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Raccolta di testi in prosa di Carlo Tontini
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Ecumene lontano (4)

IV. Epilogo

 

Salii nella fortezza dello stabilimento per le scale di legno logore d’aria di mare. Una palafitta in cui stanno ristorante, bar, cucina e direzione. Dal soffitto di travi penzolano, appese a spaghi sfilacciati, modellini di navi, lische di pesce, reti e mandibole di pescicani e Ticchio, il principale, guardava ubriaco un incontro di boxe. Un suo nipotino gli s’accostò per giocare ma lui lo scacciò dicendo d’essere troppo preso dal match. Poi m’offrì del vino che rifiutai. “Che hai?” mi chiese vedendomi giù e tracannò un bicchierone di bianco. “Sono stanco Ticchio. Pagami e me vado.” Ma lui non m’ascoltava già più e gridava: “Vai col gancio p***o Dio!” Così mi sedetti al suo fianco e guardai l’incontro con lui. A fine match s’alzò in piedi e barcollante raggiunse la parete più vicina per non cadere, pareva aver preso più pugni dei pugili. Sospirò, rise e farfugliò al suo riflesso nel vetro d’un frigo: “Che birbante che sei!”

Si risedette su una sedia vicina, mi vide e mi disse: “Che ci fai tu qui? Ci sono le barche da tirare su. Non hai visto il mare come sale? Mi vuoi mandare in rovina?” Io guardai da un’altra parte e gli dissi: “Sono stanco, pagami e vado via”. Lui s’alzò e barcollò fino a me. Mi si mise in piedi davanti oscillando come un cipresso: “Che dici? Io come faccio senza bagnino? Mi devi un preavviso!” “Quanto ti devo?” “Almeno un paio di settimane!” Allora m’alzai dalla sedia su cui cadde subito Ticchio seduto e ansimante. Il cuore d’un vecchio alcolista e incallito fumatore non sopporta bene gli imprevisti. Camminai e m’affacciai dalla vetrata vista mare. Il mare stava salendo e le prue delle barche più in riva iniziavano a beccheggiare. Ticchio, seduto in modo osceno, col ventre gonfio scoperto, rantolava che lo volevo rovinare, che lui era stato sempre buono come un padre con me e che tutto questo non lo meritava. Il mare saliva. Ticchio diceva: “Ora come faccio con le barche?! Se se ne vanno in mare sono rovinato!” S’alzò e, rischiando di cadere, mi raggiunse. S’appoggiò alle mie spalle: “Guarda quelle barche! Come faccio a tirarle su da solo?! Non puoi mollarmi così!” Io lo fissai negli occhi storti dal vino e gli dissi: “Tu mi paghi e io ti alzo le barche, poi me ne vado e domattina non torno.” Lui alzò il braccio destro, chiuse il pugno e tentò invano di colpirmi in faccia. Mi mancò e, sbilanciato, perse anche l’appoggiò che aveva sull’altra mia spalla. Rischiò di cadere ma s’appoggiò alla vetrata sul mare. Lo vedevo sullo sfondo della tempesta, era come se stesse appoggiato al mare in furia, tutto di sbieco e sciatto come un barbone, un Poseidone ubriaco. Urlò: “Tu non puoi farmi questo p***o Cristo!” Annamaria, sua moglie, uscì dalla cucina preoccupata. “Questo bastardo si vuole licenziare! Ci vuole mandare in rovina!”

“Perché ti vuoi licenziare?” mi chiese Lei. “Perché sono stanco, non ne posso più.” Poi si rivolse al marito: “E che problema c’è? Perché urli così?” “Perché il balordo vuole andarsene senza preavviso, ora, su due piedi! Vuole lasciare quelle barche andarsene per mare!”

“Ma amore, lui non deve preavviso. Lavora al nero!” Ticchio si scollò dalla vetrata con un colpo di reni: “Allora io non gli devo un centesimo! Che sparisca p***a la Madonna!” e cadde a carponi, ansimò e gli colò dalla bocca un laccio di bava. Annamaria gli si avvicinò, gli pose le mani sulla schiena e lui vomitò un liquido giallastro in cui sguazzavano scaglie e spine di sarde. Annamaria gli sussurrò: “Amore, ma se va via chi alza le barche? La sua paga non vale la metà di tutte quelle barchette… paghiamolo e basta.” Lui, carponi, alzò lo sguardo su di me: “Vai ad alzare le barche allora! Poi i soldi.” “Prima i soldi.” Lui s’alzò furioso per venirmi addosso, ma al primo passo scivolò sul suo vomito e cadde all’indietro. Annamaria mi guardò come per chiedermi: “Ma che sta succedendo?” Sdraiato a terra, Ticchio lanciò uno sguardo fuori dalla finestra, vide che era troppo tardi e biascicò: “Questa è la fine”.

