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Raccolta di testi in prosa di Matteo Bona
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Traduzione del Don Chisciotte in Piemontese

DON CHISCIOTTE DLA MANCIA

 

Introdussion al

PRIM CAPÌTUL

 

CHE TRATA DLA CUNDISSIUN, DEL CARÀTER E DIJ ABITÜDIN DEL FAMUS NOBILOM DON CHISCIOTTE DLA MANCIA. 


 

 

Ant ün pais dla Mancia, che me vöj nen arcordémi cum sa ciama, viviva - che l’é nen tant temp fa - ün nobilom ’d cuj che han la lansa ant el cavié e ün véj scü, ün magher broc ed ün levrié da cassa. ’Na sieta ed quaicos, pi ’na vaca che ’n capon, tochetin ’d carn ant-la salada, ’l pi dle seire, frità ed piote el saba, lentije el vëner, ün poc ’d piviun per sürpì la dümìnica, lur esaurivo i tre quart ’d lur possediment. ’L rest ed lur avej terminavo ’l bel mantel archincà ’d castur, le braje ’d vlü per el dì dle feste, con ilj curispundent fanguse sempre ad vlü. Ant el di ant la smana - poi - piasiva vestesi ad cui paltò ’d lanagi, che i-sun tìpic dla Sardegna, tëssü dla pi bela manifatüra. Avìa ant-la ca ’na mamìa che süperava i quaranta agn e ’na anvuda che l’arivava nen ai vint agn, pi ün garsun pe’l mercà, che tant a l’era bravo a slé ün broc quant a dovré le tisoire dla potatüra. L’età del nobilom nost rasentava i sinquanta agn: (a)l’era energicament robüst, süit ant i müscuj, con el mustass sec, l’era propi tant ün matiné e l’era ün mecio dla cassa. Lur völo dì che chiel-lì aveissa el stranom ed Chiasciada o Chesada, sicume quant a lon a-l’é cheica diferensa fra ij autur che scrivo ’d chiel; cumben per quant pössa esse verosìmil le congetüre as lassa capì che ’s ciamava Chesciana. Ma son-sì ha nen importansa per la nossa storia: basta che, racuntand, as traspunuma nen dal ver. 

A-l’é - dunc - da savej che ’l ansidit nobilom, ant-ij moment d’ossi (che l’ero la magiur fëta dl’agn) dasìa a la letüra ’d-ij lìber ad cavalerìa con acsì tanta passiun ad ’smentié-si quasi cumpletament ’l svag dal cassa e ’l masent dla ca. E, a-l’é giunzü a tant - an son - a sua fëna e l’aberassiun che ’ vendìo tant ad cui cios per cumpré liber ’d cavalerìa ’d lese, quindi chiel portasne dré quant ’na podìa avej; ma - fra tüit - gnün aj parëssava acsì bel cum cuj che cumpunia Feliciano de Silva, perché la limpidëssa ’d cula sua prosa, e cuj sui discurs cuntort  ’d parëssavo ’na maravije, specialment quand arivava a lese cule proteste d’amur e cule létere ’d tensun. 

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La prefazione mancata

Non sono certo che Matteo Bona sia del tutto umano. 

Il che, di questi tempi, potrebbe essere un vantaggio.

Direi che, se lo portassimo a contatto con il monolito nero di 2001 – Odissea nello Spazio, entrerebbe in risonanza con esso. 

Posso visualizzare piuttosto nitidamente il lampo di luce e le vibrazioni sonore che ne scaturirebbero.

Non chiedetemi come trovare tale manufatto; non sono uno scienziato. Ma in quanto creatura dell'immaginazione, di un'immaginazione tanto forte da scolpirsi in modo indelebile nelle menti delle persone – partorito, non senza dolore, da mente di genio – sono certo che il Monolito esista da qualche parte, in qualche forma, vivo e vitale quanto e più di molti di noi. 

Neil Gaiman, di sicuro, approverebbe. E poiché, proprio nel momento in cui scrivo, da poche ore su un noto portale di streaming è disponibile anche per il pubblico italiano il pilota della serie tv American Gods – da un romanzo di Gaiman, inerente la persistenza delle divinità create da mente umana a prescindere, e in conflitto, con l'Umanità stessa – potrei vantarmi, quella stessa risonanza, di essere intento a cavalcarla proprio in questo momento.

È una questione di materia che si trasforma in energia, dopotutto. Materia, energia, e un temporale notturno che, (im)provvidamente, mi priva della connessione a Internet proprio nella mattina post-festiva in cui più avrei da lavorare. Così mi ritaglio il tempo di scrivere questa prefazione. Insieme, nell'angolo della mente, alla certezza che nessun comune essere umano possa scatenare cotanta sincronicità in unico accadimento. Se ancora vi domandate perché penso che il giovin Matteo non sia del tutto umano, ammettetelo: fin qui, eravate distratti.

