chiudi | stampa

Raccolta di testi in prosa di Cristiano Musina
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Oltre il fiume, al di là del mare

Parte Prima

 

Capitolo 1

 

Non si può certo affermare che le api conducano una vita interessante. Lavorano senza sosta tutto il giorno e, al termine del proprio ciclo vitale, periscono. La vita di alcune persone non è dissimile da quella di questi operosi insetti. E’ un’esistenza piuttosto avara di avvenimenti degni di nota e tutta imperniata sul lavoro. Anche la loro morte avviene con assoluta serenità, senza guizzi o serpeggi. Francesco Kasica apparteneva a questa categoria di persone. Egli giaceva disteso sul suo letto di morte, quando gli porsero un foglio da leggere. Improvvisamente ebbe un sussulto d’inaspettata vitalità, che sorprese tutti i presenti. Francesco afferrò il documento tra le sue incerte mani e lo lesse con trasporto e attenzione. Poi, una volta letto quel pezzo di carta con un’avidità non comune, sul suo sofferente volto si affacciò un timido sorriso e quella misteriosa forza, che per qualche istante si era impadronita del suo corpo, lo abbandonò per sempre. Le sue tremolanti mani ritornarono distese lungo i  fianchi e il suo sguardo, rapido ma intenso, fu rivolto attorno la stanza per poter catturare, per un’ultima volta, il volto di sua moglie Teresa e quello dei suoi quattro figli: Zina, Enrico, Nori e Vallì.  

Francesco, che di professione faceva il falegname, aveva grandi mani che, lavorando, disegnavano nell’aria cerchi e altre figure geometriche, riuscendo a trasformare delle semplici tavole di legno grezzo in mobili pregiati. Nel maggio del 1914 Francesco venne convocato dal direttore di un hotel in Opatija. Questi, dopo aver accertato le sue credenziali, gli propose un’importante commessa: la sostituzione di tutti gli infissi dello stabile. Gli echi della Grande Guerra erano lontani e per Francesco, quella commessa, sembrava un’occasione da non perdere. Egli stipulò un contratto apparentemente vantaggioso, invece finì per stritolarlo dai debiti, perché poco dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, il prezzo delle materie prime era salito alle stelle e anche quello del legno non fece eccezioni. Alcuni mesi dopo Francesco si ammalò e la depressione per aver impoverito la propria famiglia, minò ancor più il suo fisico, debilitandolo definitivamente. Le ultime settimane della sua vita impiegò il suo tempo ad insegnare il mestiere a suo figlio Enrico, con la speranza che un giorno continuasse il mestiere che era sempre stato per lui la sua grande passione: costruire mobili.

Sua moglie Teresa, invece, era una donna saggia e previdente, che non si disperava neppure nei momenti di difficoltà. All’insaputa del marito, da molti anni risparmiava, quasi giornalmente, delle piccole somme e le annotava, con precisione contabile, su un pezzo di carta. Erano piccoli importi, ma nel corso degli anni divennero un cospicuo tesoro e furono di sostegno alla famiglia nel momento più difficile: la morte del capofamiglia.

Passarono gli anni. Nell’ottobre del 1953 venne organizzata una cena tra compaesani a Rijeka, città molto rilevante della Jugoslavia. A quella cena parteciparono anche Gino e Raoul, due giovanotti amici di vecchia data e che conoscevano la famiglia Kasica. Durante la cena vennero raccontate, tra i commensali, molte storie e aneddoti tra cui gli ultimi istanti di Francesco Kasica. La cena trascorse tranquilla e venne organizzata per uno scopo ben preciso: era la serata degli addii. L’indomani, molti di loro, sarebbero partiti per gli Stati Uniti o per l’Australia. Al termine della cena Raoul Rusich confidò le sue aspettative per il suo futuro in Australia: “Non vado per lavorare, ma per cercar fortuna”. Gino si fece scuro in volto perché ebbe un cattivo presentimento e la nostalgia di perdere un amico si trasformò in un semplice e quasi paterno consiglio: “Stai attento!”.

Raoul gli sorrise e per sdrammatizzare gli diede una bella pacca sulla spalla: ”Non ti preoccupare, so badare a me stesso”, e poi aggiunse: “Non ti ricordi di quante ne abbiamo passate insieme?”.

“Sì, è vero”, rispose Gino.

“Siamo perfino stati arrestati dai Tedeschi!”, esclamò Raoul.

Gino sorrise, ma poi puntualizzò: ”Ce la siamo cavata perché eravamo solo dei bambini”.

“Eh no…, non dire così! Ce la siamo cavata perché siamo due tipi in gamba!”.

La cena finì tra abbracci, strette di mano e la promessa di mantenere viva quell’amicizia.

Il ristorante era in procinto di chiudere quando apparvero due artisti di strada e iniziarono a suonare con la fisarmonica delle vecchie canzoni fiumane. Raoul e Gino si fermarono ad ascoltarli. Al termine dell’esibizione, Raoul si avvicinò a loro ed allungò qualche moneta. “Tieni vecchio!”, disse Raoul con fare un po’ strafottente; poi aggiunse: “Domani partirò per il Nuovo Mondo…, diventerò ricco!”.

L’Australia, per molte persone, era la nuova “Eldorado”, un mondo dorato dove era possibile raggiungere la felicità. Raoul si era convinto, che dopo un’infanzia di miseria, lì, finalmente, avrebbe avuto la sua grande occasione di riscatto.

Gino, invece, continuava ad avere un cattivo presentimento su quel viaggio, ma gli occhi di Raoul brillavano così intensamente quando nominava: “Australia”, che non ebbe il coraggio di dissuaderlo dal suo progetto; aggiunse solo: “Ricordati di noi quando diventerai ricco”.

“Ma certo…”, rispose Raoul.

“E mi raccomando…, scrivi!”, disse Gino.

“Certo, appena sarò arrivato, ti racconterò com’è l’Australia…, ma perché non vieni anche tu?”.

“Ne abbiamo già parlato…, io e i miei genitori abbiamo deciso di rimanere qui a Rijeka”.

“Qui c’è solo miseria”, disse Raoul.

“Non miseria, ma solo povertà”.

“E che differenza c’è?”, chiese Raoul.

“Una persona povera ha sempre un piatto di minestra e un tetto dove dormire; una misera, invece, ha soltanto disperazione”.

“Vieni via da qui! Sei sprecato”.

“Lo so, ma questa è la nostra terra”.

Raoul decise di non insistere e si congedò dall’amico.

L’indomani Raoul si alzò molto presto, si lavò la faccia e non fece colazione. Era impaziente di partire. Le due valigie, di color marrone, legate con uno spago per evitare delle accidentali aperture, erano pronte da giorni. Raoul s’infilò i pantaloni e diede una veloce occhiata alla stanza, poi, quasi con un sorriso, se ne andò chiudendo la porta. Le valigie erano molto pesanti e fu costretto a scendere le scale portandone una alla volta.

“Ecco le chiavi”, disse Raoul al padrone di casa.

“Grazie,… allora te ne vai?”.

“Eh, sì, finalmente…”.

“Se dovessi tornare, passa di qui; forse ho una stanza per te”.

“No, non tornerò…, comunque, grazie”, disse al padrone di casa stringendogli la mano.

Raoul uscì in strada e trovò due amici ad attenderlo. Si guardò intorno e non vide Gino: “Non è venuto a salutarmi?”, chiese Raoul.

“Credo che non se la sia sentita”, rispose l’amico.

“Capisco…, comunque salutatemelo”.

I tre s’incamminarono e arrivarono alla stazione delle corriere. La fermata era ricolma di viaggiatori e parlottavano fra loro in una conversazione ricca di cose futili e di consigli per il viaggio. Raoul, invece, aveva poca voglia di parlare, così si accese una sigaretta. Quando apparve la corriera, la cenere della sigaretta gli aveva ormai ricoperto le scarpe. Il pullman era di un color verde bottiglia, ma la parte inferiore, quella vicino alle ruote, era completamente ricoperta di fango. I due amici lo aiutarono a caricare le valigie: “Sono pesanti…, come farai a tirarle giù?”.

“Mi farò aiutare da qualcuno”.

Raoul salì sulla corriera e s’affacciò al finestrino per salutare.

“Allora, non mi dite nulla?”, chiese Raoul.

“Sei sicuro di fare la cosa giusta?”, chiese uno dei due amici.

“Qui non c’è più niente per me, e, se ci pensi bene, neanche per te”.

La corriera si mosse.

“Scrivi!”, disse uno dei due amici.

Raoul non rispose e salutò tenendo la mano ferma e immobile come una paletta. Poi, improvvisamente, urlò: “Questo non è un addio…, un giorno ritornerò!”. Gradualmente si alzò una barriera che separò gli immigrati dai loro amici e familiari. La corriera, infatti, alzò una nuvola di gas di scappamento mescolata alla polvere della strada. Raoul e gli altri viaggiatori chiusero velocemente i finestrini e si sedettero. Attorno a lui erano sedute solamente persone accomunate dal medesimo intento: abbandonare il paese in cerca di fortuna. Il pullman iniziò a correre attraversando borghi, città, campagne, tra la gente indaffarata e bambini che giocavano per strada; vecchi seduti nelle osterie e scritte sui muri che inneggiavano Tito. Ma scrutando con più attenzione, si poteva vedere la modernità che si fondeva col passato: alcuni lavoratori stavano asfaltando una strada per renderla agibile al traffico urbano, mentre una vecchietta, dall’altro lato della carreggiata, camminava mesta col suo mulo con in groppa un cesto di vimini. Un trattore tracciava il solco in un campo, mentre alcune donne facevano il bucato sulla fontana del paese. La corsa della corriera alternava dei tratti piani ad altri con avvallamenti. Il continuo ondeggiare, a causa del cattivo stato della strada, provocò in alcuni passeggeri un certo malessere e qualcuno iniziò a vomitare. L’autista fu costretto a fermarsi più volte e i passeggeri dovettero ripulire la corriera con degli stracci imbevuti con un po’ d’acqua. Il viaggio fu più lungo e difficoltoso del previsto, ma alla fine riuscirono ad arrivare alla stazione dei treni di Trieste, anche se con un notevole ritardo. Fu un sollievo per tutti scendere da quel “mezzo di tortura”, ma il viaggio era solo all’inizio.

Tutte le valigie furono scaricate dalla corriera e, anche se con un po’ di difficoltà, Raoul riuscì ad entrare in stazione con entrambe le valige sottobraccio. All’interno della stazione erano ancora presenti le impalcature per la sostituzione della volta di ferro e vetro danneggiata dai bombardamenti alleati del 1942, mentre l’orologio era ancora fermo e segnava l’ora del bombardamento. Alcune persone s’arrampicarono sull’armatura per riuscire a ritrovare i propri familiari, che nel frattempo erano stati inghiottiti dalla folla. Infatti, il piano di emigrazione prevedeva di scaglionare, ad orari diversi, la partenza dei vari gruppi d’emigranti, ma alcune persone, a causa della cattiva condizione delle strade, arrivarono ad orari non concordati. Quando giunse Raoul, la stazione era nel più completo caos. I militari del British Corp, agli ordini del generale Thomas Willoughby Winterton, iniziarono ad indirizzare le persone sui binari assegnati. Usarono modi bruschi e a volte un po’ violenti, utilizzando il manganello per spingere le persone a bordo dei vagoni del treno. Un mese più tardi, e più precisamente il 5 novembre 1953, quegli stessi militari, non lesinarono l’uso della violenza per disperdere una manifestazione non autorizzata nella Trieste-A, nella quale rimasero uccisi sei cittadini italiani.  

Quel giorno chi era arrivato alla stazione per salutare qualcuno, rimase deluso. Non vi era tempo per i saluti. Si veniva inghiottiti da una folla oceanica per poi riapparire sul treno. Anche Raoul fu inghiottito dalla calca, e, a causa della confusione, gli sfuggì di mano una valigia. Raoul cercò invano di riprenderla, ma la folla era come una mandria impazzita e non gli permise di recuperarla. Alla fine riuscì ad avvicinarsi alla valigia. Allungò la mano. Ormai l’aveva quasi afferrata, perché riuscì ad infilare due dita nella maniglia. Pensò di averla catturata, ma ad un tratto arrivarono i militari inglesi che iniziarono a spingerlo sul treno. Lui cercò di spiegarsi, ma fu del tutto inutile.

Allora Raoul puntò i piedi e spinse con tutta la sua forza, ma un militare, per farlo desistere, gli diede un colpo di manganello nello stomaco. Raoul s’accartocciò e ci vollero alcuni secondi perché riprendesse fiato. Alla fine capì che non era il caso di insistere. Il rischio di venire arrestati era tangibile. Raoul desistette e abbandonò la valigia salendo in treno. Molti viaggiatori, una volta saliti a bordo, s’accalcarono ai finestrini dei vagoni e iniziarono ad urlare il nome del parente o dell’amico che volevano salutare. Ad un tratto il capostazione fece un cenno e il treno iniziò a muoversi. Improvvisamente la folla ammutolì. Sia i viaggiatori sia gli accompagnatori rimasero come incantati a scambiarsi un ultimo sguardo. Per alcuni di loro, sarebbe stato l’ultimo.

