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Raccolta di testi in prosa di Nilla Licciardo
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Cuore di scarpa

CUORE DI SCARPA

 

Osservando l’imponente guardaroba a quattro stagioni che occupava tutta la parete della stanza, nessuno avrebbe potuto sospettare che l’anta bassa verso la finestra fosse interamente occupata da una scarpiera. Aprendola ci si affacciava su un’intera collezione di scarpe da uomo, in prevalenza in stile inglese, disposte in bell’ordine e raggruppate per colore sulle bacchettine di metallo plastificato. 

La luce del giorno iniziava ad affievolirsi e le ombre dei fanali della strada, attraverso le tende, ricamavano sulle pareti strane sfumature.  Qualcuno aprì lo sportello e ripose un paio di scarpe color cuoio sul ripiano più alto, accanto a un altro paio di vernice nera.

Le due paia di scarpe si osservavano in silenzio, nella penombra dell’armadio.

«Bentornato Indiana Jones!» esordì la scarpa nera con un sorrisetto ironico.

«Salve, damerino! - rispose la scarpa color cuoio - Siamo un po’ acidi stasera?»

«Non gli badare - si intromise un mocassino di vitello blu con le nappine, dal ripiano di sotto - lo sai che è invidioso! Avrebbe voluto uscire lui stasera al posto tuo!»

«Ma cosa dici, nappetta, non sono invidioso di nessuno! Un modello derby esclusivo come il mio non si abbassa a tanto! Io sono superiore a tutti voi, qua dentro! Sono fatto coi migliori pellami in circolazione e la mia è una lavorazione raffinatissima! Arrivo direttamente da Londra, non dimenticartelo!»

«E intanto stasera sei rimasto a fare i funghi nell’armadio!» infierì il mocassino.

«Smettila bamboletta! Sono uscito ieri e sai bene che lui non ama indossare due volte di seguito la stessa scarpa! Io resto comunque la sua preferita, tienilo bene a mente!»

«Sì, va bene, principe di Galles...eh, quante arie! Ma allora, biondo, cosa ci racconti, com’è andata la serata? Qualche incontro interessante?»

La scarpa color cuoio respirò a fondo, allentandosi un po’ le stringhe.

«Direi proprio di sì… forse la più bella serata della mia vita! Un sacco di gente, uomini, donne, tutti seduti in cerchio: era facile osservarsi le scarpe a vicenda. Sentivo tanti occhi poggiati su di me. Poi hanno fatto un gioco e si sono seduti uno di fronte all’altro: con qualche scarpa ci siamo anche sfiorati, ma non sempre ne è valsa la pena. Poi, non ci crederete, a un certo punto è riuscito a farsi notare proprio grazie a me… gli hanno fatto un sacco di complimenti… gli hanno fatto intendere che apprezzano il suo stile, hanno perfino iniziato a fotografarmi. Mio Dio che emozione! Ero un po’ imbarazzato, comunque è stato magnifico!»

«Ma allora vuoi proprio farci morire di invidia, biondo, - aggiunse un modello inglese in pelle scamosciata tinta antracite - a me non è mai capitato nulla del genere! Come mai tanto successo?»

«Secondo me è stato un puro caso, poteva capitare a chiunque di noi» commentò uno stivaletto in stile country.

«Il clamore non è per forza successo, - chiosò la scarpa inglese di pelle nera – la volgarità spesso dà nell’occhio, ma il successo è un’altra cosa… il successo sono gli occhi di una donna che si posano su di te e ti osservano ammirati senza dire nulla… lo stile è discrezione.»

«Senti, senti, la mia non è volgarità, bello, è personalità! Ma poi cosa vorresti insinuare, che lui è un uomo volgare? Stai attento, sono gli stessi piedi che calzano anche te!»

«Non voglio dire che lui sia un tipo volgare, anzi, ma devi riconoscere che a volte ama strafare... e stasera era una di quelle volte. Avete visto la tinta dei calzoni che indossava?»

