chiudi | stampa

Raccolta di testi in prosa di Michele Fiorenza
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

La mia solitudine

LA MIA SOLITUDINE

 

… E fu così che riaprii quel mio vecchio diario.

Sotto la fodera di carta plasticata a disegnini rosa e dorati, ritagliata a misura da me con tanto amore, c’era, lo sapevo, un po’ s’intravedeva, il titolo: Diario di Liria.

Liria ero io, o piuttosto ciò che rimaneva di me.

C’erano poche pagine già scritte, memorie di momenti di tristezza e sconforto, poi superati. Piccole crisi di un’adolescente, che adesso mi apparivano veramente ridicole di fronte alla ferocia della vita.

Fu con gli occhi bagnati che ricominciai a scrivere.

 

28 luglio 200…

Scrivo per parlare a qualcuno che non può compiangermi, per sfogarmi, se ci riuscirò; per trovare conforto in un vecchio diario, come davanti a un amico sincero e fedele.

Sfogliando queste pagine non trovo ricordi felici, momenti di gioia, frammenti di serenità. Chissà perché, soltanto il dolore ci fa riflettere, ci fa tacere e pensare, ci fa trovare in noi stessi una parte autentica da testimoniare.

Lui non c’è più. E non è andato via di sua volontà, non era stanco di me, non si era accorto che non mi amava veramente: niente di tutto ciò.

Era il giorno della sua laurea, uno splendido titolo che gli avrebbe spalancato le porte del successo professionale. E io gli sarei stata accanto.

Era andato avanti da solo, per non ritardare, per prepararsi. Poi allo svincolo…

Che strano… non provo rancore verso quel camionista. L’ho visto da lontano, ancora annichilito dal ricordo delle conseguenze di quel colpo di sonno. Il rimorso lo tormenterà per molti anni. Ma è niente di fronte alla mia sofferenza.

Smetto perché non posso più continuare.

 

31 Luglio 200…

Caro diario, perdonami la mia brusca chiusura dell’altro giorno. Sento la voglia, il bisogno, di scrivere, senza sapere perché. Forse vagamente penso che tu in futuro possa essere utile a qualche altra persona, anche se non ho intenzione di farti leggere da chicchessia per decenni.

Qualche futuro lettore pietoso potrebbe pensare che la tremenda notizia di quel mattino, che doveva essere un’apoteosi della gioia per molti di noi, mi abbia gettata subito in preda alla disperazione.

Uno squillo del telefono, mio padre che risponde, che non comprende, che poi mi guarda con gli occhi bagnati, ammutolito e che si sforza di trattenersi.

Mia madre che gli pone domande sempre più serrate, che gli toglie facilmente la cornetta di mano e parla con voce concitata, con domande urlate, mentre mio padre mi abbraccia in silenzio e poi si lascia andare a convulsi singhiozzi.

La mia prima reazione non fu la disperazione, dicevo, ma l’incredulità: era tutto assurdo, uno scherzo di cattivo gusto. Quello che sembrava profilarsi non era il mio futuro, era una realtà alternativa che non aveva nulla a che fare con me, con noi.

Quel giorno non volli vederlo: lo vidi il giorno dopo, ricomposto nel suo … Era pallido, ma bello, il volto truccato e un sorriso ineffabile. Una parte di me moriva con lui.

Tutta la scena, dei parenti e amici che si susseguivano intorno a noi, ognuno col suo grado di dolore o di partecipazione al nostro, mi sembrò scena di un film. La disperazione di mia suocera commuoveva i più intimi. Di me sussurravano:

- E’ forte, distrutta ma forte.

Io non avevo la forza di ribellarmi a quella falsità. Sì, guardavo mia suocera, cioè la mia mancata suocera, e mi chiedevo se il dolore di una madre può essere più lacerante di quello di una compagna innamorata, che lo ha liberamente scelto per trascorrere la vita insieme.

Com’è triste, com’è assurdo, com’è buffo confrontare i dolori! E com’erano in fondo simili i nostri: entrambe soffrivamo la perdita di qualcuno che, in modo diverso, era, era stato carne della nostra carne.

Qualche altro, non ricordo chi, bisbigliava:

- Lei troverà un altro, ma per la madre…

- No! Non ci sarà nessun altro! No! – avrei voluto gridare. Invece me ne rimanevo seduta quasi in disparte, insonne e digiuna da ventiquattrore, a sentir dire in sordina che ero forte. Mio padre ogni tanto mi portava un bicchier d’acqua e mi forzava a berne almeno un sorso.

- E’ così giovane! – bisbigliava qualcun altro, come a giustificare quel dolore lancinante, mentre io pensavo a quanto doveva aver sofferto nostro Cristo in croce: Signore, perdona loro, perché non sanno quello che dicono.

Caro diario, nessuna penna può scrivere su carta bagnata…

 

12 Agosto 200…

Le mie cugine mi fanno uscire spesso, mi accompagnano al cimitero, poi mi portano in giro, al mare o in montagna.

Io preferisco la montagna, un po’ più fresca, molto silenziosa. Appena posso mi siedo su un masso o un muretto e mi raccolgo in silenzio, molto meglio che al cimitero.

Mi chiedo che cosa posso fare per lui, comprendo che nelle mie parole può un po’ continuare a vivere e ne parlo. Mi ascoltano in silenzio. Quando sto per commuovermi, mi sento dire:

- Lui non ti vorrebbe vedere così.

L’effetto di queste parole è esattamente il contrario.

 

24 Agosto 200…

Oggi siamo stati in chiesa: era il trigesimo. Ho ascoltato il prete parlare bene di lui, sforzandosi di dire quello che sa. Ma sa poco, e male.

Non c’era molta gente in chiesa, non la folla soffocante del primo giorno. Mi sento guardata e io a mia volta guardo la mia mancata suocera: lei si sta rassegnando nella fede. Io mi sento una vedova bianca.

Sono andata a trovarla spesso, in questo mese, e le ultime due volte lei cercava di confortarmi, senza riuscirci:

- Lui ti guarda e non ti vuol vedere così.

Io ho deciso che da domani rialzerò la testa, per lui, per non essere commiserata, per non darla vinta alla morte.

Con mia suocera resterò amica, per tutta la vita.

 

7 Settembre 200…

Caro diario, ti ho trascurato senza accorgermene. Sono stata quasi sempre a letto, con la scusa del caldo, a ricordare. Poi ho deciso di darmi qualche scopo, nella vita.

Da oggi tenterò di essere come lui vorrebbe: piena di vita. C’era una collega all’università che voleva studiare con me: in questo momento è la persona giusta, perché voglio portare a termine gli studi. Sono pochi esami e lui sarebbe fiero di me. La compilazione della tesi sarà un ottimo mezzo per distrarmi.

Adesso devo prepararmi per ricevere la collega.

 

25 Ottobre 200…

Ho superato tre esami, Gino! E ho subito chiesto la tesi. Puoi essere orgoglioso di me. Sono anche entrata a far parte del gruppo di amicizie della mia collega, ragazze e ragazzi grandi, maturi, saggi. Ti sarebbe piaciuta, questa compagnia. Amano gli sport, la vita all’aria aperta, l’arte, sono molto seri.

 

12 Novembre 200…

La mia amica Anna, la collega, mi tratta con molta delicatezza, ma oggi mi ha fatto notare che il nero mi sta male, visto che sono quasi un grissino. In effetti sono molto dimagrita. Ho cominciato a usare il marrone e il beige, perché capisco che il dolore si porta davvero nel cuore, in maniera indelebile.

 

18 Dicembre 200…

Studiando in maniera forsennata, ho superato altri due esami e ora lavorerò sulla tesi. Frequento regolarmente il gruppo di amici di Anna, tranne che per le feste o le discoteche. Ai margini del gruppo c’è un giovane vedovo con un bambino, un certo Fausto. Credo che abbia oltre trent’anni. Il bambino ne ha tre ed è tirato su dalla nonna. E’ un bimbo bello e affettuoso. Forse per la reciproca perdita, sono entrata in sintonia, con questo giovane uomo. Ho avuto anche il coraggio di chiedergli della moglie. Mi ha detto:

- Non potrò mai dimenticarla, ma il tempo è galantuomo e lenisce ogni dolore. Per un anno e mezzo l’ho rimpianta disperatamente, poi mi sono ritrovato esausto: anche il dolore stanca.

Io non mi sono mai stancata del mio dolore.

 

6 Gennaio 200…

Caro diario, il Natale è stato triste, anche se tentavo di essere allegra. Poi il nuovo anno mi ha fatto capire che la morte di Gino fa parte della storia ormai: l’assurdo è diventato fatto storico, reale. Ho riconfermato in me l’impegno di essere vitale e gioiosa, come Gino mi vorrebbe. Ho anche ripreso qualche chilo. Sono stanca di soffrire, forse ha ragione Fausto. E poi… il dolore non lo fa tornare, non lo fa parlare. Darei dieci anni della mia vita per averlo ancora un intero giorno con me, ma questo è un sogno impossibile.

 

2 Febbraio 200…

Fausto parte frequentemente per brevi trasferte. In tali occasioni mi reco spesso a casa di sua madre per dare compagnia al piccolo Marcello e farlo giocare con me. Sua nonna me ne è grata.

L’altro giorno Fausto mi ha telefonato da Trieste per ringraziarmi. Ci sono state molte pause, nel nostro dialogo, ma per un momento mi sono sentita felice di essere compresa da qualcuno.

Quando gioco con Marcello penso che sarebbe stato bello avere un bimbo mio da Gino, e a volte rimpiango di non averlo voluto quando era ancora possibile. Come si cambia!

Spesso incrocio lo sguardo della mamma di Fausto, mentre gioco col bimbo, e il suo sorriso mi dice che vede in me la nuora che ha perso, annegata, credo. L’altra volta mi son data coraggio e le ho chiesto com’era. Mi ha risposto che non era giovane come me, né così bella: - Ma per tutti noi era bellissima.

Anche Gino era bellissimo.

 

11 Marzo 200…

Ieri abbiamo fatto una gita in quattro: Anna, il fidanzato, io e Fausto. Ero un po’ in imbarazzo e l’ho rimproverato di non aver portato Marcello. Anna a sua volta ha rimproverato me:

- Sarebbe stato fuori luogo e si sarebbe annoiato.

Fausto è molto discreto, ma ho notato che è più sereno: s’illumina sempre in viso quando mi vede arrivare. Io mi sento sempre più in imbarazzo e ho deciso di evitare la sua compagnia, ancorché gradevolissima; però non trascurerò Marcello durante le assenze del padre. Il bimbo mi chiama zia e ha bisogno di tanto affetto. E io sento il bisogno di darne.

 

10 Maggio 200…

Ieri Marcellino, come lo chiamo io, ha compiuto quattro anni e lo abbiamo festeggiato a casa sua. Fausto ha un grazioso appartamento, in un piccolo condominio in periferia, nuovo e un po’ rilevato. C’è una splendida vista sul lago, da un terrazzo pieno di piante e di fiori. Avrei voluto anch’io una casa così.

La mamma di Fausto ha raccolto tutti i bambini del condominio e alcuni cuginetti. La sera, mentre rassettavamo, Fausto mi ha detto che ha deciso di mandarlo all’asilo. Ci sono rimasta male, sino a quando non mi ha spiegato che lo ritiene utile per lo sviluppo psichico e la socializzazione del bambino, e vuol mandarlo almeno di mattina. Gli ho detto:

- Allora lo accompagnerò io e lo prenderò io all’uscita. In quegli orari tu sei al lavoro.

Mi ha guardata in modo strano, con curiosità e interesse. Io ho distolto lo sguardo, chiedendomi con quale diritto mi intromettevo. Fausto mi ha tolta dall’imbarazzo ringraziandomi vivamente, ma imponendomi di delegare a ciò sua madre quando io avessi avuto impegni. Io stessa mi chiedo che cosa il mio istinto voglia farmi fare.

 

18 Giugno 200…

Sono laureata! E’ da due giorni che festeggio, ridendo anche da sola. Unica nuvola l’assenza di Gino. In verità sono stata agitata e nervosa sino a quando non mi sono seduta nell’aula magna ad attendere il mio turno. Poi ho capito che temevo una seconda disgrazia, e che non ho abbastanza fede, altrimenti sarei stata felice di raggiungerlo in Cielo.

C’erano tutti i parenti stretti e gli amici più intimi, compreso Fausto. Il suo è stato il regalo più gradito: una custodia in vera pelle per il mio diario, per te, caro quaderno delle mie confidenze! Ma quando gliel’ho detto o quando l’ha capito, che tengo un diario? Forse mi conosce più di quanto io immagini.

A Settembre cercherò un lavoro, ma per questa estate voglio godermi l’ultima stagione di libertà. I miei mi regaleranno un viaggio all’estero, che farò con un’amica single come me: speriamo che sia disposta a spendere la cifra che i miei genitori vogliono mettermi a disposizione!

 

2 Luglio 200…

Rossana ha scelto la Francia, così siamo a Parigi. Avrei voluto venirci con Gino, invece ho potuto portare soltanto il mio diario, con la fodera in pelle di Fausto.

E’ una bellissima città dal fascino sottile: è un piacere sentir parlare la mia amica in francese con i parigini. Visiteremo anche i dintorni, senza fretta, gustando tutto, non solo la splendida cucina.

Ho telefonato a Marcellino, che ha reclamato il mio rapido ritorno. Mi si è stretto il cuore. Poi mi ha parlato Fausto, affettuosamente. Io… io mi rifiuto di pensare, di riflettere, di guardare in me, spaventata da ciò che potrei leggervi.

Qualche volta Rossana mi osserva, sorridendo sorniona.

 

11 Luglio 200…

Ieri sono tornata al mare, per la prima volta dopo la perdita di Gino. Indossavo un costume nuovo, blu scuro, intero e molto castigato. Mi è sembrato già troppo scoprire le mie gambe bianche e la mia schiena dritta, nell’assenza di Gino. Come si cambia!

Ho fatto un bagno veloce, colpita dal freddo dell’acqua: una nuotata verso il mare aperto e basta. Gli amici mi hanno coinvolta poco nella loro allegria.

 

18 Luglio 200…

Oggi stavo quasi per raggiungerti, Gino. C’era il mare molto mosso, ma io ho fatto il bagno lo stesso, affascinata da tutta quella schiuma. Le onde sembravano risospingermi alla riva, ma io testardamente nuotavo verso il mare aperto.

Poi ho bevuto, un’acqua salata e amara, e ho tossito, mentre l’onda successiva si avvicinava alta e terribile. Ho capito di essere in difficoltà e mi sono messa sulla schiena. Mi sentivo portata su e poi giù, mentre il sale mi bruciava in gola. Appena ho potuto, ho urlato:

- Aiuto!

Non potevo vedere la riva, ma appena l’onda successiva mi portava su, ripetevo il mio grido. Stupidamente la mia mente non trovava di meglio da fare che contare i gridi: tre, quattro, cinque…

“Dopo il settimo non griderò più”, ho deciso, e ho cominciato a guardare il cielo per intravedere il percorso da seguire per raggiungere Gino. Avrei fatto la fine di quella ragazza, la moglie di Fausto. Poi ho pensato a Marcellino e il dolore mi ha lacerato il petto.

A un tratto qualcosa, qualcuno è passato accanto a me, dicendo: - Sono qui!

Si è messo dietro di me e mi ha avvinghiata saldamente con un braccio. Era Fausto, e ha cominciato a nuotare con un solo braccio verso la riva.

Io ero stranamente cosciente del pericolo: “Perché, Fausto, perché… Se moriamo entrambi, il bimbo non avrà più nessuno. Non hai potuto salvare tua moglie, non potrai fare nulla per me. Vai, non importa.”

Fausto rallentava, non ce la faceva. Io pensavo ai corsi di salvataggio, seguiti nelle acque calme di una piscina, come un gioco, e mi è scappata una risata. Fausto non ce la faceva più e io sono riuscita a farfugliare: - Marcellino… vai, vai!

Fausto si è fermato: voleva riposarsi un attimo, riprendere fiato? Era morto? Ho tentato di voltarmi, ma mi ha stretta più forte.

All’improvviso una strana cosa si è materializzata davanti a noi, una specie di barca, un gommone, con tre persone a bordo. In un attimo hanno tirato su me, poi Fausto, esausto per colpa mia. Avevo rischiato di far morire il padre di Marcellino! L’ho guardato:

- Perdonami….

Mi ha risposto con una carezza.

 

20 Luglio 200…

Ci siamo rivisti in un corridoio dell’ospedale, dopo ventiquattrore di osservazione. Ci siamo seduti su una panchina, convinti di essere fuori posto. L’ho ringraziato educatamente. Si è schernito dicendo che l’avrebbe fatto per chiunque.

- Non dovevi farlo per nessuno, Fausto: tu hai un figlio piccolo, hai dei doveri, il gommone è un mezzo veloce…

Tace, poi con uno sforzo mi dice, guardando lontano:

- Per Giulia non feci in tempo: ero al bar per far riscaldare il latte del bimbo. Mi venne incontro mia madre con Marcello in braccio, dicendomi di correre a salvare Giulia. Arrivai che la stavano issando in barca, cianotica. La respirazione artificiale non sortì alcun effetto, e nemmeno le apparecchiature dell’ambulanza, e nemmeno i medici dell’ospedale… Non volevo che accadesse anche a te.

- Io non sono… tua moglie, Fausto. – riesco a dire. Si volta a guardarmi serio:

- Non volevo che accadesse anche a te.

Gli devo la vita: la devo a qualcuno che merita molto più della mia vita. Io vorrei, ma non posso dargli nulla: lo capisci anche tu, vero, caro diario?

 

25 Luglio 200…

E così, dopo un anno esatto dalla tua morte, sono di nuovo qui, in mezzo a tante croci, per l’ennesima volta, in un giorno particolare.

Tu non ritornerai, non in questa vita. E non rispondi alle mie parole d’amore, non puoi. Aveva ragione Fausto: anche il dolore stanca.

“Sono stanca, Gino, stanca di soffrire, di ricordare la nostra realtà, i nostri sogni. Devi lasciarmi libera, Gino.”

Scosto il diario perché non si bagni. Una vecchietta più in là mi guarda e si rattrista di più. Io accarezzo il marmo là dov’è scritto il tuo nome. E mi deprimo, mi viene il mal di testa.

“Fammi venire lassù, intercedi per me, fa’ che non arrivi all’uscita: sarebbe più giusto. Oppure… ridammi la libertà, Gino, dammi la forza di vivere, dopo di te, anche se non ti dimenticherò mai.”

Qualche nuvola gioca a nascondino col sole, mentre io guardo il viso di Gino immobile nella piccola foto.

“Dammi un segno, Gino.”

Vado via lentamente, scendo lungo il vialetto, poi incrocio un vecchio e mi sposto verso la brulla siepe per lasciarlo passare. Mi accorgo che la mano sinistra si è impigliata, poi si libera, ma fa male e la porto davanti al mio viso: sanguina, ci sono graffi su tre dita.

Ma soprattutto manca la fedina.

Torno indietro, tento d’individuare il rametto che mi ha graffiato, guardo nel terreno sottostante, ma non riesco a trovarla. Eppure dev’essere lì. Mi sento nuda, senza la mia fedina.

Poi penso che era tempo di toglierla, quella fedina: qualcun altro la troverà e ne farà buon uso. E mentre un raggio di sole illumina la mia mano sanguinante, penso che forse ho avuto un segno.

Alla fontanella sciacquo la mano, l’asciugo con i fazzolettini di carta che porto sempre in borsa, quindi avvolgo le tre dita col mio bianco fazzoletto di stoffa: a casa disinfetterò le piccole ferite.

Passo sotto gli archi di uscita del cimitero e il sole, alto e forte, mi picchia sulla fronte.

Chiudo il diario.

 

7 Settembre 200…

Forse è giunto il momento di metterti da parte, mio caro diario, perché la gioia non dà spazio ai diari.