Raoul volse uno sguardo dal finestrino, non per salutare, ma per vedere dove fosse finita la sua valigia e s’accorse che qualcuno l’aveva presa. Iniziò ad imprecare, ma quasi subito si quietò. Finalmente si rese conto che ce l’aveva fatta: era in viaggio per Napoli. Fu un viaggio lunghissimo, ma, a differenza del tragitto in corriera, si viaggiò comodi, senza scossoni o fastidiose ondulazioni.

Ogni tanto usciva in corridoio a fumarsi una sigaretta. Guardando dal finestrino, s’accorse che per lui, ma anche per altri immigrati, “l’Australia” era già iniziata. Non era mai stato così lontano da casa. L’Italia, per la maggior parte della popolazione, era un territorio sconosciuto ed inesplorato. Il viaggio in treno durò quasi un giorno. Alla sera arrivarono alla stazione di Napoli, e ancora una volta, furono scortati dalla polizia. Tutti gli immigrati furono fatti salire su corriere o altri mezzi messi a disposizione dalla prefettura e furono trasportati in un campo profughi appena fuori il centro città. Era un centro di raccolta per gli immigrati in partenza. Lì si veniva identificati, e, una volta accertata l’identità, si poteva accedere al campo.

Per tutti i viaggiatori, la Pontificia Opera di Assistenza e la Croce Rossa Italiana, avevano preparato un pasto caldo e latte per i bambini. Appena fuori dal campo c’erano delle prostitute, non per svolgere la propria attività, ma perché cercavano di espatriare anche se sprovviste di documenti.

“Dite che sono vostra figlia”, dicevano se incontravano un uomo o una donna di mezza età.

“Dite che sono vostra moglie o la vostra fidanzata”, se vedevano arrivare qualche giovane da solo.

“Lavorerò per te! Farò qualunque cosa!”, dissero quando videro arrivare Raoul, ma lui sorrise e tirò dritto senza voltarsi.

Il soggiorno in quel campo durò una notte. L’indomani furono scortati al porto, dove la nave passeggieri norvegese Skaubryn li stava aspettando. Ormai era solo il mare ad ostacolare i suoi sogni.

 

Capitolo 2

 

Iniziarono le operazioni d’imbarco. I poliziotti, assieme agli ispettori doganali, ricontrollarono tutti i documenti, poi i bagagli perché non contenessero materiali pericolosi. "Che cosa contiene quel sacco?", chiese il poliziotto.

"Delle pentole e una tovaglia ricamata a mano", rispose una donna.

"E quella scatola?", chiese nuovamente il poliziotto.

"Lì dentro c’è mio padre", rispose nuovamente la donna.

"Come sarebbe a dire, suo padre?", chiese perplesso il poliziotto.

"Sì, insomma…, ci sono delle ossa di mio padre".

"Ossa?..., santo Dio! Ma è uno scherzo?".

"No, non è uno scherzo; parto per l’Australia, vuole che lo lasci qui?".

"Io non posso farla partire così!", disse il poliziotto.

"Io da qui non mi muovo", rispose la donna, incrociando le braccia.

"Ciro…, vieni a sentire questa!", urlò il poliziotto a un suo collega doganiere.

Iniziò una lunga trattiva. La donna non volle abbandonare i resti del padre. Alla fine l’ispettore desistette e la lasciò partire.

"Grazie signore, lei è una persona molto gentile e comprensiva".

"La lasci partire con quella scatola?", chiese perplesso il poliziotto.

"Ma sì…, che vada…, tanto va dall’altra parte del mondo", rispose il doganiere.

E poi, ridendo, aggiunse: "Quanto mi piacerebbe vedere la faccia del doganiere australiano, quando quella lì si presenterà con le ossa del padre".

Un altro doganiere iniziò a discutere animatamente con un salpante, perché voleva imbarcare anche il suo cane.

"Anche a me piacciono gli animali", disse il doganiere.

"E allora, perché non mi lascia il cane?".

"Perché il viaggio è lungo e il comandante della nave non vuole animali a bordo".

"Gli sono molto affezionato".

"Sì, posso capire, ma ho avuto queste disposizioni dal comandante della nave".

"Parlo io col comandante!".

"No, lasci stare…, e poi guardi, … l’animale sembra anche malato".

"E allora, che faccio? L’abbandono?".

"Il cane non può salire, questo è tutto", concluse il doganiere.

La nave salpò alcune ore dopo. La banchina del porto era deserta, solo un cane abbandonato rimase immobile a scrutare la nave che si stava sempre più allontanando. Per molti immigrati era la prima volta che salivano su una nave. Per altri, addirittura, era la prima volta che vedevano il mare. Molti rimasero sul ponte della nave per gettare un ultimo sguardo all’Italia con gli occhi rivolti alla città, che sempre più rimpiccioliva. Altri, più astutamente, si fiondarono sottocoperta per prendersi i posti migliori. Iniziò così il viaggio della Skaubryn, una carretta del mare piena d’immigrati italiani, che nell’ottobre del 1953 partì dal porto di Napoli con destinazione Melbourne.

Dopo alcune ore di navigazione, alcuni passeggeri pensarono che fosse giunto il momento di lavarsi un po’ e così fecero la prima spiacevole scoperta: l’acqua dolce serviva solamente per bere e ci si poteva lavare soltanto con l’acqua salata. In breve tempo la gente iniziò a puzzare. La poca acqua a disposizione era sufficiente solamente per lavarsi la faccia o le mani. Anche Raoul iniziò a puzzare, di un insopportabile odore che era diventato un marchio di povertà. Per toglierselo, si strofinava il corpo con uno asciugamano inumidito, fino a provocarsi delle abrasioni. La pelle gli diventava rossa, a furia di strofinare, poi si recava sul ponte della nave per respirare un po’ d’aria fresca; quella malsana che si respirava sottocoperta per lui era diventata intollerabile.

"Ci trattano come bestie!", disse un Italiano arrabbiato.

Ma la replica non arrivò, perché l’equipaggio parlava solamente inglese. Comunque, dall’espressione dei volti dei passeggeri e dall’odore che proveniva dalle cabine, era evidente il forte disagio.

Per dare conforto agli immigrati s’era imbarcato anche don Ettore, un cappellano che passava tra loro e infondeva coraggio e fiducia.

"E’ vero che lì c’è tanta terra?", chiese una donna con gli occhi pieni di speranza.

"L’Australia è un paese enorme e c’è tanta terra per tutti", rispose il prete guardandola negli occhi.

Alle volte il cappellano improvvisava delle lezioni d’inglese.

"Come ti chiami?".

"Salvatore".

"Allora dovrai dire my name is Salvatore…, prova a ripetere?".

La faccia di Salvatore diventò spossata e la sua fronte iniziò a sudare; poi, finalmente, il futuro cittadino australiano fece un bel respiro e pronunciò la sua prima frase in uno pseudo-inglese: "Mai neim is Salvatore".

"Molto bene", rispose il prete sorridendo.

Raoul assisteva alle improvvisate lezioni d’inglese senza intervenire. Sorrideva e talvolta rideva. Il prete era molto solerte nell’insegnare l’inglese. Una volta, per far capire a tutti dove metteva la lingua quando pronunciava il suono

 "th", non esitò a togliersi la dentiera: "Vedete…, la lingua va qua!".

A Raoul non piacevano i preti, anzi, li detestava, ma per quel cappellano, invece, provò una naturale simpatia. Raoul pensava di avere qualche chance in più rispetto agli altri immigrati. Infatti aveva lavorato, per quasi tre anni, sul posto di blocco di frontiera presente nella Trieste-B, con la polizia militare inglese. Anche se la conoscenza della lingua inglese non era perfetta, lo faceva sentire più sicuro e pronto per integrarsi con la gente del nuovo paese. Nelle cabine della nave era severamente vietato accendere dei fuochi. Se si aveva voglia di fumare, si doveva uscire sul ponte. Raoul era molto scrupoloso nell’osservare le regole di sicurezza, ma per alcuni passeggeri, non fu così. Alcuni immigrati non osservarono questa banale norma di sicurezza e si sviluppò un incendio: prese fuoco una coperta e le fiamme si estesero, in breve tempo, ad altri suppellettili.  

"Aiuto! Al fuoco!", urlò un passeggero.

Nelle cabine della nave suonarono le campane dell’allarme incendio. I passeggeri iniziarono a scappare, ma il fumo ostacolò la loro fuga. L’equipaggio della nave, invece, si prodigò per spegnere il fuoco. Iniziò il caos. Vedendo i marinai e gli ufficiali di bordo in difficoltà, alcuni passeggeri, tra i quali c’era anche Raoul, si unirono a loro.

"Serve più acqua!", urlò Raoul in inglese a un membro dell’equipaggio.

Ad un tratto l’urlo di una donna calamitò l’attenzione di Raoul: "Dov’è mia figlia?", chiese con voce concitata. La donna parlava in italiano e l’equipaggio non capì il dramma che si stava consumando. Ormai tutti gli immigrati si erano allontanati dal punto dell’incendio, solo i genitori della piccola rimasero lì a cercarla. Entrambi erano molto agitati e inoltre parlavano solo in italiano. Un membro della nave cercò di allontanarli, allora Raoul intervenne, parlando in inglese col marinaio:

"Hanno perso la figlia!".

"Capisco, proveremo a cercarla", rispose il membro dell’equipaggio.

"Che vuol dire proveremo?".

"C’è il fuoco…, non vedi?".

Raoul capì che nessuno dell’equipaggio avrebbe rischiato la propria vita per un immigrato italiano. Allora si rivolse direttamente alla donna: "Dov’era sua figlia?".

"Era vicino a me, poi non l’ho più vista".

"Deve essere rimasta dentro", disse Raoul alla madre.

Nel frattempo Salvatore, il padre della bambina, intuì che sua figlia era rimasta sottocoperta, ma l’equipaggio della nave continuava a non lasciarlo passare.

"Vado a vedere", disse Raoul in inglese a un marinaio.

"Ma che fai? L’aria è irrespirabile", rispose il marinaio afferrandolo per un braccio.

"Vado, comunque, a vedere", replicò Raoul.

E poi, con sguardo di sfida, disse: "Lasciami andare!".

Raoul si mise un fazzoletto alla bocca e iniziò a scendere la scaletta. Vedendolo entrare sottocoperta, il padre della bambina iniziò a spingere anche lui, ma fu nuovamente bloccato da due membri dell’equipaggio.

"Basta una persona…, è troppo pericoloso!", disse in inglese un membro dell’equipaggio.

"Lasciatemi!", continuava ad urlare l’uomo.

Alla fine i due marinai, che gli impedivano l’accesso, si stancarono di tenerlo bloccato e mollarono la presa: "Ma sì…, va’ morire anche te!", disse in inglese uno dei due marinai. Nel frattempo Raoul scese i gradini della rampa di scale, che davano all’interno della nave. Iniziò a camminare lungo il corridoio. Era buio e c’era anche molto fumo, ma solo nella parte alta del corridoio. In basso, c’era ancora uno strato d’aria respirabile. Raoul iniziò a camminare a carponi tra il fumo e sentì qualcosa: era la bambina. La prese con sé e la portò all’aperto. I genitori della piccola, quando la videro nelle braccia di Raoul svenuta, accorsero spaventati. "Chiamate un medico!", urlò la madre con voce tremante.

Il padre, invece, iniziò a correre senza uno scopo preciso; forse, solo per attirare l’attenzione. Ma nella confusione di quel momento, nessuno fece caso alla sua presenza. Raoul non perse tempo e distese la bambina per iniziare la respirazione artificiale. I genitori della piccola, invece, rimasero lì in piedi, atterriti e iniziarono a pregare. Raoul iniziò a soffiare nei polmoni della bambina, ma, all’improvviso, arrivò il medico di bordo: "Lasci fare a me, continuo io". Raoul si spostò per dare la possibilità al medico di continuare, ma il dottore non ebbe modo di dimostrare la sua professionalità, perché la bambina iniziò a tossire.

"Portiamola in infermeria", disse in inglese il medico di bordo.

I genitori, che non parlavano inglese, si domandarono cosa stesse accadendo. Allora Raoul li rassicurò: "E’ fuori pericolo, la portano in infermeria per visitarla".

"Grazie", disse la madre con il volto bagnato dalle lacrime.

"Ti sarò per sempre debitore", disse il padre.

Raoul rispose con un sorriso.

"Ormai l’incendio è domato", disse un membro dell’equipaggio al secondo ufficiale.

"Che nessuno entri laggiù, finché c’è del fumo", ordinò l’ufficiale della nave.

Poi, il comandante, che aveva assistito in disparte a tutte le operazioni di salvataggio, scambiò un intenso sguardo con Raoul e, infine, lo ringraziò con un cenno della testa.

Il comandante, rivolgendosi al primo ufficiale, commentò l’accaduto: "Questi Italiani sono peggio di un carico di bestiame, perché, oltre a puzzare, mandano a fuoco la nave".

Il primo ufficiale sorrise e chiese al suo superiore: "Ci sono nuovi ordini, comandante?".

"Sì, voglio che questi immigrati siano controllati a vista giorno e notte, non mi fido più di lascarli soli".

"Va bene comandante, faremo dei turni di guardia".