La materia degli scritti dell'autore del libro che tenete tra le mani non mi ha colpito. Rovescio: mi ha non-colpito, per assenza di “massa”, cioè “peso”, ovverosia “pesantume” al di là della scelta di vocabolario senza dubbio barocca. Ma una corretta cronologia dei miei personali incontri ravvicinati con l'autore che state per leggere ora, è necessaria; quantomeno per (non) perdere il filo, e darmi modo di far sfoggio di particolareggiate conoscenze in tematiche risibili.

Per chi raccoglie e cataloga gli avvistamenti di oggetti volanti non identificati (UFO), l'incontro ravvicinato del primo tipo consiste nel notare strane luci, in lontananza. Quindi, nel mio caso, si tratterebbe della telefonata del direttore del giornale per cui lavoro, che mi chiese tempo fa di recensire il libro Anche la creazione muore – Oltre la poesia di Matteo Bona. Una raccolta di liriche e brevi testi, alcuni dei quali premiati da importanti riconoscimenti nazionali.

L'incontro ravvicinato di secondo tipo è stato con l'Opera medesima. Per quanto riguarda gli UFO, si cataloga in questo modo il reperimento di tracce fisiche lasciate dai suddetti oggetti volanti non identificati. Un esempio per tutti, i famigerati “cerchi nel grano”.

Dicono che chi si inoltra tra le spighe innaturalmente piegate, avverta una strana forma di energia, non ben definibile, sicuramente aliena.

A leggere la prima volta gli scritti di Matteo, avrei potuto essere colpito dalla materia. Termini aulici, attenzione certosina alla costruzione lirica, un occhio consapevole nel collocarsi nella grammatica canonizzata della poesia internazionale. Ma sono felice di essere stato non-colpito. E di aver saputo cogliere, al di là della materia, una notevole energia.

C'era la voluta cripticità di alcuni passaggi, la lingua arcaica, per selezionare a monte (Matteo dixit) i possibili destinatari. Ossa titaniche di dinosauri immensi ricoperte di polvere, faticose a prima vista, eppure con la sorprendente capacità di emanare piccoli bagliori nel buio. Infinitesimi segnali di vita da un catafalco affascinante quanto ostico, una costruzione monumentale, stoica, marmorea, difficile ma imprescindibile.

Se posso permettermi di esprimere un giudizio, sono felice che quella titanica magione fosse solo un punto di partenza. Si esce di casa, prima o poi, per osservare il mondo. E se c'è una cosa di cui sono ragionevolmente certo, è che Matteo sia, in queste stesse ore, in questi stessi minuti, impegnato a cercare. Meglio: rovistare.

Le opere contenute nel libro che state per leggere contengono la suddetta energia e vibrazione. 

Ma l'architetto si è fatto più abile, sa distinguere meglio i materiali da costruzione, comprende che la comunicazione è (anche) avvicinarsi al destinatario. Non è un obbligo; ma non provarci è tragico segno di immaturità creativa.

Matteo Bona, per fortuna, non è del tutto umano. E dopo questo libro andrà oltre, come gli auguriamo. C'è stato, se proprio siete curiosi, un incontro ravvicinato del terzo tipo, davanti a un caffè, in un bar. Quello che ho capito, e che l'autore di quest'opera crede fermamente, è che l'opera deve venire prima dell'autore.

In un tempo in cui la cultura insegue i personaggi, prima che le opere, ben venga un giovane poeta che, alla performance (interprete) preferisce la semplice creazione artistica (compositore). Persone più competenti di me dicono che la musica italiana ha perso smalto nel momento in cui tutti i cantanti hanno dovuto essere anche cant-autori; meglio, dunque, l'originaria distinzione tra i rispettivi ruoli.

Dell'incontro di persona tra l'autore di questa prefazione e l'autore del libro che state leggendo, perciò taccio con fermezza.

E lascio subito spazio alle sue parole.

 

 

Fulvio Gatti

 

Dall'opera "Il senso del nulla", ©Matteo Bona & ©Fulvio Gatti, ©Montedit Editore: prefazione non usata per l'opera.

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Un ritratto della sofferenza

Il malinteso della vita, per quanto essa possa essere concertata fra spazi immensi ed infinite emozioni, sempre ci schiaccerà: tutti la chiamano comunemente sofferenza; basterebbe un ritratto, una semplice palinodia, per dimostrare come ciò che si sente, come ciò che si compenetra momentaneamente con la nostra esistenza, sia un’effimera vanità, quasi una nullaggine estrema. L’idea d’allietarsi s’un lido, coricandosi sulla rena cocente, e con il caldo che lieto affiora dalle profondità della terra sino alla nostra pelle, è un momento, un misero istante: la bruma che risale i colli nel primo mattino e che, verso il meriggio vernale, si dirada per divenire una verzura tranquilla e lieta, circonfusa da piccoli fiori dei più dolci colori, è un gioco perverso della nostra mente. 