Il cielo è ormai nero e tanta la pioggia, il vento e le onde che non esiste più alcun orizzonte. Tra le creste bianche di schiuma fanno su è giù le travi delle barche distrutte. All’apice della tempesta, nell’occhio del ciclone, s’eleva ogni frammento di quello c’era e forse un giorno ricadrà, come fosse un detrito spaziale, sulle nostre teste. Ciò ch’era nostro non lo riconosceremo più e c’allevierà il pensiero d’uno spazio infinito, sconosciuto e inconoscibile, in cui il senso segreto delle nostre storie si nasconde così bene da sparire. Tutto ciò che ci spetta è alla fine dubbio e incertezza.   

*

Visse sulla terra un filosofo

Visse sulla terra un filosofo che disse che non esiste linguaggio privato. Ovvero, almeno secondo alcune delle interpretazioni più diffuse della sua teoria, che ciò che si dice non esprime gli stati mentali di chi parla, ma è semplicemente un’attuazione di certe pratiche sociali che si eseguono attraverso il linguaggio. Dire che si prova un dolore ad esempio non equivarrebbe all’esprimere una sensazione, ma al partecipare a un gioco in cui le mosse delle pedine siano frasi e parole pronunciate. Chi parlasse da solo sarebbe allora come chi girasse intorno alla scacchiera, muovendo sia i pezzi bianchi che quelli neri, sfidando sé stesso a chi è più abile. E chi tra sé e sé conducesse un lungo monologo per schiarirsi le idee sarebbe una sorta di schizofrenico perché, non esistendo linguaggio privato, non si potrebbe parlare a sé stessi senza almeno sdoppiarsi. Va da sé che secondo questa teoria non esiste coscienza pensante che non sia un’illusione di non essere soli anche quando lo si è e, siccome questa teoria, per quanto arguta, non offre argomenti a riprova del fatto che, anche in solitudine, la gente pensa, parla, e prova sensazioni, porta chi la accetti a credere di non esistere come uno. Chi la accetti dovrebbe cioè, se si attiene ad alcune semplici regole deduttive, ammettere di non esistere affatto oppure di non essere mai solo. Dato che poi è difficile a tutti convincersi di non esistere, se non altro perché, come un altro filosofo disse, già il domandarsi di esistere prova la propria esistenza, è molto più diffusa, tra chi accetta la non esistenza del linguaggio privato, la credenza di non essere mai soli.

Fatto degno di riflessione è poi che questo stesso filosofo, quello della non esistenza del linguaggio privato, in altri luoghi della sua produzione intellettuale, sostenne il solipsismo. Ovvero la tesi secondo la quale, dato che non ne è dimostrabile l’esistenza, non esisterebbe la mente degli altri. Secondo l’interpretazione più diffusa di tale inquietante pensiero, saremmo al mondo completamente soli e tutti gli altri a cui attribuiamo una coscienza sarebbero solo dei corpi parlanti privi di mente. Questa tesi, sicuramente più della non esistenza del linguaggio privato, è facilmente supportabile da comuni esperienze quotidiane. Chi mi dice ad esempio che chi risponde alle mie domande non faccia lo stesso di un distributore automatico che in cambio di una moneta mi dà una merendina? Forse dovrei attribuire una coscienza anche a lui? Secondo questo pensiero allora o tutto ha una mente ed una coscienza (ed è questa una tesi che sta prendendo piede) o nessuno ce l’ha. Ma cosa ci dà motivo di attribuire mente e coscienza a qualcosa o a qualcuno? Nessuno naturalmente dubiterebbe del suo essere cosciente. Se dubiti di essere cosciente è già questa una prova che lo sei. D’altra parte risulta impossibile provare a qualcuno di dubitare di qualcosa, ed allora si può anche urlare come dei disperati nel tentativo di provare la propria presenza, ma nessuno, se non per un atto di fede, potrà mai credere nella coscienza d’un altro, e quindi d’avere un compagno di viaggio in questo magma d’enigmi in cui assorti si vive.