"Ah, dimenticavo…, da oggi è severamente vietato fumare e accendere fuochi in ogni punto della nave".

"Va bene, comandante, dirò al prete di diffondere questo nuovo ordine".

"Ovviamente…, questo divieto è valido solo per gli immigrati e per i marinai, io non ho nessuna intenzione di rinunciare alla mia pipa".

Il primo ufficiale sorrise e si allontanò in cerca del cappellano.

Arrivò la notte e gli immigrati dovettero stare a lungo all’aperto, sul ponte della nave, nell’attesa che cessasse quell’odore acre di bruciato. Il cielo era stellato e la Luna illuminava il ponte della nave.

"Che freddo…, non sento più i piedi", disse una donna a suo marito.

"Cammina e batti i piedi…, fa così!".

Le coperte non furono sufficienti per riscaldarsi e molte persone si scuotevano per riscaldare i muscoli. In quelle condizioni era impossibile dormire.

Anche i bambini soffrivano il freddo e cercavano di riscaldarsi rimanendo stretti ai propri genitori.

"Guarda cosa mi tocca fare! Anche il guardiano?", disse un marinaio con tono risentito ad un suo collega. Le nuove disposizioni del comandante avevano irritato i marinai, i quali furono costretti a montare la guardia.

"E che freddo fa!", disse l’altro marinaio; poi aggiunse: "Almeno si potesse fumare una sigaretta!".

In quel momento passò un ufficiale.

"Aspetta che lo chiedo al secondo ufficiale..., Signore?,… Signore?,…".

"Che cosa succede?", chiese l’ufficiale.

"Ci chiedevamo se fosse possibile fumare una sigaretta..., sa, … qui fuori fa freddo".

"L’ordine del comandante è: niente fuochi. Quindi, niente sigarette".

"Ma non siamo stati noi ad appiccare l’incendio", disse il marinaio.

"Sì, è vero, ma potevate controllarli".

"Ma, Signore…".

"Questo è tutto. Torna al lavoro".

I due si allontanarono.

"Che ha detto? Possiamo fumare?", chiese il marinaio.

"No, non possiamo", rispose il suo collega.

"Io odio gli Italiani!", replicò l’altro.

"Li butterei a mare, così smetterebbero di puzzare".

"Vado a dormire, così almeno non ci penso… vieni a svegliarmi alle 3".

"Va bene, ci vediamo dopo".

In pochi giorni di navigazione i sentimenti nei confronti degli immigrati erano passati da una velata indifferenza a un manifesto rancore.

Salvatore individuò Raoul sul ponte, ma prima di iniziare a parlargli, fu Raoul a rivolgere una domanda: "Come sta la bambina?".

"Bene, ma è ancora in infermeria; la tengono lì tutta la notte".

"E tua moglie, è ancora scossa?".

"Si è tranquillizzata".

"Almeno sono al caldo", disse Raoul.

Salvatore sorrise e poi disse: "Non ti ho ancora ringraziato".

"Lascia stare; molto probabilmente anch’io sarei andato nel panico se mi fossi trovato nella medesima situazione".

"Ti sarò per sempre debitore".

"Non esagerare, quando scenderemo da questa nave ognuno andrà per la propria strada".

Ma Salvatore insistette e disse: "Se un giorno avrò un figlio maschio, lo chiamerò come te; non conosco ancora il tuo nome?".

"Mi chiamo Raoul".

"Raoul?…, e che razza di nome è?".

Raoul rise di gusto e disse: "E’ un nome istriano…, vedi, hai già cambiato idea".

"Va bene, non sarà il nome, ma un giorno saprò sdebitarmi". E poi aggiunse: "Fa freddo questa notte".

"Eh, sì…, fa proprio freddo", rispose Raoul. E poi puntualizzò: "Per colpa di una sigaretta stiamo tutti qui al freddo".

"Non è stata una sigaretta", rispose Salvatore.

"E tu, che ne sai?", chiese Raoul.

"Ho visto com’è successo".

"Sì, un idiota ha accesso una sigaretta, giusto?", chiese con tono seccato Raoul.

"No, sbagliato; non è stata una sigaretta e non era un lui…, bensì una lei".

"E allora, come è successo?".

"Vedi quella donna con il bambino avvolto tra le coperte?".

"Sì, la vedo".

"Bene, aveva chiesto di scaldare un po’ di latte in cucina, ma le è stato negato, perché, hanno detto che la cucina era chiusa".

"Un po’ di latte?".

"Sì, per addormentare il bambino", rispose Salvatore.

"E quindi ha acceso un fuoco?".

"Sì, esatto, ma il bambino ha improvvisamente scalciato e la candela ha incendiato della carta e poi il fuoco si è rapidamente propagato".

"Capisco…, non è solo colpa della donna…, qui ci trattano come dei reclusi", disse Raoul.

"Hai detto bene…, adesso abbiamo anche le guardie che ci controllano, siamo proprio dei reclusi".

"Dobbiamo tenere duro ancora per qualche settimana", disse Raoul.

"Sì, poi sbarcheremo e ci daranno tanta terra da coltivare…, io non vedo l’ora di incominciare!".

Raoul gli sorrise, ma non rispose, mantenendo un atteggiamento schivo e riservato. Salvatore, invece, divenne sempre più curioso del compagno di viaggio e disse: "Sei una persona piena di risorse".

"Che cosa intendi?".

"Ti ho sentito parlare in inglese".

"Ah, ti riferisci a quello…, vedrai che presto lo parlerai anche tu".

Salvatore sperava che Raoul iniziasse a raccontare qualcosa del suo passato, ma lui, invece, continuò a rimanere più abbottonato della giacca che indossava. Raoul rimase in silenzio, ma il suo curioso vicino continuò a guardarlo intensamente come se stesse aspettando una risposta. Raoul si mise le mani in tasca e si raggomitolò per proteggersi dal freddo, alla fine enunciò il suo pensiero: "Presto scenderemo da questa nave e ognuno andrà per la propria strada". Il messaggio di Raoul era chiaro: io sono migliore di te. Salvatore aveva il tipico aspetto di contadino o di quei venditori di frutta e verdura che si possono incontrare al mercato e le sue deduzioni o argomentazioni non fecero altro che rafforzare quell’aspetto da sempliciotto di campagna. Infatti anche questa volta Salvatore non colse il senso del messaggio di Raoul e disse: "Speriamo di rimanere amici".

"Sì, certo…, scusami, ma ho voglia di chiudere gli occhi", disse Raoul sedendosi.

"Provo a dormire anch’io", rispose Salvatore.

Trascorsero l’intera notte sul ponte della nave, controllati a vista dall’equipaggio. Nessuno riuscì a dormire a causa del freddo. La mattina seguente fu dato ai passeggeri il permesso di rientrare sottocoperta. Tutti gli immigrati finalmente rientrarono, infreddoliti e stanchi e quasi contemporaneamente s’addormentarono.

Alcuni giorni dopo il personale della nave fece una spiacevole scoperta e fu prontamente segnalata al comandante. A mezzogiorno tutti gli ufficiali, insieme al comandante, si ritrovarono attorno ad un tavolo per pranzare. In quell’occasione fu il comandante a introdurre come argomento di discussione quello che gli era stato segnalato qualche ora prima. Un marinaio mise un piatto ricolmo di bistecche al centro del tavolo.

"Grazie, lasci pure qui", disse il comandante al marinaio.

Il capitano e gli altri commensali si servirono; ognuno prese una bistecca.

"Dottore", disse il comandante mettendosi il tovagliolo sulle gambe.

"Dica, capitano".

"Da qualche ora una notizia mi sta tormentando".

"Quale notizia?", chiese incuriosito il medico di bordo.

"Lo dica lei che ha fatto la scoperta", disse il capitano guardando il secondo ufficiale.

Il secondo ufficiale posò la forchetta sul piatto e raccontò la spiacevole scoperta: "Facendo un più accurato giro di controllo, ci siamo accorti che l’incendio ha danneggiato le celle frigorifere".

Il medico di bordo, che in quel momento stava masticando un bel pezzo di bistecca, realizzò in un istante la pericolosità nell’ingerire carne avariata. Poi, guardandosi intorno, vide che nessuno aveva toccato cibo, solo lui stava masticando. Tutti erano rimasti immobili a fissarlo.

"Carne guasta!", disse sadicamente il comandante.

L’ufficiale medico trasalì, sputò il pezzo di carne che aveva in bocca e poi iniziò a tossire.

Tutti iniziarono a ridere: "Ah, ah, ah".

"Mi ero dimenticato di dirle che questa carne viene dall’unica cella frigorifera ancora funzionante", disse compiaciuto il comandante.

"Ah, ah, ah", tutti continuarono a ridere e a scambiarsi delle occhiate per compiacersi dello scherzo riuscito.

"Sì, bello scherzo", disse l’ufficiale medico con tono molto seccato e bevendo avidamente dell’acqua. Gli ufficiali della nave Skaubryn continuarono a ridere e a scherzare, ma finalmente anche a mangiare. Il comandante, inoltre, continuò la discussione in merito al problema delle celle frigorifere: "Mi chiedevo se è davvero così pericoloso ingerire carne guasta".

"Pericoloso?..., si può anche morire!", rispose il medico.

"E altri tipi di cibo?", chiese nuovamente il comandante.

"Dipende dal tipo di cibo…, ma anche dalla quantità che viene ingerita", rispose con molta precisione l’ufficiale medico.

"Sì, ho capito, ma cosa si rischia?".

"Beh, non so se si può dire qui a pranzo", chiese con un sorriso beffardo l’ufficiale medico.

"Lo dica…, tutti noi abbiamo lo stomaco corazzato", rispose il capitano.

"Si rischiano forti dolori addominali con vomito e diarrea".

"Ecco, lo sapevo!", esclamò il primo ufficiale.

"Ma non avevi lo stomaco corazzato?", chiese ironicamente il dottore guardando il primo ufficiale.

"Sì, ce l’ho! Il punto è…".

"Il punto è che abbiamo un problema con…, come si possono chiamare…, i nostri ospiti", disse il comandante sorseggiando un bicchiere di vino rosso.

"Quale problema? Basta non somministrare loro del cibo avariato", disse il medico.

"Il nostro problema è che non abbiamo cibo a sufficienza per tutti", disse il secondo ufficiale.

"A questa velocità ci vorranno almeno due settimane per arrivare a destinazione", disse il primo ufficiale.

"Potremmo cambiare rotta e dirigersi a un porto?", chiese il medico.

"Per le riparazioni alle celle frigorifere?", chiese il secondo ufficiale.

"Sì, e anche per comprare del cibo", aggiunse il medico.

"Non abbiamo soldi per comprare così tanto cibo, inoltre, siamo troppo distanti da qualsiasi porto", disse il comandante. E poi concluse il ragionamento: "L’unica soluzione è di aumentare la velocità per arrivare con qualche giorno d’anticipo".

"Se diamo loro del cibo avariato rischiamo una gigantesca epidemia di diarrea, se non lo diamo, rischiamo di affamarli", illustrò nuovamente il problema il primo ufficiale; poi aggiunse: "Io sono propenso a farli digiunare".

"Digiunare?", chiese l’ufficiale medico.

"Volevo dire…, dobbiamo razionare il cibo", rispose il primo ufficiale.

"Io sono propenso a distribuire un po’ di cibo avariato; così, se vanno tutti al cesso, li teniamo occupati!", disse il secondo ufficiale.

Alla battuta del secondo ufficiale tutti risero, ma poi la conversazione ritornò seriosa.

"Lei, dottore, che ne pensa?", chiese il comandante.

"Potremmo fare un’accurata selezione del cibo, per vedere quello che si è salvato…, e poi…".

"Sì, continui".

"Potremmo condividere il nostro cibo con loro".

"Capisco".

Dopo questa affermazione calò il silenzio; poi, il comandante intervenne: "Si occuperà lei di vedere se e quanto cibo è ancora commestibile; per quanto riguarda la condivisione del cibo, io non sono d’accordo".

"Posso chiederle il perché, comandante?", chiese il medico di bordo.

"Ho la responsabilità di tutti i membri della nave, compresi gli immigrati. Non possiamo somministrare del cibo avariato perché costituirebbe un attentato alla loro salute; comunque, il nostro compito è portare a destinazione tutti".

E poi, pulendosi la bocca col tovagliolo, concluse il ragionamento dicendo: "E’ nostro dovere rimanere sani e in salute, così riusciremo a governare la nave anche in caso di difficoltà; quel cibo non va condiviso".

"Dobbiamo informare gli immigrati di questo problema?", chiese il primo ufficiale al comandante.

"Informarli? Siamo noi al comando della nave!", sentenziò il comandante; poi si alzò in piedi e ringraziò i presenti: "Grazie per il buon pranzo, vado nella mia cabina a fumarmi la pipa", e il comandante se ne andò. Tutti gli ufficiali, eccetto il medico di bordo, furono d’accordo col comandante: il cibo dell’unica cella frigorifera funzionante non sarebbe stato condiviso, e inoltre si decise di non informare dell’accaduto i diretti interessati. Il medico rimase perplesso sul ragionamento del comandante, ma non si oppose alla sua decisione.

Terminato il pranzo, il medico con alcuni marinai, si recarono nella zona delle celle frigorifere.