Ogni cosa segue un corso atrocemente stupendo ma la differenza che intercorre fra la vita, fra quella che s’intende come tale poiché vissuta, e la gioia d’essa è sostanziale: joie de vivre, no?

Una misera idea, un pensiero - anzi, un ripensamento -, ci deteriora sino all’estrema soglia dell’annullamento: la differenza, quindi, fra la prima e la seconda è esigua ed indistinguibile.

Non capiamo ancora che siamo tutti anime schiave d’un mondo che non percepiamo come nostro: si contempla il mistero della vita attraverso l’utilitarismo del possibile, come se la bramosia movesse le nostre stesse mani - come se non esistesse una volontà individuale e sincera - e ci spingesse verso quel limite invalicabile, quell’atto implume ma candido, dell’usurpazione eterna della vita stessa. 

 

©Matteo Bona, ogni violazione della proprietà intellettuale verrà perseguita legalmente.

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Il Sogno

Maledetta notte,

Notte infame

Lugubre sonno

In attimi

Comparso.

 

Così mi apparse quel buio straziante, nelle vicinanze del parco di Largo Baden Powell. 

Una strana sensazione di assenza, una fame incolmabile di vita, una morte che odorava di aprile.

Nel principio di ogni sogno sopraggiunge il buio, uno stramaledetto buio infame e senza fine. Una doppia sonnolenza, una strana sensazione di lontananza da una realtà ancora più lontana, imperfetta, verde e latte.

Un sonno eterno, un sogno di respiri condensati nelle prime ore della notte, che volano e precipitano.

Mi sopraggiunse il buio, come in ogni sogno, e vago a primavera vicino al parco di Largo Baden Powell: respiro e sono incosciente, volo e precipito.

Una voce secca mi stava chiamando, con toni di amore iracondo, come un sogno troppo poco materno.

«Vieni qua!», urlava.

«Vieni qua!».

Le gambe erano troppo corte, il mio sforzo minuscolo ed immane: avevo davanti una figura sfocata, precisa, dalla voce vaga e carezzevole.

«Dai, vieni, su!» disse con voce pacata e fredda.

«Non fartelo ripetere».

Ero troppo stanco, troppo piccolo, ero troppo.

Il sonno vicino al parco di Largo Baden Powell scomparve, lasciandomi uno strano gusto amaro, una sensazione di eternità infranta.

 

- una voce ridacchia nel dormiveglia -

 

Una voce ride fragorosamente - sono caduto ed ho un ginocchio sbucciato - e si lecca l’indice ed il dito medio.

Ho un ginocchio sbucciato e sono per terra, con della saliva e del sangue, sul ginocchio, vicino al parco di Largo Baden Powell. 

«Non devi correre», mi dice.

«Andiamo, dai: dobbiamo tornare a casa».

Il sogno di Largo Baden Powel: un sonno di una primavera, duro e doloroso; un pavimento di cemento, ruvido e polveroso.

Non mi sveglio a primavera, è inverno: piove e c’è vento.

 

Vorrei tornare nel parco vicino a Largo Baden Powell.

 

©Matteo Bona, Le Primavere di Marmo: Parte I ~ Pteroma.

Pubblicato sulla rivista Edizioni del Foglio Clandestino.

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Gli antichi fratelli

Nella mia infanzia ho avuto un’amica con cui passavo metà, se non più, dei miei pomeriggi. Mi capitava spesso di fermarmi a casa sua, anche durante le sue lezioni pomeridiane con un insegnante che le impartiva lezioni di Letteratura.

Più che Letteratura, alla sua età, leggeva novelle e poesie, di tanto in tanto le doveva studiare a memoria. I genitori della mia amica avevano grandi aspettative dalla figlia, siccome nella loro famiglia si erano susseguite generazioni di scrittori e giornalisti più o meno noti. 

Ogni volta che l’insegnante arrivava portava con se dei vecchi libri grigi, non troppo spessi, decorati con scritte che un tempo dovevano essere argentee. La mia amica prendeva il libro, apriva anche abbastanza volentieri le mani per afferrarlo, ma la sua attenzione restava chiusa, ristretta nella sua mente vicino alle bambole e ai giochi nella sabbia. Apriva il libro e leggeva né bene né male le parole che io ascoltavo, seduta poco lontana da lei nel giardino dove si svolgevano le lezioni nei mesi caldi o tiepidi. Mi dava l’impressione che avrebbe desiderato essere al mio posto: mentre leggeva aleggiava stentoreo un senso di fanciullesca gelosia, uno sguardo triste e malinconico, lontano dall’idea comune di felicità. Ogni tanto andava troppo veloce e con voce troppo bassa perché io riuscissi a capire che cose stesse dicendo, ma non durava molto; l’insegnante la riprendeva e la faceva iniziare la lettura da capo.

Andava avanti per circa un’ora la lezione e l’alunna sembrava prosciugata da tutte le forze, energie che fino a pochi minuti prima la aiutavano a correre e a giocare spensieratamente.

Al termine del lavoro uscivamo e tornavamo a giocare come prima, assieme agli altri ragazzi del quartiere.