«Tu sei fissato collo stile classico, principino di Galles! – lo assalì la scarpa scamosciata - Lui può permettersi questo e altro, nel suo look nulla è lasciato al caso: ogni particolare, ogni dettaglio del suo abbigliamento è studiato con attenzione…»

«… e ad ogni mise sa adattare la scarpa giusta! -  aggiunse il mocassino con sussiego - Ad esempio quando indossa me adotta uno stile casual-chic, sportivo ma con classe.»

«Stasera infatti aveva optato per uno stile country inglese, - puntualizzò la scarpa color cuoio – e la tinta dei calzoni si adattava magnificamente a quella della camicia; il giubbotto di pelle faceva invece pendant perfetto con la mia tinta…»

«Ah, ah! Non vantarti troppo della tua tinta, biondo – commentò velenosa la scarpa nera - non sei che un volgare travestito! Sappiamo tutti qual era il tuo colore originario, e che lui ti ha fatto riverniciare…che vergogna! Io mi sarei sentito umiliato!»

«Cos’è questa storia? Io non so niente… perché, di che colore era?» s’informò lo stivaletto.

«Ah, giusto, tu sei arrivato dopo! Devi sapere che il nostro Indiana Jones…»

«Lascia stare, vipera, glielo racconto io… Effettivamente non ero di questo colore quand’ero sullo scaffale del negozio: ero di una tinta non comune, che richiede una forte personalità per essere indossata… ero verde oliva.»

«Ma va, non l’avrei mai detto!» concluse stupito lo stivaletto.

«Confesso che ero da parecchio tempo su quello scaffale: qualcuno entrava, mi prendeva in mano e mi rigirava con curiosità ammirando la mia fattura, la mia tinta originale, la perfezione dei miei particolari… ma nessuno aveva il coraggio nemmeno di provarmi. Già mi stavo scoraggiando quando un giorno si è fermato lui ad osservarmi al di là della vetrina, con uno sguardo deciso, affascinato. Mi sono sentito sciogliere dall’emozione. “Eccolo, ci siamo, - mi sono detto - è lui il mio padrone ideale, ha la sicurezza, l’eleganza giusta per indossarmi, per valorizzarmi”. Sudavo da tutti i pori, pregavo che entrasse e mi provasse, e alla fine le mie preghiere sono state esaudite!»

«Peccato che dopo due giorni ti abbia cambiato i connotati!» rincarò la scarpa inglese.

«Spiritoso! Se fosse stato per lui non l’avrebbe fatto, cosa credi? Voleva abbinarmi con un pullover in lana shetland che ha nel cassetto. È stata lei a metterlo in crisi: gli ha detto che col nuovo giubbotto di pelle sarebbe stata meglio un’altra scarpa. L’ha criticato, l’ha accusato di essere un eccentrico, un capriccioso … e alla fine lui si è convinto a cambiarmi di colore per abbinarmi al famoso giubbotto»

«Ah, le donne! - sospirò la scarpa scamosciata – croce e delizia del nostro padrone…»

«Eh, sì, … però la sua ultima fiamma è una donna di gran classe… - replicò la scarpa inglese - avete notato che decolletè eleganti, che polacchini affusolati certe sere vengono ospitate sullo scaffale accanto al mio? Non a caso in quelle sere sono sempre io ad assistere alla conquista…  e mentre loro sono impegnati nei loro tête-à-tête in soggiorno, io e quelle belle scarpine, qua dentro l’armadio, ce la intendiamo a perfezione…!»

«E certo, vuoi vedere adesso che è tutto merito tuo? Saresti tu la sua migliore arma di seduzione, adesso? Sei proprio la presunzione scarpificata!» sbuffò la scarpa color cuoio.

«Voglio solo dire che lo stile della scarpa che indossa influenza il tipo di donna che è attratta da lui… vi sembra una considerazione tanto assurda?»