"Solo una cella si è salvata?", chiese l’ufficiale medico.

"Sì, di quattro celle, solo una è ancora funzionante". E poi il marinaio aggiunse: "Sono in corso delle riparazioni, forse aggiustiamo una cella".

"Bene, ma ormai il cibo, che era all’interno, non è più commestibile", replicò il medico.

"Moriremo di fame?", chiese un marinaio.

"Moriremo? Non esageriamo; comunque il comandante ha deciso che il cibo dell’unica cella funzionante sia solo per noi", disse il dottore. Ormai il personale della nave non si preoccupava più di nascondere l’avversione nei confronti degli immigrati italiani e uno dei marinai disse: "Bene, non mi va di dividere quel poco cibo rimasto con quelli là".

L’ufficiale medico non replicò, ma rivolse un’occhiataccia al marinaio e poi chiese: "Guardiamo se si è salvato qualcosa?".

Il marinaio aprì una cella frigorifera ed esclamò: "Che puzza!".

"Come temevo; la carne ha cominciato a guastarsi", disse il medico di bordo.

"Che facciamo?", chiese un marinaio.

"La portiamo fuori di qui, e, senza farvi vedere dagli immigrati, la gettate a mare".

"Bene signore; cos’altro buttiamo?".

"Gettate via tutta la carne, il latte e le uova".

"E del resto?".

"Frutta, verdura e formaggi li voglio visionare, probabilmente si possono ancora mangiare".

"Ma cosa daremo da mangiare agli immigrati?", chiese un marinaio.

"Diremo al cuoco di fare tanto pane, e magari anche qualche biscotto, così, forse, non avranno motivo di cui lamentarsi".

"Bene Signore, faremo come dice lei".

I marinai incominciarono a trasportare il cibo guasto fuori dalle celle e lo portarono sopra coperta, ma non si attennero agli ordini dell’ufficiale medico: iniziarono a gettare a mare il cibo avariato sotto gli occhi degli immigrati.

"Ma cosa stanno facendo?", chiese un immigrato a un suo amico.

"Stanno gettando del cibo a mare", rispose incredulo l’altro.

Anche Raoul assistette all’inspiegabile scena. Sotto i suoi occhi, vedeva gettato a mare incredibili quantità di cibo, e poiché nessuno si era preso la briga di spiegargli cosa stesse succedendo, lui e gli altri immigrati, consideravano l’atto un gesto assolutamente deprecabile.

Venne l’ora di pranzo. Il medico non diede il benestare di servire i latticini, la frutta e la verdura che riuscirono a recuperare, perché non ebbe modo di sincerarsi che fossero freschi o commestibili. Pertanto si decise di consegnare a ogni immigrato una pagnotta di pane e nient’altro. Nel vedere un pasto così misero, alcuni immigrati iniziarono a lamentarsi. Un uomo, particolarmente esasperato, urlò: "Ci vogliono affamare! Ci odiano!".

Fu la scintilla che fece scoppiare la protesta.

"Ho visto che buttavano via del cibo", rispose l’uomo che aveva urlato tutta la sua rabbia.

"Ma che stai dicendo?", chiese un Italiano al compagno di viaggio.

"Sì, sì, è vero, l’ho visto anch’io", rispose prontamente un altro uomo.

"Sì, è vero, anch’io ho visto che lanciavano del cibo a mare", disse Raoul.

"Ci odiano a causa dell’incendio!", esclamò una donna.

Esasperati dall’impossibilità di lavarsi, dall’incendio e da un’intera notte al freddo, gli animi degli immigranti si surriscaldarono pericolosamente ed alla fine divamparono in una vibrante protesta: "Andiamo dal comandante!", disse un uomo con voce tutt’altro che conciliante. "Tu stai qui!", intimò un uomo a sua moglie.

Gli uomini iniziarono a mobilitarsi, mentre le donne e i bambini rimasero sottocoperta.

"Se volete, parlo io col comandante", chiese il cappellano.

"Si faccia da parte, padre", disse un uomo spingendo via il prete.

"Non vogliamo solo parlare", aggiunse un altro rimboccandosi le maniche.

Il marinaio, che in quel momento era di guardia agli immigrati, si vide improvvisamente arrivare una folla di uomini inferocita. Impaurito, scappò via. Raoul assistette impotente alla sfuriata di alcuni suoi concittadini e, con voce preoccupata, richiamò la loro attenzione: "Ma che volete fare? Siete impazziti?". Cercò di farsi sentire, ma fu allontanato. Allora Raoul non si diede per vinto, salì su un ripiano e urlò a squarcia gola: "Ascoltatemi!".

Sentendolo urlare in quel modo la folla si arrestò e si rivolse in direzione di Raoul.

"Se volete parlo io al comandante", disse Raoul.

"E tu, chi saresti?", chiese un uomo con la faccia scura.

"Mi chiamo Raoul Rusich e sono un immigrato italiano come voi".

"Sì, con un nome così strano, non mi sembri tanto italiano?".

"Vengo da Fiume e sono italiano come voi. Mi sono imbarcato su questa nave perché voglio arrivare in Australia per cercare fortuna…, e voi, cosa vi ha spinto a partire?".

"Come tutti noi!", disse un uomo alto con la voce un po’ stridula.

"Perché dobbiamo ascoltarti? Che cosa hai da dirci di tanto importante?", chiese un altro uomo dalla voce tonante.

"Se cercherete lo scontro, allora il comandante della nave chiederà aiuto via radio".

"Ah sì, chi manderanno? I marines americani?", chiese sarcasticamente una donna. 

Molti risero ma Raoul replicò prontamente: "No, manderanno delle navi da guerra australiane che ci scorteranno fino al porto di Melbourne; poi, una volta arrivati lì, ci arresteranno e ci rispediranno a casa…, voi volete tornare a casa?".

La folla iniziò a mormorare.

"Siamo stanchi di essere trattati come bestie!", sentenziò un uomo dai capelli arruffati.

"Voglio lavarmi!", aggiunse un altro.

"Anch’io sono molto stanco, ma dobbiamo usare la testa", replicò Raoul.

Poi, muovendo lentamente il capo, riuscì con lo sguardo a catturare l’attenzione di tutta la folla, e disse: "Tra due settimane arriveremo a destinazione; poi, per tutti noi, sarà un nuovo inizio".

"Ha ragione! Non roviniamo tutto con un gesto avventato", replicò un vecchio.

"Sì, è vero, dobbiamo solo sopportare ancora qualche giorno", disse una donna con voce piena di speranza.

"Quest’uomo parla inglese!", disse Salvatore.

"Sì, è vero, parla inglese", confermò don Ettore.

"Quest’uomo ha salvato la vita di mia figlia", affermò la moglie di Salvatore.

"Sei quello dell‘incendio?", chiese una donna. Raoul rispose con un cenno affermativo della testa. E poi la donna chiese: "Che cosa proponi?". Raoul aveva le idee ben chiare sul da farsi e replicò senza esitazioni o tentennamenti: "Vado a parlare col comandante, ecco cosa propongo".

"Ti ascolterà?", chiese un uomo.

"Venite anche tutti voi, ma quando sarà il momento di parlare, parlerò per tutti", rispose Raoul.

"Sì, mi sembra una buona idea", risposero in molti.

"Allora andiamo", disse Raoul.

Raoul si mise alla testa dei dimostranti, che ormai erano diventati una pacifica folla.

Si unirono anche le donne e i bambini. Uscirono sul ponte della nave ma trovarono una spiacevole sorpresa: il marinaio che era di guardia e che era fuggito via, aveva raccontato ai propri superiori che gli immigrati italiani erano imbestialiti e che erano pronti ad una rivolta per impossessarsi della nave. Così, una volta saliti sul ponte, gli immigrati trovarono i marinai in assetto da guerra, alcuni anche armati. Quando il secondo ufficiale vide arrivare Raoul e gli altri passeggeri, non perse tempo in inutili domande e ordinò di aprire i potenti getti d’acqua dei cannoni antincendio sulla folla d’Italiani.

"Prendete questo!", disse un marinaio.

"Almeno adesso smetterete di puzzare", disse un altro marinaio.

I potenti getti d’acqua, che avrebbero dovuto servire per spegnare gli incendi, fecero cadere molti uomini e donne. "Fermatevi!", urlavano inutilmente i passeggeri italiani, ma i membri dell’equipaggio continuarono a sparare acqua ad alta pressione sugli inermi malcapitati.

"Vogliamo solo parlare", gridarono gli uomini e le donne, ma l’equipaggio parlava solo inglese e se la rideva nel vedere la gente a gambe all’aria.

Con un balzo Raoul salì su un punto alto, col rischio di finire a mare, e urlò: "Stop! Stop!".

Il secondo ufficiale e gli altri marinai lo riconobbero: era quello del coraggioso gesto durante l’incendio della nave. I marinai ebbero come un presentimento, e nonostante fosse un bersaglio particolarmente facile, non lo colpirono con i cannoni d’acqua. Allora Raoul urlò, in inglese: "Vogliamo solo parlare!".

Il secondo ufficiale alzò lo sguardo in cerca di un segnale del comandante, il quale fece un gesto secco con la mano per far cessare il muro d’acqua. Il getto d’acqua s’interruppe e Raoul scese dal punto alto che si era posizionato e s’incamminò. Superò il punto dove si trovavano il secondo ufficiale e i due marinai e s’avvicinò al comandante, il quale, invece, rimase immobile al suo posto, e un marinaio armato di pistola si posizionò alle sue spalle.

"Stai calmo", disse il comandante al marinaio armato.

"Sì, Signore", rispose il marinaio.

Nella voce del marinaio vibrò tutta la tensione del momento e il comandante volle nuovamente sincerarsi che non facesse gesti inconsulti: "Ha detto che vuole parlare, sentiamo che cosa ha da dire; stai calmo…, intesi?".

"Sì, Signore".

Raoul si avvicinò molto cautamente fino a portarsi a distanza di pochi passi, ma non ebbe modo di parlare perché fu il comandante a sincerarsi di una cosa: "Parli inglese?".

"Sì, lo parlo un po’", rispose Raoul timidamente. Raoul si accorse che il marinaio dietro al capitano nascondeva qualcosa, e, pur senza averla vista, immaginò che si trattasse di una pistola. Raoul capì che non era il caso di fare movimenti bruschi; anche il tono della voce diventò molto conciliante e disse: "Vogliamo solo parlare".

"Ci sono altre persone che parlano inglese?", chiese nuovamente il comandante.

Raoul, alla vista del comandante, sembrava un sempliciotto di campagna, e il comandante volle capire se ci fosse una persona istruita con cui dialogare.

"Solo il prete", rispose Raoul.

"Nessun altro?".

"Credo di no".

Alla fine, il capitano si arrese all’evidenza: in quel momento stava proprio parlando con una delle persone più istruite tra gli italiani. "A che titolo parli?", chiese il comandante.

Raoul, che non parlava perfettamente l’inglese, non capì il significato di quella domanda. Il comandante, vedendolo in difficoltà, riformulò la domanda in modo più semplice e diretto: "Chi sei?".

"Mi chiamo Raoul Rusich e sono il capo degli immigrati", rispose seraficamente. Anche Raoul avrebbe voluto usare un'altra espressione, ma in quel momento non gli venne in mente niente di meglio che quella frase piuttosto forzata e imprecisa: da semplice portavoce degli immigrati, Raoul si autoproclamò il loro capo. Anche il capitano si presentò: "Sono il capitano Shatton, comandante di questa nave; sei quello che ha salvato la bambina?", chiese il comandante per sincerarsi che avesse veramente capito chi fosse il suo interlocutore.

"Sì, sono io".

"Sei stato molto coraggioso!".

Raoul rispose con un sorriso e intuì che, in qualche modo, aveva fatto breccia sul muro di diffidenza che aveva eretto il comandante della nave. Anche il comandante Shatton comprese che davanti a lui c’era una persona generosa e affidabile, ma non perse tempo in inutili chiacchiere e impartì l’ordine perentorio al portavoce degli immigrati: "Ritornate subito nelle cabine!".

E poi aggiunse: "Altrimenti ci saranno serie conseguenze".

"Avevo capito che avrebbe ascoltato le nostre richieste".

"Va bene, le ascolto".

"Siamo stanchi di essere trattati come animali".

"Purtroppo questa non è una nave da crociera", disse il comandante invitandolo a guardarsi intorno: la ruggine si stava impadronendo della nave.

"Non possiamo lavarci", ribatté Raoul.

"Ripeto: la nave è vecchia e non c’è la possibilità di avere acqua potabile".

"Però c’è cibo in abbondanza, non è vero?".

"Sì, è vero…".

Raoul non diede al comandante la possibilità di spiegarsi e lo interruppe in modo perentorio: "Avete buttato del cibo a mare!".

"Posso parlare?", disse con tono seccato il comandante.

"Sì, mi scusi", rispose Raoul cambiando tono di voce e gettando uno sguardo al marinaio con la pistola.

"L’incendio ha distrutto le celle frigorifere e il cibo non è più commestibile".

"Commestibile?", chiese Raoul aggrottando le sopracciglia perché non conosceva il significato di quella parola.

"Sì, insomma…, non è più mangiabile".