Capitò quella volta che, giocando insieme a altri tre o quattro bambini nel cortile della mia amica, fosse arrivata l’ora della lezione. Mi ero fermata per l’ennesima volta nel mio angolo, continuando a giocare silenziosamente vicino a un altro ragazzo di poco più piccolo di me. Guardandolo sembrava incantato dalle parole che sentiva leggere dal maestro. Non l’avevamo mai visto a scuola, i grandi dicevano pure che non era stato registrato all’anagrafe e che era nato in casa, non all’ospedale come ogni buon cristiano di una famiglia che si rispetti. Lo si vedeva sempre per le strade del quartiere e ogni tanto capitava di incontrarlo in chiesa insieme ai nove o dieci fratelli, oramai nessuno teneva più il conto.

Era rimasto a bocca socchiusa mentre ascoltava il mito di “Eco e Narciso”, con occhi sgranati ed orecchie ben aperte. Ogni tanto, durante le pause della lettura, tirava un sospiro; sembrava quasi che fosse stato lui a leggere, non altri. Mi dimenticai di giocare guardandolo ma, poi, improvvisamente, la voce del maestro echeggiò furiosamente: «Che cosa hai da guardare, lurido moccioso? Stai ancora a mendicare per strada dalla mattina alla sera?».

Il bambino abbassò lo sguardo mentre le urla continuavano: «Si può sapere perché questa bestia non è stata portata ancora via? Imbarazza la signorina!». Non servirono altre parole; il ragazzo si alzò e corse via scalzo, così com’era entrato in cortile. 

Anni dopo mi allontanai dalla città della mia infanzia, ritornai anni dopo una volta conclusi gli studi. Sulla vecchia strada riconobbi quel bambino: ora suonava una violino scordato e mal tenuto, strimpellava accanto a quella che, un tempo, doveva essere la mia amica. Era rannicchiata per terra, la faccia sporca e le unghie nere, il viso che sembrava molto più vecchio di quel che era realmente; la sua famiglia doveva essere andata in rovina, forse uno o due anni dopo che persi completamente i contatti con la mia amica a causa del trasloco.

 

«Dì la favola di Eco e Narciso.» le chiese il suonatore.

«Non la ricordo.» rispose lei. 

 

 

©Matteo Bona, Pteroma delle Primavere di Marmo.

Ogni violazione del copyright verrà perseguita legalmente.

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L’inaspettato diario di Sarmatia ~ Episodio II

Giovedì 18 agosto 2016

Prima giornata nella città di San Pietroburgo. 

 

Il risveglio è stato traumatico. 

La sveglia di sicurezza, ovvero lo squillo assordante di un telefono, mi ha fatto sobbalzare: la vertigine del sonno non s’è dissolta sino al caffè. Questa brodaglia bruna, dal vago gusto di bacche tostaste e bollite, era abbastanza gradevole, ma nulla è comparabile alla sontuosa colazione continentale che ci è stata proposta. Tutto qui sembra più grande, anche se meno ricercato. 

Appena usciti dal hotel ci siamo ritrovati nel bel mezzo di una melancolia nordica: un cielo gridellino si muoveva sinuoso, come un pellegrinaggio silente e lontano, e grossi banchi di nubi scure si stagliavano minacciose sul porto della città. Il programma era stato canonicamente programmato: giro panoramico di San Pietroburgo, pranzo in un ristorante turistico e visita al Palazzo d’Inverno, con annesso Museo dell’Ermitage.

Semplice, no? 

S’è dimostrato l’esatto opposto: il nostro autista, Boris, ha caricato una marmaglia di anime ancora dormienti, sedate e stroncate dalle braccia di Morfeo. La città non si sveglia presto, anzi: appena alzato, dalla finestra panoramica che dà sulla Moskovskij Prospekt, ho notato che - nell’arco di circa quindici minuti suonati - sono passate circa una decina di macchine. Erano pressappoco le sette e mezza del mattino e mi ha stupito che una città da cinque milioni di abitanti s’adoperasse ad andare a lavorare con questo ritardo. 

Il fittissimo traffico pietroburghese, famoso per il suo frastuono di marmitte, nasce verso le 9 del mattino e si dissolve verso mezzanotte e mezza; ma la reale stranezza è come tutta questa grande macchina umana si muova nel più esistenziale dei silenzi. 

Nessuno parla, se non gli ubriachi della notte: tutti sono avvolti nel loro giubbotto anti-vento, chi con una ventiquattrore e chi con un ombrello. 

Solo rumori di macchine o di mezzi pubblici, ma nessuna parola: nemmeno alla fermata dell’autobus la gente chiacchiera, anche solo per tenersi compagnia. Tutti scompaiono nelle membra di questa città senza fine e tutti si dissolvono in silenzio, come se si fosse partecipi di una morte apparente. 