Stamattina Fausto si è dichiarato, con fervore. Poiché non è più un ragazzino, mi ha anche detto:

- Vogliamo provare a unire i nostri cammini?

Poi mi ha baciata e io ho capito di poter di nuovo amare.

 

F i n e

 

Michele Fiorenza

 

 

 

*

La marmellata di albicocche

LA MARMELLATA DI ALBICOCCHE

 

Tutto cominciò il giorno in cui…

- Vado in campagna dalle amiche! – mi disse Clara, rusticamente vestita di tutto punto, con una grossa sporta a tracolla, mentre si muoveva spedita verso la porta di casa.

- Perché, cara?

- Perché, perché… Non sai che c’è la privacy? Non mi sono mica sposata perché un estraneo in casa mi dica “Addò vai? Perché?” Comunque ti rispondo che sono cose di donne…

- Che cosa ti preparo per pranzo? – le chiesi.

- Ecco! Domanda trabocchetto… Il solito “salto del fosso”! Chi ti dice che tornerò per pranzo? Avremo molto da fare… Comunque, per questa volta ti faccio sapere che siamo tutte da Dora a preparare delle marmellate.

Molto soddisfatto della risposta, le chiesi:

- Farete anche quella ai mirtilli?

- No, ma posso portarti un vasetto alle more selvatiche.

- Grazie, tesoro, e divertiti! – le augurai.

- Sarà una giornata faticosa… Spero che tu non ti metta a chattare in internet con le tue amichette!

- Io? Ormai non lo faccio più. E poi, devo preparare la relazione conclusiva del caso C. M.

- Sì? Bene, sappi che al ritorno controllerò! E cerca di essere preciso ed esauriente!

- Ok, capo… - risposi ironicamente.

Fu così che la mia Claretta tornò indietro, mi diede un lungo bacio passionale, promessa di momenti migliori, poi volò via.

* * *

Tornò al crepuscolo, rossa in volto, affumicata e stanchissima, pose parecchi barattoli sul tavolo, poi si immerse nella spaziosa vasca da bagno che aveva a suo tempo preteso.

Osservai i barattoli, tutti provvisti di esaurienti etichette stampate al computer. In evidenza la scritta “Natura e Sapore”: erano conserve di mele selvatiche, di fichi, di limoni, fichidindia, more, albicocche, zucchine (!), amarene, pere…

Riconoscente, provai ad aprire l’uscio del bagno, ma Clara aveva chiuso:

- Cara, grazie per la marmellata: posso aprire quella alle more?

Dopo qualche secondo mi rispose:

- Certo…

- Non ti addormentare lì, amore…

Deluso perché non mi aveva concesso di guardarla immersa nell’acqua come una ninfa, mi consolai con la squisita marmellata. Sull’etichetta era precisato: “Naturale, senza zuccheri aggiunti e senza conservanti – dopo l’apertura CONSERVARE IN FRIGO e consumare entro OTTO giorni”.

Avevo appena terminato metà del vasetto, quando Clara uscì dal bagno semplicemente avvolta in un asciugamani. La guardai con occhio languido, ma lei chiarì:

- Sono distrutta…

- Domani vai di nuovo?

- No, domani lavorerò su internet per la vendita.

- Ma… avete l’autorizzazione?

- Abbiamo TUTTO, ma sono troppo stanca per parlartene.

Clara si lasciò cadere sul letto, il lato mio, che è più vicino all’uscio, e si addormentò subito.

* * *

In sintesi le “comari” si erano inventate un’attività di produzione e commercializzazione di quelle originali conserve, anche in confezioni adatte a pasticcerie e ristoranti.

Praticamente Clara aveva il compito di dedicarsi alla vendita e alle spedizioni. Io le raccomandai di far effettuare delle analisi periodiche ai prodotti.

- Tranquillo, seguiamo l’ HACCP… - mi rispose.

Rimanendo di più a casa, e forse anche per merito delle genuine marmellate (per un mese non mangiammo altro), alla mia dolce mogliettina tornò la voglia.

In effetti era un po’ ingrassata, ma io non glielo feci notare e invece mi godevo la sua rinnovata morbidezza.

* * *

Tutto precipitò il giorno in cui…

Ci fu una retata. In campagna. Da Teodora (Dora per le amiche). I giornali enfatizzarono l’evento. Soltanto “Il bisbiglio”, il quotidiano del paese, gestito dalle amiche rimaste in libertà, difendeva strenuamente le malcapitate.

Clara era avvilita. Mi chiarì che a un banchetto matrimoniale era stata servita una gustosa torta Sacher, confezionata con la marmellata di albicocche “Natura e Sapore” e molti invitati erano finiti in ospedale per avvelenamento.

Principale imputata Tea (Teodora per l’anagrafe), che aveva fornito le albicocche. Clara mi chiese, poi mi ordinò, poi mi supplicò di intervenire:

- Eugenio, caro… tesoro… amore mio, tu vai a braccetto col Commissario e col Capitano dei Carabinieri: chiedigli aiuto per le “nostre” amiche…

- Amiche! Bah, al massimo Gianni (marito di Tea, n.d.A.) è mio amico…

Poi la vidi molto abbattuta e le promisi di intervenire:

- Dov’è il ristorante? Come si chiama?

In breve, diedi incarico a un collega di quella località di fare indagini. Questi chiese un incarico scritto, firmato dalle imputate e io glielo procurai, tramite Gianni.

Alla fine il collega constatò personalmente che i barattoli da due chili di confettura erano lasciati fuori dai frigoriferi, i quali erano invece stracolmi di pesce e di carne. La raccomandazione scritta sulle etichette delle confetture non veniva affatto osservata.

Il tizio si procurò anche alcune dichiarazioni del personale, dalle quali si evinceva che i barattoli aperti non venivano mai messi in frigo. Presentò anche una parcella di tutto rispetto.

Prima Clara, poi Gianni, poi i congiunti delle altre imputate gioirono ed esultarono per la relazione dell’investigatore, poi guardarono la parcella e si ammosciarono. Tuttavia, con l’amaro in bocca, staccarono gli assegni.

* * *

Le malcapitate uscirono dal carcere e finirono agli arresti domiciliari. Tea dovette attendere un po’ di più per via delle sue incolpevoli e genuine albicocche e per qualche “precedente”, poi tornò a casa e cominciò a preparare torte alla marmellata, biscotti ripieni, pasticcini alla frutta e altre diavolerie.

Sì, perché chiaramente l’attività produttiva fu interrotta e la mia Claretta si guardò bene dal vendere le scorte di magazzino.

Dopo qualche giorno Clara mi disse:

- Grazie, Eugenio…

- Grazie a parole?

- No, caro, d’ora in poi faremo il bagno insieme.

- Al mare?

- Non solo…

- Al lago?

- Non solo…

- Al fiume, in piscina?

Clara scosse la testa più volte, quindi mi abbracciò e mi sussurrò:

- La nostra vasca è mooolto spaziosa…

 

fine

Giugno 2012

 

 

 

 

*

Fiori da uno sconosciuto

Fiori da uno sconosciuto

 

            Tornai a casa rimuginando sull’ultimo astruso caso di investigazione appena risolto e deciso a rilassarmi con la consueta vivacità della mia Claretta.

            Ero appena entrato, quando invece udii un pianto sommesso provenire dalla cucina. Accorsi preoccupato.

            Fazzoletto in mano, la mia graziosa mogliettina mi guardò, poi ebbe un più forte conato di pianto. Le misi un braccio sulla spalla, chiedendole con dolcezza:

            - Che è successo?

            Poiché sono un investigatore, e pure bravino, un vago, generico sospetto si affacciò alla mia mente, ma per una donna colta, laureata e che fa l’insegnante, mi sarebbe sembrato veramente ridicolo. Rimasi in attesa della difficile risposta:

            - Domani… - singhiozzò – domani… compio quarant’anni!

            La risposta confermava i miei sospetti:

            - E allora?

            - Ma non capisci? Sono già negli “anta”!

            Come può una donna intelligente, che spesso mi aiuta a risolvere casi complessi, trasformarsi all’improvviso in una bambina? Non sapevo che cosa dirle.

            - Capisci? – rincarò la dose – tra cinque o sei anni potrei essere in menopausa!

            Intravidi un barlume di luce, la possibilità di trasformare il suo rammarico in un’opportunità:

            - Tu esageri, ma, se il tuo problema è questo, un rimedio ce l’avrei, anzi ce ne sono parecchi…

            Smise di piangere e mi guardò dubbiosa, ma speranzosa.

            - Ecco… potremmo intensificare la nostra vita amorosa, così i cinque anni sembrerebbero più lunghi e più felici.

            - Ecco! Pensi sempre a una cosa!

            - Vuol dire che sono più giovane di te, nonostante i miei quarantacinque anni! Inoltre, a proposito di menopausa, ci sono ottime terapie sostitutive, che prolungano la giovinezza.

            Si riprese: - Pensi che potrei cominciarle subito, a scopo preventivo?

            Quando le donne decidono di fare le stupide, ci mettono impegno.

            - Devi chiedere al medico.

            - E magari andare da uno specialista, un endocrinologo!

            … E quando Claretta pensa che una cosa va fatta, non bada a spese.

            - Potresti aggiungere una sessuologa, così conosceresti tutti gli aspetti del problema…

            - Dici? In effetti negli ultimi mesi ti ho trascurato un po’…

            Avrebbe dovuto dire “anni”, ma sorvolai. Invece chiesi:

            - Che c’è per pranzo?

            - Nulla, ero troppo depressa per cucinare…

            Frenando lo sconforto, le dissi:

            - Allora vestiti, ché ti porto fuori.

            - Siii! Festeggeremo oggi il mio ultimo giorno da trentanovenne e risparmieremo domani, restando a casa!

            - Guarda che la vita comincia a quarant’anni.

            - Perché?

            - Perché a quarant’anni si è ancora giovani, ma abbastanza maturi per affrontare la vita nel migliore dei modi.

            - Dici?

            Indossò un abitino da educanda, che la faceva apparire più giovane, sì, ma mortificava la sua bellezza. Sospirai.

            Comunque nell’ottimo ristorante non trascurai di ordinare anche ostriche e champagne. Fu una splendida giornata e a sera facemmo le ore piccole.

            Il mattino successivo la vidi nuovamente depressa, e aveva cambiato idea:

            - Credo che prenoterò dal neurologo, per questa crisi di malinconia. Forse potrebbe prescrivermi una pilloletta…

            Non volli esprimere il mio disappunto, e invece mi recai dal fioraio. Tulipani, andava matta per i tulipani…

*          *          *

            All’uscita dal solito fioraio, mi recai anche in un altro negozio, quindi finalmente, soddisfatto e sorridente, mi dedicai alla mia investigazione.

            Comunque smisi presto, comperai un bel tronchetto di gelato ai gusti nocciola e pistacchio e tornai rapidamente a casa, sperando che i fiori avessero fatto effetto.

            Li trovai ben disposti al centro del tavolo centrale del soggiorno. Dalla cucina Claretta mi ringraziò per i fiori. Lì la trovai che preparava il cuscus come le aveva insegnato sua madre. Pur avendo le mani impegnate, volle a tutti i costi un bacio.

            Fu un bacio al gusto di ottimo pesce.

            Apparecchiai in soggiorno, poi lei entrò col suo trionfale cuscus. Intanto notai in un angolo un bel cesto colmo di rose rosse, poggiato lì a terra con noncuranza.

            - Chi ti ha mandato le rose?

            Claretta allargò un braccio: - Non so… comunque c’è un biglietto.

            Mi sembrò in leggero imbarazzo. Trovai il biglietto e lessi: “Felice Compleanno!” firmato “Un Ammiratore”.

            - Hai un ammiratore segreto?

            - A quanto pare…

            - Chi sarà mai?

            - Forse un collega…

            - Oh… hai forse una tresca?

            - Non essere stupido… Forse a scuola ci sono persone colte che mi ammirano più di te… - e si toccò i capelli, come a sistemarli.

            - Vedo che sei stata dal parrucchiere…

            - Sì, d’ora in poi ci andrò ogni settimana. Dovrò pure difendermi dall’età che avanza!

            - Beh, mica tanto, a guardare quelle rose.

            - Non fare il solito geloso…

            Insomma, la depressione era finita.

            Pochi giorni dopo eravamo all’8 Marzo. La mattina provvidi all’impegno più importante, poi lavorai, correndo di qua e di là, poi cercai un mazzetto di mimose, trovando soltanto un modesto rametto, quindi rientrai. Le avrei detto “Ogni fiore è segno di amore”.

            La trovai rossa in viso, con una magnifica orchidea che troneggiava al centro del tavolo. Mentre ammiravo quel fiore, lei si sedette affranta e io diedi un’occhiata al biglietto. “… Un ammiratore misterioso”.

            Dalla sua poltrona Claretta ebbe un lamento: - Bisogna fare qualcosa…

            La guardai interrogativamente.

            - Sai, cominciano con i fiori e finiscono con una violenza!

            Non pensavo che la mia graziosissima Claretta avesse un fisico procace, ma provai a tranquillizzarla:

            - Hai ricevuto strane telefonate? C’è qualcuno in giro che ti guarda in modo particolare?

            - No, e a scuola ho indagato e non ho nessun vero ammiratore.

            - Ascoltami: forse è soltanto una persona innocua e timida, magari un ragazzo, fratello maggiore dei tuoi alunni. Finché non si fa vivo, non hai nulla da temere. Comunque evita di uscire sola di sera.

            Trascorse una settimana senza che accadesse nulla. La mattina del sabato Claretta mi sembrò più alta.

            - Oh, finalmente hai messo un paio di scarpe decenti!

            - Ero stanca di portare quelle scarpe sportive da ragazzina…

            - Ma il tacco non sarà troppo alto? Non vorrei che nei corridoi della scuola, urtata dai ragazzini che corrono, finissi a gambe all’aria! A proposito, vedo che hai accorciato la gonna.

            - Ormai è primavera… Sto andando dal parrucchiere.

            - Bene.

            - Poi farò un salto dall’estetista.

            Si voltò subito e uscì. Mi sdraiai sul divano sorridendo. Le rose erano ormai appassite, ma l’orchidea svettava sopra il tavolo. Come sono romantiche le donne!

*          *          *

            Insomma, Clara cominciò a curarsi di più. Sapendo di essere osservata da uno, pensò di essere osservata da tutti. Tornò dal parrucchiere quasi bionda e si giustificò dicendo che… doveva mascherare i primi capelli bianchi!

            Per un po’ non arrivarono fiori. Volle che le regalassi degli orecchini nuovi ed era incerta tra un paio di perle vere e un altro di corallo. La convinsi a prendere entrambi e a utilizzarli normalmente.

            - Naturale! – mi rispose. Poi la sera mi ringraziò nel migliore dei modi.

            Il primo di Aprile arrivò un grosso cesto di rose gialle, spedite da lontano:

            - Non sono riuscita a sapere chi le ha mandate! Mi hanno soltanto detto che era un distinto signore che ha pagato in contanti! E poi… gialle! Che vuol dire, che è geloso!? Eugenio, devi assolutamente fare qualcosa…

            Fu così che andai a trovare il mio amico capitano dei Carabinieri. Al ritorno Clara era ancora furibonda, ma speranzosa. Mi sedetti:

            - Il Capitano mi ha fatto notare che oggi è il primo Aprile…

            - Non conosco nessuno che faccia questi stupidi scherzi!

            - … Inoltre mandare fiori non è un reato, è troppo poco per parlare di stalking.

            - Vuole trovarmi cadavere? – chiese Clara con sarcasmo.

            - … Ho ottenuto soltanto di avere il telefono di casa sotto controllo per tre mesi, quindi usalo poco, consapevole che tu e le tue comari sarete ascoltate. Se dovesse arrivare una telefonata sospetta, verranno a sorvegliare la casa dalla strada. Comunque mi ha precisato che non ha mai avuto casi di ammiratori che mandano fiori e poi si dimostrano violenti.

            - Neanche tu mi sembri preoccupato.

            - Te ne sei accorta? Chiunque sia, mi sembra un animo gentile: si sfogherà con i fiori, poi si rassegnerà a cercare una donna libera… Forse lo sta già facendo.

            Trascorse una settimana, poi un’altra. Claretta era più serena, ma sembrava un po’ delusa. Una volta sussurrò: - Un fuoco di paglia…

            Arrivò la prima ondata di scirocco. Clara era restia a usare i condizionatori, per via della sua artrosi cervicale, e anche ad aprire le finestre, a causa del rumore del traffico. In compenso in casa teneva la camicetta generosamente sbottonata, mostrando un decolté che non le conoscevo. Mentre pranzavamo, le chiesi:

            - Hai comprato un reggiseno push-up?

            Arrossì leggermente:

            - Mi ha consigliato la commessa: soltanto a casa ho notato che è imbottito sotto… E poi, si deve pur vedere che sono una donna matura!

            “Apparentemente pronta per essere colta!” pensai.

            Prima di Pasqua, ennesimo cestone con trentasei rose, color rosa shocking!

            - Eugenio, devi indagare!

            - Clara, ho per le mani tre casi importanti. Inizia tu le indagini, so che ne sei capace.

            Tre giorni dopo si fece trovare sorridente.

            - Hai scoperto il misterioso ammiratore?

            - Sono andata al negozio e mi sono presentata molto determinata, ma ho potuto avere dalla proprietaria soltanto una generica descrizione dell’uomo. Però c’era un giovane commesso, così ho atteso la pausa pranzo, l’ho fermato, gli ho fatto gli occhi dolci, l’ho accompagnato al fast-food e ho provato a corromperlo.

            Temeva di perdere il lavoro. Allora ho tirato fuori tutto il mio fascino e gli ho proposto una cenetta intima per sabato sera….

            - Ah, sì? Interessante…

            Clara fece un smorfia, poi riprese:

            - … per sabato sera. Così mi ha dato nome e cognome del cliente. A quel punto gli ho chiesto se aveva la ragazzina. Al suo assenso ho finto di ricordare un impegno per sabato, ho preso un centone  e gli ho suggerito di portare a cena la sua bella.

            - Brava! E chi è l’affascinante ammiratore?

            - Guarda caso, nome e cognome coincidono: conosci qualcuno con questa particolarità?

            Si alzò e si avvicinò:

            - Hai fatto follie, hai speso un mucchio di soldi e altrettanti ne hai fatto spendere a me. Un uomo così merita qualcosa…

            Mi scostai un momento, soltanto per abbassare le tapparelle.

 

f i n e

 

Michele Fiorenza 2011

*

Peccati di gola

Peccati di gola

 

            Claretta quella mattina si attardava davanti allo specchio, truccandosi con accuratezza.

            - Clara, non stai facendo tardi per la scuola? – le chiesi.

            - Per niente.

            Finalmente alle 8,30 sedette per colazione. Avevo capito che quel giorno sarebbe entrata più tardi, ma mi sorpresi di vederla elegantemente vestita. Le chiesi:

            - Oggi mezza festa?

            Mi fece uno strano sorriso, poi rispose:

            - Da oggi sono in pensione.

            Soltanto la mia Claretta ha la capacità di lasciarmi a bocca aperta, anche perché sapevo che non scherzava: su certe cose non lo fa mai. Mi ripresi un po’ e chiesi:

            - A quarantanove anni?

            Si strinse nelle spalle:

            - Magari sarò l’ultima pensionata baby…

            Io, che mi ero rassegnato a vederla faticare sino a sessantasei anni, non riuscivo a capacitarmi. Intanto lei mi teneva sulle spine. Finalmente riuscii ad articolare la bocca:

            - Come hai fatto? – biascicai.

            - Motivi di salute.

            - Di salute?

            - Sì, tu non mi osservi mai, sei convinto che io abbia ancora diciotto anni, invece… Non senti la voce rauca?

            - Sì, una infreddatura passeggera, come al solito…

            - E’ cronica.

            - Oh, Claretta…! – un moto di sincera compassione mi aveva ghermito il cuore.