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Ecumene lontano (3)

III. Cataclisma

 

Contemplando il mare e l’imminente tempesta continuavo a camminare piano, affondando i piedi nella sabbia asciutta. Ad ogni passo tentavo d’alzare più sabbia possibile nella speranza che il vento la portasse chissà dove, nella speranza di diventare anch’io sabbia e di sciogliermi nel vento. Volsi lo sguardo dal limpido sudest all’oscuro nordovest e pensai che sarebbe stata solo questione di tempo.

Gli ombrelloni, sotto i colpi del maestrale, rimbombavano, e quelli più vicini al mare, dove il vento è più forte, si rovesciarono. I clienti raccattavano i loro panni e i loro borselli. Alcuni si vestivano e rimanevano sotto l’ombrellone, sdraiati, disinvolti, sui lettini prendisole. Io sentivo di non avere il diritto di avvertirli dell'imminente tempesta: magari aspettavano proprio quella. Certo io stavo lavorando. In casi simili è sempre preferibile che la clientela se ne vada, che mi lasci da solo sotto la pioggia a chiudere con calma ombrelli, sdraio e lettini; poi, finito quello, c’è da tirare su, a causa del mare che sale dalla battigia, i pattini, le barche, i pedalò. Tutti lavori per i quali è preferibile  stare da solo. Certo è solo un punto di vista. Comunque, solitudine o no, cominciai a chiudere gli ombrelli della prima fila. Alcuni erano rovesciati. Quando arrivavo sotto un ombrellone ancora abitato afferravo lo scatto e mi sentivo chiamare da qualcuno che, vestito d'una camicia fiorata, si stringeva nelle braccia e, con i capelli strattonati dal vento mi chiedeva: “allora bagnino, regge il tempo?” Da dentro l’ombra m’indicava con gli occhi il sole, modellava un'espressione perplessa, come se non riuscisse, o non volesse capire perché il sole, quel giorno, accecava ma non riscaldava, e intanto incassava il collo e stringeva le spalle per il freddo. Io chiudevo l’ombrellone sopra di lui lasciandolo inondare di luce e, socchiudendo gli occhi, guardavo a nordovest. Stordito di luce, lui, si metteva una mano sulla fronte e si voltava facendo perno su un bracciolo della sdraio col gomito. Il promontorio d’argilla era coperto di nuvole nere. Nell’entroterra di quel promontorio c’è una riserva naturale, gli animali saranno stati tutti già al riparo. "Non penso che regga" dicevo lasciando uno spiraglio di speranza (che sapevo illusoria) per mera cortesia turistica.

C’è un punto della spiaggia che somiglia a una duna del deserto. È una collinetta che ricopre un ammasso di enormi sassi altrimenti pericolosi. Finito di chiudere gli ombrelloni mi misi in piedi lì sopra.

Ci si chiede a volte, vedendo il mare nero gonfiarsi di onde, che senso ci sia nelle nostre giornate buttate. Sfiorando la terra su cui camminiamo con le piante dei piedi questa si sgretola e vola via, e stringendone un pugno tra le mani scivola fra le dita. Se ne sono andati tutti. Sono solo e sopra di me il cielo è nero. Da questa duna si vede chiaramente, in alto, la direzione. Attraverso la finestra si vede il padrone che conta mazzi di banconote. In giornate così è sempre ubriaco, li conta e li riconta diverse volte prima di nasconderli in qualche antro. Io conto le onde, i granelli di sabbia, le persone che salgono, sparpagliate in gruppetti da tre o da quattro, la ripida scalinata che porta sulla strada. Bestemmiano tutti, eppure hanno pagato loro per questo. Il padrone, riposto l’incasso in qualche posto sicuro, s’infila il cappello, apre la porta di legno ed esce sul balcone. Da lassù, con lo sguardo, parte da sud, fa il giro in senso orario e, arrivato a nordovest, il maestrale gli strappa il cappello dalla testa. Bestemmia. Io ho visto, dalla duna, tutta la scena. Quel cappello ha planato per decine di metri, poi, piano piano, ha perso quota, ha toccato cinque o sei volte la spiaggia volteggiando, e s’è fermato solo una volta bagnato, una volta finito in mare. M’ha rattristato.

"Perché stare ancora qua?"  Mi sono chiesto.