 

Appena partiti inizia a sentirsi la voce della guida della città, Tania, che inizia ad elencare - palazzo per palazzo - la storia di San Pietroburgo: è splendido sentirsi confermare che la sensazione storica che ebbi precedentemente era fondata! Da palazzi della nobiltà zarista in servizio presso la corte imperiale ad edifici imponenti dell’ex URSS, tutto si conferma: ogni pietra, ogni cortile o giardino ed ogni canale hanno da raccontare qualcosa e l’indissolubilità della bellezza si perpetua eterna in percezioni sensibilissime. 

Borghese e nobile, sociale ed operaia, ogni mattone è storia: nuda e cruda realtà passata!

Dal Corso di Mosca ci siamo diretti verso l’antica zona dell’industria marittima, superando i fiumi Fontanka e Moyka: oltrepassato il corso ci siamo immessi nella Gorokhovaya Ulitsa sino a giungere alla Nevskij Prospekt. Infine, superato il meraviglioso Neva, siamo giunti dalle Colonne Rostrate, un’evidente citazione della Roma antica, la quale - dopo le vittorie - era solita ornare le colonne trionfali con i rostri delle navi nemiche abbattute o catturare. 

Dirimpettaio delle colonne, di là dal fiume, v’è la romantica vista del Palazzo d’Inverno, con le sue colonne bianche e dorate su infiniti muri verde acqua. 

Il fiume scorre mansueto ed un vento freddo s’è alzato dal golfo, soffiando a raffiche intense ma intermittenti: banchi di nubi dense fanno largo a radure cobalto, lasciando passare a tratti il tiepido sole del nord. 

Dopo aver passeggiato per una quindicina di minuti circa per visitare la zona delle colonne, con il suo annesso sbocco pedonale sul fiume Neva, siamo ritornati sull’autobus per dirigerci all’Isola dei Conigli. 

Abbiamo superato il Museo Zoologico percorrendo la Birzhevaya ploschad’ per poi  imboccare il ponte Birzhevoy most, posto su uno dei principali rami del fiume: il Malaya Nevka. Tutto il paesaggio sembra una gigantesca panoramica senza tempo, ove si scorgono istanti differenti della medesima storia, e la suggestione creatasi diviene una realtà anomala ma interessante. L’unione di questi due antitetiche caratteristiche genera una conturbante aurea di mistero e di muta indifferenza: come? Mi chiedo. 

Superato il fiume imbocchiamo la Kronverskaya naberezhnaya e, superando uno stranissimo ponte interamente in legno, finalmente giungiamo nell’Isola dei Conigli. Lì ha sede la Fortezza di Pietro e Paolo: una forte di mattoni rossi cotti dalle mura titaniche, in alcuni punti spesse anche 24 metri. All’interno si trovano le tombe degli zar e delle zarine, compresa la cappella commemorative dell’ultima famiglia imperiale. 

Nicola II, la moglie, le targhe delle quattro figlie - compresa la figlia scomparsa Anastasia - ed infine il piccolo Alessio; la storia si scrive inconsapevolmente ed ogni gesto diviene un eco funesto, oscurato dalla nebbia del tempo trascorso. Persino il ricordo storico diviene confuso, soprattutto per noi occidentali: tutto pare obnubilato da una fitta foschia, come se fosse naturale la non conoscenza degli eventi. 

Ogni orizzonte di verità si tuffa nelle profondità del passato ed il confine fra realtà e diceria si assottiglia vertiginosamente. La chiesa che custodisce le spoglie imperiali è affacciata sulla Petropavlovskaya Krepos, una via ciottolata con grandi sassi lacustri di differenti tonalità di marrone. Davanti si colloca la vecchia Zecca di Stato, un grande palazzo color aragosta, strutturato sulle solite monolitiche colonne bianche. 

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L’inaspettato diario di Sarmatia ~ Episodio I

Mercoledì 17 agosto 2016,

Raggiunta la città di San Pietroburgo.

 

Il volo verso San Pietroburgo è stato uno dei più piacevoli in assoluto e l’arrivo all’aeroporto Pulkovo ci ha donato la radiosa apparsa del sole sopra le rive del Baltico. L’aria fresca era densa, come se fosse carica di un gelo lontano, e soffiava flebile dal cuore più profondo della Russia. Credo di non aver mai visto in vita mia tanta vastità e tanta regalità in un paese: le pianure immense, i campi coltivati, gerbidi interminabili e sconfinate foreste facevano da cornice alla sacrale capitale della cultura: tutto m’appare velato da una forma gentile di novità. 

Persone, suoni, odori e vocii accompagnano una terra sospesa fra il devoto e il rivoluzionario, come se due anime così contrastanti potessero convivere con tanta semplicità. Il pregiudizio occidentale, come vuole la tradizione, farebbe sì che soltanto una di queste sue prerogative prevalesse sulle altre ma, com’è ben noto a tutti, i Russi sono un popolo contemplativo: qualora si estirpasse una prerogativa di quesa unica, grande anima la lezione che settant’anni di Comunismo ha insegnato sarebbe resa vana! Vana, come buttare cenere al vento! 