Raoul fu sorpreso e rimase senza parole, ma dopo un istante di smarrimento, chiese: "E’ per questo motivo che ci avete dato solo del pane?".

"Sì, esatto".

"Non c’è altro cibo?", chiese Raoul allargando le braccia.

"Abbiamo salvato qualcosa, più tardi ve ne daremo un po’ ".

Raoul si trovò spiazzato da quella spiegazione, stette in silenzio ed abbassò lo sguardo.

Il capitano, vedendolo in difficoltà, decise di incominciare a demolire la sua reticenza fornendo prova di essere un grande comunicatore e disse: "Noi mangiamo quello che mangiate voi". Fu una bella frase ad effetto e produsse il risultato voluto: Raoul rimase molto colpito e continuò a rimanere in silenzio. Il capitano capì che aveva fatto centro; ormai si trattava solo di dargli il colpo finale. Come un vero teatrante, gli mise la mano sulla spalla e disse: "Tra pochi giorni arriverete a Melbourne e per tutti voi inizierà una nuova vita".

La speranza di una vita migliore era il denominatore che accomunava tutti gli immigrati italiani, fu relativamente facile per il capitano portare tutto questo a suo vantaggio.

"Ritorneremo nelle cabine e spiegherò cosa è successo", disse Raoul.

"Bene", rispose soddisfatto il comandante.

"Per il futuro mi aspetto che certe informazioni vengano diffuse anche tra noi italiani", aggiunse Raoul con un certo piglio da leader.

"Certo, anzi…, stavo pensando…, lei ogni giorno mi verrà a comunicare i vostri problemi".

"Mi sembra una bella idea", rispose Raoul.

"Allora, adesso tornate nelle cabine?", chiese il comandante.

"Sì".

Il capitano sorrise e Raoul gli voltò le spalle e si allontanò; ma poi, spinto dall’orgoglio, si girò di scatto e disse: "Noi non siamo animali, siamo italiani!".

Il capitano rimase sorpreso da questo scatto di dignità. Shatton sorrise e con tono paterno gli rispose: "Ancora pochi giorni, e poi…". Egli non concluse la frase volutamente, quel "e poi" alimentò la fiamma della speranza di un futuro migliore.

Raoul fece un cenno con la testa e si congedò. Alcuni Italiani gli si avvicinarono per avere qualche notizia: "Che cosa vi siete detti?".

"Rientriamo nelle cabine che vi spiego tutto".

Il secondo ufficiale s’avvicinò al capitano Shatton: "Tutto a posto comandante?".

"Sì, è tutto sotto controllo; la protesta è rientrata".

"Ma come avete fatto a convincerli?".

"Gli Italiani sono come dei bambini, a loro piace essere sottomessi da un uomo forte".

E poi aggiunse con tono compiaciuto: "Ho raccontato qualche frottola".

Il secondo ufficiale sorrise. Il comandante si congedò impartendo un ordine al suo subalterno: "Teniamo d’occhio quel Raoul, è un tipo tosto…, io vado nella mia cabina a fumarmi la pipa".

"Va bene, signore".

I passeggeri rientrarono nelle cabine e Raoul salì nuovamente su un ripiano rialzato in modo che tutti potessero udirlo. Ci fu un po’ di malumore, perché i suoi connazionali, intuirono dalle sue parole, che le condizioni di vita all’interno della nave non sarebbero migliorate. Per infondere coraggio e conforto, anche lui batté sul tasto della speranza di un futuro migliore: "Dobbiamo portare pazienza, tra pochi giorni arriveremo a destinazione".

Un’ora dopo, portate da alcuni marinai, arrivarono delle ceste ricolme di frutta, di pane e biscotti, formaggio e qualche bottiglia di vino offerta dal comandante. All’interno della cesta, fu riposto un biglietto scritto di suo pugno, che diede a tutti l’illusione che le condizioni fossero improvvisamente migliorate. Sul biglietto era scritto: "Australia Italia Amici". Fu la definitiva consacrazione di Raoul come "capo degli immigrati".

"Grazie Raoul", disse Salvatore.

"Ma non è merito mio", rispose Raoul.

"Non essere modesto, è anche merito tuo se abbiamo del cibo decente", ribatté Salvatore.

Il viaggio proseguì con enorme sacrificio da parte degli immigrati italiani, ma senza ulteriori intoppi. Raoul si recava quasi giornalmente dal comandante, per informarlo sullo stato psicofisico dei suoi connazionali, ottenendo attenzione e consigli su come alleviare i problemi del viaggio. Dopo trentuno giorni di navigazione la nave arrivò al porto di Melbourne. La sera precedente, il comandante in persona scese nei gavoni della nave e informò i passeggeri che il viaggio stava per terminare. All’inizio nessuno capì quello che stava per succedere, ma quando Raoul e il prete interpretarono le parole del comandante - "Domani arriveremo a Melbourne"-, l’entusiasmo tra gli Italiani arrivò alle stelle. La gente si eccitò a tal punto che quella notte quasi nessuno riuscì a dormire. Alle sette del mattino la nave entrò in porto. Tutti gli immigrati salirono sul ponte della nave per vedere la città e iniziarono a salutare, ma non ottennero molti saluti di risposta, anzi vennero quasi ignorati. Per i portuali era soltanto l’ennesima nave che attraccava al porto carica di stranieri. L’indifferenza degli Australiani strideva con quello che stava succedendo sulla nave Skaubryn: pianti, abbracci e scene di giubilo.

Finalmente gli immigrati italiani erano giunti a destinazione: l’Australia, la Terra Promessa.

Anche Raoul era sul ponte della nave e rimase a lungo in silenzio, quasi estasiato osservando il profilo della città. Poi, si accorse che vicino a lui c’era anche Salvatore con in braccio sua figlia: "Vedi, lì è la nostra nuova casa", disse a sua figlia con voce amorosa e carica di speranza. La bimba non rispose e continuò a strofinarsi gli occhi ancora appiccicati dal sonno. Poi, finalmente aprì gli occhi e vide l’Australia: un’immagine che le resterà fissa nella memoria per il resto della vita.

"Allora, ci salutiamo qui?", chiese Raoul porgendo la mano a Salvatore.

"Sono contento di averti conosciuto", rispose Salvatore stringendogli la mano.

"Per un po’ rimarrò a Melbourne, sono sicuro che ci vedremo ancora", disse Raoul.

"Sì, teniamoci in contatto", rispose Salvatore.

Poi, Raoul si girò e allungò la mano per salutare la moglie di Salvatore. Lei, forse presa dall’euforia del momento, non gli strinse la mano, ma gli si gettò tra le sue braccia, abbracciandolo molto calorosamente e gli disse: "Abbi cura di te!".

Raoul rimase sorpreso da quel saluto così affettuoso e non rispose imbarazzato. La donna, vedendolo rigido, con un movimento repentino si allontanò da Raoul e si mise a fianco del marito, e infine, forse per dissimulare l’imbarazzo del momento, gli chiese: "Allora, adesso ti troverai una ragazza?".

Raoul non ebbe tempo di rispondere perché Salvatore aggiunse: "Sì, una bella australiana!".

"Ragazza? No, no, non ho tempo per queste cose. Non ho fatto tutta questa strada per trovarmi una ragazza".

Poi, guardando in direzione della terra ferma, aggiunse: "Devo trovarmi un buon lavoro".

"Sono sicuro che qui troverai la tua strada", disse la moglie di Salvatore.

"Andiamo a prendere le nostre cose…, a presto Raoul!", disse Salvatore.

"Sì, a presto", rispose Raoul.

Raoul, prima di sbarcare, si recò nuovamente dal comandante Shatton per salutarlo: "Sono venuto a ringraziarla".

"E per cosa? Ho fatto il mio dovere…, sigaro?", chiese il comandante aprendo una scatola ricolma di sigari; poi aggiunse: "Sono cubani, i migliori!".

"Grazie, ho sempre desiderato fumarne uno", rispose Raoul, ma poi si ricordò del divieto di fumo e chiese: "Adesso possiamo fumare?".

"Sì, adesso siamo in porto", rispose il comandante; poi aggiunse con tono trionfale: "Finalmente siamo a Melbourne".

"Sì, a Melbourne", ripeté Raoul quasi con le lacrime agli occhi.

"Vorrei rivolgerti una domanda, che potrebbe sembrarti anche banale", disse il comandante.

Raoul rimase con la mente sgombra pronto per ricevere l’importante domanda.

"Che cosa vi ha spinto ad abbandonare la vostra terra?".

Raoul rifletté un attimo perché non volle dare una risposta mediocre, alla fine rispose:

"Noi italiani nasciamo con le catene: non ci è permesso volare".

Il comandante rimase perplesso, ma Raoul si fece coraggio e perfezionò la risposta: "Alcuni avranno la catena un po’ più lunga degli altri e avranno l’impressione di spiccare il volo, ma in realtà è solo un piccolo balzo; in Italia chi nasce povero rimarrà povero".

"E’ una critica davvero dura verso il tuo paese; pensi che in futuro le cose non miglioreranno?".

"Sono convinto che in Italia le cose miglioreranno, ma il figlio di un operaio, contando solamente sulle proprie capacità, non potrà mai diventare il direttore di un’azienda".

"Capisco…, ho paura che a tal proposito resterai deluso dell’Australia", disse il comandante allungandogli la mano per salutarlo.

"Sono sicuro di no!", rispose Raoul stringendogli la mano.

I due si commiatarono e iniziarono le operazioni di sbarco. I futuri cittadini australiani presero le loro misere cose e discesero la scaletta in modo ordinato. Una lunga fila si formò sulla banchina del porto. La coda doveva oltrepassare per una serie di stazioni dove venivano effettuati specifici controlli. Nella prima stazione si controllavano i documenti delle persone sbarcate sotto l’occhio vigile di alcuni poliziotti.

"Quanto puzzano!", esclamò disgustato un poliziotto di frontiera.

"Da dove vengono?", chiese l’altro.

"Italiani!".

"Ah, certo, lì non conoscono l’acqua".

Una volta accertata l’identità si veniva giudicati da un gruppo di medici.

"Sembra un po’ denutrito", commentò un medico a un suo collega, mentre visitava un immigrato magro e dalla faccia un po’ smunta.

"Devi mangiare di più", disse l’altro medico all’immigrato italiano.

"Non solo pasta, ma anche bistecche!", aggiunse con tono ironico il primo medico.

Il paziente italiano non comprese nulla di quanto gli veniva detto; guardò i medici con aria un po’ inebetita e si limitò a sorridere.

"Giudizio?", chiese il primo medico.

"Per me abile", rispose il secondo medico.

"Anche per me", rispose un terzo.

I medici avevano il compito non soltanto di controllare che gli immigrati non soffrissero di malattie infettive, ma anche che fossero in accettabile condizione di salute per poter affrontare senza intoppi, una vita lavorativa. Se una persona si trovava in un precario stato di salute, allora il giudizio veniva sospeso e rimaneva all’interno del campo in attesa di ulteriori visite. Se, invece, il paziente era palesemente malato, veniva giudicato "inidoneo" e non poteva oltrepassare la frontiera.

Solo le persone sane potevano godere del Nuovo Mondo!

E infine si controllavano i bagagli: "Che cosa contiene quella scatola, signora?", chiese in inglese il funzionario doganale. La donna non capì, ma il doganiere gli fece cenno di aprire la scatola.

"Mai fater", rispose in un incerto inglese come aveva cercato d’insegnargli don Ettore, il cappellano della nave.

"What?" - [ Cosa? ] -.

" m-a-i-f-a-t-e-r", ripeté la donna scandendo quella che per lei voleva dire "mio padre".

Il doganiere continuava a non capire e le fece nuovamente segno di aprire la scatola. La donna, anche se riluttante, obbedì. Quando il doganiere vide il teschio umano, rimase per un attimo perplesso; poi, la sorpresa si trasformò in terrore. Il doganiere prese il fischietto cha aveva al collo e cercò di metterselo in bocca, ma era talmente agitato che una operazione così semplice richiese vari tentativi. Finalmente s’infilò il fischietto in bocca e iniziò a soffiare con tutta l’aria che aveva nei polmoni.

La donna rimase lì, immobile, mentre alla scrivania non c’era più nessuno. Il funzionario di dogana, nel corso degli anni, aveva sentito tante strane storie sugli Italiani e le loro stravaganti abitudini. Ad esempio: si era convinto che gli Italiani mangiassero solo pasta, che erano persone molto stupide e che non si lavassero mai. Inoltre, gli avevano riferito che gli uomini trascorrevano le domeniche giocando a pallone, non usando le mani, bensì i piedi. Le loro donne, invece, impiegavano il loro tempo lavorando a maglia oppure cercando di prevedere il futuro, interrogando le carte. Vedendo quello scheletro, le fantasiose ricostruzioni sulle abitudini degli Italiani divennero improvvisamente realtà: quella donna era una strega!

Lo scheletro doveva servire per qualche strano rito magico. Il funzionario scappò via in preda al terrore.

"Cosa succede?", chiese un poliziotto.

"E’ una stregaaaa!", urlò il funzionario doganale, indicando la donna.

In pochi istanti la donna fu circondata anche da altri poliziotti, che iniziarono a roteare il manganello. La donna, in preda alla disperazione, cominciò a scappare ed a urlare:

"Mai fater! Mai fater!".

