera.

Quel tipo seduto al volante della Twingo, invece, è Pando, un alternativo di medio raggio nel senso che, da Bari a Roma, lo si può trovare immerso in qualsiasi manifestazione, raduno o concerto. Non ci crederete ma quella Renault ha solo un anno di vita.

Osvaldo, Marylin e Pando, da qui a un’ora, saranno all’interno del triangolo Binetto-Bitetto-Bitritto dove tutto non quadra anzi, cerchia.

Ed ecco il mio momento, io sono Rino, sono colui che ha il compito di shakerare questa storia per vedere l’effetto che fa, colui che il cerchio, volente o dolente, lo deve chiudere.

 

 

 

 

CONTRADA DEI 100 TRULLI ore 14:00

 

I moscerini ci stanno annientando, sotto il sole di questa veranda. Lontani da occhi indiscreti si mangia pane e si beve vino. L’affittuario ha modi gentili, tifa Juve e accudisce da tempo una collezione di giovani serpenti tra i più colorati e i più costrictori. Per il resto c’è Marylin: ”l’essere logorroico” per eccellenza. Le mie orecchie son sgocciolate sul pavimento e posso solo osservare la sua bocca che freme mentre Pando beve, Osvaldo beve e Ezechiele sorseggia.

 

 

Alle 16:00 la bocca di Marylin è ancora avvolta nel vortice della lingua italiana solo che, parla sola con un ficus benjamin paraculo. Il “padrone” di casa, Ezechiele, è in bagno che cerca di prendere per la testa il suo verme solitario, io sono lì, vicino al frigo, che fumo e Osvaldo è seduto sulle scale che tace anzi no, fa a voi cari lettori una sacrosanta domanda; a voi, oltre quel buco della serratura che lascia penetrare tutta la luce di un giorno qualsiasi.

Se un mattino d’estate vi capitasse, per un giro di coincidenze, di ritrovarvi a pranzo da amici degli amici che collezionano serpenti, e cominciasse a gorgogliarvi dentro la splendida idea di rinfrescare, il vostro palato, con un gelatino pomeridiano (giusto per metter la ciliegina su un succulento pranzo ruminato e ringraziare allo stesso tempo il Dio per avervi offerto anche quell’oggi, “il vostro pane quotidiano”), se quatti quatti verso il freezer vi si concedesse il lusso di ritrovarvi di fronte a uno spettacolo da mille e un fiocco di neve: cinquanta topi bianchi surgelati, una coppa amarena e panna o cioccolato e vaniglia e un lingotto di carta inutilizzabile, voi, a che gusto scegliereste la vostra gratitudine?

 



[1] Nella sua Reflex.


*

Metempsychosis (reincarnazio)

Non mi è solito pranzare, dopo il mare al “Jumbo Style”; sulla piazza centrale di Coo, nelle Egadi Meridionali, quando il sole ingiallisce e diffonde, tra gli azzurri, il suo pisolino pomeridiano. Le ore intorno alle quindici, sono l’arco in cui le faretre rimangono a secco e i camerieri delle innumerevoli locande all’aperto che incrocio, ne approfittano per rimpinzarsi e sentirsi un po’ turisti anch’essi. Sui restanti tavoli siedono le mosche e l’aria inghiotte gli ultimi effluvi di una cucina sparsa qua e là, mentre un tovagliolo appallottolato decide di andarsene a zonzo proprio sotto i miei occhi, magari all’ombra, verso l’albero d’Ippocrate tra le foglie verdi decadute. Domani riparto per l’Italia e son felice di aver tralasciato gli altri sulla spiaggia a rimirare il mare. Ho smesso di fumare da qualche giorno e pur di non far del mio cervello un posacenere altruista, ho deciso di percorrere questo chilometro e mezzo senza la distrazione di problematiche e problematici da poco maggiorenni.

L’isola di Coo guarda la vicina Asia minore e assieme, non fan altro che massaggiarsi a vicenda. Il fiato delle reciproche provocazioni come schiuma sulla cresta di onde in procinto d’infrangersi nell’unica vasca da bagno.

I flutti gorgogliano e tutt’attorno rimbalzano le bolle di sapone di quest’estate duemiladue.

 

-«Ricordati che i tuoi profumi d’oriente, son come dire più aromatici o meglio, olezzosi rispetto alla mia umile sudorazione del piede».

-«Ben detto!» - Le risponde la lenticchia con capitale Costantinopoli, rincarando la dose.

-«Se lo chiamassimo conflitto teorico, staresti già bell’e affondata in te stessa!…ma rispecchiati! Più che a ricordarmi un delfino geografico, mi appari come una caccola arida venuta a galla dallo starnuto del firmamento!»

L’atollo ribatte:- «Ma ti dispiacerebbe così tanto scansarti una volta per tutte dal mio orizzonte? Il tuo è solo un nulla che blatera vuoti a rendere!…».

 

Mentre l’acqua fa “cich” e “ciach”, giungo alla meta.