Ogni cosa si fonde perfettamente in un sistema di conservazione ed innovazione perenni: il mondo dei misconosciuti, così mi piace chiamarlo!

Un paese pio, intimamente legato alla sacralità mistica della religione ortodossa e carico - tuttavia - di ideali sociali, fortemente impegnati in politica, quasi alla stregua dell’ostentazione d’una cultura in quel campo.

Un europeo non può capire, non può assolutamente comprendere. 

La disponibilità di questo paese supera il mero tentativo di riappacificare le antiche cicatrici nate fra il blocco occidentale e quello orientale, supera le barriere del pregiudizio politico-ideologico e cerca di abituare un popolo, che ha passato quasi un secolo sotto l’egida di una visione politica completamente differente, ad abitudini lontano dalla loro comprensione.  Le fratture del mondo continuano ad acuirsi per colpa della tracotanza e della slavofobia di cui l’intera Europa unita si fa portavoce.

La tristezza di un popolo non è descrivibile ma solo contemplabile; eppure questa città trasuda storia, come se fosse una sua intima rugiada ed ogni angolo, portone o via si carica di riverberi sfocati, come immagini già viste ma non assaporate doverosamente. 

Questa è la Russia: un paese emarginato, allontanato dalla conoscenza di noi integralisti europei. Ma non si scoraggiano, lottano! Questo è stato il loro credo per anni e anni. Lottare: indistintamente, senza sosta e - in alcuni casi - anche senza un reale perché

Questo è un mondo di uguali che si vuole introdurre nel mondo dei diversi (per eccellenza!). 

L’essere pio di questa città, come ho detto poc’anzi, si celebra in vie maestose: poco lontano dalla Nevskij Prospekt, proprio sul Kanal Griboedova, si trova la Chiesa del salvatore sul sangue versato: tutta questa sontuosità che diviene materia!

Sono contrario al significato dell’edificio ed al significato ch’essa stessa riverbera, tuttavia non si può negare la bellezza estetica: essa non ha partito o religione!

Non ha credo o pensiero! Tantomeno si può dire che sia semplicemente bella o che possieda una grazia differente. No: si può solo dire che è unica, soprattutto per le nostre “abitudini” estetiche. 

Posso affermare d’aver carpito solamente in parte la sua squisitezza. 

La notte, con le sue luci artificiali ed i suoi suoni umani, rende ogni atmosfera vissuta e condivisa con persone che mai più si rivedranno, e che forse mai rimpiangeremo di non aver conosciuto. Questo immenso edificio, con le tipiche cupole a cipolla, si spande con la luce e si accinge alla vista quasi inconsapevolmente, facendo capolino dal canale sul Prospekt. 

Ogni istante è nuovo in questo mondo: sembra quasi di rinascere e di scoprire cosa che già abbiamo conosciuto, ma sotto vesti differenti; nonostante ciò risulta paurosamente nuovo, sino al limite del sublime più romantico. 

Tutto qui risulta nuovo, non diverso. Una chiesa è sempre una chiesa proprio come un teatro è sempre un teatro: il bello è come il concetto sia stato interpretato. Bene, proprio da qui si può capire che il mondo si muove su direttrici differenti, che spesso non sanno comunicare. O forse non voglio farlo, per talune o talaltre motivazioni. 

Ciononostante il panorama risulta una meravigliosa miscellanea, una polveriera di curiosità pronta ad esplodere!

 

Per visitare San Pietroburgo non basta una sola vita poiché, per ogni metro fatto, ci si dovrebbe fermare e contemplare un cambiamento rinato, passo a passo, nella nostra mente. Una nuova prospettiva, una nuova luce, un nuovo clima, nuove persone... La semplice essenza dell’uomo e della sua ricerca: la curiosità più sincera si disvela e diviene conoscenza! Precisamente: la curiosità si disvela della fitta coltre di pregiudizi che anni di demagogia filoamericana ci hanno inculcato; essenzialmente un mucchio di inutili stronzate! Questo ci hanno portato i salvatori dell’Europa ferita dai drammi della II Guerra Mondiale. 

Un forte sentimento di orgoglio, specialmente nelle comunità latine, ha coadiuvato la nascita dell’Americanismo: la vicinanza intellettuale, per non dire il comune ideale per il proprio tornaconto, ha fatto sì che questo rigoglioso paese cadesse nella più tetra delle ere contemporanee. Prima ho detto che la sofferenza di un popolo si può solo contemplare, ora vi racconterò un aneddoto al fine di spiegare cosa intenda dire: eravamo appena entrati nella sala dove si serve la cena, all’interno del Holiday Inn. Dopo aver preso un paio di portate al buffet decidiamo di prendere una birra. Chiamiamo la cameriera che, con sguardo basso, si avvicina con passetti isterici, facendo svolazzare dietro di lei una fitta coda di capelli biondi. Facciamo per prendere l’ordinazione e colgo il suo sguardo: era insolitamente vacuo, come se qualcosa in lei non rispondesse veramente. Nulla vibrava in quelle pupille, nemmeno il più falso dei sentimenti, nemmeno la più bieca delle finzioni emotive. Certo, si può anche obiettare che noi latini siamo completamente agli antipodi, ma ciò che intendo dire non è qualcosa di superficialmente emozionale: è qualcosa di ben più profondo! È qualcosa che si slega dall’interpretazione di un’incazzatura o di una gioia. Parlo di ciò che un anima dice inconsapevolmente. Ho guardato molte persone, cercando di fare attenzione, cercando parimenti di essere il più obiettivo possibile: il risultato non è cambiato, anzi, in certe persone l’ho trovato ben più accentuato. 