Un poliziotto la inseguì e gli ordinò: "Metta giù la scatola!".

Ma la donna non parlava inglese e soprattutto non si fermò. Iniziò a scappare senza una metà precisa; dopo un breve inseguimento decise di arrendersi. Si fermò all’improvviso e si accasciò al suolo. Il poliziotto si avvicinò per arrestarla e vide che "l’urna" era aperta e il teschio di suo padre giaceva accanto a lei.

"Maledetta strega!", disse il poliziotto, alzando il manganello per colpirla.

Ma una voce bloccò il polso del poliziotto: "Ha detto che è suo padre", disse in inglese Raoul. E poi aggiunse: "Voglio solo spiegare".

Arrivarono altri poliziotti e lo circondarono, ma Raoul non perse la calma e disse: "Non voglio problemi, voglio solo parlare".

"Sei il marito di questa donna?", chiese un poliziotto.

"No, l’ho conosciuta durante il viaggio in nave; lei non parla inglese, ma io posso spiegarvi".

"Allora spiegati!", disse con tono impaziente lo stesso poliziotto che la stava per colpire.

"Quelli sono i resti di suo padre".

I poliziotti iniziarono a parlottare tra loro.

"Che stanno dicendo?", chiese la donna a Raoul.

"Non lo so, non capisco".

Un poliziotto chiese: "Puoi provarlo?".

"Hanno chiesto di provarlo", disse Raoul alla donna.

"Guarda! C’è don Ettore!", esclamò la donna.

Il sacerdote si fece avanti e disse: "Posso aiutarvi?".

La vista della tunica raffreddò il clima di sospetto che s’era instaurato e alla fine i poliziotti lasciarono varcare il confine alla donna, ma diedero l’urna al prete: "Pensi lei padre a seppellirlo", disse un poliziotto.

"Va bene, faremo una cerimonia".

"Puoi venire anche tu, Raoul?", chiese la donna.

"Beh, non so…".

"Non parlo inglese, ti chiedo quest’ultimo favore".

"Va bene, ti accompagnerò".

Raoul fu accompagnato nuovamente in fila e venne informato sulla sua destinazione. Aveva superato senza problemi tutte le tre stazioni di controllo e aveva anche interloquito in inglese; così, quando conobbe la sua destinazione, rimase allibito: "Credevo di rimanere a Melbourne!".

"No, la sua destinazione è Boneigilla".

Boneigilla era un ex campo di prigionia della Seconda Guerra Mondiale, trasformato in centro raccolta immigrati.

"Sì, ma a fare cosa?", chiese Raoul in modo indisponente.

"Lì ti verrà assegnato un impiego", disse l’impiegato.

A Napoli, al momento dell’imbarco, a tutti gli immigrati venne sottoposto un documento che nessuno, neanche Raoul, lesse con attenzione. Tutti lo firmarono in gran fretta e s’accomodarono a bordo della nave. L’impazienza di partire era inferiore solo alle aspettative. Nel documento era scritto che il titolo di studio o di specializzazione, o più semplicemente il mestiere svolto in Italia, una volta giunti a destinazione, non avrebbe avuto più alcun valore.

"Mi aspettavo di cercare lavoro a Melbourne oppure a Sydney".

"Sì, immagino, ma per il momento questo è quello che abbiamo da offrirti…, avanti il prossimo!".

Raoul fissò l’impiegato in silenzio. Il funzionario della dogana, invece, fece un plateale gesto con la mano per indicargli l’uscita, allora Raoul si girò e si allontanò molto lentamente bofonchiando qualcosa. La sua delusione era evidente. Uscì dalla dogana e finalmente mosse i primi passi in Australia. Erano almeno tre anni che sognava questo momento, ma, come spesso accade, la realtà é molto diversa dai sogni. Appena fuori dalla dogana si formarono diversi gruppi, uno per ogni destinazione. Raoul venne indirizzato verso quello diretto a Boneigilla.

"Anche tu qui?", chiese un uomo dello stesso gruppo di Raoul.

"Sì, momentaneamente… ", rispose Raoul con un filo di voce.

"Non ci posso credere!", aggiunse un altro: era Salvatore.

"Nemmeno io!", rispose Raoul quasi vergognandosi.

"Ma che cosa è successo? Perché ti hanno messo con noi?", chiese Salvatore.

Raoul si sentì molto mortificato, anzi, umiliato e raccontò una frottola: "Per qualche settimana starò con voi, poi, ritornerò a Melbourne".

"Anche se starai solo per qualche giorno, ne sarò felice", disse Salvatore.

Raoul non rispose, ma si poteva leggere in faccia la delusione.

"Vedrai che rimarrai poco", disse Costanza, la moglie di Salvatore.

"Ma che dici?", chiese suo marito.

"Lui è diverso da noi, non è venuto fin qui per fare il contadino", puntualizzò Costanza.

"Grazie, mi hai letto nel cuore", rispose Raoul.

 

Capitolo 3

 

Il viaggio in treno fu relativamente breve. Raoul rimase in silenzio a meditare. Dopo circa due ore arrivarono a destinazione, ma l’arrivo non fu dei migliori. Appena aprirono le porte, gli immigrati furono circondati da migliaia di mosche. I passeggeri scesero in tutta fretta e si diressero verso il villaggio. La strada era in leggera discesa e tutti accelerarono il passo; poi, finalmente, videro per la prima volta la loro nuova casa: erano delle baracche di legno e lamiera corrugata. Per tutti l’arrivo fu traumatico e difficoltoso. Le baracche non erano sufficienti per far fronte ai nuovi arrivati e a molte famiglie fu chiesto di condividere la propria abitazione con altre persone.

"Vieni con noi?", chiese Salvatore a Raoul.

"Non vorrei disturbare".

"Preferisco avere te piuttosto che uno sconosciuto".

"Dove dormirò?", chiese Raoul scuotendo le spalle.

"Metteremo come divisorio una corda con una coperta, così potrai avere una stanza tutta tua".

Ogni unità abitativa era costituita da un monolocale, con nessun bagno né luogo di cottura; ma la principale difficoltà per un immigrato italiano fu superare la barriera culturale che avevano eretto gli Australiani. Per un australiano non essere di origine inglese o irlandese significava una sola cosa: essere inferiori.

Per gli Italiani, invece, gli Australiani apparvero come un popolo rozzo e maleducato.

Lì, il tempo sembrava essersi fermato a vent’anni prima. La gran parte della popolazione si vestiva con un guardaroba degli anni trenta, inoltre gli uomini non portavano le mutande. Un’altra disgustosa scoperta fu scoprire che il fazzoletto da naso, per il popolo civilizzato dell’Australia, era pressoché sconosciuto. Gli Australiani si pulivano il naso utilizzando le maniche oppure soffiando violentemente il naso, tenendo una narice tappata per volta. Un’altra difficoltà per gli immigrati italiani fu la cucina. Per mangiare ci si doveva recare in mensa, dove venivano serviti la colazione, il pranzo e la cena. Il cibo presentava talune volte dei vermi e finiva inevitabilmente nel bidone delle immondizie.

Spesso il pranzo era costituito da un’unica proposta culinaria che era stata importata dall’estero in grande quantità: carne di montone, cucinato e condito col suo stesso grasso e il cui fetore si diffondeva in tutti gli ambienti e restava attaccato ovunque.

Una difficoltà quasi insormontabile fu la lingua. Nessuno degli immigrati, con eccezione di Raoul, parlava inglese. Alcuni giorni dopo il loro arrivo iniziarono le selezioni per un posto di lavoro. Accompagnati da un interprete del luogo si veniva convocati all’ufficio di collocamento. Tra i primi ad essere convocati fu un ex lavoratore dei cantieri navali di Monfalcone. L’impiegato dell’ufficio collocamento, con l’aiuto fornito dall’interprete australiano, spiegò in cosa consisteva il nuovo lavoro: doveva recarsi a Nord dell’Australia dove c’erano dei grandi laghi per costruirvi delle navi. Sembrava un posto perfetto per lui.

"Tutto bene, costruirò delle navi", disse agli altri immigrati che aspettavano il loro turno di convocazione.

"E lo stipendio?", chiese uno degli immigrati.

"Ottimo! Davvero ottimo!".

Alcuni giorni dopo scoprì la sconcertante verità: i laghi erano asciutti e le navi avevano quattro zampe! Si trattava di laghi salati e le navi avevano quattro zampe perché in realtà si trattava di un gregge di pecore. La cattiva conoscenza dell’inglese giocò un brutto scherzo a quell’uomo: confuse la parola

ship – (nave) - con la parola sheep - (pecora) -, e quindi l’uomo divenne un pastore di pecore. La cattiva conoscenza della lingua fu davvero l’unico problema quasi irrisolvibile e, in certi casi, si verificarono situazioni tragicomiche. Molti immigrati si vergognavano di non conoscere l’inglese e facevano finta di aver capito.

"My husband passed away" - [mio marito è morto] -, disse un’anziana signora australiana che assolveva compiti di infermiera presso il centro raccolta e che confidò tutto il suo dolore a un’immigrata italiana.

"Oh, very well, very well" - [molto bene, molto bene] -, rispose l’italiana.

Gli immigrati italiani si resero subito conto che vivere in Australia non sarebbe stata una passeggiata e che i lavori proposti erano ben al di sotto delle loro aspettative.

Nel 1947 il ministro dell’immigrazione Calwell, per rassicurare i propri cittadini, aveva detto: "Per ogni nuovo immigrato straniero ci saranno dieci nuovi ingressi dal Regno Unito".

Il ministro non mantenne la promessa e in Australia, a partire dal 1947, arrivò un vero e proprio esodo di massa. A tutti gli immigrati, prima del trasferimento, IRO

, cioè l’organizzazione che si occupava dell’emigrazione, fece firmare una serie di documenti che nessuno lesse con attenzione, ma che firmò con molta superficialità. Con quella firma, una volta arrivati a destinazione, si rinunciava a molti diritti. Per un periodo di almeno due anni si diventava apolide, non si aveva diritto alla previdenza e alla cassa malattia; c’era solo il lavoro. Per quei due anni bisognava accettare qualsiasi occupazione proposta. Si trattava di lavori molto duri e talvolta umilianti, sotto la sferza di un clima tutt’altro che piacevole e spesso anche in località lontane dai propri cari. Era questo il segreto tenuto nascosto agli immigrati italiani. Sotto una falsa generosità, l’Australia spalancò le proprie frontiere, ma ai nuovi arrivati vennero imposti tutti quei lavori che gli Australiani si rifiutavano di fare, ma che erano indispensabili per la loro economia, come: pastori di pecore, posare linee ferroviarie, raccogliere la canna da zucchero.

Raoul si rese conto che per lui non ci sarebbe stato nessun impiego importante. Perse l’entusiasmo e rimase a lungo nella sua "stanza" a meditare, in attesa che l’ufficio collocamento lo convocasse. Usciva soltanto per fumare o per aiutare qualche italiano nella comprensione della nuova lingua. Molti immigrati chiesero esplicitamente la sua presenza durante il colloquio di lavoro, ma gli venne negato l’accesso. Gli Australiani, molto astutamente, contavano sulla scarsa comprensione della lingua da parte degli Italiani, per poterli indirizzare con maggiore facilità verso lavori poco edificanti.

Un appuntamento a cui Raoul non mancò mai era recarsi in mensa.

"Chissà oggi cosa avrà cucinato lo chef?", disse sarcasticamente Raoul.

"Forse avranno cambiato il menù", rispose speranzoso Salvatore.

"E’ una settimana che mangiamo montone", disse Costanza.

Finalmente le porte della mensa si aprirono e tutti gli immigrati italiani si accomodarono.

Dall’odore già molti avevano intuito il menù del pranzo.

"Sono sicuro che è ancora castrato", disse Raoul.

"Io ho qualche speranza", rispose Costanza.

"Giuro che faccio un gesto sconsiderato se mi danno ancora quella roba", ribadì Raoul.

Finalmente videro il menù: era castrato di montone. Tutti gli immigrati, lamentandosi e borbottando, ne presero una porzione.

"Che fai, non mangi?", chiese Salvatore vedendolo in un angolo a tramare qualcosa.

"Sta pensando qualcosa…", disse Costanza.

Ad un tratto afferrò una porzione di pane da una cesta e disse in inglese a uno degli inservienti: "Mangerò solo questo!".

"Che ha detto?", chiese Salvatore a sua moglie.

"Non lo so, ma forse ho capito", rispose Costanza con un sorriso di compiacimento.

Raoul salì in piedi su una sedia in modo che tutti lo sentissero: "Non so voi, ma io mangerò solo del pane", disse Raoul ad alta voce.

Poi, fece un giro completo attorno la mensa, tenendo il pane ben in vista. Ci fu un vivace scambio di idee tra i commensali e alla fine l’idea dello sciopero del pane fu condivisa da tutti i presenti.

"Ha ragione!", disse un Italiano.

"Basta, vogliamo mangiare anche altre cose", aggiunse un secondo immigrato.

"Si mangiava meglio sulla nave", osò dire un’altra persona.

Raoul prese un’altra pagnotta e uscì dalla mensa.