            - Così dice il certificato che son riuscita a ottenere dal nostro amico medico. Inoltre ricordi quella lussazione alla spalla destra?

            - Quando in auto non ti eri messa la cintura e Tea andò a sbattere?

            - Sì, non posso alzare il braccio per scrivere alla lavagna.

            - Ma tu sei mancina!

            - Dettagli…

            - Clara, hai imbrogliato lo Stato?

            - No, perché vado in pensione col metodo contributivo, quindi in pratica mi daranno il mio, ciò che ho versato, rateizzato per gli anni che mediamente vivrò.

            - Ma… prenderai la metà di prima!

            - Un po’ meno… ma ho fatto un accordo con Dora (Teodora per l’anagrafe, Tea per Eugenio): la sostituirò all’erboristeria, anzi io e te lavoreremo nel pomeriggio, che è più impegnativo. Gianni lavorerà al mattino. Le spese saranno sempre a metà, ma i guadagni al sessanta per cento per noi. Non è un ottimo accordo? Tanto, tu con le indagini ormai fai la fame. Inoltre potrò controllare meglio che tu in negozio non ti metta a corteggiare tutte le oche del paese.

            Ero frastornato: Clara in pensione così giovane, io a sgobbare il pomeriggio con lei, a evitare quelle belle chiacchierate con le simpatiche quarantenni del paese, tutte preoccupate per l’età che avanzava… Come si fa a vendere senza corteggiare un po’? La mia dolce consorte proseguiva:

            - Una donna giovanile, ancora sulla breccia, vende molto più di un uomo stagionato e spelacchiato come te…

            - Può darsi, ma potevi almeno consultarti con me…

            - Perché? Tanto, non riuscivi a farmi cambiare idea.

            Sembrava proprio che Clara avesse sempre ragione: o l’aveva o se la prendeva… Le precisai:

            - Ogni cinque anni dovrai sottoporti a un controllo sanitario e potrebbero rimetterti in servizio…

            - Dici? Uhm, è una possibilità in più.

            - E Tea? Aiuterà Gianni?

            - Oh, non te l’ho detto? Lei è stata assunta per fare l’ispettrice gastronomica presso i ristoranti, in incognito, per una famosa pubblicazione annuale. Guarda che tutti la chiamiamo Dora.

            - Andrà lontano?

            - No, ha avuto l’esclusiva per la parte occidentale della nostra regione.

            Mi venne da ridere: Tea era una ghiottona, e la sua pancia era l’unica parte rotonda del suo stagionato corpo. Come sarebbe diventata?

            - Perché ridi?

            - Niente, niente: è un bel lavoro, specialmente per lei.

            - Io non avrei potuto farlo: col mio metro e sessanta peso settanta chili!

            - Non preoccuparti: in negozio, tutto il giorno in piedi, entra ed esci dal magazzino, a chinarti per gli scaffali bassi, ad alzarti in punta di piedi per quelli alti, dimagrirai.

            - Può darsi, ma in magazzino manderò te, gli scaffali alti saranno per te e quelli bassi lo stesso, altrimenti rischio di strappare la gonna…

            - Ma non puoi metterti una gonna un po’ più larga?

            - Sì, così sembrerei una monaca! Non hai nessuna pietà per i miei quarantanove anni!

*          *          *

            Naturalmente Tea si organizzò a modo suo: L’orario mattutino, che era 9,30 - 13,30, divenne 7,30 – 11 (ma di fatto apriva dopo le otto e chiudeva dieci minuti prima delle undici), recuperando tre ore il lunedì, quando invece chiudeva dopo le quattordici; ma in effetti in negozio stava Gianni, che per il nuovo lavoro dovette farle da autista (“Così posso controllarlo meglio, dopo quella storiella con la maga!”).

            Ristorante dopo ristorante, Tea consumava tre o quattro lauti pasti al giorno, rifocillando Gianni, che l’attendeva in auto, con gli avanzi e con tanto vino, visto che Tea era quasi astemia.

            Tutto andò bene, sino a quando una sera non rincasarono.

            - Si saranno fermati a dormire fuori. – disse Clara.

            Un po’ prima delle ventitré provai a chiamare Gianni, ma non rispose. Forse dormiva o era amorevolmente impegnato.

            Il giorno dopo provammo alternativamente a chiamare lui e Tea, ma i cellulari suonavano a vuoto.

            Il capitano dei Carabinieri mi disse:

            - E’ sparito di nuovo? Starà dormendo della grossa da qualche parte come l’altra volta…

            Il Commissario si mostrò ancora più scettico:

            - Eugenio, tutti sanno che, dopo quel presunto “rapimento” di Gianni, i due tubano come colombi: lasciamoli in pace.

            Clara e io ci guardammo negli occhi e andammo via.

            - Dove sono andati ieri? – chiesi a Clara.

            - Non lo so, ma sul calendario del tinello Dora annota tutto.

            - Peccato che non abbiamo la chiave… - mi rammaricai.

            - Che bisogno c’è della chiave?

            La mia Claretta è sempre stata una collaboratrice formidabile e “disinvolta”, e per molto tempo ho creduto davvero che, se non avesse vinto il concorso per la scuola e anche sposato me, sarebbe diventata un’eroina della “mala”.

            Davanti al portoncino di casa “Colombi” si tolse una forcina e armeggiò un po’ con la vecchia serratura, tendendo l’orecchio. A un tratto si udì uno scatto e il portoncino si aprì.

            Trovammo il calendario e il programma del giorno prima; poi studiammo i percorsi. Clara mi disse che Tea spesso convinceva Gianni a percorrere le strade provinciali perché in quel modo si accorciavano i percorsi e si risparmiava “ un mucchio di benzina”.

            Partimmo subito e seguivamo le strade ipotizzate, ad andatura ridotta. Clara guardava a destra e io a sinistra. Al crepuscolo dovemmo fermarci in un modesto motel.

            All’accettazione un uomo di mezza età chiese il documento solo a me, squadrò Clara, poi commentò:

            - Niente bagaglio, ovviamente.

            - Clara, prendi il tuo documento per il signore. – e a lui: - E’ mia moglie.

            - Eugenio, l’ho dimenticato…

            - Ci avrei scommesso. – commentò il portinaio, mentre Clara rideva sotto i baffi che non ha.

            - C’è un ristorante qui vicino? – chiesi allo scommettitore.

            - Duecento metri più avanti, ma è un po’ caro. Però penso che a lei questo non importa, non stasera.

            Stavo per rispondergli per le rime, quando sentii prendermi la mano da Clara e desistetti. La camera risultò spartana, ma confortevole e ben riscaldata. Commentai:

            - Ci ha presi per una coppia clandestina. Ovviamente tu sei l’amante di un uomo sposato. Ma come abbiamo fatto a dimenticare il cambio e i pigiami?

            - Non badarci: nella mia stuzzicante lingerie stasera sarò la tua amante…

*          *          *

            Cenammo presto e tornammo subito. Il tizio ci diede la chiave sorridendo sornione.

            In quell’ambiente nuovo e accogliente Clara fu meravigliosa. Ci addormentammo presto e ci svegliammo all’alba.

            - Partiamo subito… - suggerì Clara.

            Il curiosone sorrideva sardonico e commentò:

            - Dormito poco, eh?

            Di rimando io gli chiesi la fattura. La compilò e me la consegnò scrutandoci un’altra volta:

            - In fondo siete una bella coppia… Io penso che, dopo il divorzio, vi sposerete.

            Mi voltai disgustato, dirigendomi all’uscita insieme a Claretta. Lui disse:

            - Vi auguro una buona giornata! E a presto!

            Claretta si voltò e gli mandò un bacio con la punta delle dita. Io emisi un grugnito.

            Saliti in auto, mentre facevo riscaldare il motore, ci chiedevamo dove potessero essere finiti i due “colombi”. A un tratto il mio cellulare squillò. Era Gianni:

            “Ciao, Eugenio… L’altra sera abbiamo avuto un incidente: siamo finiti in un piccolo canale, perché io ero un po’ brillo. Fortuna che il canaletto era poco profondo… No, io ho solo qualche graffio, ma Tea ha la testa fasciata, poverina! Proprio ora che andavamo alla grande! Sta anche dimagrendo, con la dieta dell’ospedale! Ma dice che si rifarà presto…”

            Andammo a trovarli. Lui aveva anche avuto un trauma cranico. Lei era messa peggio, perché non indossava la cintura:

            - Col mio pancione non la sopporto! – disse.

            Tra pianti, racconti, preoccupazioni per il negozio, necessariamente “chiuso per ferie”, acquisto di provviste supplementari, voglia di compagnia, fecero fare buio,in quella stagione.

            Quando ci svincolammo, pioveva a dirotto.

            - Fermiamoci. – disse Clara, - Non voglio finire in un canale!

            - Ma qui vicino c’è soltanto il motel di quel satiro!

            - Poverino! E’ così simpatico!

            Anche le vostre mogli si divertono a definire “simpatici” gli uomini che detestate? O è soltanto un dispettuccio della mia Claretta?

            Comunque, stavolta il tizio non parlò, pur avendo un sorriso più largo della bocca. Anzi, con dieci euro in più ci diede la suite. Nell’andare verso l’ascensore, ebbi l’impressione che strizzasse l’occhio a Clara!

            - Non si preoccupi! – esclamò lei – Se non l’ho ancora sposato, lo sposerò presto!

f i n e

*

La giovane Befana

LA  GIOVANE  BEFANA

 

   - Non è possibile! – sbottò il regista.

   - Sa, questa è una scuola piccola, la quinta ha solo quindici allievi, di cui solo sei ragazze… - replicò la Preside.

   - Finora ho assegnato tre parti, alle sue allieve: restano ben tre ragazze per la parte della Befana!

   - Abbia pazienza, signor regista, la parte è difficile, le ragazze non hanno mai recitato…

   Il regista tentò di calmarsi: - Diciamoci la verità, Preside: se la parte fosse stata quella di una principessa, adesso litigherebbero tutte e tre, per averla.

   - Comunque non posso obbligare nessuno. – disse la Preside, col tono di chi considerava chiusa la questione.

*          *          *

   A Monte Cuspide Ignazia si strascinava per le strade, nel gelo di gennaio. Per fortuna il sindaco aveva fatto spalare la neve: ce n’era soltanto un po’ ai lati delle stradine, e si manteneva attaccata ai muri, dove il sole non poteva arrivare a scioglierla.

   A Ignazia piaceva la neve, così candida, così allegra. Il Natale era stato bianco e dolce, adesso il nuovo anno avrebbe forse portato qualcosa di buono. Di sicuro gli esami di Maturità. Dopo, per lei c’era soltanto la solitudine tra le sue menomazioni.

   Alzò la testa con fatica, forzando la sua schiena curva, per leggere l’insegna del negozio: sua madre doveva realizzare una calda coperta e quel tipo di gomitoli era reperibile soltanto lì. Ignazia sperava che avessero bei colori, allegri, ma non chiassosi.

   Con un po’ di fatica, superò i tre gradini ed entrò.

*          *          *

   Fu il prete, docente di religione, a parlargliene...

   Lei, la befana! Lacrime cocenti le rigarono il viso.

   Non bastava quel brutto nome ereditato dalla nonna, non bastavano i piedi piatti e le ginocchia valghe, quella scoliosi che sarebbe diventata una gobba: adesso le offrivano di impersonare la befana!

   Il prete capì, si era prestato per quel motivo:

   - Non devi sentirti mortificata, perché saresti la protagonista della commedia e ricaveresti tremila euro.

   - Così tanti? – chiese Ignazia, tergendosi le lacrime.

   - Sì, perché ci sono contributi pubblici.

   - Comunque non voglio espormi al biasimo per soldi.

   - Ti sarebbero utili per curarti e, se tu facessi bella figura, io organizzerei anche una colletta per te, a tale scopo.

   Ignazia sapeva che i suoi difetti potevano essere contrastati con opportune terapie, ginnastica e nuoto, tutti rimedi sino ad allora quasi impossibili per la sua condizione di povera orfana di padre e per la distanza dalla città. Ecco, padre Tommaso aveva trovato un motivo convincente:

   - Ma sarei all’altezza del personaggio?

   - C’è un ottimo regista, quel signore che è venuto al liceo l’altro giorno. Inoltre reciteresti mascherata: in quel modo è più facile.

   In breve, Ignazia accettò.

*          *          *

   Il regista era un po’ burbero. La osservò, poi disse:

   - La tua recitazione sarà basata sui movimenti della testa e delle braccia, nonché sulla voce. Hai una voce calda e profonda, ma a tratti squillante: dovrai usare toni più bassi. Ora leggi qua.

   Le diede il suo copione. Ignazia aveva l’opportunità di dimostrare che valeva qualcosa, nonostante tutto, e si impegnò. Il regista ascoltò, poi disse:

   - Bene, ci vedremo qui dopodomani, per iniziare le prove. La Preside verrà a prenderti e ti riaccompagnerà. Tu impara le battute.

   La prima prova fu fatta in abbigliamento comune. Il regista diede a tutti parecchi consigli, ma sembrava soddisfatto della sua protagonista.

   Due giorni dopo, la prova in maschera andò meglio per tutti, ma a Ignazia dava fastidio la mascherina.

   - Prova queste altre. – disse il regista, porgendogliene un mazzo.

   Ignazia ne trovò una rosa, morbida e con i fori grandi. Il regista fu d’accordo.

   Forse per la novità, forse per la protagonista, le prenotazioni per la commedia fu-rono così numerose, che il sindaco dovette mettere a disposizione il teatro comunale.

   Ignazia superò bene la terza prova, ma era in ansia per il debutto davanti al pubblico.

   - Non devi guardare il pubblico, se non ti senti… - le disse il regista – Ricordati che sei la Befana, hai duemila anni e un cuore grande e generoso. Devi esprimere tutta la tua dolcezza. Prima di entrare in scena farai tre respiri profondi, poi inspiri un’altra volta ed esci. Comunque sia, sarà un successo.

   Il difficile fu la prima battuta, poi Ignazia “entrò” nel personaggio e tutto filò liscio. Quando la recita terminò, ci fu un lungo, inatteso applauso, che la stordì per la gioia. Il regista l’abbracciò.

   Ci furono numerose altre richieste per un bis e la recita si ripeté, poi di nuovo ogni due settimane sino a Carnevale. Subito dopo Ignazia si fece accompagnare in un centro specialistico, iniziò faticose terapie e si iscrisse presso la piscina cittadina, che aveva anche una grande palestra.

*          *          *

   Per non trascurare troppo gli studi, Ignazia si faceva accompagnare in piscina il martedì, il giovedì e il sabato. Si iscrisse anche come Maria Ignazia, anteponendo il suo secondo nome al primo. Alla madre spiegò che non voleva essere riconosciuta per le sue recite, ma in realtà voleva cambiare nome e dare una svolta alla sua vita.

   Quando fu presentata al maestro di nuoto, un certo Roberto, si vide osservata con perplessità: - Il medico del Centro ti ha prescritto la ginnastica?

   - Sì, anche una dieta e ricostituenti.

   - Sai nuotare?

   - Neanche un po’.

   - Cominceremo col dorso…

   “Maria” imparò presto a nuotare e in ginnastica arrivò a fare quindici flessioni sulle braccia, poi venti, poi venticinque. A casa, grazie al denaro guadagnato con le recite, seguiva una dieta ricca di carne, pesce e frutta, aggiungendo vitamine e sali minerali. Inoltre portava abitualmente le scarpe ortopediche.

   Ogni mese il medico la visitava, esaminava le analisi e misurava l’altezza. A Pasqua aveva guadagnato due centimetri.

   Roberto era un giovane di venticinque anni, gentile e simpatico, che consultava spesso il medico per scegliere gli esercizi per Maria, da fare in acqua e fuori. Lei lo adottò quale fratello maggiore.

   Gli esami di maturità non interruppero la sua frequentazione del centro sportivo, anche perché le nuove radiografie mostravano un miglioramento della scoliosi e anche le gambe stavano più dritte. Adesso Maria era alta cinque centimetri in più.

   I risparmi si assottigliavano, ma il prete commissionava alla madre di Maria molti ricami. Questi venivano adeguatamente ricompensati, all’inizio per beneficenza, poi per la loro bellezza e perfezione, visto che la povera mamma s’impegnava a fondo.

   A Luglio Roberto chiese alla ragazza di partecipare a una gara provinciale, i duecento metri in stile libero. Maria si turbò:

   - Scherzi? Arriverò ultima! E con distacco!                                                              

   In effetti Maria già si immaginava percorrere l’ultima vasca da sola, mentre le altre l’attendevano al traguardo e il pubblico rideva delle sue goffe bracciate. Roberto non era d’accordo:

   - Che importa? Se anche tu dovessi arrivare penultima, sarebbe già un gran successo. Ho cronometrato i tempi di tutti i ragazzi iscritti, maschi e femmine, e questi sono i risultati.

   Glieli mostrò, poi disse: - Sei quasi nella media. Iscriviti, fallo per me.

   - Sei tu, che vuoi rischiare una figuraccia: va bene.

   Maria si esercitò molto, Roberto cronometrava i tempi e le dava parecchi consigli. Poi fu il momento di usare il costume olimpionico:

   - Sembrerò una rana! – disse Maria.

   - Se è così, ti iscriverò ai duecento metri a rana! – ribatté Roberto.

   Maria indossò il costume, poi si guardò allo specchio. Sì, le gambe stavano ancora un po’ divaricate, ma non le strascinava più, come per la recita. Poi si guardò di profilo… e vide una ragazza snella e quasi alta, piegata un po’ in avanti, sì, ma, tirando indietro le spalle, appariva quasi normale e soprattutto si notava il volume di un seno sino ad allora nascosto.

   - Stai diventando una bella ragazza, Maria. – La voce di Roberto la raggiunse da dietro. – Adesso andiamo a fare le prove, e userò il cronometro!

   Quando Maria comprese che non sarebbe stata ultima, si rasserenò.

   Il giorno delle gare sua madre, il prete e qualche amica la seguirono in TV con entusiasmo. Maria fu quarta su dieci e si commosse come se avesse vinto.

   Qualche giorno dopo Roberto le chiese: - Ti iscriverai all’università?

   - Sì, in Lingue. Veramente mi piacerebbe Scienze motorie, ma non ho i requisiti fisici.

   - Puoi sempre provare… Quando sono le visite?

   - A Ottobre.

   - Bene: abbiamo due mesi, ti sei diplomata e potrai venire ogni giorno.

   - Non posso pagare il doppio…

   - Ti farò avere un forte sconto. Inoltre la domenica la piscina è a mia disposizione gratis, per contratto.

*          *          *

   Maria Ignazia superò le selezioni per Scienze motorie. Non seppe mai di essere stata raccomandata dal Vescovo.

   La ragazza adesso aveva un diverso problema: riconoscendosi ormai normale come le sue coetanee, desiderava avere un fidanzato, sognare una casa e una famiglia sua.

   Da un po’ guardava Roberto con occhio nuovo, ne ammirava il fisico snello, asciutto, ma muscoloso, si lasciava ammaliare dal suo sorriso e lo riconosceva come un giovane veramente a modo. Un giorno si fece coraggio e gli chiese:

   - Sei fidanzato, Roberto?

   Lui scosse il capo: - Sono stato lasciato un anno fa, per uno più ricco.

   - Non vuoi farti una famiglia?

   - Con la persona giusta. Ci sono tante ragazze che mi girano attorno, ma quella che mi piace non è matura.

   Maria intuì qualcosa e gli chiese: - Come fai a dirlo?

   - Non conosce la vita, il mondo, non può fare confronti… E’ presto, anche per me, attenderò.

   Maria, seduta, dondolava i suoi piedi e li osservava: adesso erano quasi perfetti, piccoli per vincere una gara, ma belli per conquistare un uomo. Disse:

   - Io ho diciannove anni e farò come te: attenderò.

   Roberto e Maria cominciarono a frequentare lo stesso gruppo di amici e ciò alla ragazza bastava.