«In effetti non è sbagliato, – confermò il mocassino – perché se consideriamo che io vengo per lo più indossato di giorno, mi capita spesso di accompagnarmi con scarpe da donna sportive, dal tacco basso.»

«Io sono invece una scarpa invernale e mi trovo a passeggiare insieme a stivali da donna anche molto eleganti, col tacco alto, - considerò la scarpa color antracite. – Ognuno di noi può dire la sua. Però qui c’è qualcuno che sta sempre zitto. Ehi tu, sportivone, non hai nulla da aggiungere? Com’è la tua scarpa da donna ideale?»

Si rivolse, storcendosi un po’, verso una sneaker bianca e celeste che se ne stava in silenzio in un angolo, sul ripiano più basso della scarpiera. Non veniva indossata da parecchie stagioni e se ne stava sempre sulle sue, senza dare confidenza a nessuno. Dopo qualche tentativo di approccio, le altre scarpe avevano finito per ignorarlo, giudicandolo un musone patologico.

«Non ho molto da dire, lo sapete, e le vostre chiacchiere stupide mi annoiano. Un tempo non ero così scontroso, avevo un altro carattere: ero un tipo solare e amavo stare all’aria aperta, correvo sui prati e nei parchi assieme a delle scarpe femminili fluorescenti. Lei era una donna spiritosa e frizzante, una ragazza acqua e sapone, e lui ne era innamorato, come io ero innamorato di quelle scarpe da running giallo sole. Poi qualcosa è successo, lei è sparita all’improvviso, senza un perché, e lui si è incupito, come me. Vedete anche voi che non esco mai e che qui non entrano più né sneaker né ballerine… anzi, mi sa che voi, che siete più giovani di me, non avete mai visto quel genere di scarpe, quel genere di donne… Cosa volete, lui ormai è cresciuto, ha cambiato stile, ha cambiato vita…»

«Ma se ha cambiato stile e vita, come dici tu, perché non si libera di te, dopo tanto tempo? Ne abbiamo viste, in questi anni, di scarpe mandate in pensione, infilate in quei brutti sacchi neri della spazzatura. Invece tu sei ancora qui, impolverato ma ancora qui. Vorrà pur dire qualcosa?» chiese la scarpa color cuoio.

«Chi lo sa, forse sì… Forse condividiamo una lontana nostalgia. Indietro non si torna, si sa, ma i bei ricordi non svaniscono, ce li teniamo stretti dentro al cuore… o dentro la scarpiera.»

 

11/11/2018

*

L’appuntamento

  L’APPUNTAMENTO

 

 

Era stata una bella giornata di fine estate. Una di quelle giornate luminose e perfette in cui i turisti a Venezia si ubriacano di luce e poesia, perdendosi per le calli ad ammirare i ponti, i palazzi e gli scorci dei canali. Alfonso smise di suonare, poggiò con cura il violoncello e si avvicinò alla finestra, buttando l’occhio sul campo sottostante. La sua casa dava su campo Santo Stefano, in una zona defilata dai circuiti turistici. Una comitiva di giapponesi in quel momento era ferma accanto al pozzo, e mentre una guida indicava qualcosa, tutti volgevano in giro la testa con aria estasiata, rimbalzando lo sguardo dai muri scrostati alle bifore eleganti dei palazzi.

Una coppia sedeva al tavolino del bar, con le mani intrecciate davanti ai bicchieri colmi di un liquido rossastro. Nonostante fosse astemio, Alfonso condivideva spesso con gli amici il rito dell’aperitivo. Si chiedeva se quel raptus disinibito, che prendeva i bevitori delle happy hours, che a un certo punto andavano sempre a pescare con le dita la fetta di arancia o l’oliva sul fondo del bicchiere fosse dovuto solo all’alcool

«Non suoni più, Alfi?». Si era affacciata sua madre dal corridoio.

«Tra un po’ esco, ho un appuntamento.»

 «Davvero? Sono felice per te! Cosa suonavi, Bach?»

