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Raccolta di testi in prosa di Luciano Lodoli
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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I nomi del Belli e il totem del Tosto

Eoni or sono all'esame di Maturità portai il Belli come autore scelto assieme a Leopardi e Pietro Aretino.

Uno dei membri della commissione, un calabrese di cognome Tosto, di nome credo Rosario. durante l'interrogazione condotta dal membro interno del liceo sede di esame (il Righi di via Boncompagni a Roma), si intromise e mi fece questa secca domanda: "Mi dica, lei che porta il Belli, quali sono gli altri nomi di battesimo di Giuseppe Gioachino Belli?". Io restai perplesso e feci umilmente notare che due nomi erano in numero già non del tutto trascurabile. Non ci fu più nulla da fare, fui "rimandato a settembre" (allora era ancora presente la sessione di riparazione) e la stessa sorte fu condivisa dall'ottanta per cento dei maturandi nelle sezioni facenti capo al commissario Tosto.
A coloro che non portavano il Belli il Tosto aveva chiesto: "Mi dica a chi affidò il cavallo Luigia Pallavicini dopo essere caduta dallo stesso".
Il giorno dell'uscita dei quadri indicemmo una riunione tra tutti i rinviati e constatammo che a tutti quanti il professor Tosto aveva pronunciato coram commissionis la stessa frase: "Se lei si fosse preparato sulla mia "Letteratura della lingua italiana" avrebbe saputo rispondere"!
Una mia carissima zia, professoressa di lettere, venuta a conoscenza dei fatti in meno di un paio di mesi riuscì a procurarsi una copia del terzo tomo di quel testo. 
Era un volume enorme, piuttosto costoso, e tutto pieno di sì notevoli contributi alla conoscenza della nostra amata lingua italiana.
Nei tre giorni dell'esame di riparazione in Italiano costruimmo nel corridoio, in prossimità della porta dell'aula in cui si svolgeva, un totem composto da un seggiolone impagliato sormontato da un leggío barocco da chiesa comprati per poche lire a porta portese e vi apponemmo, con le pagine aperte a metà, il volumone della "Antologia" del Tosto.
Lo sconcerto ci prese quando constatammo che il professore in causa, ben lungi dal comprendere il significato ostile del totem, lo prese come un segno di devota gratitudine da parte nostra e, si disse, portò il totem intero a casa sua in Calabria, non senza averci prima promosso tutti. 

Oggi rimpiango però la perdita definitiva di quel testo, che mi avrebbe tenuto compagnia nei successivi decenni di vita, specie nelle notti insonni, con la sua straordinaria collezione di inesauribili quanto lepidi e inutili e pur divertenti aneddoti.

 

PS 
Per la cronaca: Giuseppe, Francesco, Antonio, Maria, Gioachino, Raimondo, sono i nomi del Belli.

La persona cui Luigia affidò il suo cavallo non ricordo, ma il Tosto asseriva fosse un affine della famiglia Leopardi.

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Una gita in balilla nel 1946