Sembra che si portino con loro i dolori più antichi della loro nazione ed i dolori più moderni della nostra società. 

Sono rimasto stupito di ciò e tutto questo insieme di novità mi ha condotto in questa lunga riflessione, che ora si conclude nella notte fra i gocciolii della pioggia sulla mia finestra. 

Mi appoggio allo schienale della mia sedia e lascio che i pensieri si dileguino lentamente, sino a lasciarmi nel mio silenzio, aspettando che il giorno venturo faccia capolino dai confini lontani della città.

 

 

 

© Matteo Bona: ogni violazione della proprietà intellettuale verrà perseguita legalmente.

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Boredom and Gasps, or rather ~ As the man is sad

When the man merely attaches itself thought darkens as the fog expands in a barren field and how it is perpetuated on a frozen river freezes the mind and the soul dies in his last agonizing and sick spasm a fake euphoria and moving as the very essence of a man who died while his gaze turns into a dark and white light. Why kill the man loves his happiness in a look ugly as the vision of the divine fog kills the feeling of redemption of a poor man and moved in front of the vision of a bare tree of his clothes as best natural or hide under the leaves the loam and charge of the death of the natural essence? It is not known, but the man who observes the fog obscures the essence behind dichotomous blood and emotional nature or how best the essence of nature affect human happiness permeating mortally like a flowing river gives off moisture in the air man em- anates sadness and death in its essence because the spirit goes out in a frozen lake as the mist sublimated in its metamorphosis then the man is blinded in ver- nal freshness of spirit nascent but surely dying just the shape of the human es- sence or as happiness exists could die behind the feeble flow of a fog incipient and then life is apocatastasis of itself, the perpetual cycle animal symbiont that dies and rises behind the shape of the human humoral. The sadness of the fog is the division bell that could sound the death toll could alarm or the old-fashioned sense of resurrection that a sad soul craves and compassionate, a posthumous fragment of a spring off as a bare tree before a redundant river ice. The feeling that one feels in the face of death is the same that is contemplated in front of the fog or even better as the darker side of the moon where the diamonds of heaven and hell lie where the man is recognized when it is immersed in his empty lake wicked essence but full of cold but the fog is all or soul and essence of man in cold game of life rolls into the abyss.

Is subtle play between essence and absence.

“Shine on you crazy diamond” that in your life you are the fusion of game and perversion as the cold contains immanently life and death so the fog makes fun of all that in its fumes is the game of absence and essence man bows down to your feet giving life to the mere conception of a fleeting life that it is not viz of living the man exhales in its emotional essence becoming permeate from not feeling happy not to coexist with himself but then we are all a game of smoke or a voluptuous curl of smoke alive and expanding in our essence dead.

Hic vivere aut non vivere?

Oblivion is the birthplace of the fog as forgetfulness is the place where man ex- ists and there is not the essence of that eternal calm where although the man denies its essence and carnal as it buys natural pith but in the dark theater of the human unconsciousness the bitter sea of our words pervades the atmosphere and it hurts when you see that the mere curtain of fog in the eye drops by those who love us and I still remember when as a child I was immersed in the limo with his feet and felt the mist enter me remembering the feeling the damp cold of my body so my heels feel yield. So maybe it will be as fell the Death? 

 

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La miglior sembianza

Forse ho sempre avuto la necessità di avere un personaggio con cui nascondere la mia vera identità. 

Forse per vigliaccheria più che per timidezza, e mi rimprovero per ciò. 

Riconosco che le maschere abbiano un ascendente incredibile sulla mia persona, fisiche o metaforiche che siano.  

Ebbene, al fine di capirmi, credo che la forma di assoluta perfezione del nostro stesso ego risieda in qualcosa che ci è esterno, che ci rappresenta e che non ci appartiene parimenti. 

Una conformazione straniera, come un corpo estraneo che si poggia dolce sul viso, che si radica con fondamenta più forti del cemento. 

Quell’illusione concreta ci rende sicuri ed autorevoli, ci rende ciò che vorremmo essere: qualcosa che non siamo. 