«Sì, la Bourrée della terza Suite.»

«Suoni così bene, tesoro… non capisco perché non fai il solista in orchestra ogni tanto!»

«Facciamo sempre gli stessi brani per i turisti, mamma, le Stagioni e poco altro... non è il posto giusto per le Suite di Bach!»

«Forse, ma un bel concerto di Vivaldi, perché no?»

«Prima o poi lo farò…»

«Prima o poi, eh?» rispose, ironica.

 

Si diresse senza fretta verso Rio Marin. L’appuntamento era per le otto davanti alla stazione. Aveva il tempo per fare due passi in tutta tranquillità. La luce del sole era calata e l’aria cominciava a rinfrescare. Si stava proprio bene fuori. Sua madre l’aveva salutato con un sorrisetto ammiccante. Chissà cosa aveva pensato quando le aveva detto dell’appuntamento. Sperava sempre che prima o poi portasse una ragazza a casa. Povera donna, non si rassegnava all’idea di avere un figlio imbranato, poco tagliato per le questioni di cuore. Dopo essere rimasta vedova il suo desiderio più grande era vederlo sistemato. La sua ambizione inespressa di diventar nonna aleggiava tra loro come una triste chimera. Alfonso la osservava chiacchierare con qualche sua amica assediata da ciurme di ragazzini vocianti. La vedeva sospirare e coglieva nel suo sguardo rassegnato un muto rimprovero. Ciò lo addolorava, ma rimaneva comunque incapace di dominare il proprio destino. Sua madre si sarebbe meritata un figlio più coraggioso e determinato, non uno che come lui scantonava sempre per le strade secondarie della vita.

Chissà se avrebbe preferito uno come Niccolò.

Con Niccolò si conoscevano dagli anni del Conservatorio e un tempo erano stati molto amici, poi le loro strade si erano divise. Aveva fatto una carriera folgorante: lui era il brillante primo violino, il solista per eccellenza, l’istrione che il pubblico applaudiva fino al visibilio. Si incontravano ogni tanto, quando veniva ospite della sua orchestra, e in quelle occasioni, mentre aspettavano di uscire in scena, lo incalzava elencandogli le sue imprese. All’ultimo istante, mentre già prendevano posto tra gli applausi della gente, gli chiedeva distratto: «E tu…?» senza aspettarsi una risposta.

A volte si divertiva a prenderlo in giro:

«E allora, Alfonso, quand’è che tiri la testina fuori dal guscio? S’è fatto giorno… è ora di svegliarsi!».

A differenza della sua, la vita di Niccolò era una continua sovrabbondanza di occasioni e di opportunità di successo. Suonava in diverse orchestre con le quali girava il mondo; era stimato dalla critica, dal pubblico e dai colleghi. Nonostante i numerosi impegni era raro che rifiutasse un concerto. La fatica fisica non era una ragione sufficiente per rinunciare a una sola serata, al brivido del palco, all’inebriante euforia dell’esibizione. “La musica è la mia droga” diceva, scherzando. Ma Alfonso era convinto che, più che la musica, la sua droga fosse il successo. Ammirava la sua incredibile tecnica ma nelle sue esecuzioni c’era qualcosa che non lo convinceva. Era come un giocoliere che si allena sulla spiaggia, troppo concentrato nei suoi equilibrismi per accorgersi della magia del tramonto alle sue spalle.

Alfonso ripensava all’ultimo concerto in cui avevano suonato insieme, qualche settimana prima. L’aveva visto come al solito staccare l’archetto dalle corde con un guizzo sicuro, al termine di un’impetuosa cascata di suoni cristallini, eseguiti con una tale disinvoltura da lasciare tutti a bocca aperta. Le Stagioni di Vivaldi a tempo di record, poi altri bis a effetto lacrima, tra il delirio del pubblico che inneggiava al novello Paganini.