-Posso sedermi qui? La ringrazio.

Il tavolo quadro è per quattro persone ma saremo solo in due a brindare: io, all’ombra e questo sole, che scalda la metà dell’orizzonte che ho di fronte.

Posto ventilato, all’angolo tra due opposte e colorate intermittenze turistiche. Una dozzina di tavoli all’aperto e odori masticati. C’è gente che vedo roteare attorno alla propria pancia, belle donne con l’alito di piombo e bambini assonnati, flosci come palloncini.

 

Pochi minuti e son sempre lì che premo il boccale di birra, tra le mani, sulle tempie. Ho ordinato una Pita, dello tzazichi e un’altra Amstel; la prima mi sta rigenerando.

Scorre fresca nel mio arido esofago e le pupille brillano; e la mia psiche dirama.

Si, certo, il sole è certamente un’entità altolocata ma con chi scambio due stronzate in italiano?

Con la cipolla nella Pita, arrivano i piedi di Ezechiele e Serafino.

 

 

*

 

 

Ore 15:46. Il sole è sul loro tavolo e ci ridono sopra. Serafino, da quanto ho capito, racconta di una macabra vicenda accaduta qualche millennio fa sull’isola nel mare di Kefalos, prima dell’avvento dei preti e del Club Mediterranee.

 

Quasi tremila anni fa, su quell’isola, viveva un uomo senza nome e senza peli sulla lingua. Per riconoscerlo tra i raggi di sole che, toccata terra, a quei tempi formavano come delle stoppe, lo chiameremo Dimitri. Eccolo lì.

Dimitri amava la sua isola, non era un pescatore e viveva solo e spensierato già da quasi tremila anni.

Un giorno l’acquolina andò a fargli visita: planò con le sue ali e gli entrò in bocca.

Dimitri ebbe fame, per la prima volta in vita sua ebbe proprio l’impressione di avere fame. Una fame mostruosa.

Annodando a uno a uno i peli della sua lunga barba, Dimitri decise di costruirsi una lenza e come esca usò un suo dito. A quei tempi, non c’erano mezzi termini.

Lanciò il suo bisogno, con tutta la forza che aveva, annodando, l’estremità all’aria aperta, proprio sulla mano sanguinante.

Passarono gli anni e lui era lì, sul bagnasciuga, eretto, pallido anzi, morto per i suoi tre quarti. Sui suoi piedi prendevano il sole i paguri, senza guscio perché si sentivano al sicuro. Sul suo nuovo metro di barba castana, saltellava il mitico Tarzan, ma che dico, le splendide varietà di Cita che si portava dietro! A quei tempi, la libertà, non era un’opinione.

Fatto sta che l’esca, pian pianino, portata in grembo dalle correnti, raggiunse profondità impressionanti e dove altro avrebbe potuto posarsi se non nel buio più atroce, sotto miliardi di metri cubi d’acqua salata gorgogliante di spugne e pesci d’ogni misura!

 

Dimitri restava sempre lì, impassibile.

Per sembrar sveglio, dato che tutti gli orifizi del suo corpo erano infestati dalle meduse o merde sfuse, respirava col cervello. Quello gli rimase.

Oggi, raggiungendo a nuoto quello splendido atollo marrone, si riceve, dopo che ci son passate così tante lune sopra, una strana sensazione di sollettichio ai piedi. Una sensazione così atipica, che vien quasi da pensare a quel dito medio, così tanto caduto in basso.

-Di questi tempi, è meglio starsene a largo, non è vero Ezechiele?

 

 

 

 


*

Risorgivio 2002

Siamo nei pressi della Diga del Basentello, a circa 24 ore dalla “merendina che accarezzo”.

Sulla Murgia addomesticata, dopo esserci allontanati per una manciata di chilometri da Poggiorsini…toh, guardatelo: un lago nel silenzio, a primavera.

Tutt’attorno, il grano verde crea campi a cent’altezze, animati a intermittenza dato l’infrangersi della divina alitosi. Ossigeno, se lo gradite, che frastaglia le innumerevoli punte, tra un abisso e l’altro, colmo di fertile luce solare.

-Che vertigini!

Siamo su tre auto diverse, tutte da rottamare. Io sono sull’ultima e siedo sul lato anteriore di un posto a sedere, ricoperto sicuramente da moccoli, visto che alla guida, c’è una vecchia conoscenza.

Ondate che intiepidiscono i miei pensieri mentre ammiro, l’umido celestiale, traboccare sugli occhiali che indosso.

Si arrestino i motori e si aprano i sipari su questo pic-nic di Pasquetta, là dove incontro i tuoi occhi, cara Cri; intenti ad accudire le nostre spiaggiate salsicce di cavallo.

Li osservo e li fisso e poi, finalmente, mi concedi un secondo. C’è qualcosa in essi…tra il marrone e il muschio. La vedo mimetizzarsi tra le stoppe e allontanarsi, rifugiandosi nel buio di questa sinistra pupilla selvatica.