"Perché è lavoro." Mi sono risposto.

"Perché lavorare?" M’hanno chiesto i marosi che contemplavo andare e venire.

"Oh! Sali, vieni qua!" Mi urlò a quel punto il principale.

Segue in "Ecumene lontano (4)"

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Ecumene lontano (2)

II. I soldi e il tempo buttato a guadagnarli

 

Mi sorprendo sempre della gente che maledice i soldi spesi, gli investimenti sbagliati o, più romanticamente, gli agenti atmosferici, come se agissero secondo una qualche volontà. Quel giorno tirava il maestrale. Veniva violento da dietro l’angolo, da dietro il promontorio d’argilla. Era d’agosto. Prendendolo da dietro un vetro, il sole, scottava come al solito d’agosto e soltanto vedendola in foto, quella giornata, avresti boccheggiato. Ma sulla sabbia, lì, sulla spiaggia, il calore del sole, lo strappava dalle pelli nude il maestrale. Qualche scialle fino e leggero, aggrappato a spalle o avvolto a bacini di donna, sventolava teso nell’aria e, visto controluce, pareva solo una macchia d’acquerello. Le sigarette, accese poco prima dell’inizio della ventolata, ancora appese alle labbra socchiuse, bruciavano al vento e, prima il fumo, poi la cenere, infine la cicca rubata, si dissolveva tutto. A largo, il mare, s’increspava. In alto, verso nord ovest, era tutto nero. Passeggiando affondavo i piedi nella sabbia asciutta per trovare un po’ di calore. Era lavoro, io stavo lì per lavoro se no me ne sarei andato. Ad ogni passo alzavo un po’ di sabbia che subito si lanciava ad inseguire il vento. Erano le quattro, in acqua c’era tanta gente. Le labbra cominciavano a farsi viola, i denti a battere, le mani a farsi rugose. Dalle file degli ombrelloni si sentivano delle donne che, avvolte negli scialli semitrasparenti, agitando asciugamani spiegati, urlavano il nome dei loro figli. Alcuni uomini, ignorando il vento, e sperando che fosse solo una folata, restavano a gambe incrociate sulle sdraio, cercando di leggere il giornale che si accartocciava e si ripiegava su se stesso o, a volte, inseguito dalle loro bestemmie, se ne volava via.

Eppure si paga per passare giornate così.

I bambini escono correndo dall’acqua, dai loro capelli bagnati si sfilano perle che bagnano la sabbia, le madri li avvolgono in asciugamani e li mettono in piedi sui lettini. Poi si allontanano per prendere le ciabatte. Il bambino, in piedi, completamente coperto dal telo, ha solo una fessura per gli occhi. Ancora bagnato d’acqua salata si lecca le labbra. Guarda il mare dal quale è appena uscito e che si sta ingrossando. Sente il suo richiamo, il suo pulsare, il suo essere vivo.  Si sente afferrare per la testa, tirare giù, mettere seduto, spogliare del telo. Crede di dimenarsi ma è solo un’impressione, è solo lo sfregamento dell’asciugamano. Sente il maestrale freddo sulla pelle e crede di urlare, ma è tutto impressione, sogno, stanchezza e voglia di essere un'onda. Rivede il volto della madre, sopra di lui, stagliato s’un cielo nero. Sorride: per un attimo s’era perso. Per un attimo visse un naufragio. Delle gocce d’acqua arrivando dal cielo colpiscono la nuca della madre, le fanno strizzare un occhio, poi colpiscono la fronte di lui. Di lui che guarda il mare, vorrebbe immergervisi ma la madre lo porta via, in braccio per non fargli sporcare i piedi, come se fosse l’ultima volta.

 

Segue in "Ecumene lontano (3)"

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Ecumene lontano (1)

I. Preludio

 

Oggi il cielo non è come al solito. È un mosaico di pietruzze colorate, brillanti, accostate l'una all’altra con estrema maestria, che riflettono su di noi, nudi e gracili attendenti, il loro variopinto bagliore. Sembra d’ essere, anziché un proiettore, un innocuo e beato schermo bianco.