Dovevo avere poco più di due anni il giorno che feci la mia prima uscita dalla città. Forse quella era anche la prima gita che i miei genitori facevano dopo la fine della guerra, grazie alla ricomparsa dei primi rari litri di benzina venduti non a borsa nera.
Era un pomeriggio di tardo autunno probabilmente. Il mio fratellino maggiore dormiva sdraiato sul sedile posteriore dell’auto ed io, felice, me ne stavo in braccio a mia madre e guardavo di tanto in tanto fuori dal finestrino della nostra Fiat Balilla nera a tre marce, già vecchia nel 1945.
Ogni tanto, distrattamente, guardavo e ascoltavo mia madre e mio padre che conversavano o tacevano lieti. Assaporavo un’ineffabile e pervasiva felicità, che poche volte ebbi ancora modo di provare, prima che mi fosse usurpata per sempre dal nascere, inopinato ed incalzante, dei miei fratelli più piccoli.
Assaporavo dunque quella serena pienezza estatica che la titolarità del grembo materno, caldo, sacro luogo di delizia, sola può dare quando ad un tratto trasalii: ebbi la subitanea consapevolezza d’essere come risucchiato, precipitato al cospetto del “mondo di fuori”, la cui presenza improvvisamente mi turbava e mi affascinava ad un tempo.
Ecco là fuori, sconfinato ai miei occhi di piccolo bambino, ai piedi della collina su cui la nostra auto si arrampicava percorrendo una sconnessa strada bianca, il dispiegarsi di una superficie, chiazzata dai più diversi e cupi toni di verde e screziata di macchie color rosso-ruggine, estesa fino a lambire laggiù nere e minacciose montagne.
Non so immaginare a conclusione di quali percorsi di tacita cognizione e di subentrante bufera emotiva ciò avvenne, ma indicando quello che scorgevo fuori del finestrino mi trovai ad urlare:
“il mare, il mare, il mare!… il mare, il mare, il mare!… il mare, il mare, il mare!…”
e così via per qualche interminabile momento, quasi in stato crepuscolare, estraniato ormai dal paradiso interiore in cui ero immerso fino a pochi attimi prima.
Mia madre mi sorrideva con dolcezza infinita ma, dimentica del mio essere un bambino di due anni, con ansiosa e sollecita apprensione, cercava anche di riportarmi alla realtà, alla sua realtà.
Non poteva certo mia madre avere idea di quanto quell’episodio di mutamento di esperienza di “vivendo” mi aveva inesorabilmente cambiato.
Avevo maturato una percezione del mio esistere qualitativamente differente: nulla di ciò che sentivo di essere prima era scomparso, ma ciò che ero prima si trovava ad essere ri-compreso in qualcosa di esperenzialmente sovraordinato che prima non c’era.
E’ del resto ovviamente banale che mia madre, dal suo punto di vista, si preoccupasse del mio confondere una foresta estesa e vista dall’alto con il mare.
E’ altrettanto ovviamente banale che una tale preoccupazione fosse del tutto fuori luogo: che importanza poteva avere per me confondere una foresta con il mare dal momento che io non avevo mai visto prima né l’una né l’altra cosa! Da lì a pochi mesi avrei conosciuto da vicino anche il mare e la foresta cominciavo a sapere ormai cosa fosse.
Era accaduto qualcosa di una portata ben più grande: ciò che aveva suscitato quel mio sconvolgente meraviglioso e terribile trasalimento era la scoperta tacita, esperienziale, diretta, per molti anni per me indicibile e incomunicabile, ma chiarissima da subito, dell’esistenza in me (nella mia “mente” avrei detto più tardi), contemporanea, contigua e integrabile ma non omologabile, di una realtà di soggetto esperiente da un lato e dall’altro di una realtà in qualche modo inesorabilmente esterna, percepibile ma non esperibile.
E mia madre stessa apparteneva (umanità tapina!) a questa seconda forma della realtà.
Io avevo perduto la cittadinanza della valle dell’Eden...

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Un sogno di Adele

Una volta Adele mi porta in seduta il resoconto scritto di un sogno, a suo dire molto angosciante, che l’ha svegliata quella mattina:

"Vado a M. e ne approfitto per passare all’azienda tessile in cui avevo lavorato e salutare gli ex colleghi.
Mi trovo dapprima nel locale dell’amministrazione dove devo definire una questione rimasta pendente. Le porte improvvisamente si chiudono rumorosamente, di scatto, e non sono più normali porte da interno, ma sono ora porte blindate automatiche, che è impossibile aprire...
Mi agito, ci sono molte persone nella stanza. La più vicina dice che c’è una nuova regola che vuole che durante l’orario di lavoro le porte rimangano chiuse.
Io dico a voce alta, quasi gridando, che non c’entro niente, che ormai non lavoro più lì e che voglio uscire.
Finalmente mi trovo al piano di sotto, dove un tempo lavoravo. Qui incontro Maria la mia vecchia collega di stanza. In quel momento arriva anche R. che è il mio nuovo capo, il padrone della galleria d'arte di Terni. Maria lo saluta dicendo: "Ciao frate!" ed io mi vergogno molto pensando che il suo sia un comportamento da ignorante maleducata e discrediti il mio precedente lavoro e quindi anche me stessa agli occhi di R.
Esco piena di vergogna e cerco di raggiungere al più presto il mio nuovo ufficio nella galleria d’arte a Terni.
Per uscire dalla fabbrica tessile devo però attraversare un fossato che la circonda, pieno di acqua profondissima ed oscura. C’e un canotto tondo con un Caronte che lo conduce. Il Caronte è poco definito, una specie di ombra. Io salgo assieme a poche altre persone e mi siedo come gli altri sul bordo del canotto.
Non so se fidarmi del Caronte.
Mi rendo conto che il bordo su cui siedo è viscido e scivoloso ed io non riesco nemmeno a toccare il pavimento del canotto con i piedi e quindi non ho equilibrio. Con me ho le bozze del catalogo su cui sto faticosamente lavorando e di cui sono molto orgogliosa, e temo che cadrò in quell’acqua molto torbida. Penso che rovinerò tutto il lavoro e che io stessa mi sporcherò.
Mi preoccupa soprattutto l’dea di rovinare il catalogo e che poi non potrò più combinare nulla di buono nella vita. Non c’e nessuno che mi possa aiutare. Mi pare ora di vedere Paolo e Virginia che si abbracciano lassù, lontano, sulla terrazza della fabbrica.
Io sto nella barca, insicura ed inquieta: non so se posso avere fiducia in quel Caronte, che non riesco più nemmeno a vedere nella nebbia che infittisce…
Suona la sveglia!".

Non c’e bisogno per me di aspettare che la paziente espliciti chi possa essere quel Caronte...

(Da "Un lungo addio. Adele e il tema dell'abbandono" di Luciano Lodoli)

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Storia della venditrice di dischi

Enea percorreva lentamente il marciapiede del viale allontanandosi da Ponte Garibaldi, si sentiva stanco e depresso e, come gli accadeva spesso quando era di umor nero, stava rimuginando su ciò che da sempre considerava il primo affronto perpetrato nei suoi confronti: l'essere stato chiamato Enea. Benché ormai il suo rancore si fosse molto attenuato, gli tornavano ancora spesso in mente gli stupidi lazzi dei compagni di scuola, chissà perché tanto stimolati da quel nome.
In pochi minuti al sereno del giorno era subentrata una notte gelida come poche ne ricordava a Roma. Tutto normale, pensò, a metà Gennaio.
Passò davanti al cinema Induno, distrattamente, ma dopo qualche passo trasalì rabbrividendo per il freddo e decise di tornare indietro per vedere quale film fosse in programma, poi, dimenticando di farlo, comprò un biglietto ed entrò direttamente nella sala completamente vuota.
Stava ormai per tornare alla cassa a chiedere spiegazioni quando le luci si spensero ed iniziò la proiezione del secondo tempo del film "I pugni in tasca" di Bellochio. Bel film, pensò, bella Paola Pitagora. Aveva già visto il film un paio di anni prima al cinema Arlecchino in via Flaminia, allora assieme a non più di tre o quattro altri spettatori, nonostante il grande entusiasmo con cui il film era stato accolto dalla critica.
Uscendo dopo circa un'ora si trovò a camminare svelto, irrigidito dal freddo. Poche auto passavano e nessun pedone, una Roma irreale, siberiana, il cielo nella notte ancora rosso a ponente. Seguendo con la mente il corso disordinato di pensieri in libertà, attraversò il Tevere passando per l'Isola Tiberina, poi seguì i lungofiume fino a ponte Sant'Angelo. C’era una sgradevole tramontana e, dentro, sentiva il sangue stentare a scaldarlo e rabbrividiva. Da un poco stava seduto sul parapetto. Entro pochi minuti sarebbe stato costretto ad alzarsi e a cercare riparo. Un vecchio macilento gatto stava fermo, quasi appoggiato con il fianco al parapetto, rigido, più morto che vivo. La mente di Enea ora vagava, non vedeva più il gatto. La nostalgia lo sgomentava. Improvvisamente ebbe l’impressione di vedere la sua donna, già non più sua, lì davanti a qualche metro esitante, ma subito di vederla precipitare lontano da lui e dal luogo. Quasi gridò forte il suo nome, forse lo fece, e non c’era nessuno vicino. Si alzò strinse il bavero della giacca attorno al collo ed accese una sigaretta. Aveva inciampato nel gatto, lo smosse allora con la punta della scarpa e s’accorse che era rigido stecchito. Si chinò e vide gli occhi del gatto aperti spalancati. Se non è ancora morto, pensò, non ha scampo. Allora Enea quasi corse in direzione di Corso Vittorio e gli facevano male i muscoli e le ossa per il freddo.
Si trovò a salire le scale buie di un vecchio palazzo in via dei Banchi Nuovi, ed a cercare alla luce di un fiammifero l'interno 10. Guido Coletti, il suo amico degli anni della scuola elementare di Via Cassiodoro, grembiuli blu e colletto inamidato con l'ignobile fiocco bianco, lo guardò incuriosito e stupito attraverso l'uscio semiaperto. "Enea!" esclamò, "sono contento di vederti"...