"Raoul, Raoul,…", chiamò Salvatore, ma lui se ne andò senza voltarsi.

"E adesso, che facciamo?", chiese Salvatore a sua moglie, ma Costanza non rispose.

Nel frattempo in mensa, anche se molto educatamente, iniziò una protesta. Quelli che erano già stati serviti, riconsegnarono il vassoio, mentre gli altri si tuffarono nella cesta del pane. Tutti presero dalla cesta una pagnotta di pane e poi la mostrarono agli inservienti come fosse un trofeo.

"Chiama le guardie", disse uno degli inservienti.

"Vado a chiamare Raoul", disse Costanza.

Arrivarono le guardie. Non intervennero attivamente, ma si limitarono a controllare che lo sciopero non degenerasse, mentre gli immigrati italiani si limitarono a mangiare i loro panini in modo chiassoso. Intanto Costanza cercò Raoul nella sua "camera", ma non lo trovò. Continuò la ricerca lungo le stradine di Boneigilla e alla fine lo vide sotto un albero.

"Finalmente ti ho trovato", disse Costanza.

"Che cosa vuoi?", domandò Raoul con tono un po’ duro.

"Abbiamo bisogno di te", rispose più serenamente Costanza.

"Senti… , capisco che sei arrabbiato ma qui la gente ti ammira", aggiunse Costanza con un sincero sguardo d’ammirazione che catturò la sua attenzione.

"Continua…", disse Raoul in modo serafico.

"C’è un problema in mensa e con il tuo aiuto potremmo avere del cibo migliore".

"Non so in che modo?".

"Probabilmente saranno arrivate le guardie e la situazione potrebbe aggravarsi".

Poi aggiunse: "Tu sei la nostra guida!".

"Ma che dici?", disse Raoul schermendosi.

"Sì, è vero. Forse sarà il destino o se vuoi le circostanze, ma senza il tuo aiuto, quando eravamo imbarcati, le cose si sarebbero messe molto male per tutti noi…, tu ci hai salvato".

Raoul non rimase indifferente. Le parole di Costanza ebbero l’effetto voluto; dopo un attimo in silenzio, chiese: "Che cosa dovrei fare?".

"Quello che hai sempre fatto; parlerai con le guardie e soprattutto con i cuochi a nome di tutti noi".

"Tutto qui?".

"Sì, tutto qui".

"Va bene, allora andiamo".

Raoul ritornò in mensa e parlò con le guardie, in seguito anche con il portavoce dei cuochi. Fu trovato un accordo: per quel giorno avrebbero mangiato montone e nei giorni successivi avrebbero cercato di variare il menù. L’indomani si sparse la voce che i cuochi, in gran segreto, avevano cucinato per loro della pasta per fare una gradita sorpresa. Venne il momento della verità: ci fu un attimo di sbalordimento nel vedere quell’enorme pentolone di pasta cucinato per loro passare tra i tavoli. Gli Italiani si sedettero celermente e non si fecero pregare: affondarono le loro posate su un bel piatto di spaghetti con il sugo e rigirarono le loro forchette.

"Finalmente si mangia!", disse Salvatore portando la forchetta alla bocca; ma un istante dopo aver deglutito quel succulento boccone, sulla sua faccia apparve una smorfia di disappunto.

"Che cosa c’è?", chiese sua moglie.

"Assaggia!", disse Salvatore ancora con la bocca storta dal disgusto; poi aggiunse: "Mi riempirò la bocca di pane, così attenuerò il gusto.

"E’ tanto buona mamma", disse sua figlia annuendo anche con la testa.

"Davvero? Sono contenta; mangia tutto, mi raccomando", rispose Costanza a sua figlia.

Poi, anche Costanza assaggiò la pasta: "E’ disgustosa…, sembra…"

"E’ dolce!", sentenziò Raoul.

I cuochi, oltre al pomodoro, aggiunsero anche zucchero e miele per renderla più gradevole.

"Ma chi diavolo c’è in cucina?", chiese Salvatore.

"Forse dei pasticceri!", ribadì ridendo Costanza, poi guardando dritto Raoul negli occhi, disse: "Bisogna che qualcuno parli con i cuochi".

"Io non capisco niente di cucina", disse Raoul sentendosi chiamato in causa.

"Andremo insieme tu ed io", rispose Costanza.

"Mia moglie è molto brava in cucina", asserì con una nota di orgoglio Salvatore.

Al termine del pranzo Raoul chiese d’incontrare i cuochi: "Possiamo parlare con lo chef?". Costanza rise e attese con curiosità di vedere chi fosse il cuoco. Si presentarono due cuochi tedeschi e, con un po’ di difficoltà a causa delle differenze linguistiche, spiegarono che per loro la pasta era un piatto dolce e andava cucinata così: con pomodoro, basilico e miele. Ci volle un po’ per convincerli del contrario, ma alla fine, almeno in cucina, le cose decisamente migliorarono.

Passarono i giorni e il campo andò sfoltendosi. Alcune famiglie partirono per altre destinazioni; in altre, invece, partì soltanto il capofamiglia. La moglie, e soprattutto i bambini, rimasero nel campo dove poterono usufruire della scuola e di altri servizi.

Un giorno venne convocato anche Salvatore: "Lei lavorerà presso una fattoria per raccogliere la canna da zucchero".

Uscì dal colloquio un po’ frastornato e si diresse verso la sua abitazione.

"Allora? Cosa ti hanno detto?", chiese impazientemente sua moglie.

"Andrò lontano da qui".

"Perché hai detto andrò e non andremo?", chiese Costanza.

"Per il momento avrei deciso di andare da solo…, tu cosa ne pensi?".

"Non lo so…, io qua da sola?", chiese perplessa Costanza.

"Sì, è vero, ma sarà solo per un po’; e poi hanno iniziato il corso d’inglese…, è importante che nostra figlia impari l’inglese".

"Sì, lo so, ma ho paura di stare da sola".

"Se avrai bisogno di qualcosa potrai contare su Raoul, lui ci ha sempre aiutato".

"Raoul? Presto andrà via anche lui".

"No, non è così semplice; sembra che le autorità australiane abbiano paura di affrontarlo e probabilmente sarà l’ultimo ad andarsene".

"Lo temono?".

"Diciamo che hanno paura che se il posto non sarà di suo gradimento, quando arriverà a destinazione, possa fomentare qualche rivolta".

Vedendola titubante, Salvatore le prese la mano e disse: "Starò via solo per qualche settimana, poi torneremo insieme".

"Va bene, come decidi tu".

Venne il giorno della partenza.

"Si sono liberati degli alloggi, ne prenderemo uno", disse Raoul.

"Guarda che se vuoi rimanere ancora per qualche giorno…", disse Salvatore.

"No, preferisco trovare un posto tutto mio".

"Va bene, come vuoi tu". Raoul si allontanò, ma venne richiamato da Salvatore: "Vorrei chiederti un favore".

"Ti ascolto".

"In mia assenza puoi prenderti cura di mia moglie e di mia figlia?".

"Non ti preoccupare, farò il possibile".

Salvatore prese il suo bagaglio e partì per il nuovo lavoro, mentre la moglie e la figlia incominciarono a commuoversi.

"Sei tutta accaldata, figlia mia".

"Stava giocando", rispose Costanza.

"Sii ubbidiente…, ci vediamo presto, scriverò tutti i giorni", disse Salvatore a sua figlia.

Raoul attese che l’autobus si allontanasse e informò Costanza: "Dopo mi trasferisco, prenderò una baracca lì vicino".

"Grazie Raoul".

Raoul si trasferì in un capanno lì vicino, ma la stessa notte ricevette una visita: era Costanza che bussava alla sua porta. La porta si aprì e Raoul si presentò in mutande.

"Scusa se ti disturbo", disse Costanza.

"Scusami tu, vado a mettermi i pantaloni", rispose Raoul.

"Vedo…", rispose Costanza che iniziò a farfugliare qualcosa, ma Raoul non capì nulla di quello che stava dicendo perché rientrò nell’alloggio per indossare i pantaloni. Uscì nuovamente e poi chiese: "Stavi dicendo?".

"No, nulla…, ti ho chiamato se potevi venire a vedere mia figlia perché sta male".

"Male? Ma guarda che io non sono un medico".

"Avrei bisogno di un parere".

"Va bene, andiamo".

Raoul entrò nella sua stanza e si avvicinò alla bimba. Le mise una mano sulla fronte cercando di non svegliarla, ma lei aprì gli occhi e disse: "Ciao, zio Raoul".

"Ssshh, fai la nanna", rispose Raoul.

Poi fece cenno a Costanza di allontanarsi, per poter parlare con maggiore tranquillità. "Effettivamente è molto calda ", disse Raoul.

"Che faccio? Chiamo il medico?".

"No, vado io a chiamarlo, tu rimani qui".

Raoul uscì velocemente dalla casupola e si diresse verso l’infermeria. Era buio. Iniziò a bussare alla porta finché non si accese una luce. La porta si aprì e Raoul si trovò d’innanzi a sé una persona con i capelli tutti arruffati e gli occhi socchiusi dal sonno: "Che cosa volete?", chiese molto seccatamente.

"Lei è il medico?".

"No, sono un infermiere. Il medico è presente soltanto la mattina…, che cosa è successo?".

"C’è una bambina con la febbre molto alta".

"Capisco, ma io sono qui solo per i traumi, per queste cose dovete aspettare domani mattina". L’infermiere si stava per congedare chiudendo la porta, ma Raoul mise un piede per impedirgli di chiuderla e poi disse con tono minaccioso: "Ho detto che c’è una bambina con la febbre molto alta".

"Io non sono in grado d’intervenire", ripeté con tono più conciliante. E poi aggiunse: "Dovete pazientare".

"Pazientare? Voglio un medico oppure un farmaco per la febbre", disse Raoul con tono intimidatorio.

"Come avete detto che vi chiamate?".

"Non l’ho detto, comunque sono Raoul Rus…".

"Ah, Raoul…", disse l’infermiere interrompendo la presentazione. Raoul rimase un po’ sorpreso, ma la fama di fomentatore di rivolte si era ormai propagata per tutto il campo. L’infermiere non voleva guai e soprattutto desiderava tornarsene a dormire al più presto, pertanto gli propose: "Ti chiamo un’ambulanza, ti va bene?". 

"Benissimo, grazie".

Raoul ritornò da Costanza e insieme attesero l’arrivo dell’ambulanza.

"Hanno detto che ci vorrà circa una mezzora", disse Raoul.

"Mi fai compagnia nell’attesa che arrivi?", chiese Costanza.

"No, vado fuori ad aspettarla".

Costanza non voleva restare sola. Trovarsi in un paese straniero, senza conoscere la lingua e con una figlia ammalata, la faceva sentire inadeguata, e a malincuore, disse: "Va bene". Dopo un po’ arrivò l’ambulanza. Raoul fece cenno all’autista dove si trovava la bambina. Scesero due portantini e un medico e iniziarono quasi subito a confabulare tra loro. I tre membri dell’autoambulanza parlarono in libertà perché convinti che nessuno degli immigrati fosse in grado di capirli. Raoul, invece, carpì alcune parole e intuì che il campo era invaso da un’epidemia. Le mascherine che portavano sul volto e i guanti di gomma non facevano altro che avvalorare i suoi sospetti.

Il dottore visitò la piccola paziente: "Non vedo macchie né eritema".

Si trattava di un’epidemia di morbillo e i sanitari sospettavano che la bimba non fosse altro che l’ennesima paziente contagiata.

"Portiamola all’ospedale, poi vedremo", aggiunse il medico.

Anche Raoul e naturalmente Costanza salirono nell’ambulanza. Il viaggio fu breve. Venne visitata da un altro medico e tenuta a riposo nell’attesa che si sfebbrasse.

"E’ il padre?", chiese il medico a Raoul.

"No, sono un amico".

"La teniamo qui per qualche giorno; poi, appena starà meglio, la riporteremo nel campo".

I sanitari si guardarono bene nel riferire i loro sospetti, perché avevano ricevuto l’ordine di non dare nessun tipo d’informazione sulle condizioni sanitarie del campo profughi. Per le autorità, il pericolo di una rivolta era superiore a quello di una qualche tipo d’epidemia. I casi di morbillo venivano trattati singolarmente. Con molta discrezione arrivava un’ambulanza e portava via il paziente contagiato. Successivamente, il paziente veniva curato in ospedale e poi riportato al campo non appena le sue condizioni fossero migliorate. Anche in questo caso si comportarono nel modo analogo. Costanza trascorse alcuni giorni all’ospedale con la figlia. Dopo tre giorni fu riportata al campo: per i sanitari non si trattava di un caso di morbillo.

"Finalmente a casa!", disse Costanza.

"Dobbiamo andarcene da questo campo", disse Raoul.

"Da Salvatore?".

"Sì, ho chiesto di venire anch’io, faremo il viaggio insieme".

"Ne sei sicuro? Lì farai il mezzadro".

"Lo so, ma per il momento qui in Australia non c’è niente di meglio".

"Metto a letto la bambina…, non andare via!".

"Va bene, ti aspetto".

Raoul e Costanza si sedettero fuori, uno accanto all’altro, per poter parlare con tranquillità. Al dire il vero Raoul non aveva nessuna voglia di parlare, ma Costanza era molto inquieta e iniziò a piangere.