"Cesare! Cesare! "

Lei, colei che urla, avrà più o meno novant’anni. I piedi, ancorati nella sabbia come le radici di un pino nella terra, la sorreggono. Altrimenti, sporta in avanti com’è, con le mani ad ampliare la voce attorno alla bocca e quella gobba che le grava sulla postura, sarebbe senz’altro caduta faccia a terra. Urla : " Cesare!" a cinque o sei metri lontana dalla battigia. Cesare, vecchio come o forse più di lei, s’è incantato, coi piedi massaggiati dalla risacca spumosa, a guardare il tramonto irripetibile, o forse eterno, del sole riflesso s’un mosaico di cielo. "Cesare!" Si sgola lei, finché le mani, da vicino la bocca che erano, le cascano lungo i fianchi. "Cesare, sei sordo…" sussurra tra sé e sé, rassegnandosi, per l’ennesima volta nella vita, alla morte sempre più vicina.

Il mare calmo, col sole chino ai suoi bordi, riflette, stendendola dall’orizzonte ai piedi di Cesare, una passerella baluginante di svariati colori. Ed oggi, come mai, sembra eterno il mondo.

Perché tutti, dispersi avventori, attendenti impazienti, svogliati condannati ai lavori forzati, ci sentiamo soli e, martellando pietre, tra gli echi dei colpi cadenzati (apparentemente a caso ma in realtà al ritmo della nostra fatica), lanciamo i nostri disperati, o a volte disincantati, inauditi richiami.

"Tosca! È tardi, Tosca!"

C’è un uomo che in piedi sulla riva si gira attorno e grida: " Tosca!"

Ma è come se stesse zitto, perché "è tardi, Tosca" sono parole dette a un cane. È come se recitasse, anziché con la scusa dell’orario richiamare il cane, un canto d’amore al cielo e intanto ballasse. Tosca, tutta bagnata, col pelo appesantito dalla sabbia, corre attorno a quell’uomo; passa sulla sabbia asciutta, su quella bagnata, poi sull’acqua bassa della riva. Alza nuvole di caligine, lascia impronte, poi alza schizzi di mare. Ed è come non capisse o non volesse ascoltare, ma d’altronde chi la chiama lo sa, è come se stesse zitto. Ma continua la cantilena "Tosca! È tardi, lo sai, Tosca, Tosca andiamo via!" e intanto si gira attorno e con gli occhi segue Tosca ma è come non la vedesse.

A cosa si pensa mentre senza farci caso si alzano segnali di fumo?

Da lontano, da dove sul promontorio d’argilla sorgono i ruderi dell’antica villa romana, arrivano segnali: nuvole dense di fumo s’alzano al cielo, dapprima compatte, poi, man mano che salgono si gonfiano fino ad espandersi e a dissolversi nell’aria. Chi è? In che epoca siamo? Una sirena? Ho sentito bene, era il suono d’una sirena? Ah, eccola! Era una nave, che lontana, nascosta alla vista dal promontorio, sbuffava e suonava la sirena! Come ho fatto a pensare agli indiani? Forse è la fatica.

"Amilcare! Chi è?"

Tra le file degli ombrelloni se ne vede uno chiudersi e aprirsi. Ogni volta che s’apre, la colpevole, la donna che gioca con suo figlio, grida in falsetto : "Amilcare! Chi è?" e il bambino, chiuso nell’ombrellone, non risponde: ride. Sta immobile, nel buio zitto, quando la madre apre l’ombrello sente "Amilcare! Chi è?" strizza gli occhi al colpo di luce e ride. Il gioco andrà avanti ancora per molto: almeno fin quando arriverà la tristezza, fin quando i sorrisi e le grida in falsetto si scioglieranno nella stanchezza.

Verso nord il promontorio, verso sud il manicomio. Questa spiaggia insiste in un bell’angolo dell’universo. Il Mar Tirreno ruba e riconsegna la sabbia da ovest; a est c’è un’alta e ripida ripa d’argilla. Ogni tanto si sgretola franando e sulla spiaggia arrivano rotolando massi d’argilla, ma è problema di piccola entità poiché il grosso è tenuto dalle radici della folta vegetazione mediterranea che ricopre e abbellisce, dandole aspetto selvaggio, l’antica e benefica ripa.

"Bella la vita! Bella la vita è!"