   A Novembre ci furono le gare regionali e Maria fu convinta a partecipare, ma era  rassegnata ad avere un fallimento; comunque si determinò a vendere cara la pelle.

   Calibrò le sue energie, era quarta a metà gara e alla fine, con un allungo finale, arrivò terza. Salì sul podio felice e dopo abbracciò Roberto, a lungo, ringraziandolo.

*          *          *

   A Dicembre tornò il regista e convocò i ragazzi dell’anno precedente:

   - Dov’è la mia Befana?

   Maria Ignazia alzò la mano: - Sono qui, non mi riconosce?

   - Tu? Sei tu o una sorella?

   Qualche risata. Il regista sembrava deluso: - Come farò? Dove troverò un’altra Befana?

   Alla fine dirottò su un classico, Cenerentola, e naturalmente scelse Maria per protagonista. Lei pose una sola condizione, che il principe fosse Roberto.

   Potete immaginare il successo.

   Al termine delle feste, ci fu la novità di Roberto:

   - Mi hanno offerto un lavoro di tre mesi, molto remunerativo, a Siviglia, in Spagna, e ho accettato.

   Maria si sentì perduta e temeva di mostrare qualche lacrima. Roberto aggiunse:

   - Non temere, ti telefonerò e ci manderemo anche delle mail. Intanto tu guardati intorno, cerca il tuo vero principe...

   Maria riuscì a dire: - Lo cercherò dopo Pasqua…

   Roberto pensava che, allontanandosi, Maria avrebbe dimenticato quella che a lui sembrava soltanto un’infatuazione passeggera, un fuoco di paglia, un primo amore tanto romantico quanto platonico: l’affetto della ragazza era probabilmente dovuto alla riconoscenza, alla frequentazione e ai successi conseguiti insieme.

   Si salutarono in aeroporto, da amici.

*          *          *

   Rimasta sola, Maria, non sapendo se veramente per lei fosse troppo presto per scegliere, decidere il suo futuro e impegnarsi definitivamente con Roberto, tentò di considerarlo un amico; ma il giovane le mandava almeno una mail al giorno.

   D’altra parte lei, circondata da amici e amiche sempre più numerosi, non vedeva in nessun altro ragazzo le qualità e le caratteristiche che amava tanto in Roberto.

   Dopo un triste San Valentino prese una decisione disperata: sentì che era ora di mettersi in gioco. Aveva sempre pensato che comunque il giovane meritasse un grosso premio, qualcosa di importante.

   Maria non possedeva nulla, tranne pochi risparmi. Aveva un solo intimo tesoro, rimasto lì forse per innocenza, forse per pudore, forse per la sua precedente bruttezza. Quello spettava all’uomo che lei in quel momento sentiva di amare con tutta se stessa.

   Disse a sua madre che aveva bisogno di andar via per una settimana. La donna, dapprima perplessa, comprese e acconsentì.

*          *          *

   Era sabato pomeriggio e Roberto stava riflettendo sul miglior modo di trascorrere il fine settimana, quando gli arrivò una telefonata di Maria:

   - Sono sul pullman che porta in città, qui a Siviglia, e non so a quale fermata scendere…

   Roberto pensò che la farfalla era alla fine uscita dal suo bozzolo, in tutta la sua bellezza e vitalità, che sapeva scegliere e che era determinata: perché respingerla ancora?

   Terminata la telefonata, si vestì in fretta e scese svelto per le scale, felice di andare incontro al loro futuro.

f i n e

 

Michele Fiorenza

*

La cugina argentina

LA  CUGINA  ARGENTINA

 

            - Lo sai che sono scesa a sessantun chili? – disse Clara, imburrando una fetta di pane appena tostato.

            - E’ per questo che hai smesso la dieta? – replicò Eugenio.

            Clara guardò la fetta che stava avidamente mangiando:

            - No, questo non è burro, ma margarina vegetale… – altro morso - … e il pane – gnam gnam – è di segale.

            Eugenio sorseggiava il suo caffellatte. Guardò la bella cera della sua Claretta, che portava molto bene i suoi cinquant’anni.

            Intanto lei era passata alla marmellata:

            - Non mi guardare: è marmellata senza zucchero… aggiunto, un prodotto biologico che dovreste vendere in erboristeria, tu e Gianni!

            Eugenio aveva terminato il caffellatte e sbocconcellava un grissino, ovviamente di segale. Intanto Clara aveva iniziato ad affettare un salame. Si giustificò:

            - E’ salame nostrano, molto magro, sai?

            - Troppo sale… e il sale genera ritenzione idrica! – le ricordò Eugenio.

            - Non questo: è “quasi” privo di sale aggiunto, insaporito con pepe in chicchi, aglio e peperoncino. Lo vuoi assaggiare?

            - Con la mia gastrite, quando vorrò suicidarmi, lo mangerò.

            - Sei debole, di stomaco! Questo non me lo avevi detto…

            Eugenio pensò che anche lei non gli aveva detto molte cose: la predilezione per i ristoranti, la passione per i profumi francesi e i gioielli… semplici, ma di valore; la contrarietà a far troppi figli (il loro unico pargolo era stato relegato ben presto in un collegio svizzero “per la sua educazione”), la tentazione dell’alta moda, la preferenza per le amicizie altolocate (“Frequenta chi è meglio di te e rimettici le spese!”). Bene, a Eugenio venne in mente la novità:

            - Sai, Clara, dolcezza del mio cuore, tra qualche giorno arriverà una cugina mia e di Tea dall’ Argentina…

            - Un’altra cosa che non mi avevi detto! Com’è che avete una cugina in comune e in Argentina?

            - Veramente era mio cugino il marito. Invece per Tea è una prima cugina autentica. Non preoccuparti: andranno lei e Gianni a prenderla all’aeroporto e la ospiteranno. Il giorno dopo saremo a pranzo da loro.

            - Che fa in Argentina? – chiese Clara.

            - Vive di rendita, ma possiede anche un allevamento di vitelli: è ricca e ha pure un filo di sangue blu, non so.

            - Forse lo so io: un nonno di Dora, che tu non rinunci a chiamare Tea, era un marchese, quindi anche lei ha lo stesso sangue blu, ma, modesta com’è, non lo dice mai.

            In realtà a Eugenio tutta quella modestia non risultava.

            - Che età ha? – chiese Clara.

            - Credo sia sui cinquantacinque…

            - Bene, credo che preparerò un ottimo dolce in casa, mentre tu comprerai i vini, tu sai quali, compreso uno dolce per il dessert: ti consiglio il Porto. Ah, naturalmente pagherai con la tua carta di credito! Io sono quasi al verde…

            “Come al solito”, pensò Eugenio, ma tacque, perché desiderava che Clara accogliesse bene quella sua parente straniera. Cosa difficile, perché la sua Claretta era sempre diffidente nei confronti degli estranei.

*          *          *

            Come volevasi dimostrare. Appena seduti in auto per recarsi da Tea (Teodora per l’anagrafe), Clara lo informò che dovevano prima andare a prelevare Maria, la cognata argentina di un amico in comune tra loro e Tea. Un’accortezza di Clara.

            E così conobbero la simpatica Mercedes, subito ribattezzata Mercè da Eugenio. Poiché in Argentina aveva lasciato l’inverno, era in pelliccia, ma la regalò a Teodora:

            - E’ quasi nuova, ma puoi anche darla ai poveri, se non ti piace, cara…

            Poi cominciò a distribuire regali in oro e pietre semipreziose. A Eugenio andò un orologio d’oro e a Clara una collana di corallo. A Teodora i regali migliori, poi le porse una maglia interna di lana, un paio di calzettoni e un reggiseno per metterli in lavatrice alla prima occasione.

            Soddisfatta, sedette a tavola, non senza aver prima aperto la cerniera della sua gonna di lana, realizzando un lungo spacco e mettendo in mostra una coscia ancora bella:

            - Miei cari, mi sono dovuta alleggerire in aeroporto, appena atterrata, nel bagno pubblico, per il troppo caldo. Ora ho una fame da lupi: mi cambierò più tardi.

            Eugenio notò che il suo seno prorompente traspariva un po’ dalla camicetta abbondantemente sbottonata su una pelle bianca, ma si impose di tenere lo sguardo lontano da quella stuzzicante beltà, anche perché Clara, a mo’ di  minaccia, cominciò a sbottonare la sua, di camicetta. Invece il povero Gianni, in astinenza forzata da chissà quanto tempo, non riusciva a staccare gli occhi dalla cugina acquisita. Che ci stesse facendo un pensierino?

            Maria iniziò una serrata conversazione in lingua straniera, socializzando con Mercedes. Era evidente che la cugina fosse autenticamente argentina. Alla fine le due nuove amiche decisero di esprimersi educatamente in italiano, anche se Mercedes spesso pronunciava parole dialettali della nostra regione.

            A un tratto Clara la vide soppesare distrattamente un cucchiaio d’argento, di quella posateria che Dora metteva in tavola per le grandi occasioni. Sentendosi osservata, Mercedes disse che stava ammirandone la decorazione. A Clara sembrò che la decorazione fosse molto semplice.

            La bella cugina distribuiva sorrisi a tutti e metteva in campo tutti i suoi ricordi di quarant’anni prima, stupendosi che molte cose di allora fossero cambiate.

            Mangiò, si rifocillò, poi chiese di ritirarsi in camera perché morta di sonno dopo il lungo viaggio e per l’ora legale “mooolto” diversa.

            Mentre Clara sparecchiava e si accingeva a riempire la lavastoviglie, i due cugini presero a elogiare la gentile e affascinante argentina, compiaciuti che avesse avuto la benevolenza di voler venire in Italia a ritrovare i parenti quasi dimenticati.

            Da parte sua Maria garantì che la gentile signora era realmente argentina e aveva vissuto lì per moltissimi anni.

            Tutti riguardavano e ammiravano i preziosi regali ricevuti, in particolare Gianni che “in effetti era un estraneo” e invece era stato trattato molto affettuosamente, specialmente quando la ritrovata cugina gli aveva chiesto di aiutarla a togliersi gli stivaletti dai piedi gonfi e doloranti. Gianni si era prestato e si era anche proposto per un massaggio ai gentili e nobili piedini, subito inibito da uno sguardo furente di Teodora.

            A sera Mercedes non aveva fame, ma seppe ugualmente apprezzare gli squisiti manicaretti approntati dalla cugina “del mio cuore”, così ribattezzata da lei. Gianni stava per commuoversi.

            Lodi sperticate furono elargite a Eugenio per il suo gusto raffinato in fatto di vini e a Clara, per la sua finissima arte pasticcera. Ovviamente tutti furono più volte invitati in Argentina, nel suo comodo ranch in mezzo alle pampas.

            Poi tirò fuori il discorso della “degna sepoltura” del consorte: occorrevano duecentomila dollari, circa centosessantamila euro. Lei ne aveva quaranta, altri quaranta erano stati donati o prestati dai parenti suoi. Potevano i gentili parenti italiani concederle un prestito? Gianni disse subito di sì, seguito da Eugenio e Teodora.

            Questa si propose per un prestito sulla parola di ben cinquantamila euro, al che Eugenio, in un afflato di simpatia e generosità, promise ventimila euro. Un’occhiata terribile di Clara lo fece ripiegare su diecimila subito e diecimila dopo un mese, a seguito della riscossione di alcuni crediti.

            La cugina se ne compiacque, affermando che avrebbe trovato i rimanenti diecimila sul suo conto, al rientro in Argentina, quali proventi della sua attività di allevatrice di bestiame.

            Il mattino seguente alle nove e trenta due assegni, di cinquantamila e di diecimila, furono versati in banca per un bonifico sul conto argentino di Mercedes.

            Quando Eugenio disse a Clara che si era vergognato per aver prestato così poco in confronto a Teodora, Clara lo fulminò con uno sguardo. L’argentina peraltro ebbe la finezza di rilasciare due ricevute ai cugini, debitamente firmate.

            I banchetti proseguirono per alcuni giorni, sino al sabato. L’abbigliamento della cuginona era sempre più elegante e leggero. Arrivò persino a prendere il sole in terrazza nel suo stringato costume da bagno brasiliano (“lo indossava solo a quello scopo e solo tra parenti”, precisò).

            Gianni smaniava sempre più, mentre Eugenio divenne più focoso, con Claretta:

            - Cara, ti piace la nostra simpatica cugina?

            - Mmah! – rispondeva Clara.

            Per la domenica la cugina aveva chiesto un pranzo semplice ed economico: la pasta con le sarde. Mentre le donne pulivano pazientemente le sarde freschissime procurate da Eugenio, gli uomini poltrivano in terrazza, guardando con nostalgia la sdraio ove le belle membra aveva posto la simpatica argentina. Gianni arrivò persino ad accarezzare delicatamente lo schienale.

            Il sole era alto, ma la bella dormigliona non si alzava.

            - Colpa del fuso orario! – la giustificavano gli uomini.

            A un tratto Teodora chiese:

            - Dove hai messo l’argenteria, Clara?

            - Non l’ho riposta, Dora: l’ho solo tolta dalla lavastoviglie, asciugata e messa sul tavolo. Solo tu sai dove la conservi.

            Teodora era perplessa:

            - Io non l’ho conservata…

            Clara lasciò la sardina a metà, si pulì rapidamente le mani, nel silenzio di tutti, poi salì da Mercedes. Bussò più volte e infine si decise ad aprire: la camera era in ordine e vuota.

*          *          *

            Non fu possibile in alcun modo recuperare gli assegni o reperire la presunta cugina, che tra l’altro pare fosse deceduta insieme al marito in un incidente.

            I gioielli risultarono di ottone placcato oro, le pietre di ottimo vetro colorato e la collana di corallo di pessima qualità. Naturalmente la pelliccia si rivelò “ecologica” e di cattiva fattura.

            Teodora per rabbia le suonò a Gianni, Clara pretese la restituzione dei diecimila da Eugenio:

            - In fin dei conti la “cugina” era tua e tu ti sei sciacquato gli occhi a guardare le sue nudità!

            L’amicizia con la pericolosa Tea (adesso anche Clara la chiamava così) fu messa da parte per un po’ ed Eugenio fu temporaneamente cacciato dall’alcova matrimoniale.

f i n e

*

Suggestioni tricolori

SUGGESTIONI TRICOLORI

All’atterraggio ero stato accolto da un profumo misto di salsedine e di fiori, con mia sorpresa e un po’ di dispetto.
Non avevo accettato di buon grado quella breve trasferta di lavoro, tanto meno l’incarico del mio collega di portare quel plico allo zio lontano:
- Avrai l’auto della Società e il paese di mio zio non è lontano dalla cittadina. Inoltre potrai visitare il monumento ai caduti della battaglia.
- Quale monumento, quale battaglia?
- La prima battaglia vittoriosa che portò i Mille all’unificazione! In effetti è un monumento dimenticato, ma ti piacerà.
Così, prima di rientrare, telefonai al famoso zio, che si premurò di venirmi incontro all’ingresso del paesino. Fu di una cortesia squisita, insieme alla moglie, la quale cucinò per me un paio di tipici piatti locali. Il vino era forte e aromatico.
Mi rimaneva il monumento, in località Pianto Romano. Era un pianto per i caduti? E perché Romano?
Temevo un po’ di confusione sul posto, un certo traffico, invece nulla, soltanto un po’ di foschia: pian piano mi arrampicai con l’utilitaria a noleggio sino in cima alla collinetta, mentre la foschia, man mano che salivo, si diradava. Da lontano avevo intravisto la punta di una guglia, ma, quando arrivai, quel monumento mi parve imponente.
Parcheggio completamente libero: ero solo. Cercai con lo sguardo una baracca di souvenir, un bar, qualche visitatore: niente e nessuno.
Il monumento era chiuso, e attraverso i vetri non si notava nulla all’interno in penombra. Più in là c’era un casotto piccolo e basso con una porticina e un cartello di cartone: CUSTODE. Bussai. Silenzio.
Da quel punto iniziava un viale fiancheggiato da cipressi e in fondo c’era un arco commemorativo. Volevo quasi andarmene, ma ormai avevo una certa curiosità. Bussai di nuovo.
Mi aprì una ragazzetta bionda:
- Mio padre è andato in paese, non so quando torna.
Mi sorpresi di non avvertire nella sua voce l’accento locale.
- Vorrei vedere il monumento.
- Posso indicarle il luogo della battaglia…
- Magari!
Mi accompagnò lungo il viale, verso l’arco. Procedeva silenziosa e sorridente nel suo semplice abitino bianco. Quando giungemmo alle quattro colonne, mi indicò la scritta in alto: “Qui si fa l’ Italia o si muore”. Al di là un dirupo.
- I Garibaldini erano laggiù, in quel cascinale. All’alba vennero qui sotto e si arrampicarono, sotto il fuoco dei Borbonici, che avevano i cannoni.
- Erano mille?
- Di più: c’erano anche i “picciotti” siciliani di Marsala e di altri paesi qui vicino.
- E vinsero?
Annuì col capo:
- Molti soldati borbonici erano in effetti siciliani, temevano Garibaldi e volevano soltanto salvarsi.
- E poi?
- Poi a Palermo scoppiò la rivolta e i Borbonici furono presi tra due fuochi: fuori e dentro. Altri picciotti si unirono.
- Mi piacerebbe vedere l’interno del monumento…
Tornammo al casotto, dove la ragazza prese una grossa chiave, salì per la ripida scala in pietra e aprì.
L’interno era semplice e silenzioso, appena illuminato dall’alto. A sinistra una lapide con i nomi dei caduti, parecchie decine, tutti molto giovani.
C’erano nativi di Sicilia, ma anche di Campania, Toscana, Liguria e Lombardia… con un gran numero di Bergamaschi!
Ne rimasi turbato: che cosa si può fare per un ideale, valido o no che sia! Persino dare la vita…
Lei disse: - Erano Italiani di tutta Italia…
La guardai e notai i suoi occhi azzurri.
- Com’è che hai gli occhi azzurri?
Mi guardò perplessa:
- Mia nonna aveva gli occhi azzurri, e anche mia zia e mia cugina ce li hanno azzurri.
- Com’è che non c’è un negozio, un bar qui vicino?
Scrollò le spalle: – Non lo so, ma è meglio così: loro possono riposare meglio.
Poi mi indicò un nome sulla lapide, un giovane nativo della mia stessa provincia:
- Quello era il più giovane, il mio fidanzato…
Sorrisi a quello scherzo, poi la vidi seria e pensai che la ragazzina si fosse lasciata suggestionare dal luogo, in tanti anni, e allora tacqui.
Nell’andar via volevo darle una lauta mancia, ma lei rifiutò nettamente. Mi seguì con lo sguardo, mani in grembo, mentre mi allontanavo con l’auto. Tornai in hotel.
Ero ancora sazio dell’abbondante pranzo, quindi presi soltanto un cappuccino, seguii in TV un documentario sull’unità d’Italia, ma circoscritto alle fasi finali, poi spensi.
* * *
Con quelle dannate camicie rosse eravamo troppo in vista e gli sparuti ulivi non ci riparavano abbastanza. Soltanto l’entusiasmo ci faceva andare avanti, insieme all’incitamento del Generale, che era sempre davanti a tutti, insieme al luogotenente.
Loro non avevano paura, non avevano nessuno da perdere, mentre il mio pensiero andava sempre a quel visetto da bambina che avevo lasciato ai piedi delle Alpi.
Le palle di cannone ci sorvolavano con frequenti rombi, cadendo a valle. I fucili colpivano, sì, ma sulle camicie non si notava bene il sangue e, chi poteva, andava avanti, un albero dopo l’altro. C’erano molti liguri in prima fila e i toscani provavano a superarli. Di chi sarebbe stata la maggior gloria?
Lassù i Borbonici sparavano, ma tacevano. Noi, sparpagliati a tingere di rosso la collina, gridando “Viva l’ Italia! Viva il Re!”, dovevamo sembrare tanti diavoli arrivati direttamente dall’inferno. E i rimproveri salaci, sferzanti dei Toscanacci risuonavano tra noi come scherno.
Non importava la vita, importava il coraggio. Quando un fiorentino mi diede del moccioso, tolsi la bandiera di mano a un ferito grave e presi ad avanzare tra i fischi dei proiettili. La bandiera non può restare indietro! Il Generale mi notò e con un cenno m’invitò ad andargli vicino.
Un colpo di fucile e un salto, un altro colpo e un altro salto, ogni due colpi la ricarica, all’ombra della Bandiera. La consapevolezza di essere sempre tra la vita e la morte, il mio stesso coraggio mi esaltavano, come fossi un ubriaco, un folle in un delirio crescente: ” Italia, Re!”
Il Generale si era pian piano spostato a sinistra: proprio sopra di noi un codardo Borbone armava il cannone e sparava senza convinzione. Chi avrebbe potuto fermare i Diavoli Rossi?
Affiancai il Generale e mi sentii un eroe. Nella mia mente la mia ragazza bionda, ora più grande, ora orgogliosa, ora pronta a generare figli Italiani, mi sorrideva… Pochi metri dal cannone, potevo prenderlo. Il Generale sussurrava: “Piano, prudenza, aspetta gli altri, ci siamo quasi.”
Io vedevo soltanto quel cannone, una preda a portata di mano, e il mio fucile era carico: sparai un colpo a un Borbone, l’altro all’altro e saltai su, bandiera alta, gridando: “Viva l’ Italia!”
Mi voltai a destra e… due, tre, dieci fucili nemici spararono!
* * *
Mi svegliai. Dalle persiane filtrava l’aurora e io ero sudato. Bevvi un bicchiere d’acqua minerale per ripulire lo stomaco dagli ultimi residui. Feci una doccia, mi sbarbai, scesi, pagai e salutai.
Come si chiamava il fidanzato della biondina? Certo non come me. Però avevo un paio di domande da porle.
Mi arrampicai per la collinetta di Pianto Romano nella consueta solitudine dei campi, giunsi alla base del monumento e parcheggiai. L’anziano custode mi venne incontro. Dopo qualche laconico convenevole, elogiai la sua figliola per le spiegazioni del pomeriggio precedente, vedendolo stupirsi:
- Io non ho una figlia.
Sbalordii a mia volta:
- Era qui, biondina con gli occhi azzurri, quindici o sedici anni…
Lo vidi commuoversi:
- Avrebbe avuto quest’età, se non fosse morta dieci anni fa per una meningite… Anch’io la sogno ancora, durante i miei pisolini pomeridiani!
Tacqui, dubitai, ripensai al mio sogno, mi confusi, poi gli chiesi di rivedere l’interno del monumento. Aprì, mi voltai subito verso la lapide affissa, rilessi il nome del “fidanzato”, poi la data di nascita: appena diciottenne, indubbiamente il più giovane.
Ringraziai, girai lo sguardo intorno, poi andai via. Dopo la prima curva mi accorsi che dal limite del piazzale superiore, sopra l’erba verde si intravedeva un abitino bianco, indossato da una ragazzetta che sventolava un fazzoletto rosso.