Enea salutò Guido con calore ma subito si distrasse alla vista nell'atrio in penombra del suo compagno di tante vicende ciclistiche, Fabrizio Semper, in vicinanza alquanto disinvolta a una ragazza dalla strana, enigmatica avvenenza.
"Ciao amico mio" disse Fabrizio" lei è Faatin... Ma Enea ormai era lontano con la mente, Faatin pensava, la "mia" Faatin, la venditrice di dischi.

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Risveglio e passeggiata di Ernesto Enim

Sveglio presto al mattino Ernesto Enim guarda per un poco la luce tenue filtrata dalla persiana.
Chiama un nome consueto, non più familiare: non ha risposta.
Sente tuttavia di essere in grado di alzarsi da solo e trova con sua sorpresa le sue intenzioni e i suoi gesti congrui e adeguati a portare a buon fine cura e pulizia personale e a completare la difficile procedura di una vestizione.
Ha qualche più seria difficoltà nel calzare un paio di scarpe ma anche questa operazione va a buon fine.
Dubita che gli indumenti che indossa siano adeguati alla stagione, che ignora, né sa se l'aspetto che gli danno sia tale da non destare curiosità o meraviglia tra i passanti.
Non desidera essere notato o riconosciuto, soprattutto essere riconosciuto recentemente lo turba, ormai che poco conosce di se stesso.

Esce, sono le 11 e 30, sa che con la sua attuale affannosa lentezza nel deambulare impiegherà molto tempo per raggiungere la sua meta…
La sua meta…

Cammina con difficoltà, ma sorprendentemente meglio di quanto abbia mai fatto di recente (oppure da molto tempo: non saprebbe dire).
Attraversa Piazza del Popolo, percorre via del Corso, ma non se ne accorge, poi Largo Chigi, il Panteon, Piazza Navona…
Ora è avanti a S. Maria dell’Anima.

Soltanto ora… Soltanto ora ha una certezza: non ha più il tempo, né la consapevolezza di  sé, bastanti a un qualsiasi ritorno. Una incongrua (o forse non tanto incongrua) serenità lo pervade.

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Dialogo notturno tra nonno e nipote

un racconto di Luciano Lodoli da "La strategia di Shahrazad"

Nonno: - Che fai con quei miei fogli in mano?
Nipote: - Ho cominciato a leggere per caso e ho continuato sperando di capire cosa stai facendo in questi giorni chiuso nel tuo studio, senza uscire mai di casa e senza farti neanche la barba...
Nonno: - Sto completando la mia tesi
Nipote: - Sarebbe questa?
Nonno: - No, no... veramente ce l’avrei già pronta la mia tesi ma non mi decido a consegnarla perché mi sembra così banalmente scolastica che non riesco a riconoscerla come mia.
Nipote: - A te che importa della tesi?
Nonno: - Mah, un titolo accademico, anche dopo i sessant’anni, è sempre un qualcosa da considerare con un certo rispetto.
Nipote: - Ma queste cose che ho letto in questi fogli: di che parli? Chi è questa Shahrazàd? Chi è Clumsy Carp? E questo Liotti, della principessa, è un tuo amico?
Nonno: - No, no, Liotti non è un mio amico, mi piacerebbe, forse, ma lui neanche mi conosce.
Nipote: - E la principessa?
Nonno: - Mah, la principessa è una cosa sua. Credo che per lui rappresenti la realtà che c’è dietro, o in fondo o da qualche parte... un qualcosa che lui continuamente ha l’impressione di stare per raggiungere ma...
Nipote: - Metafora è il nome della principessa?
Nonno: - No... sarebbe più giusto dire che il nome potrebbe essere Verità, oppure Realtà... la metafora... beh è un modo per dire qualcosa che non sapremmo dire altrimenti, oppure per parlare di cose che non sappiamo se esistano o no.
Sai che cos’è una poesia?
Nipote: - Forse sì. Non so... sì, una poesia la conosco.
Nonno: - Me la sapresti recitare?
Nipote (spostandosi al centro della stanza ed assumendo l’atteggiamento del bravo scolaro) recita: -