Rieccotela sbocciata dall’altro lato.

-Fammi entrare, è una grande idea che grugnisce a squarciagola!

-Ma sei fuori?

-Non ancora per molto.

-E io? Che ci rimango a fare qui, sola soletta, con questo branco di lupi affamati?

-Non aver timori, farò in un batter d’occhio e sarà solletico!

-Porco!

Così comincia l’arrampicata. Dai suoi stivaletti, ripieni di melma, fin sopra le sue labbra. A carponi, vinco anche il suo naso dove concedo al mio essere, cinque decimi di Yoga.

-Ed eccomi, dinnanzi al tuo infinito, mio amore; se hai la pazienza di udirmi, io ti dico che tra non più di sette minuti, staremo a far baldoria mangiando selvaggina. Ti va?

-E il vino?

-Il vino è a sacco. Chiederemo al giorno (Dì).

 

 

*

 

 

Stoppe ruotano lascive, rimpinzate da ignude correnti infreddolite, su un muschiato e serpeggiante sentiero discendente. Esso è illuminato, fin dove scorgo quei primi ramoscelli[1], da una luce che guizza a colpi di palpebra.

Mulina spirante, fluendo dalla mia vista, dato l’umido, verso le distese inaccessibili di macchia bruciata, sul fuoco delle tue pupille.

 

A sera, due astri solari, scaldano la mia notte. Lassù. Pazzi come la mia paura del fogliame che scodinzola, del profumo d’ombre e delle moltiplicazioni d’orma, che rivelano la reale presenza dell’arcigno selvatico. Pastulante nel forteto, sui miei passi da compire.

-Quasi quasi mi arresto, per non destare alcun sospetto. Ma lo devo catturare!…e con che cosa?

-(Semplice. Hai notato quei pensieri né in cielo e né in terra, che trascorrono, scivolando attorno alla sfera del tuo proponimento?)

-Ne visualizzo i lampi, ma nulla che sgoccioli in me come colore e mi sorvolano diretti verso il buio del confine!

-(Albeggerà e ti ritroverai faccia a faccia, col cinghiale a pancia all’aria. Non temere).

-Sarà, ma i pensieri del mio “germoglio”, son personali e continuano ad attraversarmi estranei!

 

 

*

 

 

Piove ed è notte, sul fogliame decaduto. Fradicio di te mia dolce Christin. Odori intimi che preludono alla Donna: il fulcro, di questo incantevole sottobosco appisolato. Del verro smaliziato ho perso le tracce, tralasciando ingenuamente il fiuto del vento. Certo, la bagarre della cacciata si fa col naso e non con gli occhi, ma la pioggia bracca me che poso la stanchezza, sulle braccia di radici affioranti.

 

Al mattino, imbalsamato dal freddo e controvento, ritrovo l’incantesimo nel regno impenetrabile di arbusti e rovi. La luce, avventurata, mi lascia comprendere di essere appollaiato nel ruvido abbraccio di ginepri e spinosi cespi di ginestra. I merli e i pettirossi, sembrano preferirmi; canticchiando e rendendo il mio risveglio, colmo di musica e sensazioni.

Si fa concreta la retta via solo quando, dietro i tronchi, immagino baritono l’elemento.

Puzzolente e fulminato mi rialzo. L’ora, sembra essere quella giusta. Spero solo che la preda, abbia in bianco solo il suo recente passato[2].

 

 

*

 

 

Scappo e salto, affannato ma convinto di potergli tirare le orecchie e possederlo, solo con la forza delle braccia.

Zig zag e poso, le mie prossime orme, in punta di piedi.

-Schh, silenzio!

Immobile astuto, stipato sull’argine di una proda, ronfa e scorreggia invisibile, dietro un cespo di stipa.

 

Eccomi di sorpresa su di lui che si inalbera!

-Lo tengo, lo tengo!

Ci dimeniamo, rotolando come due giovani innamorati. Poi gli sferro un cazzotto, due ceffoni e mi sale in grembo; grugnendo e slinguacciandomi come se fossi io, la sua sposa (sbadiglio).

 

Appesantito da 200 Kg. di zavorra, inizio l’ascesa fin sui punti di partenza e poi fuoriesco soddisfatto di me.

 

 

*

 

 

Eccovi, cari amici, quello che io credo possa digerire solo oggi: un forte odore di selvatico, tra le lenzuola di Pasqua.

-Guarda laggiù! Il cavallo ricoperto dalle sue salsiccette, che se la squaglia!

E guardate, miei illustrissimi, i vostri occhi! Come son buffi di fronte al sorriso della mia pazzia!

-…Krisst, smettila di accarezzare la tua folta e balbuziente farfallina!

-E perché?

-Vedo che…deve ancora bisbigliarmi qualcosa, lo sento!

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Le tue ciglia.

[2] Sia in carne; bella trippacchiuta.