F i n e

Michele Fiorenza

*

Un volto e un’anima

Un volto e un'anima                                                                            

 

         Fui chiamata tramite la solita agenzia di lavoro interinale, gestita dalla mia amica Gloria. La mia attività era soltanto saltuaria, in quella città del profondo sud, e avevo una vaga aspirazione ad andar via. Però qualcosa di simile a radici profonde mi tratteneva. Forse, dopo quell’antica delusione, un nuovo amore avrebbe potuto farmi restare, chissà.

         Con i miei trentacinque anni ben portati, da lontano ero piuttosto appariscente: bionda, alta, snella, dritta, con le labbra carnose, le gambe tornite e un discreto decolté, facevo fatica a tener lontano gli avventurieri; ma gli uomini a modo, posati, esigenti, che desideravano metter su famiglia, magari un po’ tardi, mi guardavano con più attenzione, per capire se ero il loro tipo, e rinunciavano.

         Infatti i lineamenti del mio lungo viso erano piuttosto irregolari e in disaccordo tra loro; la mia bella voce, calda, sottile e sensuale, contrastava con quei tratti, e il mio italiano quasi perfetto, “risciacquato in Arno” ai tempi dell’università, generava per telefono aspettative destinate a essere deluse.

         Per assistere persone anziane o svantaggiate, oppure con problemi psicologici, ero ideale: di bella presenza, ma complessivamente dimessa (anche per via del mio sobrio abbigliamento), discreta e abitualmente silenziosa, ma capace di dar compagnia con la mia piacevole voce e la mia cultura, preparata professionalmente, non riusciva difficile a Gloria segnalarmi ai migliori clienti.

         Fu così che mi propose a quell’ingegnere cieco, di circa quarant’anni, rimasto solo dopo la morte della madre. A me disse:

         - E’ una persona per bene, colta e gentile, amministratore di un’azienda di componenti meccanici e proprietario di un agriturismo, “Il tulipano”, lo conosci? Ha perso la vista durante l’adolescenza, per malattia. Però credo che da un occhio veda un po’, come tra una fitta nebbia. Ho proposto te, alla tariffa massima, e ha acconsentito. Naturalmente avrai un tuo orario, il giorno libero e le ferie. Può anche offrirti vitto e alloggio e te lo consiglio, perché vive in una villa a … con bella vista sul mare, ed eviteresti di viaggiare. In casa non sareste soli, perché ha una nutrita servitù: cuoca, cameriera, giardiniere e autista, imparentati tra loro, tutte persone fidate, a suo dire. Prova per un mese, poi deciderai.

         Risposi che praticamente non lavoravo da tre mesi e i risparmi si assottigliavano, quindi ritenevo una fortuna quell’occasione.

         Arrivai con la mia utilitaria entro le otto e trenta del giorno stabilito. Mi aprì subito una ragazza dal sorriso franco e cordiale, che immaginai fosse la cameriera. Tolto il leggero soprabito, mi accompagnò in un salottino, nel quale poco dopo condusse, guidandolo per un braccio, l’ingegnere.

         Questi si accomodò da solo, ma con qualche incertezza, sul divano, sedendosi accanto alla mia poltrona. Ci presentammo.

         - Lei è troppo bella per assistere un povero cieco. Riesco a notare che è alta, bionda, ben vestita e si esprime bene. Come mai fa questo lavoro?

         Gli spiegai che non avevo voluto allontanarmi dalla nostra città.

         - Se lei è qui, vuol dire che conosce e ha accettato i termini del contratto, come me, del resto. Fra un po’ Maria le assegnerà una stanza al primo piano, anzi potrà sceglierla fra tre, tutte comode. Io non sono ricco, ma mia madre voleva una bella casa. Non s’impressioni per il numero di persone a servizio, perché, a parte il vitto, l’alloggio e la disponibilità di qualche vecchia automobile, guadagnano ben poco. Soltanto il suo onorario è elevato, perché il suo compito sarà più gravoso: accompagnare, leggere, parlare, descrivere un po’ di tutto a un povero cieco. Questo per circa sei ore al giorno e per sei giorni alla settimana. Io cercherò di non esserle troppo di peso, perché il mio occhio sinistro riesce a vedere qualche ombra; per esempio intuisco che lei è molto bella.

         Avrei voluto dirgli che non era così: il viso lungo, i tratti irregolari, i capelli radi… ma volevo fare una buona impressione e mi schermii debolmente:

         - Lei è molto cortese, ma io non mi sento affatto bella.

         - Comunque lei è qui per le sue capacità e per le referenze. Ci vedremo nello studio alle dieci e trenta per spiegarle qualcosa del mio lavoro, in realtà molto leggero, e sulla sua occasionale collaborazione. Per qualsiasi esigenza, può anche  rivolgersi a Maria.

         Suonò un campanellino di ottone e ricomparve la ragazza di prima, che mi aiutò a prendere il mio modesto bagaglio e a scegliere la stanza.

*        *        *

         Impiegai pochi giorni per conoscere le abitudini, peraltro tranquille, del mio assistito. Poiché eravamo in primavera, gli piaceva passeggiare nel piccolo parco della villa, chiedendomi di descrivergli il paesaggio. Dedicava molto tempo ai pasti, che gustava centellinandoli. Dalle dieci alle undici si ritirava nello studio a trattare i suoi affari per telefono. Di solito dopo mi chiedeva di scrivere qualche breve e-mail e inviarla; a tal fine mi confidò la sua password, chiedendomi di mandarla a memoria e di non riferirla a nessuno.

         Nel pomeriggio riceveva qualche amico o collaboratore e spesso voleva che fossi presente. La sera a volte mi chiedeva di accompagnarlo a qualche concerto. Quando venivo impegnata oltre le sei ore, esigeva che lo annotassi per avere poi una mezza giornata libera a titolo di recupero.

In quelle mezze giornate lui chiedeva all’autista di portarlo in giro per contrade poco frequentate, fermandosi in qualche piccolo bar a consumare un dolcetto o in qualche negozietto di campagna ad assaggiare un salume particolare accompagnato da un vinello locale.

         Migliorando il tempo, le nostre passeggiate nel parco si prolungavano.

         - Com’è oggi il mare? Me lo descriva.

         Io eseguivo con piacere e con dovizia di particolari. Una volta mi disse:

         - Le sue descrizioni sono splendide, come la sua voce. Com’è che non è sposata?

         - Forse per una vecchia delusione.

         - Io non ho avuto delusioni, perché nessuna si è mai innamorata di me, e credo che ormai si sta facendo troppo tardi.

         - Lei merita un grande amore.

         Tacque. Volle che lo accompagnassi presso un muretto prospiciente il mare e lì espose il viso alla brezza, respirando profondamente. Poi disse:

         - Mi scusi per la mia domanda indiscreta di poco fa. Per quanto riguarda me, non sono stato del tutto sincero: ho avuto anch’io un amore nell’adolescenza, prima che perdessi completamente la vista. Allora mi parve un rapporto prematuro e colpevole. Invece lei, accortasi della mia incipiente cecità, mi lasciò. E oggi sono felice di aver vissuto almeno quell’unico precoce, superficiale amore.

         - Lei è un bell’uomo: avrebbe potuto avere un sacco di amori.

         - L’amore vero deve nascere dall’anima…

         Forse fu per la sua cecità, forse per la mia capacità di saper ascoltare senza tradire eccessive emozioni, Gianni, come voleva essere chiamato, pian piano mi si rivelò completamente. A volte si scusava di ciò. Un giorno gli chiesi di chiamarmi Olga e il giorno successivo lui mi chiese di darci del tu. Ne fui lusingata: soltanto l’anziana cuoca e il vecchio giardiniere gli davano del tu.

         Con discrezione cominciò a chiedermi qualcosa in più di me e ascoltava senza fare domande, come un vecchio amico.

         Così, in un luminoso mattino di Giugno mi svegliai scoprendomi innamorata. “E lui?” Fu il mio primo pensiero. La risposta non sarebbe tardata molto.

         Qualche giorno dopo andammo in spiaggia per la prima volta, a prendere un po’ di sole e ”inspirare il profumo del mare”, disse lui.

         Io indossai il costume più sobrio e castigato che avevo, intero, nero e accollato; credo che feci così per una forma istintiva di pudore nei confronti di un uomo che certamente desiderava ammirarmi.

         Infatti lo fece con il candore e la sfrontatezza che hanno sempre gli ipovedenti, dichiarando:

         - Con l’aiuto del sole, persino attraverso la nebbia dei miei occhi, intuisco che hai un corpo stupendo.

         - Non sono bella come tu immagini, Gianni.

         Lui continuava a guardarmi e sorrideva.

*        *        *

         L’estate passò nella migliore serenità e in autunno le passeggiate si allungarono e moltiplicarono. Agnese, la vecchia cuoca, mi confidò che non lo aveva mai visto così felice.

         Un giorno, mentre eravamo seduti su una delle solite panchine del parco, mi chiese di fargli toccare il mio viso:

         - E’ il mio modo di vedere.

         Temevo di deluderlo, ma gli offrii il viso. Lo tastò con entrambi le mani:

         - Fronte bassa, sopracciglia folte, occhi distanti, naso sottile, labbra carnose, mento sporgente, collo lungo, capelli radi… Dovresti farti curare i capelli da uno specialista: te ne indicherò uno. E le sopracciglia dovrebbero essere sfoltite da un’estetista. Occhi, naso e bocca sono splendidi.

         - Domani prenoterò per lo specialista e andrò dall’estetista, se ti fa piacere.

         - Fa’ mettere tutto sul mio conto.

         - Neanche per sogno.

         - Allora prenoterò io per te.

         - Vedi che non sono bella?

         - In ogni caso, tu sei bella nell’anima.

         Il sabato successivo, dopo aver controllato le mie sopracciglia e i miei capelli, notevolmente accorciati, mi chiese di sposarlo.

         Lo disse così, come quando mi chiedeva di porgergli il braccio per una passeggiata.

         - So di avere un grave handicap, ma per il resto sono in buona salute e posso darti quello che vedi qui intorno in qualità di padrona e non d’impiegata. Inoltre possiamo avere dei figli per la nostra vecchiaia. Avresti tanti bei vestiti, un’automobile nuova, amiche di classe; faremmo feste, ricevimenti…

         - Taci, io accetto perché ti amo.

         A tentoni trovò il mio viso e mi baciò, facendomi felice.

         Che dire? La nostra intimità aumentò di giorno in giorno e a volte lui se ne scusava. Fissammo presto la data delle nozze.

         - Ci saranno pochi intimi, se per te va bene.

         - Va benissimo, Gianni.

*        *        *

         La svolta avvenne quando un giorno a pranzo mi riferì che forse avrebbe potuto recuperare la vista:

         - C’è un minuscolo apparecchio americano, una specie di microchip, che va inserito sotto la pelle, vicino al nervo ottico, il quale consente di migliorare notevolmente la vista: è stato sperimentato con successo su una decina di pazienti. Costa molto, ma ho dei risparmi.

         Rimasi di sasso, pensando che sì, ero felice per lui e … per chi lo avrebbe sposato, ma quella non potevo essere io: lo avrei doppiamente deluso, per il mio brutto viso e per averlo ingannato.

         Fraintese il mio silenzio:

         - Stai tranquilla, non c’è alcun pericolo, anche perché mi farei operare all’occhio più debole, quello quasi completamente cieco. Inoltre la presenza del microchip non si nota.

         Intanto io mi pentivo di non avergli detto che il mio viso era brutto, ma mi ero sentita così lusingata di essere amata per quella che avrei voluto essere!

         Gianni sprizzava gioia da tutti i pori e io ero contenta per lui. Voleva riacquistare la vista prima delle nostre nozze e io ero angosciata.

         In camera mia mi guardai allo specchio, immaginai Gianni in ospedale mentre i medici gli toglievano le bende oppure lui stesso si toglieva un paio di occhiali scuri nella penombra della camera e mi guardava deluso.

         Molti uomini attribuiscono alla propria donna tutte le qualità e la vedono bellissima; anche Gianni era convinto di avere una fidanzata molto bella: nella sua fantasia di giovane uomo desideroso di amare, aveva dato un volto meraviglioso a quella vaga ombra pallida e bionda, che intravedeva da vicino.

         Io ero angosciata, e l’angoscia e l’ansia crebbero progressivamente, man mano che si avvicinava il giorno dell’operazione. Gianni pensava che fossi preoccupata per lui e tentava di tranquillizzarmi.

         Dieci giorni prima del fatidico mattino presi una decisione disperata: piuttosto che deluderlo, sarei andata via, lasciandogli così il ricordo di un’altra Olga, quella che avrei voluto essere e purtroppo non ero.

         Ma prima di lasciarlo, dovevo fargli un dono, qualcosa che addolcisse il rimpianto e il rancore: dovevo far sì che quello fosse almeno un amore compiuto, affinché lui potesse col tempo porre la parola fine a quella strana storia.

Riacquistando la vista, sarebbe stato corteggiato da decine di donne bellissime. Ero contenta per lui, ma per gelosia e per alleviare il dolore che avevo deciso di infliggergli, dovevo dargli tutta me stessa.

         Dopo una giornata in cui lui mi rimproverò i lunghi silenzi, la sera mi recai nella sua stanza, aprii la porta dicendo: - Sono Olga. – poi diedi un giro di chiave.

         Mossi appena le persiane, per lasciar entrare un po’ della luce dei lampioni, mentre udivo il suo respiro farsi più frequente. Poi m’infilai nel letto, sentendolo emozionato almeno quanto me…

         Molte ore dopo si addormentava appiccicato a me, spossato.

         Mi alzai prima di lui, alle otto. In corridoio incontrai Maria che mi sorrideva, complice:

         - Preparo la colazione?

         - Grazie, Maria, tra un’ora.

         Andai in camera mia a preparare la valigia. Non ci volle molto a radunare ciò che rimaneva del mio bagaglio di quando, quasi un anno prima, ero giunta lì. Dei suoi regali non volevo portar via nulla. Di me gli lasciai una foto molto ritoccata da un abile fotografo, così, per dare comunque un volto a quella Olga che l’aveva amato.

         Avevo quasi terminato, quando qualcuno bussò ed entrò. Prima ancora di voltarmi sapevo che era Gianni. Si avvicinò a tentoni, tastando i mobili, sino a toccare la valigetta.

         Impallidì e temevo che mi svenisse davanti. Avvertii una fitta al petto.

         - Stai… stai andando via? – chiese con voce tremante.

         - Ti ho mentito, Gianni: io non sono bella; per questo non sono sposata. Con te non ho saputo resistere alla tentazione di essere considerata bella ed essere amata, e alla tentazione di farti felice, anche basandomi su una bugia. Ma non voglio deluderti e ingannarti ancora.

         Mi osservò un attimo, poi si rianimò, quindi a tentoni trovò il divanetto e vi si accomodò. Io lo seguivo con l’animo in pena.

         - Vieni qui. - disse

         Mi fece accomodare sulle sue gambe, come ormai facevamo spesso per baciarci, accarezzarci, ridere e chiacchierare felici. Mi diede un pizzicotto sul mento sporgente.

         - Sei una sciocchina, e questa è l’unica piccola delusione che mi dai. Prima di tutto, il mio occhio sinistro da vicino riesce a vedere qualcosa, specialmente al centro dell’immagine; poi le mie dita e la mia mente sono capaci di dare una forma a tutto. Inoltre il tuo viso non mi deluderà, perché è comunque il “tuo” viso, il viso della mia Olga, l’unico vero amore della mia vita, la ragazza che mi ha detto di amarmi con tutto il suo cuore. Ma, se tutto questo per assurdo non avesse importanza, io amo la tua anima e il tuo corpo, e da ieri sera il tuo modo di amarmi fisicamente. Se tu non mi ami, vai liberamente: io non ti dimenticherò. Ma se mi ami, lasciarmi sarebbe il tuo peccato più grande.

         Sono una donna e, come tutte le donne, quando mi emoziono troppo, piango; ma se le mie lacrime potevano essere di dubbia interpretazione, non lo fu il mio abbraccio.

         - Ricordati sempre – mi disse Gianni – che io ti amo soprattutto per la tua anima meravigliosa.