"Viaggio in Lamponia, di Gianni Rodari.
Si può viaggiare in treno, in automobile,
ed in macchina da scrivere perché no?
Io ci ho provato
Semplicemente battendo un tasto sbagliato
Sono arrivato in Lamponia un paese…"

Nonno: - Vedi hai detto: si può viaggiare in macchina da scrivere!
Nipote: - Ho capito, una metafora è una macchina da scrivere!
Nonno (abbracciandolo): - Non è così, ma è più carina, la tua trovata, di una metafora ben capita!
Nipote: - Ma la metafora... cosa è una metafora?
Nonno: - La metafora, alle tre di notte, può essere una poesia, una principessa, un pipistrello, un bel sogno, un letto caldo… ma di giorno è qualcosa di molto più serio.
Nipote:- E... Batman?
Nonno: - Bateson, Gregory Bateson, è stato uno scienziato, un pensatore, un grande creatore di metafore. Inventore di un originale linguaggio sorprendentemente poetico, una sorta di metaforese, un linguaggio originale con cui esprimere le metafore via via create…
Nipote: - Nonno mi porti a letto e mi racconti la favola di nonno Mago?
Nonno: - Nonno Mago è una metafora…

Dopo qualche minuto il nonno giace addormentato accanto al letto del nipotino ed entrambi godono il rilassamento beato di un profondo sonno ristoratore. Sognando…