Una sola parola: aspettativa

Ciò ci viene imposto, questo ci viene chiesto in quanto cittadini di un mondo che forse, almeno questo, non ci appartiene veramente. Esso appartiene alla totalità, spaziale e temporale, e non si ferma per le necessità di un misero mercante di tele di vita

Io sono in balia di qualcosa che posso portare, che indosso ogni giorno, ma che - per fortuiti ed inconcepibili avvenimenti - non sento veramente mio

Ma cosa diamine è veramente mio?

Parlare di proprietà di spirito mi sembra un sacrilegio unico, se non titanico. 

Ciò che mi appartiene è tutto ciò che non è già stato posseduto da altri, oppure ciò che altri non condividono per morale, etica o buon senso; forse è proprio quest’ultimo a tradire la libertà di cui la vita si dovrebbe vestire, ma credere che la visione comune sulla normalità non influenzi tragicamente la vita di tutti, e quindi anche la mia, sarebbe una stupidissima visione utopistica della realtà. 

Di per sé tutti questi vincoli sono nullaggini, piccolezze ironiche di una mente cinica, paragonate al sontuoso vincolo della vita: nessuna anima che ha marciato su questa terra, e ribadisco nessuna, s’è assolutamente sentita libera per l’intera sua vita. 

Sono una maschera indossata milioni e milioni di volte, e quindi non sono una mia maschera. 

Potessi strapparmi dal volto la pelle, sfigurarmi le carni, sfilacciarmi i muscoli che ricoprono le gote e l’intero viso, sradicare il mio naso sino alle radici ossee, se potessi  farmi uno scalpo sino a raschiare con la lama il cranio: cosa troverei? 

La maschera che veramente tutti indossiamo. La maschera di colei che ci accoglierà giunta la fine vera. 

Siamo tutti profeti di una religione che non ci ama. 

Ciò che gli altri si aspettano da me, quello che veramente anelano dalla mia persona, non posso espletarlo, poiché non sono io quello a cui interessa compiere ciò che mi viene posto innanzi: è la maschera. 

La persona sociale è una maschera della persona stessa nello stantio teatrino dell’esistenza; ma la vera persona, quella inconscia e sincera, non esiste veramente oppure, nella più cara delle ipotesi, è frammentata. 

Spezzettata in milioni di particelle emotive, o effettivamente carnose, che riassumono sprazzi di un individuo inconsapevole. Questi bozzetti divengono le uniche forme di esistenza, le uniche bellissime speranze: le motivazioni più valide per posare, anche se per pochi istanti, la maschera sul comò. 

Forse questo personaggio è un modo per comunicare al mondo che l’identità di ognuno di noi è tutelata da forme esterne di noi stessi, come se una rosa - infelice della propria fioritura - decida, proprio contro Natura, di trasmutarsi in un crisantemo, od in una peonia, od in un gelsomino. Come se le lussureggianti foreste tropicali divenissero troppo timide per compiere il loro arcano compito di polmone mondiale, decidendo così, secondo il volere e la necessità di terzi, di trasformarsi in carta. 

Questa tutela non è veramente sincera.

Io sono una maschera di me stesso, creata ad hoc per la paura dell’atroce aspettativa, generata per difendermi necessariamente contro natura dai miei consimili. Sono un gigantesco costrutto paradossale, un edificio appena edificato che rischia di crollare, il tempio dell’ipocrisia poggiante su esili colonne di polistirolo, tinte con la tenue vernice dell’incoerenza. 

Che sia forse un gioco ridicolmente malato? Che forse sia un pretesto per celare la codardia di tutti noi esseri umani? 

Forse è proprio l’unione di questi che ha creato la famigerata aspettativa; quel veleno maledetto che corrode le identità. 

O che forse sia la vera unica identità di un uomo? 

 

Proprio ciò che mi appartiene è ciò che non mi appartiene assolutamente: la mia immagine non sono io ed io, tuttavia e dinanzi a tutti, sono immagine. 

Un’idea per essere umanamente interpretata, non concepita, deve avere un mezzo con cui attuarsi, rendendosi  leggibile e decifrabile dal compilatore dell’intelletto.

Una forma, una sostanzialità, non può - se non in fortuitissimi casi - divenire idea. 

Parimenti io: se fossi immagine prima d’essere sostanza allora sarei una negazione della mia stessa identità, e diverrei un ludibrio della materia e della logica. 

Ciò che mi appongo è una pellicola umanizzante, una sorta di cellophane costituito da polimeri di incoerenza e di invidia, che - pian piano - si lega troppo vivamente a ciò che sono in verità; e mi trasmuto, dicendo ciò che penso di essere e non ciò che sono veramente. Mi convinco dell’idea della mia forma e non della forma della mia idea. Questa è la differenza assoluta fra essere ed apparire, fra non essere ed essere in forma; allora sono portatore di una voce roca, profondamente lontana, che risuona dalle arcane volte dell’Umanità che conservo in me e che si strozza sommessamente nel timore della propria stessa identità; proprio come un canto smorzato da una lama che recide la trachea del cantore.