 

F i n e

 

Michele Fiorenza

opera registrata

 

*

A passeggio col nonno

A PASSEGGIO COL NONNO

Mio nonno materno fu la prima persona che persi; ma la mia certezza del Paradiso allora era tale che non ebbi alcun dubbio che fosse passato a miglior vita. E non capivo che non l’avrei più rivisto.
Avevo allora forse dodici anni; era il 1960, inizio di un decennio di fede nel progresso, di ottimismo, di emancipazione, di motorizzazione. Ma il ricordo più bello che ho del nonno Stefano risale a circa cinque anni prima.
Con una certa frequenza, in particolare nei periodi di vacanza scolastica, mio padre mi accompagnava dai nonni per trascorrere una giornata diversa. In effetti loro avevano un negozio, la casa annessa e un piccolo giardino, un gatto e un pulitissimo pollaio. Tutto ciò, insieme alle scatole di cartone che rimanevano dalle vendite e ai romanzi gialli che mio zio lasciava in giro, costituiva una molteplice occasione di svago.
Ricordo che a volte mio zio mi accompagnava a fare colazione al bar e io sceglievo una “cassatina” che era una piccolissima cassata siciliana, con la pasta di mandorle e pistacchio a giro, la crema di ricotta, il pan di spagna alla vaniglia sotto e una splendida ciliegia glassata al centro. Mi bastava quella e non volevo altro.
Una volta, e una volta soltanto, accadde che il nonno mi accompagnò a fare una passeggiata. Poiché eravamo in centro, ci incamminammo verso piazza Politeama, superammo il teatro omonimo, attraversammo via Libertà e ci sedemmo su una panchina di marmo a piazza Castelnuovo, in mezzo alle aiole e alle palme, guardando da lontano lo splendido prospetto del teatro.
Eravamo a metà degli anni ’50 e le automobili erano veramente poche e rare, il silenzio riempiva quel pomeriggio soleggiato e la pace sembrava aleggiare su ogni cosa.
Non ricordo di che cosa il nonno borbottasse, di che cosa parlasse tra sé, che cosa volesse confidare a un bambino di sette anni, che avrebbe conservato il segreto per innocenza o incomprensione. Non so come, ma a un tratto il nonno disse che i soldi erano tutto nella vita, che con quelli si può avere tutto.
Non ricordavo che a scuola le suore mi avessero insegnato quelle cose, ma non potevo dubitare troppo del nonno, così mi sforzai di trovare una cosa, almeno una, che potesse negare magari in parte quella triste affermazione. Forse…
- Nonno, con i soldi non si può comprare la salute…
Il nonno guardava lontano e si voltò appena:
- E’ vero, però con i soldi si possono consultare i migliori medici e comprare le migliori medicine, si può mangiare bene e andare in villeggiatura nei posti più salutari: con i soldi ci si può curare e mantenere bene.
“Le cose spirituali non si possono comprare”, pensai, così gli dissi:
- Con i soldi non si può comprare la felicità…
Ancora il nonno si voltò un attimo verso di me, poi tornò a guardare il teatro lontano e disse:
- E’ vero, però con i soldi puoi comprare una bella casa, una bella automobile, puoi fare tanti viaggi, hai tanti amici e puoi fare tanti regali a tutti i nipotini: i soldi, insieme alla salute, possono fare la felicità.
Il nonno sapeva tante cose più di me, ma io non potevo rinunciare a credere in ciò che mi avevano insegnato, che io avevo capito e che adesso faceva parte di me: non credevo assolutamente che i soldi potessero comprare tutto. E continuavo a riflettere, come un piccolo ribelle idealista.
C’era in effetti una cosa, che certamente non si poteva comprare, una cosa che non conoscevo bene bene, una cosa da grandi che anche un bambino piccolo poteva capire, perché era una cosa che si sentiva, qui, qui dentro, dove batteva veloce il mio piccolo cuore, una cosa che a volte mi procurava un’emozione qui, nel mio pancino, proprio sotto l’ombelico, qualcosa che certe volte mi riscaldava il viso e quasi quasi mi faceva venire il mal di testa; una cosa che aveva un nome da grandi, che certe volte faceva dare a un uomo e una donna lunghi baci sulle labbra… e poi il film finiva.
Io non sapevo, non capivo che gusto ci provassero a fare in quel modo, non capivo perché dopo si dicevano quelle paroline brevi brevi che sembravano un giuramento eterno…
Questo non lo sapevo, però due anni prima, proprio al cinema mi ero innamorato, proprio così, ma non ditelo a nessuno, per carità, perché in effetti sono cose da grandi, mi ero innamorato della principessa del Nilo.
Lei naturalmente aveva sposato uno più grande, però io l’anno successivo (avevo sei anni) mi ero innamorato di … Era una ragazza giovane giovane, con i capelli biondi sempre spettinati; la chiamavano la strega, ma non era una strega: era buona, soltanto un po’ selvaggia, ma io ne ero stato innamorato. Alla fine del film lei era morta, ma ormai io sapevo che un giorno, da grande, magari a tredici anni, mi sarei innamorato di una ragazzina destinata a me. Bastava attendere.
Il nonno però non poteva attendere: era malato, sembrava molto vecchio, aspettava, aveva bisogno del mio suggerimento. Ma dovevo pronunciare una parola da grandi, senza capirne bene tutto il significato; eppure era la parola che mi aveva fatto battere il cuore, mi aveva tutto scombussolato. Chissà che cosa provavano i grandi quando erano innamorati!
Mi feci coraggio, pensando che il nonno tutt’al più mi avrebbe detto che quella era una cosa da grandi:
- Nonno, con i soldi non si può avere l’amore…
Stavolta il nonno non si voltò, e non rispose subito. Sentii che c’ero andato vicino. Lui guardava un punto lontano, più lontano del teatro, più lontano del mare, di cui s’intravedeva una striscia laggiù. Pensava. Poi, alla fine, disse, a mezza voce:
- L’amore… l’amore…
Sentii dentro di me che forse avevo vinto la sfida, che avevo trovato una cosa che non si può avere con i soldi, che le suore avevano ragione quando ci consigliavano le cose spirituali.
Ma sentivo anche che il nonno non poteva parlare dell’amore con un bimbo, non poteva confidarsi con lui, raccontare la sua parabola d’amore. Sì, parabola, perché lui e la nonna non si baciavano sulle labbra, non si dicevano le paroline brevi e dolci, non si abbracciavano mai. Forse l’amore per lui non era stato così grande, così eterno.
Però, pochi anni dopo, quando il nonno era morto, la nonna non era stata capace di alzarsi dal letto, nel quale si rigirava gemendo come se le avessero amputato un braccio…
Oh, nonno, se tu allora avessi avuto il coraggio di dare una risposta a tuo nipote! se tu avessi detto qualcosa che io non potevo capire, è vero, ma almeno ricordare per quando, moltissimi anni dopo, sarei stato in grado di capire!
Forse sarei stato in grado di evitare qualche errore, qualche dolore…

f i n e



















2

*

Quella stanzetta!

QUELLA  STANZETTA!

 

         Erano seduti in quella confortevole pasticceria dall’aria profumata di buon caffè, proprio dietro la grande vetrata prospiciente la strada innevata.

         Lei sorseggiava con classe il suo tè aromatico, elegante nell’abito invernale blu, che contrastava così bene con la sua carnagione chiara e i capelli corvini.

         Non aveva la freschezza di allora, ma lui la vedeva ancora bella, anzi nuovamente bella, dopo decenni di apparente indifferenza. Il destino li aveva fatti incontrare in città, nell’antico quartiere che era stato lo sfondo della loro storia.

         La vita, trascorsa distanti, freddi e insensibili, sembrava ora molto breve, un colpo di vento, ostacolo troppo tenue per una bella serata come allora…

*        *        *

         Il lunedì mattina non era generalmente un momento impegnativo per l’erboristeria. Ma quelle gelide giornate sembravano minacciare fortemente la bellezza e la salute delle donne del paese, almeno quelle già negli ‘anta.

         I due soci lavoravano alacremente per soddisfare le clienti e insieme la cassa del negozio.

         Burro-cacao,c reme emollienti, cipria colorata, eccetera, eccetera. Eugenio era il solito pimpante venditore, sinceramente cortese e interessato alla bellezza delle sue clienti; Gianni invece sembrava distratto, si faceva spesso ripetere la richiesta, poi metteva in atto la sua preparazione in Scienze Naturali.

         Finalmente dopo mezzogiorno l’afflusso si diradò e Gianni si dedicò principalmente a rimettere a posto tutte le belle scatole di unguenti miracolosi o presunti tali. Infatti la loro tattica di vendita consisteva soprattutto nel  sommergere ogni cliente con una marea di prodotti allettanti: alla fine la malcapitata acquistava tre o quattro prodotti, porgendo un centone e ricevendo in resto un po’ di monetine e un buono sconto del dieci per cento per ulteriori acquisti entro il mese.

         Gianni guardava le confezioni e le riponeva ognuna al suo posto con particolare meticolosità, canticchiando a mezza voce:

         “C’eravamo tanto amati… per un anno o forse più…”

         A volte sbagliava allocazione del prodotto. Eugenio interrompeva il proprio corteggiamento alla cliente di turno e gli diceva:

         - Dottor …, quello non è una crema, ma un latte detergente, non va lì.

         Gianni scendeva dalla scaletta, la spostava e risaliva:

         “C’eravamo poi lasciati…”

         Fatto è che nella tarda mattinata i due soci ricevevano sempre la visita di  almeno una delle consorti.

         - Che hai da canticchiare? – chiese Teodora a Gianni, apparendo infastidita dal buonumore del marito.

         Normalmente il povero Gianni le avrebbe risposto per le rime almeno una volta. Invece quella volta lì si voltò appena a guardarla, fece spallucce, poi continuò in silenzio il suo lavoro.

         Quando Teodora uscì, lui riprese:

         “Una sera c’incontrammo… per fatal combinazion…”

         Dopo qualche giorno Eugenio capì che qualcosa bolliva in pentola, ma era troppo rispettoso della privacy dell’amico per fargli domande.

         Purtroppo Eugenio non sapeva simulare nulla e nemmeno dissimulare qualcosa, così  un bel giorno a tavola Clara lo interpellò con l’abituale asprezza:

         - A chi stai pensando?

         Eugenio era convinto che i pensieri fossero davvero qualcosa di troppo personale perr ivelarli ad altri, fosse pure la legittima consorte:

         - A niente…

         - Nessuno pensa a niente! Dai, confessati…

         Eugenio era convinto che il termine “confessione” sottintendesse un qualsiasi peccato grave, quindi non rispose. Clara cambiò atteggiamento:

         - Caro… tesoro…Lo sai che dobbiamo dirci tutto!

         - Cara la mia Claretta, io potrei citarti quattro o cinque esempi che dimostrano che tu non mi dici “tutto”.

         - Non è vero! Prima o poi io ti dico tutto!

         - Beh, sì: dieci anni più, dieci anni meno… Comunque non ho nulla da nasconderti: Gianni a volte è distratto e spesso canticchia.

         - Quali canzoni canta?

         Eugenio ricordava benissimo che Clara, “dopo” le nozze gli aveva confidato che era diventata maestra per ripiego, perché la sua vera vocazione era fare la poliziotta. Lui, a sua volta figlio di un poliziotto indagatore, c’era rimasto male: “Sempre uno sbirro in casa! Povero me!” Per amore di pace, confessò la colpa dell’amico:

         - Una sola canzone, quella che fa: “Come pioveva, come pioveva…”

         La mente di Clara partì come un computer di ultima generazione:

         - Oggi piove… ieri pioveva… l’altro giorno nevicava… martedì… ho comprato il giaccone alla svendita… e pioveva!

         - Clara, è semplice: ha piovuto quasi ogni giorno.

         - Sì, sì…Ne parlerò con Teodora!

*        *        *

         Il lunedì successivo, giorno di chiusura del negozio, Eugenio si ritrovò in città a pedinare… il suo amico Gianni! Le due comari lo avevano messo alle strette:

         - Avevamo pensato di rivolgerci a un investigatore “vero”, ma sai quanto ha chiesto?

         - Certo, non fa i prezzi che facevo io e quindi non è fallito! Ma io non posso spiare il mio amico!

         Clara aveva sfoderato le sue arti:

         - Caro… amore…Se per qualche giorno torni a essere quel grande investigatore che eri, quest’estate ti porterò in viaggio alle isole … e con i miei risparmi!

         Eugenio la guardò con sospetto:

         - Per quanti giorni?

         - Un’intera settimana, tesoro! Noi due, soli soletti, con la mia nuova lingerie…

         Eugenio aveva guardato Teodora, silenziosa ma determinata, e aveva capito che era meglio assumersi lui quell’increscioso incarico: avrebbe sempre potuto nascondere qualche particolare scabroso.

         - E ogni giorno mi farai rapporto! – aveva precisato Clara, - A Teodora poi riferirò io.

         In città faceva freddo, ma Eugenio era provvisto di cappello, sciarpa e guanti. Da un po’ pedinava Gianni, che stranamente camminava di buon passo.

         In piazza … lo vide fermarsi, guardarsi intorno, poi andare incontro a qualcuno.

         Una donna! E sembrava… Impossibile! Eugenio si voltò ad ammirare una vetrina, che però rifletteva la situazione alle sue spalle: i due s’incamminarono e ben presto costeggiavano il lungofiume.

         Il loro atteggiamento era manifestamente affettuoso. Quando entrarono in un bar e si sedettero davanti alla vetrata, Eugenio entrò nel locale di fronte, ordinò una cioccolata calda e rimase in attesa.

         I due si alzarono presto e si avviarono verso la via … Eugenio sapeva bene che quel quartiere era pieno di alberghetti appartati e intimi e fece di tutto per perdere le loro tracce.

         A casa dovette sopportare tutti i fulmini di Claretta sulla sua inefficienza:

         - Investigatore dei miei stivaletti! Non sei più capace di portare a buon fine neppure un pedinamento! Ma bada bene…

         Clara lo stava minacciando, facendo dondolare uno dei suoi ditini avanti e indietro verso di lui:

         - Se la prossima volta lo perdi, dovrai fare i conti con me! Chi era quella donna? Ci vuoi andare o no alle isole …?

         Eugenio riuscì a nascondere soltanto l’identità della donna, della quale tra l’altro non era ben certo.

         Il mattino seguente Gianni era di buon umore e canticchiava:

         “E… piano piano le prese la mano…”

         Era contento, ben sveglio e cortesissimo con le signore clienti.

         Quando il negozio si svuotava, riprendeva:

         “nella stanzetta dell’ultimo piano…”

         Venne Teodora a fare la sua ispezione, trovandolo gentilissimo, nonostante lei lo osservasse sospettosa. Quindi fu la volta di Clara, meno loquace ma più osservatrice.

         Poi Gianni continuò la sua canzoncina:

         “Mentre al mio cuore si stringeva, come pioveva, come pioveva…”

         Eugenio, essendo uomo “di panza”, prima che investigatore, non riferì della canzoncina: in definitiva una canzone non è una prova.

         Accettò di pedinarlo un’altra volta: il cliché fu quasi lo stesso, eccetto che la coppia si attardò al tavolino del bar o pasticceria che fosse, per via della pioggia insistente. Erano seduti molto vicini e a un tratto sembrò a Eugenio che lui le aveva messo un braccio intorno alle spalle e la teneva stretta a sé.

         Quando smise di piovere uscirono, camminando svelti: alla stazione dei pullman si salutarono da amici. Poi lui si diresse alla metrò. Eugenio lo vide salire, poi salì anche lui, un paio di vetture dopo.

*        *        *

         Il mattino seguente in negozio Gianni era un po’ giù di corda, ma sempre canterino:

         “Ed io pensavo ad un sogno lontano…”

         Eugenio aveva tratto le sue conclusioni: una rimpatriata con una “vecchia” fiamma, non si sa quanto intima…

         Poco dopo arrivò… Sandra! Dopo qualche convenevole di circostanza, comprò un tubetto di burro-cacao. Aveva fretta, non si fermò a chiacchierare come altre volte in passato e non mostrò alcuna emozione, soltanto qualche sguardo prolungato. Gianni fu cortese come con tutte le amiche delle loro consorti, ma niente di più. L’abbigliamento di Sandra non aveva nulla in comune con quello della donna“del mistero”, né tantomeno portava gli occhialoni leggermente scuri di quell’amica di Gianni. Eugenio era incerto.

         Dopo l’uscita di Sandra, Gianni riprese:

         “Mentre al mio cuore si stringeva…”

         A Eugenio sembrò che l’amico avesse un momento di commozione, ma fu un attimo fugace, poi Gianni riprese:

         “Mentre al mio cuore si stringeva… come pioveva, così piangeva…!”

         Per molti anni Eugenio avrebbe potuto giurare, se non fosse stato un uomo “di panza”, di aver udito un flebile singhiozzo da parte di Gianni.

         C’era unparticolare che non lo convinceva: la differenza di età. La migliore fonte dii nformazione poteva essere Clara, ma bisognava attendere che i sospetti delle due comari si placassero.

         Finalmente, nell’imminenza di quel viaggio promesso da Clara, ma pagato a metà, perché lui “non era venuto a capo di nulla”, Eugenio a colazione osò chiedere:

         - Gianni si laureò presto in Scienze?

         - Neancheper sogno! Aveva certamente molto più di trent’anni…

         - Invece altri, per esempio Sandra, si sono laureati presto, vero?

         - No, soltanto io. Sandra si laureò tardi in Lingue perché prima frequentava un’altra facoltà.

         - E perché cambiò?

         - Per furbizia: Lingue prometteva di più. Ma allora si disse che voleva dimenticare il suo primo amore, un laureando che l’aveva lasciata nel corso del suo secondo anno di università, un tizio la cui identità è rimasta avvolta nel mistero.

         - Certo, Lingue le ha dato la possibilità di insegnare subito. Ma che facoltà frequentava prima?

         - Come sei curioso! Fammi pensare… Credo fosse Scienze. Ma ha fatto benissimo a cambiare.

         Eugenio riprese solerte la sua colazione, affondando subito le labbra nella tazza del caffellatte, per nascondere un sorriso.