Eppure sto qui, con un martello in mano, a martellare pietre. "Bella la vita!", mi sento gridare e penso di alzare la testa per guardare, ma aspetto finché non s’ode anche la seconda parte. "Bella la vita è!" Resto in ginocchio come sto, pieno di dolori e di fatica, e alzo lentamente la testa. È una donna che, passando sulla battigia, con due uomini ai fianchi e vestita da ginnastica, mi grida: "Bella la vita! Bella la vita è!" scuotendo ampiamente braccia e mani. Ha, sul volto, dipinto qualcosa di incomprensibile, qualcosa dipinto con tagli ancora sanguinanti. M’incanto, mentre il sole tramonta, a fissarla, stanco, dolorante, pieno di calli, con gli occhi socchiusi da gocce di sudore, e lei urla, guardandomi negli occhi, passando con passo di rabbia accalappiata : "Bella la vita!" Vorrebbe assalire chiunque, o forse solo parlare di vita, ma i due uomini, a ogni suo passo fuori linea le cingono tenacemente le spalle. E lei gesticola, fissa persone, e grida : "Bella la vita! Bella la vita è!" andandosene verso sud. Laddove l’inghiottirà il manicomio.

"Lode!"

Grido io a sole calato, getto il martello a terra, ho staccato. È da stamane che aspettavo che il sole, calando, ci avesse gettato tutti nel buio. Non c’è più mosaico, non c’è più nessuno, si sente solo un ultimo, esile, sommesso richiamo.

"Anna!"

Lui, colui che sbuffa, è Cesare, che a tramonto finito si volta e cerca Anna. Ma lei è un pezzo che c’ha rinunciato. Ha calato le braccia alla sua sordità e s’è avviata. "Anna… Anna… Anna…" ripete Cesare mugolando, intanto che, brancolando nel buio, cerca le orme lasciate da Anna, impresse, ancora per poco, nella sabbia.

Le troverà mai e con esse la strada di casa?

 

Segue in "Ecumene lontano (2)"

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Il mondo in un sushi-bar

_Il mondo in un sushi-bar_

 

E allora dissi che per me era troppo

Non troppo per errore del cuoco spiegai battendo un pugno sotto il tavolo

Il cameriere mi fissò incuriosito e io bussai ancora

È che non ho più fame…

È che non ho più fame l’aggiunsi solo per non offendere un popolo.

Non è giusto che un popolo paghi la stupidità di un altro popolo.

Non per il fatto che gli italiani ingrassino il mercato della merda è spiacevole la cucina giapponese e poi…

E poi lì non c’erano giapponesi

Me lo confidò uno sparecchiatore pakistano : “qui non ci sono giapponesi” disse “sono tutti filippini” e aggiunse un’altra nazionalità che per adesso non mi sovviene.

Fatto sta che sento un dolore, ora che ho mangiato quelle polpette di riso,

che costante in intensità viaggia nel mio corpo.

Ora qua, ora là, è partito dalla gola e non si ferma: viaggia come una cometa nelle mie viscere.

Sono brutte situazioni che ti fanno sentire stupido e per colpa della bassa autostima si odia il mondo intero.

Sono contro!

Non alla cucina esotica

Ma a quella falsa

Al prodotto del mercato della merda che produce denaro servendoti merda cruda

E non provo simpatia, no! Falso che sono! Non posso dirlo: ci andrebbero di mezzo anche dei miei amici.

Moderazione e tolleranza.

Non provo simpatia per un opinione:

“buono, è roba buona: paghi poco e mangi tanto!”

È un opinione scorretta non malvagia, quella corretta sarebbe questa:

“è un’ingegnosa trovata, riescono, con la scusa del prezzo basso a farti mangiare la merda!”

Ok, direi, sono bravi.

Non andiamoci a mangiare però.

Tanto la verità viene sempre a galla è solo un fatto di pudore:

o emerge dall’opinione

o la vedi il giorno dopo galleggiare nell’acqua del cesso

la verità

Ergo

la merda 

ciò che hai mangiato con delle bacchette fra risa e schiamazzi

e a tavola c’era anche chi a preso subito, durante il pasto, un medicinale.

Pakistani! Ecco

Filippini, e l’altra nazionalità che nominò lo sparecchiatore era “pakistani”

D'altronde lo era lui stesso.

Perché privare un uomo desideroso di mangiare sushi di andare lontano?

Perché tarpargli le ali facendogli credere che il mondo intero sia dietro l’angolo?

Perché figli di figli di figli di figli, anziché viaggiare ed essere liberi, lavorano e mangiano merda, vedendo filmati di gente che maneggia merda, pagando per giunta?