"Vedrai che tutto si sistemerà", disse Raoul per consolarla.

"Sì, grazie", rispose con un filo di voce. Costanza continuava a tenere la testa bassa e a singhiozzare. Raoul, vedendola in quello stato, le mise un braccio sulle spalle e la strinse a sé. Costanza si lasciò andare e appoggiò la sua testa sulla spalla di Raoul. Rimasero quasi per un minuto in silenzio, immobili, in quella posizione. Ad un tratto, con un filo di voce, lei disse: "Ho sbagliato a sposarlo!".

"Come dici?".

"No, niente…, qui la vita è così dura", disse Costanza alzando di scatto la testa.

"Sì, è vero".

"M’immaginavo differente l’Australia", disse Costanza.

"E come te la immaginavi?".

"Non so…, enormi distese verdi…, una fattoria…, una vita felice", rispose Costanza.

Raoul rimase un attimo in silenzio, poi disse: "Vedrai che presto ritornerai insieme a tuo marito".

"Sì…, mio marito", disse con tono poco convinto.

"Anche per lui è un grande sacrificio vivere lontano da voi", disse Raoul.

"Ne sono certa".

"Lo fa per dare un futuro a sua figlia", aggiunse Raoul con un certa intensità di voce che faceva trasparire tutto il suo orgoglio d’immigrato in cerca di fortuna.

A questo punto Costanza si girò di scatto verso Raoul e incrociò il suo sguardo. Fece un attimo di pausa, infine rivelò il suo grande segreto: "Non è sua figlia!".

Raoul rimase quasi stordito da una simile rivelazione e non replicò con alcuna domanda.

Fu Costanza a voler chiarire una simile affermazione; con tono mesto e sguardo basso, disse: "E’ il frutto di una relazione che ho avuto con un uomo sposato. Era un uomo ricco ed affermato, mi aveva promesso che avrebbe lasciato sua moglie per me. Quando scoprì che ero incinta, si spaventò e mi lasciò".

Poi, guardando nuovamente Raoul, disse: "Che stupida sono stata!".

"Non sei stupida…, l’amore ti fatto inciampare lungo il sentiero della vita".

"Ti chiederai di Salvatore?".

Raoul annuì con la testa.

"Avevo molti uomini che mi facevano la corte e Salvatore era uno di questi".

"Mi sono sempre chiesto che cosa facesse una donna così bella con uno come Salvatore", sentenziò Raoul.

"E’ una brava persona, onesta e mi adora. Quando venni a conoscenza che sarebbe partito per l’Australia, lo incoraggiai a corteggiarmi e alla fine mi chiese di sposarlo".

"E tu, naturalmente, accettasti?".

"Sì; pensai che partendo per un luogo così lontano avrei potuto ricominciare una nuova vita".

Raoul non attese altre spiegazioni e la fulminò con una domanda: "Lo ami?".

Costanza fece una piccola pausa e poi rispose: "No…, e poi…, ho conosciuto te!".

Costanza aveva dei bei capelli castani che le scendevano fino alle spalle. I dolci lineamenti del viso e gli occhi da cerbiatta la facevano apparire come un’innocente preda; in realtà, era una donna molto sicura di sé: "Non so cosa stai aspettando?", gli disse prendendogli la mano. Costanza aveva la stessa età di Raoul e si presentava innanzi a lui come un bicchiere di acqua fresca dopo aver camminato a lungo sotto il sole. Il gretto vestito che portava non mortificava il suo aspetto, anzi, lo esaltava. La timida scollatura che si apriva sul suo petto e la gonna che arrivava fino alle ginocchia, accesero ancor di più la curiosità di Raoul nel voler scoprire cosa si nascondesse sotto quella stoffa. Davanti a tanta bellezza, la moralità di un uomo iniziava a vacillare e Raoul non riuscì a resisterle. Liberò la mano che Costanza le teneva stretta e la infilò, con molta delicatezza, sotto la gonna di lei per accarezzarle l’interno della coscia. Lo sguardo di lui rimase fisso sul volto di Costanza, per poter seguire ogni smorfia del suo viso. Costanza ebbe un gemito di piacere nel sentire la calda mano di lui che continuava a salire senza sosta. A Raoul, invece, si rimescolò il sangue nel vedere Costanza sciogliersi come neve al sole e l’impazienza dei suoi vent’anni si manifestò nel modo più dirompente: s’avventò su di lei come un predatore, baciandola sul collo e sulla bocca.

"Non qui! ..., seguimi", disse Costanza prendendolo per mano.

Continuarono a baciarsi dentro la casupola. Raoul mise Costanza con le spalle al muro e chiese: "Che stiamo facendo?".

"Quello che avremmo dovuto sempre fare", rispose lei. 

Costanza si sfilò il vestito e prese Raoul per mano accompagnandolo a letto. Si sedette sul bordo e fece cenno a Raoul di sedersi accanto a lei. Raoul rimase come incantato guardandola, ma un breve colpo di tosse della bambina lo fece ritornare in sé: "C’è la bambina!".

"Basta che fare piano!". E poi aggiunse allargando le braccia: "Vieni!".

Raoul si tuffò su di lei e iniziò a baciarla: "Svestiti!", disse Costanza.

Raoul si tolse la camicia e iniziò a sfilarsi i pantaloni, ma la piccola riprese a tossire e a rigirarsi sul letto. Raoul si bloccò e disse: "Scusa, ma non riesco…".

"Basta fare piano!", ripeté Costanza sussurrando nel suo orecchio.

Raoul iniziò a rivestirsi e disse: "Non ho voglia di spiegartelo, ma con lei qui…".

Costanza prese Raoul per un braccio: "Dai, rimani qui…".

Egli si divincolò e quasi senza apparente motivo si arrabbiò: "Lasciami andare!".

Costanza rimase distesa sul letto, mentre Raoul, in solo tre passi, era già sulla soglia della casa. Davanti all’uscio si bloccò. Si girò, guardò la bambina e poi Costanza, e alla fine disse: "Scusami, ma non me la sento; forse un giorno ti spiegherò".

"Va bene, non ti preoccupare", rispose Costanza quasi con vergogna.

Raoul rincasò e si coricò a letto. Iniziò a ripensare al viaggio sulla nave, quando l’Australia era ancora un paradiso pieno di opportunità. Ad un tratto gli venne l’impulso di scrivere. Tirò fuori da un cassetto della carta e una penna e iniziò a scrivere una lunga lettera al suo amico Gino. Lo aveva promesso e intendeva mantenere la promessa di raccontare il suo viaggio. Nello scrivere, ripensò a quali fossero i veri motivi che lo spinsero ad abbandonare il paese. "Sono partito per l’Australia per cercar fortuna", pensò, "e invece mi ritrovo a vivere in una baracca e ad amoreggiare con una donna sposata".

"Non deve più succedere!", disse ad alta voce. E poi aggiunse: "Per il momento farò l’agricoltore, ma alla prima buona occasione…". Raoul non concluse la frase, ma giurò a se stesso che sarebbe diventato ricco.

L’indomani Costanza incontrò Raoul in mensa.

"Non mi hai aspettato?", chiese Costanza.

Raoul non rispose e continuò ad affondare il cucchiaio nella scodella del latte. Poi, ad un tratto, s’interruppe e rispose con un secco: "No!".

Costanza si sedette, ma non accanto a lui, come faceva di solito, bensì qualche posto più in là. Preparò con cura la colazione di sua figlia, sbriciolando del pane sulla tazza del latte e cacao; poi, gettò una gelida occhiata a Raoul che rispose con la stessa fredda intensità. L’imbarazzo di lei si unì alla ferrea volontà di lui di non ripetere l’errore commesso, e tra loro calò il silenzio. Entrambi fecero colazione tenendo lo sguardo fisso sul tavolo, ma ad un tratto la bambina ruppe l’incantesimo: "Lo sai che presto andrò a vivere col mio papà?".

Raoul non rispose, ma sorrise alla bambina.

"Perché mangi così lontano da noi?", chiese nuovamente la bambina.

Raoul si bloccò e guardò Costanza, ma lei non diede nessuna spiegazione. La bambina, nonostante l’età, interpretò nel modo corretto il loro gesto, e, infatti, chiese: "Hai litigato con la mia mamma?"; e poi aggiunse: "Perché non fate la pace?".

Raoul non volle deludere la bambina e si sedette accanto a lei; poi, guardando Costanza, sciolse il "voto del silenzio" e disse: "Sei riuscita a dormire?".

"Sì, anche se non mi sentivo bene".

"Deve essere questo posto…, ti fa fare cose impensabili", disse Raoul.

"Sì, deve essere così", rispose Costanza.

Raoul continuò a bere il suo latte, gettando lo sguardo a destra e a sinistra della sala, per non incrociare lo sguardo di lei. Costanza, invece, rimase a fissarlo, nell’intento di carpire qualche suo recondito pensiero. I suoi sentimenti non erano mutati. Costanza avrebbe voluto fargli solo una semplice ma non facile domanda: "Non provi nulla per me?". 

Ad un tratto i due sguardi s’incrociarono, ma, prima che uno dei due proferisse parola, la bambina fece un’altra impertinente domanda: "Avete fatto la pace?".

Costanza colse al volo la domanda di sua figlia e la rigirò a Raoul: "Siamo ancora amici?".

Raoul rimase un istante in silenzio; poi rispose a tutte le domande di Costanza: "Sì, rimaniamo solo amici".

La bambina sorrise, perché sua madre e "zio" Raoul finalmente si erano riappacificati.

Trascorsero alcuni giorni e finalmente partirono. Il viaggio non fu particolarmente lungo, durò solo alcune ore di treno. Arrivarono in uno sperduto villaggio del Nord. La famiglia di Salvatore finalmente si riunì e anche Raoul iniziò la sua avventura come mezzadro.

"Grazie per esserti preso cura della mia famiglia", disse Salvatore a Raoul.

Raoul gettò un ultimo sguardo a Costanza, più simile a un rimpianto che ad un commiato, e poi disse: "Dovere, amico".

Salvatore e la sua famiglia si sistemarono presso una nuova casa. Era modesta, ma Salvatore aveva già iniziato ad arredarla con cura e amore, nell’attesa che sua moglie e sua figlia lo raggiungessero. Anche Raoul si accasò lì vicino; era un appartamento molto simile a quello di Fiume: vuoto e disadorno. "E’ solo l’inizio", pensò per non deprimersi.

La vita di un raccoglitore di canna da zucchero, come lo erano Raoul e Salvatore, iniziava molto presto. Dopo un’abbondante colazione, si recavano nei campi, dove li attendeva un lavoro ripetitivo fino alla noia e pesante fino allo sfinimento. Per alleviare le difficili condizioni di lavoro, i proprietari dei campi pensarono a una serie d’iniziative per tenere la popolazione sotto controllo. Innanzitutto erano molto scrupolosi nell’osservare le leggi: i lavoratori ricevevano la paga settimanalmente e ogni domenica avevano diritto a un giorno di riposo. Inoltre, ingaggiarono, a loro spese, un insegnante d’inglese, per poter finalmente superare la barriera linguistica che divideva il datore di lavoro dall’operaio.

Per partire con il piede giusto, a tutte le nuove famiglie veniva regalata una borsa piena di generi alimentari, e, per tenere alto il morale, organizzavano delle sagre popolari.

Un sabato pomeriggio ebbero l’idea di organizzare una partita di pallone tra i lavoratori immigrati, prevalentemente italiani e una squadra di gente del posto. La partita si concluse con la netta vittoria degli immigrati e con gli Italiani portati in trionfo. La settimana seguente, quasi miracolosamente, ci fu un significativo incremento della produzione.

Di questa gigantesca farsa di pseudo buonismo, in cui il datore di lavoro era un amico e si prendeva cura del lavoratore, ci cascarono quasi tutti gli immigrati; solo Raoul, e altri pochi, ne rimasero immuni. A Raoul non interessavano le partite di calcio, le orchestrine per far ballare le mogli dei lavoratori o le gare di disegno tra i bambini. Era venuto in Australia per un altro scopo: diventare ricco.

Il salario che percepivano i lavoratori veniva impiegato nei modi più disparati. Oltre che per l’acquisto di generi di prima necessità, veniva anche utilizzato per l’acquisto di qualche "lusso". Ad esempio, Costanza e Salvatore iniziarono ad arredare la loro casa. Raoul, invece, acquistava solo vestiti, biglietti del treno e mappe di Melbourne. Arredare l’abitazione non era la sua priorità. Raoul e gli altri immigrati avevano stipulato un contratto con il governo australiano della durata di due anni, al termine dei quali sarebbero diventati padroni del proprio destino. E Raoul, con molta impazienza, si preparò con largo anticipo a quell’appuntamento. Ogni settimana progettava gite o, come lui le aveva ribattezzate, "l’esplorazione". Tutte le domeniche mattina si alzava con uno scopo preciso: partire alla ricerca di quelle opportunità che nessuno gli avrebbe mai concesso. Raoul trascorse così il primo anno in Australia: tra lavoro nei campi e gite interessate a Melbourne.

 

 

 

 

 

 ebook gratuito - www.lulu.com