 

f i n e

 

*

Alla luce della luna

ALLA LUCE DELLA LUNA

Ogni sera il mio papà mi legge una fiaba: “C’era una volta…” Poi mi sveglio con un raggio di sole sul viso.
“Papà, mi sono addormentata senza conoscere la fine della storia!”
“Vedi, Lorena, anche la nostra vita è così: non sappiamo come andrà a finire.”
Il mio papà sa tante cose, è buono e affettuoso e ogni mattina mi accompagna a scuola. Gli altri bimbi sono accompagnati dalla loro mamma.
“Perché non ti accompagna la tua mamma?” mi ha chiesto Gaia.
“Mia mamma è in cielo, è un angelo, chiamata lì perché era troppo bella.”
“La mia è più bella, la mia è più bella!” dice Gaia.
Non è vero, ma non la voglio contraddire.
Sabato prossimo compirò sei anni: sarò grande! Mio padre vuole andare dai nonni, oppure in giro, ma io voglio rimanere a casa perché…
Lo sapete? Abitiamo all’ultimo piano di un castello, e siccome è l’ultimo piano, la casa è piccola. Però è bellissima!
Quando termina l’anno, papà conserva i calendari, poi insieme a me sceglie le figure più belle, porta le cornici e facciamo i quadri.
Lui mi ha anche costruito una casa per le bambole. Poi l’abbiamo pitturata insieme, scegliendo i colori che più mi piacciono. Ho voluto che il grande tetto fosse turchese.
Faremo una cena in terrazza, me lo ha promesso, sotto le stelle, alla luce delle candele. Ha detto che inviterà la luna, ma io so che la luna ci sarà perché vuol venire, non per il nostro invito, e non mangerà perché è sazia, sarà piena e rotonda.
“Ci vuole una quarta persona, papà!” gli ho detto.
“Chi vuoi invitare?”
“La fata turchina!”
“Non so se potrà venire…”
“Tu pregala, dille che c’è una bimba senza mamma, che vuole una fatina a tavola.”
Papà mi abbraccia, a lungo, poi promette che cercherà, vedrà…
-------
E’ sabato, e stamattina papà mi ha dato un pacchetto con un grosso fiocco rosa. Come pesa! Lo apro con calma, perché il nastro può servire, poi apro il foglio di carta… Com’è bello! Lo userò per foderare un libro di scuola.
Il regalo è… una fiaba, con la copertina lucida e robusta. Anzi le fiabe sono tre, ognuna con la sua copertina brillante. Mio papà avrà speso un mucchio di soldi… perché mi vuol bene.
Sono fiabe che non conosco, credo, e le ripongo nella mia piccola libreria. Io sto imparando a leggere, e ho una libreria tutta mia.
Esco da scuola, la mamma di Gaia mi dice: “Buon compleanno!”, mi dà una scatola di cioccolatini e mi abbraccia: com’è morbida!
Salgo sulla macchina di papà, il mio posto è dietro di lui e mentre guida lo abbraccio. Oggi ha messo il profumo, in mio onore.
“Verrà la fata turchina?
“Ha detto che aveva un impegno, ma sperava di liberarsi.”
“Spero proprio che venga, perché non ho mai visto una fata vera…”
Papà nel pomeriggio pulisce bene la terrazza, pota le piante dei vasi, poi si mette a cucinare. E’ bravo, studia con attenzione le ricette delle fate.
“Non guardare me, fa’ i compiti, prima che arrivi la fatina.”
“Allora verrà!”
Papà risponde con una frase difficile:
“Le fate sono come la felicità, non dicono mai quando verranno.”
“Io oggi sono felice, quindi la fata turchina verrà.”
-------
Ho finito i compiti e gioco con le bambole. Papà in terrazza apparecchia la tavola, mentre il sole tramonta dietro la collina.
Mette il servizio buono, le posate d’argento e le candele a forma di fiore, quelle conservate per le feste grandi. Poi sul muretto del terrazzo sistema due lumi a gas.
“Speriamo che non venga il gatto a farli cadere!” dice. Io immagino la scena e rido.
Bussano e io corro ad aprire: “Ooh… come sei bella!”
Ha un vestito blu e un foulard celeste sulle spalle bianche. Anche le scarpe sono bianche, sui piccoli piedi. Ha i capelli neri, come quelli delle fotografie della mia mamma…
“Sei la mia mamma?”
S’inginocchia e mi dà un bacio:
“Sono la fata turchina, mandata dalla tua mamma, che ha tanto da fare in Cielo e ti manda questo regalo.”
“Papà, papà! Un regalo dalla mamma!”
Ha la carta d’oro e un nastrino turchese. E’ bellissimo.
“Non lo apri?” mi dice papà.
La fata turchina si siede allargando la gonna:
“E’ molto bella questa terrazza…”
Apro il pacchetto mandato dalla mia mamma: è perfetto, forse la mamma ha incaricato la fatina di comprarlo in città.
E’ un porta ritratto d’argento, adatto per la mia scrivania nuova.
“Ci metterai la foto della mamma.”
Corro dalla fatina e l’abbraccio: ha un profumo bellissimo.
Intanto la luna si alza, bianca e sorridente, e io sono felice.
-------
“Fata turchina, ma voi fate vi sposate?”
“Certo.”
“Chi sposate, i maghi?”
“Certe volte, ma preferiamo i principi.”
“Pure io… Tu hai un principe?”
“Sì, ho un bel principe.”
“E dov’è?”
“Lontano, lontano, a combattere…”
“Ooh… allora è un principe cavaliere!”
“Sì… è così.”
“Quando tornerà?”
“Non so…”
“Vi sposerete?”
“Sì.”
“Allora non ti vedrò più?”
“Mi vedrai sempre. Quando farai la cresima, se vuoi, ti farò da madrina.”
“Che bello! La madrina è una specie di mamma?”
“Sì, certo.”
“Allora speriamo che il tuo principe torni presto.”
L’abbraccio e lei mi dà tanti baci…
La luna adesso è alta e la fatina mi mette a letto. Vuol leggermi una fiaba, ma io non ho sonno.
“Verrà a prenderti una carrozza?”
“Sì, grande e bianca.”
“Voglio vederla!”
“Non c’è bisogno, perché ce ne sono tante uguali.”
“Mi lasci una tua fotografia?”
“La darò al tuo papà lunedì mattina.”
“Voi lavorate nello stesso castello?”
La fatina abbassa la testa. Sento odore di caffè, ma non è per me. Immagino un castello grande e bello e mi prende il sonno.
------
La mia fatina ha promesso di tornare ogni volta che ci sarà luna piena. Però stamattina papà dice che per un po’ non verrà. E ha messo una cravatta nera.
“Perché non verrà?”
“E’ tornato il suo cavaliere…”
“Allora si sposano!”
Senza parlare papà mi fa cenno di no con la testa.
“Si sono lasciati?”
Papà tace, poi dice:
“Oggi verrà a prenderti il nonno.”
“Il cavaliere sta male?”
“Ha vinto la sua battaglia, ma è morto…”
“Come la mamma: mi ha fatto nascere, ma è morta.”
Lacrime dagli occhi di papà… Gli dico:
“Voglio dare un bacio alla mia fatina.”
Scuote la testa.
“Ti prego!”
Papà mi guarda serio, poi fa cenno di sì. Mi veste con l’abito blu con le maniche.
Davanti alla chiesa c’è un carro, dentro il carro una bandiera. E’ il giorno della fata turchina, perché tutti la baciano. E’ in prima fila dietro il carro, triste e silenziosa. Papà mi prende in braccio e mi porta da lei. La fatina mi stringe forte e io la bacio:
“Voglio restare con te.”
Mi mette giù e io le prendo la mano. Papà si mette in seconda fila. Camminiamo piano, si va piano per i bambini.
La fatina mi tiene la mano perché ha perso una persona cara e ha bisogno di me.
Arriviamo in un grande giardino con gli alberi, è lo stesso in cui riposa la mia mamma, ma la sua anima è in cielo. Chissà se il principe cavaliere potrebbe portarle i miei saluti!
-------
E’ settembre e io ho sette anni, anzi un po’ di più. Abbiamo invitato la mia fatina, per ricambiare l’affetto che mi ha dato, dice papà, ma io so che è perché c’è la luna piena. Papà ha già terminato di cucinare, mi ha detto che avrebbe preparato cose semplici.
C’è un mazzo di roselle sul tavolo, fiori rossi per una fata turchina.
Arriva silenziosa, poi si mette a parlare con me, poi gioca con me. Papà mette una musica bassa, celestiale e la fatina danza in circolo con me. Dopo un po’ guarda papà, mi lascia una mano e la tende verso di lui.
Adesso danziamo in tre, io guardo la luna, bianca e luminosa, bellissima, e dentro di me esprimo un desiderio.

F i n e

copyright Michele Fiorenza
opera registrata


*

Walkiria

WALKIRIA

Aveva dovuto insistere, per guidare lei, sostenendo che lui aveva bevuto troppo. Pochi minuti dopo lo vide addormentarsi profondamente.
Guidando senza fretta, impiegò quaranta minuti per arrivare alla villa. Era notte fonda, senza un’ombra di luna.
La giovane donna era alta e robusta, determinata: all’interno dell’autorimessa lo sollevò di peso e lo portò lentamente al piano rialzato. Per fortuna i gradini erano larghi e bassi.
Aprì la porta interna, individuò la camera da letto e lo distese lì, sorridendo. Nell’ampio soggiorno trovò un antico lume a petrolio e riuscì ad accenderlo. C’erano due candelabri d’argento e accese anche quelli. Quindi andò in cucina un momento, poi uscì subito dalla porta esterna, attraversò silenziosa il giardino alberato, scavalcò la bassa recinzione e si allontanò.
Nessuna luce alle finestre delle vicine villette. Comunque lei era vestita di nero.
“Il nero è sensuale…” gli aveva detto all’inizio della cena, socchiudendo gli occhi e allargando la scollatura dell’abito.
Trecento metri più in là salì sulla vecchia auto, mise in moto e si allontanò pensierosa.
- - -
Marco e Ilda avevano condotto una vita felice, lui funzionario di banca, lei docente di tedesco, la lingua di sua madre. Unico cruccio la mancanza di figli. Vagamente pensavano di adottarne uno; ma intanto si godevano la vita, infarcendola di frequenti viaggi di piacere.
All’improvviso Marco si era fatto teso, preoccupato, triste.
- Che cosa c’è che non va?
- Nulla.
Quando Ilda si era stufata di quel ritornello quotidiano, aveva organizzato un fine settimana sul lago per loro due soltanto e, mentre riposavano a letto, soddisfatti e rilassati, lo aveva convinto a parlare.
In sintesi, era stato avvicinato da un brutto ceffo, che aveva tentato di corromperlo affinché agevolasse una rapina. Alle sue resistenze, Marco era stato minacciato di morte.
Ilda lo aveva convinto a denunciare l’accaduto.
La rapina non c’era stata più.
Però, poco tempo dopo, avevano sparato a Marco, mortalmente.
Ilda era una donna robusta anche nell’animo. Provò il dolore, la disperazione, il rimpianto, il rancore e l’odio.
L’assassino fu individuato e imprigionato subito.
Stranamente confessò, rivelò i complici, collaborò con gli inquirenti; ma affermò che il colpo era partito per errore, durante la colluttazione.
Aveva un avvocato di grido, e l’accusa un giovane magistrato. Chiese il rito abbreviato e fu condannato a otto anni.
Poi arrivò un condono. Così dopo tre anni fu affidato ai servizi sociali. Insomma era libero.
Troppo poco, per Ilda…
La giovane donna si fece crescere i capelli, cominciò a tingerli di biondo, cambiò look, si mise in aspettativa dalla scuola, poi riuscì a farsi assumere dall’azienda in cui lavorava l’assassino di Marco.
Pian piano si fece notare, lo corteggiò senza esporsi troppo, lo conquistò. Non fu necessario farsi mettere le mani addosso, almeno non sotto gli abiti. Quando gli era vicina, pensava soltanto alla vendetta, sorridendogli con falsità.
Il male fa diventare cattivi, Ilda lo stava sperimentando.
Alle insistenti avances di lui, promise che giovedì sera, dopo una cenetta intima in un ristorante che lei conosceva, nella parte alta del lago, lo avrebbe accompagnato a casa sua per la notte.
A fine cena, trovò una scusa per allontanarlo un minuto.
- - -
Ecco, è il momento di prendere la polvere e versala nel suo bicchiere: è inodore e insapore, lo so, ne ho provato una piccola dose.
Il tavolo è in un angolo appartato e non mi ha vista nessuno dei pochi avventori: ho scelto bene il giorno e il locale.
E’ tornato e lo vedo bere con intima soddisfazione: la dose è quasi mortale.
Fuori lo convinco a lasciar guidare me. Fa freddo e indosso i guanti, quindi niente impronte. Poco dopo lui si addormenta.
A casa sua lo metto sul letto, poi accendo tutte le fiamme che posso: un lume, due candelabri. Quindi vado in cucina e apro i fornelli: l’acre odore del gas mi dà fastidio e crea quella situazione di pericolo adatta a cancellare ogni traccia.
Vado via subito, poi guido la vecchia auto di Marco:
“ Ti sto vendicando, Marco: puoi salire al cielo sereno.”
Guido con rapidità verso casa, pensando che non l’ho fatto soltanto per lui, ma soprattutto per me.
Appena entro in casa, senza nemmeno togliermi i guanti, telefono a Gianni, il mio simpatico collega che non mi stacca mai gli occhi di dosso, un bell’uomo rimasto vedovo da poco, un futuro compagno da prendere in considerazione:
- Ciao, Gianni, ho deciso di accettare il tuo invito a cena: va bene domani?
A questo punto mi metto in libertà: lo specchio mi dice che sono ancora bella. A trentatre anni penso di avere tutta la vita davanti. Preparo un drink, mi seggo in poltrona, mi rilasso, quindi accendo il televisore.
Una trasmittente locale dà le ultime notizie. Alla fine mostra un incendio e il presentatore commenta:
- … Gli investigatori ritengono che lo scoppio sia dovuto a una fuga di gas. D’altra parte é noto nel vicinato che il proprietario era un uomo senza princìpi e conduceva una vita sregolata, disordinata…
Prendo dal tavolino quel vecchio libro, leggo il titolo, guardo la figura in copertina e penso: “Ecco, adesso anch’io mi sento una Walkiria”.


F i n e


Copyright Michele Fiorenza
Opera registrata

*

L’onda di piena

L’ ONDA DI PIENA

Alla fine l’onda di piena era arrivata: fu Claudia a vederla per prima, proveniente dall’estremità nord del lago:
- Che cos’è quella schiuma?
D’improvviso capii che il vecchio pescatore aveva ragione: dopo una giornata di pioggia sarebbe arrivata un’onda di piena.
Certo, non era una grande onda, un metro e mezzo al massimo, ma per quel canottino da spiaggia che ci teneva a galla era certamente troppo.
Guardai Claudia, che non aveva ancora compreso il pericolo, poi lei si coprì gli occhi, per ripararli dal sole mattutino, e mi guardò meglio: cambiò subito espressione.
Entrambi fissavamo l’onda che si avvicinava rapidamente e sembrava crescere. Guardai disperatamente a riva, ma non c’era nessuno. Non riuscivo a muovermi, poi capii che dovevo fare qualcosa per la mia compagna di giochi: mi avvicinai, sedetti accanto a lei e ci stringemmo in silenzio, terrorizzati dall’onda che ci veniva addosso.
-------
Ai nostri genitori piaceva andare in vacanza fuori stagione; così a Settembre partivamo con i due camper, dieci persone in tutto. Di solito ci divertivamo un mondo, perché tutti amavamo la natura e non temevamo i ritardi.
Io ero il figlio maggiore di una delle due famiglie, Claudia la primogenita dell’altra: io avevo sedici anni e lei quattordici. Eravamo cresciuti insieme e spesso la chiamavo “cuginetta”; a volte lei mi diceva “cuginone”, perché ero più alto e più robusto.
Con quel piccolo canotto, al mare eravamo insuperabili; per fortuna sapevamo nuotare bene entrambi, perché sua madre era stata campionessa provinciale e ci aveva insegnato molto. Questa volta avevamo voluto portare il canotto anche al lago.
I nostri fratellini davano molto da fare alle rispettive madri, e i papà dovevano pensare a tutto il resto. La tranquillità arrivava di solito nel pomeriggio, quando i piccoli dormivano e i grandi giocavano a carte.
Come al solito io e Claudia ci allontanavamo ogni mattina sempre di più, guardando curiosamente ogni pianta, ogni albero del bosco, ogni animaletto che non conoscevamo. Da lontano spiavamo le case col mio binocolo, oppure osservavamo i contadini.
All’inizio della nostra vacanza, giunti vicino alla sponda del lago, avevamo trovato un vecchio pescatore seduto su una roccia sporgente, intento a pescare con la lenza. Ci eravamo avvicinati in silenzio per non spaventare i pesci e avevamo visto nel suo canestro quattro o cinque trote di varia grandezza ancora vive.
Dopo qualche nostra domanda e qualche gentile risposta, gli avevamo parlato dei nostri bagni nel lago e delle passeggiate in canotto. Così era venuto fuori il discorso dell’onda di piena:
- Non è troppo pericolosa per una barca grande e un bravo marinaio, ma il vostro canotto si capovolgerebbe. Vi posso dare un solo consiglio: non allontanatevi dalla riva nei giorni successivi a quelli di pioggia.
- Finora non ha piovuto. – aveva osservato Claudia.
- A Settembre piove sempre. – aveva risposto il pescatore.
- Che cosa è quell’isolotto là in fondo, così alto?
Non aveva risposto subito:
- E’ una specie di scoglio molto grande.
- E’ abitato?
- No, ma qualcuno dice che c’è una piccola strega, capace di prevedere il destino di ognuno. Secondo me è una vecchia leggenda.
Claudia avrebbe voluto saperne di più, ma il vecchio aveva cambiato discorso. Io avevo più tardi spiegato alla mia amichetta che probabilmente si trattava di una che leggeva la mano.
Il giorno dopo aveva piovuto, come previsto dal vecchio, ma soltanto di pomeriggio. I piccoli dormivano, i papà erano andati a fare provviste in paese e le mamme stiravano e chiacchieravano in una roulotte. Io e Claudia giocavamo a scopa nell’altra, a bassa voce per non svegliare i suoi fratellini.
Presto lei si era stancata e aveva cominciato a farmi domande sul destino, se c’era, se non c’era, chissà com’era…
- Se il destino c’è, può solo essere approssimativo. – dicevo io, sapientino.
- Sarebbe importante conoscerlo. – ribatteva lei. – Per esempio vorrei sapere se noi un giorno ci sposeremo.
- Ma chi ti vuole sposare!
- Neanch’io voglio sposarti, però sarebbe interessante sapere chi sposeremo, o che lavoro faremo, non credi?
Così pian piano era nato quel progetto di andare in canotto su quella specie di isolotto a cercare la giovane strega per farci leggere la mano. Saremmo scesi in acqua un po’ più a nord, nel punto più vicino all’isolotto.
- Quanto sarà distante? – aveva chiesto Claudia.
- Non più di due o trecento metri. – avevo detto io.
Così la mattina seguente ci eravamo ritrovati a un tratto seduti sulla sponda posteriore del canotto abbracciati, a guardare e attendere il nostro destino di morire giovanissimi per colpa di un’onda di piena.
* * *
Benché l’onda non fosse troppo alta, l’impeto fu più forte del previsto, sollevò il canotto a campanile e ce lo gettò addosso. Per fortuna Claudia in acqua portava sempre le pinne. Pochi secondi prima le avevo detto: - Prendiamo fiato!
Per alcuni interminabili secondi non avevo capito più nulla, arrotolato da quell’onda in un turbine di schiuma e di bolle. Poi ero riuscito a tornare a galla, avevo cercato con lo sguardo Claudia e mi ero avvicinato a lei, notando che l’onda aveva portato via il nostro canottino.
In silenzio guardammo la riva ormai lontana, poi l’isolotto, abbastanza vicino, così decidemmo di continuare a nuoto la traversata.
Mentre ci avvicinavamo, ci accorgemmo che non era poi così piccolo. Era invece molto alto. Non fu facile trovare un buon punto di approdo. Quando fummo fuori, su alcune strane rocce piatte, ci stendemmo al sole, sfiniti.
Non so quanto tempo dopo, udii una specie di fruscio e aprii gli occhi: un viso bianco, incorniciato da capelli biondi spettinati, mi guardava, poi sorrise. Anche Claudia si mise a sedere e guardava la ragazza, affascinata.
Poteva avere la mia età, magrissima e approssimativamente vestita con qualcosa che sembrava un pezzo di vecchio lenzuolo rovinato dal tempo.
Lei si alzò e ci fece cenno di seguirla. Doveva essere la strega della leggenda, non c’era altra spiegazione. Ci condusse in un piccolo capanno di legno, seminascosto dalla rigogliosa vegetazione, e lì ci porse altri pezzi di lenzuolo asciutti e piegati.
Poi ci diede due tazze di legno riempite di un liquido profumato che bevemmo. Era amaro, ma il suo calore mi rianimò.
- Chi sei? – chiese Claudia.
La ragazza non rispose.
Io mi guardavo intorno, notando la presenza di poche cose essenziali, un ambiente poverissimo, ma pulito: frutta, erbe, un minuto caminetto, un giaciglio. Non ero certo di essere sveglio.
Claudia sembrava ingenuamente più presente a se stessa:
- Siamo venuti da te per conoscere il nostro destino…
La biondina guardava e sorrideva, ma non parlava: che fosse muta? Poi prese da una mensola posta in alto un libro molto vecchio e malridotto e lo porse a Claudia. Mi accostai e lessi sulla copertina: “La caverna della conoscenza”.
Lo aprii e uscì subito un sacco di polvere: quel libro stava per marcire, dissolvendosi in un mucchietto di polvere inutile. Notai soltanto che era un libro per bambini, scritto a caratteri grandi e con molte figure in bianco e nero.
La biondina tese la mano per riavere il suo libro.
- Come ti chiami? – le chiesi.
Mi sorrise, ma non rispose.
- Qual è il mio destino? – insistetti.
Ci fece cenno di seguirla e ci incamminammo in fila indiana, lungo uno stretto sentiero che girava verso nord, salendo.
A un tratto trovammo l’ingresso di una grotta, lei entrò e sparì. Mi affacciai alla grotta e vidi un’ombra chiara che attendeva. Presi Claudia per mano, cercando di vincere la paura. La biondina procedeva lentamente lungo un percorso in discesa, addentrandosi con sicurezza in un dedalo di grotticine e passaggi, mentre la luce del giorno si affievoliva e spariva, e la temperatura scendeva.
Quando ormai mi chiedevo come avrebbe fatto a continuare, vidi in fondo al passaggio una vaga luminosità e pensai che ci dirigevamo verso un’altra apertura: a che pro?
La biondina, o streghetta che fosse, si fermò, scura contro quella vaga luminescenza, si volse e ci fece cenno di avvicinarci.
Era l’ingresso di un’enorme caverna dalle pareti luminescenti, non sapevo per quale fenomeno fisico o biologico. E, meraviglia delle meraviglie, il fondo della grotta era un laghetto piuttosto grande, ovale, sulle cui acque si rifletteva debolmente quella luminescenza.
Claudia mi stringeva la mano; io avevo paura, ma ero anche affascinato da quell’ambiente. La biondina s’incamminò su uno stretto sentiero alla nostra destra.
Era così stretto che soltanto lei, che lo conosceva e che era magrissima, poteva percorrerlo. Restammo dov’eravamo. La vedemmo arrivare quasi in fondo, a una cinquantina di metri, apparentemente, dalla nostra posizione. Lì guardò la volta, che adesso sembrava un firmamento di stelle in una notte senza luna, poi guardò l’acqua che, sì, qua e là mostrava anch’essa una impercettibile luminescenza, giunse le mani come per recitare una muta preghiera, poi aprì quella specie di tunica che indossava e scese elegantemente in acqua.
Io ero sorpreso da quell’essere così strano da apparire irreale, una figurina chiara che nuotava in un modo un po’ antico nell’acqua scura. Claudia mi stringeva forte la mano.
A nuoto si avvicinò, senza rumore e senza schiuma, sino a pochi metri da noi, emerse con la testa e le bianche spalle, poi lentamente disse:
- Il nostro destino è…
Si immerse e sparì. Dopo un tempo che mi parve interminabile, mentre la mia compagna mi stringeva spasmodicamente la mano, lei emerse nel punto in cui si era tuffata, uscì dall’acqua, un corpicino magro e pallido dalla testa ai piedi, e disse a voce alta, che echeggiò più volte nella grotta:
- … non avere un destino!
Si riavvolse nel misero lenzuolo e tornò da noi.
Non ricordo il percorso di ritorno, stordito da quell’esperienza particolarissima; ricordo la luce accecante del sole di mezzogiorno, poi l’acqua del lago calmissima e lei che ci sorrideva, tenendosi una mano con l’altra, in attesa che andassimo via.
Non rimaneva altro che tornare a nuoto, ed essendo pessimi marinai ma provetti nuotatori, ci immergemmo per attraversare quelle poche centinaia di metri che ci separavano dalla riva e tornare alle roulotte prima che i nostri genitori stessero in pensiero.