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Quattro cristiani e un musulmano

_QUATTRO CRISTIANI E UN MUSULMANO_

                                         (sogno al finir del sonno)

 

Ancora non sapeva se credere oppure no, se esistesse, al di là del sonno, la veglia.

 

( Se aprendo gli occhi si mettesse un punto, una fine? Se non si richiudessero più e ci lasciassero brancolare in un sogno senza fine? E al calar delle palpebre, di palpebre fatte di sogno… )

 

Tre colpi alla porta fecero tremare il sogno, Nunzio disse avanti. Cigolio. Aperti gli occhi, Nunzio, vide la porta ancora chiusa. Serrò di nuovo le palpebre.

 

( L’ho creduto come fosse fatto di realtà, ma sbagliavo.

-hanno bussato la tua  corteccia Nunzio!-

         - cosa?-

                                             -è un picchio. Vuol fare il nido

                                                        nel tuo cervello…-

 

                     -non penso: penso

                      sia stato Florindo…-      

                                                                                -… mmm …- )

 

Come fece Florindo ad entrare non ci è dato sapere. Nunzio lo guardò bene in faccia e notò: - che hai fatto?,- qualcosa di strano, - t’hanno picchiato, che è quella faccia livida? -. Continuava a non sapere se credere oppure no, sommerso dalle coperte, guardava il suo tumefatto amico. Sorrise Florindo, ai piedi del letto, tra i lividi e le sacche di sangue rappreso: - guarda che è tardi, giù ci aspettano Nuca e Oriano. - - Allora mi vesto e scendo. -

 

( C’è un qualcosa d’inafferrabile in questo momento, in questa mattinata evanescente, c’è un qualcosa di sempre: Nunzio s’alzò e s’affacciò, e giù, in strada non c’era nessuno.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         È dolce richiudervi,      oh palpebre del sogno! )

 

Una sassata crepò il vetro della finestra, Nunzio la raccolse, era un gesto. Un gesto avvolto in un messaggio scritto sulla carta: è un gioco senza regole. Nunzio incise sul sasso un messaggio: e come si gioca allora? E rilanciò il tutto nella crepa, che divenne una bocca: - baciami! –

 

-Ma sono solo un bambino!- tremò Nunzio: il vetro spaccato è tagliente.

 

Nunziò abbandonò la sua stanza e scese le scale, fuori la porta c’erano tutti: Florindo, Nuca e Oriano: - ah finalmente! Corri, vieni, guarda! – cantarono tutti e tre, e Florindo (che aveva ora una faccia normale) alzò, stretta nel pugno, una mazzafionda.

Battette le ciglia Nunzio: - LA FIONDA !!! – le ciglia si legarono e lo imprigionarono nel buio. Strinse tra le mani l’angolo della sua coperta.

 

( Credevo d’aver fatto le scale all’ingiù, d’aver visto gli amici miei e d’averli sentiti cantare.

                                                               Una biglia di vetro ha staccato l’intonaco 

                                                 del muretto di cinta.

                                                                      “Chi è stato?” grida furiosa mia madre,

         “sono i tuoi amici Nunzio!” )

 

Nunzio si alza dal letto e s’affaccia, sente risatine in lontananza: “chi ha staccato l’intonaco dal mio muretto di cinta?” grida. Fa capolino un ragazzino musulmano, i ricci capelli neri brizzolati d’intonaco. Da lontano tra le siepi s’alza una mano : - sono stato io! – stringeva una fionda. ( LA FIONDA!!! )

 

( - Florindo! Lo sapevo ch’era stato lui!-

                                                                     -Tendi sempre ad incolpare Florindo,

                                                                                magari sbagli… - )

 

Un picchio, intanto, guardava con occhio di brama la tempia di Nunzio.

 

( -… mmm…-

-…un picchio?…-            

                                       

                                                    -te l’avevo detto. Che  fai ? Ti alzi o aspetti

                                                                                            che quel picchio si

                                                                                                             decida?-                 

                                                                                                                                                                                                      

        -Devo alzarmi prima che quel bastardo si decida -)

 

Ora Nunzio, sveglio da qualche secondo, non potrebbe neanche lontanamente immaginare tutto quello che è successo proprio in camera sua, proprio nella sua testa da dormiglione.  Soltanto avverte dell’ipersensibilità a una tempia e, prendendolo come un dato di fatto, non se ne preoccupa al punto di non affliggersi più nell'ostinata volontà di trovare a tutti i costi qualcuno da in colpare.