Nonno: - … e alla fine di questa avventura nonno Mago sta seduto ad un tavolo della taverna del paese ed esclama concitato rivolto agli astanti: - “credetemi, se avessi saputo dare forma ed apparenza di verità alle mie argomentazioni, l’eco stessa delle mie parole sarebbe risuonata falsa in ogni angolo della mia mente ed in ogni taverna di questa città!”
Nipote:- Dai raccontamene un’altra! Perché non mi racconti una di quelle di Shahrazàd? Hai scritto: - “Il re disse: O Shahrazàd, come sono belli questi racconti, ne conosci degli altri simili? Ed ella narrò.”
Nonno: - E’ una citazione da “Le Mille e una notte”.
Nipote: - Cos’è una citazione?
Nonno: - Una citazione è qualcosa presa da uno scritto o da un detto di qualcuno che ha espresso bene un concetto che noi vorremmo riprendere.
Nipote: - Ma, nonno, tu poi non hai scritto più nulla di questa Shahrazàd e di queste “Mille e una notte”…
Nonno: - Beh, ne avrei certamente parlato ma tu sei comparso prima che io potessi farlo!
Nipote: - E cosa avresti voluto scrivere di Shahrazàd?
Nonno: - Soltanto questo: io avrei voluto scrivere qualcosa su qualcosa che un po’ esiste e un po’ non esiste, ma che se non ci fosse nemmeno in metafora sarebbe come se nessuno di noi fosse mai esistito e nessuno possa mai esistere…
Nipote: - Comincio a capire, anche io sono una metafora…
Nonno: - In che senso?
Nipote: - Beh, tu non hai nipoti nonno ed io, quindi, non esisto!
Nonno: - Ma mi piacerebbe averne, di nipoti, anzi mi piacerebbe avere te Nip come nipote, però in fondo è vero: tu stesso sei una metafora!
Nipote: - Soltanto?
Nonno: - Qualcosa di più di una metafora, certo. Tu ormai sei nella mia mente, nello stesso modo in cui ci possono essere Bateson, Clumsy Carp, Antonio Odisseo, Shahrazàd, il Dalai Lama, Bin Laden, o qualsiasi altra persona, che non abbia mai conosciuto personalmente, ma che in qualche modo ha trovato una rappresentazione nella mia mente…
Nipote: - Comincio a capire, è come se io esistessi, ma solo a metà! Per esistere davvero ci dovrebbe essere un qualcosa, che sarei io, che avesse nella mente te, nonno!
Nonno: - Ti amo Nip! Probabilmente con quest’ultima considerazione ti sei conquistato la dignità di esistere almeno allo 0,75!
Nipote: - Ma Shahrazàd?
Nonno: - Ormai ti voglio tanto bene che non me la sento di farti notare che sono le sei del mattino… Shahrazàd era una bellissima principessa che un giorno decise di sposare un re crudelissimo, che negli ultimi tre anni aveva preteso di sposare e possedere ogni giorno una nuova bellissima ed illibata fanciulla. Fanciulla che poi il re aveva spietatamente ucciso, ogni volta, alla fine della prima notte di nozze. Il re uccideva tutte queste fanciulle per vendicarsi dell’infedeltà della sua prima amatissima sposa.
In capo a tre anni era ormai quasi impossibile trovare fanciulle vergini ed un giorno il visir, che era il papà di Shahrazàd e che aveva tra l’altro il compito di trovare le vergini per il re, era disperato perché se non avesse trovato una fanciulla entro la sera sarebbe sicuramente stato decapitato egli stesso. Shahrazàd, che oltre ad essere bellissima era anche una fanciulla sensibile e, come diremmo oggi, un’acuta psicologa, un po’ per salvare il padre, un po’ per salvare tante altre infelici fanciulle, propose di offrirsi lei stessa in sposa al re, convinta anche di potersi salvare conquistandone in qualche modo la benevolenza
Nipote: - E ci riuscì?
Nonno: - Shahrazàd riuscì a conquistarsi la benevolenza e l’amore del re raccontando delle meravigliose storie, ogni sera più belle, facendo così in modo che il re, desiderando sopra ogni cosa avere un’altra storia da ascoltare, rinviasse ogni giorno l’uccisione di Shahrazàd finché, dopo mille notti, non si accorse di avere completamente dimenticato la sua rabbia e il desiderio di vendicarsi.
Nipote:- Ma cosa c’entra con quello che stai scrivendo?
Nonno: - Ora che cominci a capire tante cose, puoi forse aver un’idea di che cosa sia un discorso circolare. Tornando e ritornando su uno stesso argomento, in modo tale che ogni volta qualche particolare magari piccolo venga aggiunto, qualche altro aspetto sia presentato sotto un punto di vista diverso, qualche altra cosa che prima era separata sia presentata in qualche relazione e così via, passando attraverso tutti i possibili stadi della disperazione ogni volta che i significati diventano più oscuri e più difficili da mettere a fuoco, improvvisamente, se ciò avviene, abbiamo la piacevole sorpresa di scoprire che qualcosa di quello che cercavamo, qualcosa che ha acquistato un significato sorprendentemente nuovo e stimolante.
Penso alla mente, alla coscienza, all’identità, alla Principessa, o come la vogliamo chiamare, come qualcosa costituito di due parti che si continuano una nell’altra.
Una parte esprimibile, di cui ci si può facilmente prender carico con un metodo di osservazione e di studio, basato sul significato che gli studiosi che le studiano danno alle parole.
L’altra parte il tacito, la coscienza tacita, è invece tale che, non potendosi affrontare a parole, si potrebbe decidere di non considerarla affatto. Come molti fanno.
Ma se il tacito si è scelto come proprio personale, esistenziale, oggetto di studio, è necessario armarsi di tutta la pazienza necessaria e circondarlo con i propri discorsi circolari, arruolando ad ogni giro nuove metafore, metafore di metafore e favole, nonni, nipoti ed esercitando l’ abitudine ad osservare i nostri stati interiori.
“Le mille e una notte” infine, sono l’opera letteraria in cui ogni angolo del tacito viene in mille modi evocato, in poesia, in prosa, in canto, nella rappresentazione più realmente realistica o fantasticamente fantastica…
Nipote:- E le vergini? Le vergini furono salve?
Nonno: - Le vergini furono salve! Quella volta…