f i n e


copyright Michele Fiorenza
opera registrata









*

Il soffio del vento

IL SOFFIO DEL VENTO

Il mattino del mio cinquantesimo compleanno mi svegliai all’alba. Aprii le persiane dell’ampia cucina e misi la caffettiera sul fuoco, riflettendo sul fatto che ero al mondo da mezzo secolo! Eppure sino a poco tempo prima avevo soltanto trent’anni: sposato da poco, con una bimba di due anni, una carriera ancora da percorrere, una vita frenetica, ma intensa; come appena uscito dall’adolescenza.
Mentre sorseggiavo il mio abbondante caffè, il sole spuntò all’orizzonte: era sempre lo stesso, nonostante anche lui avesse vent’anni di più.
A trent’anni mi sentivo ancora un ragazzo, a cinquanta avevo certamente più maturità ed esperienza, ma ero smarrito e sconvolto per quella improvvisa sensazione che la vita mi stesse sfuggendo di mano.
Eppure mi sentivo forte e giovane, soltanto un po’ più saggio.
Mia moglie venne a prendere la sua tazza di caffè, poi mi disse:
- Buon compleanno! – e a bassa voce: - Torniamo a letto.
A pranzo andammo al ristorante con i due figli, Eliana e Francesco e ordinammo un menù speciale. Ero orgoglioso della mia famiglia, e nel complesso fu una bella giornata.
Il giorno dopo iniziai la seconda metà del mio secolo (quanta parte ne avrei visto?) recandomi all’ Istituto di Biologia. Dopo la lezione mi ritirai in laboratorio: appena il tempo di accendere la luce e mi ritrovai circondato dagli specializzandi che avevano preparato i festeggiamenti per me.
Non posso negare che la cosa mi fece piacere: se la vita cominciava ad abbandonarmi, le persone care mi stavano vicine.
Fu Vera, un’allieva tra i migliori, a fare il discorsetto: mi sembrò più che mai simpatica.
Soltanto verso sera mi riprese quella vaga malinconia, quel senso di leggero rammarico per non essermi accorto che la gioventù stava volando via, come spinta da un soffio di vento.
* * *
Non so per voi, ma per me l’impegno sul lavoro può essere un toccasana per le malinconie e le piccole insoddisfazioni. Così mi buttai sulle ricerche del mio laboratorio di Biologia. Dico mio perché così lo sentivo, ma in realtà era il laboratorio dell’università.
In quel periodo stavamo studiando in particolare un fiore raro dei monti dell’arcipelago … I suoi boccioli erano di colore bianco, completamente chiusi come sfere compatte; i petali si differenziavano in un momento successivo. Due allievi specializzandi avevano avanzato l’ipotesi che i boccioli contenessero una quantità di ossigeno superiore al normale.
L’utilità di questa scoperta dipendeva dalla valutazione esatta di quella quantità, dall’abbondanza del fiore in natura e dalle possibilità di coltivazione in climi e terreni diversi da quelli di origine.
Vera si stava impegnando particolarmente, in quella ricerca. La ragazza era meno giovane degli altri, sulla trentina, non sapevo bene il perché.
Credo che si fosse iscritta alla specializzazione dopo aver lavorato alcuni anni per motivi di famiglia. Non le si conoscevano fidanzati e sembrava dedita soltanto al lavoro.
Aveva un bel viso e un bel sorriso, era simpatica e allegra. A me risultava piacevolissimo pranzare con lei e gli altri allievi alla mensa universitaria o alla tavola calda vicina al laboratorio.
Un giorno ci ritrovammo soltanto io e lei ad andare a pranzo. Suggerii la tavola calda, e naturalmente avrei offerto io. Vera era una che mi dava corda, forse perché voleva fare carriera, forse perché mi ammirava professionalmente. Io interpretavo la mia simpatia per lei quale semplice cameratismo.
Proprio quel giorno, uscendo dal laboratorio poco dopo le sei del pomeriggio, mentre mi dirigevo alla fermata della metropolitana, mi chiamò mia figlia Eliana, che era venuta a prendermi in auto.
Durante il percorso parlammo poco, perché lei era impegnata col traffico.
Si fermò cento metri prima della nostra villetta di periferia, sotto le fronde di un sontuoso platano. Mi guardava risentita:
- Tu oggi non mi hai vista, ma io ero lì, a pranzare con alcuni colleghi.
- Alla tavola calda? Così spendi la paghetta che ti do?
- Era il compleanno di Gianni. Perché facevi il cascamorto con la tua allieva?
Mi sentii a disagio: - Eliana, era un pranzo di lavoro!
- Ti conosco troppo bene, papà: quella ragazza ti piace. Ti rendi conto che potrebbe essere mia sorella maggiore?
Alcune donne sono di una religiosità intransigente sino all’ingiustizia:
- Eliana, stavamo solo pranzando! Ti assicuro che non l’ho mai sfiorata!
- Io ho visto che te la mangiavi con gli occhi. Forse ti conosco meglio di te stesso.
- Va bene, le starò lontano, ma non ho fatto niente di male.
- Papà, lo sai che sono il tuo angelo custode…
* * *
Non ho mai pensato che la simpatia sia una colpa, quindi decisi semplicemente di evitare di restare solo con Vera, sia fuori che dentro il laboratorio.
Forse era vero che la ragazza mi ricordava la mia gioventù e rispolverava sogni amorosi mai sopiti, un rimpianto sottile per la freschezza delle donne giovani e affascinanti; ma non c’era nulla di più. Ed ero convinto che, se io avessi abbandonato i miei modi più che corretti, la simpatia e la stima di Vera si sarebbero dissolte come nebbia al sole.
I fiori che stavamo studiando finirono presto, per l’esigua quantità a disposizione. Erano stati portati da un allievo che li aveva ricevuti da una ragazza, la quale a sua volta li aveva avuti da uno straniero di passaggio. Ne conoscevamo soltanto la provenienza, la cima di un monte in un’isola dell’arcipelago …
Il fatto è che i risultati scientifici erano stati incoraggianti: il bocciolo accumulava ossigeno al suo interno, per poi aprirsi in cinque petali. In quel momento l’ossigeno contenuto superava il 50 % dell’aria complessiva.
Decidemmo di mandare un gruppo di noi a prenderli sul luogo di origine nella stagione giusta, sfruttando i fondi per la ricerca scientifica. Mia figlia Eliana si apprestava a partire per lo stage che le spettava e decise di unirsi al nostro gruppo.
- Non sei una specializzanda… - obiettai.
- Farò domanda scritta al Rettore, motivandola.
Naturalmente sarei andato anch’io, e non mi sembrava una missione pericolosa per mia figlia, tanto più per la mia presenza.
- Io non ti posso raccomandare…
- Basterà il cognome. – rispose con un sorriso.
Questo significò soltanto che, meno di un mese dopo, il Rettore m’invitò a prendere un caffé. Ci conoscevamo abbastanza da darci del tu.
- Professor …, non mi hai parlato della richiesta di tua figlia.
- Non voglio influire sulla tua decisione.
- Hai qualcosa in contrario sulla sua partecipazione?
- No, anzi mi farebbe piacere.
- Ha un ottimo curriculum universitario, quindi l’autorizzerò. Quanti sarete, in tutto?
- Tre o quattro. Vorrei portare Giorgio, che è il migliore.
- E quella ragazza più grande?
- Anche, se vorrà.
- Penso che autorizzerò entrambi, se vogliono andare.
- Benissimo, Rettore.
Pensai che saremmo stati un gruppo molto affiatato, perché mia figlia fraternizzava con facilità.
* * *
Alla fine Giorgio diede forfait, perché la fidanzata mugugnava e piagnucolava. Un po’ mi dispiacque, perché non avevo un’esatta cognizione del territorio dell’isola e mi sentivo la responsabilità dell’incolumità delle due ragazze. Anche per questo mi feci autorizzare per utilizzare una guida locale.
Fu un viaggio lungo e pieno di aspettative in parte deluse, anche perché sull’isola trovammo un freddo inatteso che ci costrinse a comprare un po’ di coperte. Trovammo una guida locale, soprannominata Kim, che non conosceva l’italiano, ma parlava inglese, e il mattino del giorno stabilito partimmo per scalare il monte. Le due ragazze mi sembrarono piuttosto emozionate.
La nostra guida indigena ci aveva avvertito che raggiungere la cima portava sfortuna e che pertanto ci avrebbe accompagnati sino a cinquecento metri di sentiero dalla vetta e poi sarebbe rientrato.
Avrei voluto prenotare il suo aiuto per la scalata ad altri monti dell’arcipelago, ma lui mi confermò che quella specie di fiori amava la frescura persistente di quella cima e che altrove non c’era né fresco, né fiori Bianchi (lì chiamavano semplicemente così, nella loro lingua).
Commentai con Vera che forse era quello il motivo per cui i fiori che stavamo studiando non erano ben conosciuti.
In poco più di un’ora giungemmo in vetta, e lì trovammo non solo abbondanza di fiori Bianchi, ma anche vedute mozzafiato: da una parte l’arcipelago, composto di isole di misura diversa, sparpagliate a caso nell’oceano spumoso, dall’altra lo stesso oceano, più calmo e attraversato da onde lunghe e piuttosto alte.
Le due ragazze guardavano estasiate, coprendosi il capo con i cappucci dei loro giubbotti, per ripararsi dal vento che soffiava freddo e teso.
Facemmo rapidamente la nostra raccolta, un paio di chili a testa, ma ben imballati, per evitare che i boccioli si rompessero, quindi un rapido pasto asciutto, accompagnato da caffè caldo, poi cominciammo la discesa.
Scendere per un sentiero ripido a volte è più difficile che salirlo: Eliana era piuttosto agile, io avevo una certa esperienza di escursioni montane, ma Vera, alta e di ossatura robusta, risultava impacciata.
Allora presi io il suo carico di fiori, un po’ per lei, un po’ per i fiori. Rallentammo e dissi a mia figlia di fare da retroguardia, mentre io facevo da apripista, perché lassù non c’era un vero sentiero: - Seguite i miei passi.
Per fortuna non c’era un dirupo molto scosceso, ma il percorso a tratti era stretto. Io pensavo che i membri di una spedizione non dovrebbero essere scelti in base ai rispettivi curriculum scientifici, ma con altri criteri.
Per incoraggiare le mie compagne di viaggio, indicai loro un piccolo pianoro più a valle, il punto in cui la nostra scaltra guida ci aveva lasciati, dopo aver incassato il lauto compenso.
- Dove? – chiese Vera, facendo qualche altro passo verso di me senza osservare il terreno. Il suo piede destro scivolò a causa del terriccio sciolto e lei cadde rotolando per il pendio. Nove o dieci metri più sotto si fermò gridando di paura e di dolore.
Eliana e io cercammo di rassicurarla: - Ti tireremo su! Hai ferite?
- La caviglia!
Muoveva entrambe le braccia. Le chiesi di muovere la gamba non dolorante e lo fece; aveva rannicchiato l’altra e la teneva con le braccia.
“Niente di grave”, pensai.
- Dobbiamo tirarla su. – dissi a Eliana.
Presi la robusta corda che avevamo con noi, feci un grosso cappio, scorrevole perché non potevamo perderla mentre la tiravamo su, quindi gliela calammo, dicendole di mettere il cappio sotto le braccia.
Quindi mi guardai intorno, ma non c’era neanche un alberello intorno al quale far girare la corda: - Dobbiamo sollevarla di peso.
Non avevamo esperienza di quel tipo di operazione, ma avevamo le nostre braccia e le mani protette da guanti di stoffa, così, un palmo alla volta, la portammo su. Tolta la scarpa e il calzettone, si notava una brutta distorsione, che stava gonfiando.
Vidi che c’era una rientranza sul costone della montagna alla nostra sinistra, appena più avanti. Un po’ di peso, un po’ facendola saltellare sul piede buono mentre la sostenevamo sui due lati, la portammo in quell’accenno di riparo. Eliana le spalmò una crema e le diede dell’aspirina. Intanto io riflettevo sui soccorsi: i cellulari lì non funzionavano e noi non avevamo una radio.
“Dannata scarsità dei fondi per la ricerca!”, pensai.
Eliana le disinfettò e incerottò i graffi. Al termine dissi loro:
- Il villaggio dista poche ore: scenderò a chiedere aiuto e tornerò prima di sera con una jeep o un elicottero di soccorso.
Eliana si mostrò incerta:
- Sono quasi le due del pomeriggio. Forse è meglio che vada io, che posso essere più svelta. Inoltre, se tardassi a tornare, tu hai più esperienza di montagna.
Io pensai che quella scelta era anche più sicura per mia figlia e accettai.
- Non correre! – le raccomandai.
Mi aiutò a sistemare Vera su una coperta e a ricoprirla con un’altra.
- Abbiamo viveri e bevande in quantità. – dissi alla mia allieva. Poi incoraggiai Eliana a partire subito.
Mi alzai e la seguii con lo sguardo fino a quando fu visibile, con una certa ansia. Quindi offrii a Vera del caffè. Le fece bene e mi ringraziò con un sorriso:
- Quello del bar è un po’ meglio…
- Te ne prometto un centinaio dopo il ritorno a casa. Il piede fa male?
- Sì, ma la paura è passata.
Notai che il calore delle coperte e il rilassamento seguito al salvataggio le facevano chiudere gli occhi, e la invitai a fare un pisolino.
Devo confessare che dopo un po’ mi addormentai anch’io, riparato dalla mia coperta.
Mi svegliò un pianto: era Vera.
- Ti fa male la caviglia?
- Ho mal di testa.
Le toccai la fronte, che scottava. Forse qualche ferita le aveva fatto infezione oppure aveva una brutta frattura. Allora le feci prendere una compressa di antibiotico, che avevamo portato per prudenza, e la coprii anche con una metà della mia coperta, sistemandomi accanto a lei. La ragazza continuava a piangere come una bambina, come mia figlia da piccola, e io tentai di distrarla con discorsi leggeri, sulla mia vita universitaria, sui primi lavori ecc.
Si addormentò di nuovo, forse più per il malessere e la febbre che per la voglia di riposare. Io restai in silenzio, immobile e respirando piano per non svegliarla.
Si udiva il soffio del vento, come in quell’inverno lontano in cui avevamo abitato in montagna e i bambini erano spesso raffreddati, così mia moglie e io stavamo a turno a vegliare il loro riposo finché non si addormentavano profondamente.
La mia allieva trentenne mi appariva in quelle ore un’altra bambina, un’altra figlia, e mi vergognai del fatto che qualche volta mi aveva sfiorato un desiderio che era in contraddizione con la nostra differenza d’età: ferita e affidata a me da un destino insidioso, lei mi metteva di fronte alla realtà che io in effetti avevo piuttosto un’età da padre.
Così feci scorrere i ricordi di una vita: i miei lunghi studi, l’incontro con Gina, dall’innamoramento al fidanzamento, alla vita di coppia, i successi professionali, la crescita dei figli, i momenti più belli della mia vita.
Poi mi prese una smania, a metà tra la consolazione e il rimpianto, una consapevolezza di aver vissuto e di poter ancora vivere in un ruolo nuovo, come un attore che interpreta personaggi sempre diversi.
Mi sembrò che la luce del giorno volesse diminuire, in quella grotta, e lentamente mi alzai, andai fuori: a occidente un grosso sole arancione scendeva verso un orizzonte fatto di mare e di cielo, mentre anche il vento accennava a placarsi.
Dov’era Gina in quel momento? Dov’era la compagna dei miei sacrifici, delle varie peripezie, dei momenti di gioia, di quelli difficili?
A casa, un po’ sfiorita, ma a casa, fiduciosa che le avrei riportato la figlia, che sarei tornato sano e salvo, al termine di una buona spedizione.
Come faceva a essere certa di tutto questo? Come faceva ad avere fiducia in me, nelle mie capacità, più di quanta ne avessi io?
Quando un gigantesco disco solare deformato, appiattito come se non volesse essere ingoiato dal mare, toccò l’orizzonte, mi riscossi: mi voltai a oriente per vedere la polvere sollevata da un fuoristrada o il segno di un elicottero all’orizzonte.
Non c’era nulla: gli animali diurni si apprestavano a riposare, quelli notturni attendevano l’incipiente buio. In cielo stormi di uccelli in lontananza andavano per la loro strada, compatti, gli uni seguendo gli altri. Uno solo rallentava, quasi fermo nel cielo, poi restava isolato, poi sembrava avvicinarsi lentamente a me.
Guardai meglio, e sperai, e vidi una grossa libellula avvicinarsi, cercare un punto idoneo per posarsi, non troppo lontano. Scesero, in quattro, e la figura più piccola mi salutò col braccio.
- Eliana! – gridai.
* * *
Vera impiegò tre giorni a rimettersi abbastanza da poter ripartire. Io e mia figlia ci rilassammo e riposammo, apprezzando i paesaggi e la cucina locale, le musiche e i balli della popolazione indigena.
Tornammo rapidamente, con un aereo militare messo a disposizione dal ministero della Difesa, interessatissimo alla nostra ricerca sui fiori Bianchi.
Al piccolo aeroporto di Ciampino c’era mia moglie ad attenderci, sorridente come sempre.

F i n e


Copyright Michele Fiorenza
Opera registrata