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Fabrizio Semper e la Milano-San Remo

Questa notte mi sono svegliato, come spesso mi accade, e sono rimasto per un po’ a ruminare pensieri legati a due o tre banali accadimenti di ieri.
Quasi inavvertitamente ben presto sono passato a ricordare e rivivere intensamente, un lontanissimo giorno dei miei ventidue anni.
Ciclista professionista nella squadra F. soltanto da due mesi, correvo quel giorno la mia prima Milano - San Remo.
Poco prima del via ero stato avvicinato dal direttore sportivo della nostra squadra che senza preamboli mi aveva detto:
- Te Fabrizio che sei nuovo e che non mi puoi aiutare per far vincere il B, allora, se ci riesci, vai via “alla morte” al ponte lungo, quello dopo l’albergo del Mario, e cerchi di arrivare da solo sulla cima del Turchino, che lì c’e il cinegiornale e forsi anca la TV. Ti te alzi e fai vedere la maglia ben bene, davanti, dove c’e la scritta del frigo... poi te ti fermi e ti portiamo a casa noi in ammiraglia. -
Io feci, forse, un cenno ambiguo che poteva essere o no d’assenso, di sicuro pensai: tu sei matto se pensi io mi vada ad ammazzare di fatica e poi mi ritiri per farmi riprendere la scritta della maglia dal cinegiornale! E poi pensai anche: chi me la dà la forza per andare in fuga alla Milano San Remo!
Come sia avvenuto non lo ricordo, ma poi in fuga solitaria mi ci trovai davvero e non dal ponte lungo, ma da molto prima.
All’inizio della salita del Turchino ero ormai da molti chilometri sempre più penosamente in difficoltà, avevo un mal di gambe mai provato prima in vita mia e la baldanzosa energia che mi aveva sorretto per quasi due ore era ormai meno di un ricordo.
Non conoscevo il mio vantaggio e, poiché ero un ciclista sconosciuto, mai visto e sentito prima, ero stato lasciato solo, preceduto dalle staffette della polizia e seguito dal nulla più assoluto.
Cadeva una pioggia gelida mista a nevischio per questo gli spettatori a bordo strada erano pochi, infreddoliti e talmente presi dall’attesa dell’arrivo dei loro campioni favoriti, che molti non si accorgevano neppure del mio passaggio.
Solo qualcuno ogni tanto, per fare qualcosa, mi gridava da dietro: - alè Pippo! - scambiandomi per il compagno di squadra influenzato, che avevo sostituito all’ultimo momento, io infatti portavo sulla schiena il numero a lui attribuito nell’elenco degli iscritti pubblicato sulla “Gazzetta dello Sport”.
Giunto, più morto che vivo, ad un paio di chilometri dalla vetta, fui raggiunto a tutta velocità dalla macchina del direttore sportivo che, affacciatosi al finestrino mi disse spiccio:
- Te Fabrizio fermati pure, tanto è brutto tempo e quindi non c’è il cinegiornale e nianca la tele! Dai fermati e sali, che dobbiamo tornare dietro al gruppo e pensare a far vincere il B. –
Io feci finta di non sentire e, bene o male, riuscii a raggiungere il passo del Turchino ancora in testa alla corsa.
Subito dopo mi fermai sul ciglio della strada e non fui raccolto dall’auto ammiraglia del mio direttore sportivo, nè dalle altre auto al seguito della nostra squadra e dovetti aspettare l’arrivo della “vettura scopa” dell’organizzazione.
Da allora nella squadra S. fui considerato un “chi credi di essere?” presuntuoso ed insofferente.
Ben presto dovetti passare ad una squadra meno importante e la mia carriera ciclistica, mai brillante, si esaurì in pochi anni.
Da allora di anni ne sono passati più di quaranta e molte volte ho ricordato e rivissuto quella mia prima Milano San Remo. Talora ho anche provato un po’ d’orgoglio per quella impresa inutile e misconosciuta e per quella piccolissima insubordinazione.