Alfonso osservava in disparte l’espressione di piacere assoluto stampata sul suo viso, avido di quell’overdose di successo. Era lui la star: gli altri musicisti avrebbero potuto sprofondare all’istante e né lui né il pubblico se ne sarebbero accorti. Le donne se lo mangiavano cogli occhi e scioglievano mascara e fondotinta in un‘esaltazione che rasentava l’isteria. Più montavano gli applausi più i numeri di Niccolò diventavano elettrizzanti e la sua aura si caricava di sensualità. Un altro bis e un’acme vertiginosa di scale e arpeggi che si arrampicavano velocissimi sui registri acuti, di suoni flautati e arditezze che non lasciavano scampo, finché esausto rientrava dietro le quinte. Approfittando della sua gloria, si divertiva spesso a giocare al gatto e al topo con qualche bella turista delle prime file, dispensando con sapienza sguardi assassini e sorrisi ammiccanti. In serate come quella la conquista era assicurata. Dopo aver riso e scambiato battutacce con gli amici in camerino, finalmente usciva in strada a scandagliare con sguardo vorace lo spiazzo antistante l’ingresso, alla ricerca della preda di turno, che quella sera era una biondina dai pomelli rossi per l’eccitazione, che lo aspettava timida in un angolo.

Gli amici l’avevano salutato con grasse risate allusive e i due si erano allontanati insieme.

 

Alfonso camminava assorto per le calli di Venezia. Quella sera era libero, per l’orchestra era giorno di riposo. Nel pomeriggio aveva ricevuto una telefonata di Niccolò.

«Ho bisogno di te, dovrei chiederti un piacere…»

«Se posso…» aveva risposto.

Era quasi arrivato alla stazione. Dall’alto del ponte degli Scalzi dominava la facciata barocca della chiesa e il piazzale moderno della stazione di Santa Lucia, sempre ingombro di passanti e turisti. Famigliole sedevano sulle pietre della riva con le gambe penzolanti sull’acqua, qualche bambino inseguiva i gabbiani. C’era un’atmosfera festosa. Gli occhi di quelli che arrivavano guardavano la cartolina veneziana al di là del canale registrando la loro prima impressione della città. Quelli che partivano si giravano a guardare lo stesso scorcio, nel tentativo di catturare un’ultima veduta nostalgica. Alfonso a volte li compativa perché erano costretti a lasciare Venezia, a volte invece li invidiava, perché la lasciavano giusto in tempo per non smascherarne la noia e la tristezza.

La ragazza era lì, seduta al bar, e si guardava in giro con impazienza. L’aveva riconosciuta dai lunghi capelli biondi e dalle gote rosse che risaltavano sulla pelle chiara del viso. Era proprio carina.

«Ciao, sono Alfonso.» Lei lo guardò senza capire.

«Sono un amico di Niccolò. Non poteva venire e ha mandato me. Gli dispiace non riuscire a salutarti … ma è stato chiamato all’ultimo momento per un concerto.»

Se sua madre avesse saputo a che tipo di appuntamento si stava recando quella sera, non si sarebbe fatta tante illusioni. Uno come lui che si accontenta di vivere ai margini dell’esistenza, riesce anche a nutrirsi degli scarti delle emozioni altrui.

«Esistono i telefoni…» rispose interdetta la ragazza. Lui sorrise imbarazzato.

«No, i conti non tornano, Alfonso. Me la sentivo che mi avrebbe scaricata, ma non avrei mai pensato che l’avrebbe fatto in modo così vigliacco!»

Lo guardava furibonda, quasi volesse prenderlo a schiaffi. Alfonso si sentiva a disagio e si diede dello stupido per aver acconsentito a quell’assurdo appuntamento.

«Devi dirmi qualcosa di lui! – lo incalzò lei, rabbiosa – Non può cavarsela così, capisci?»

I patti non erano certo quelli, ma quasi senza volerlo Alfonso iniziò a parlare. A poco a poco le spiegò chi era veramente Niccolò, di come era capace di vivere più realtà simultanee, riuscendo a imbastire con disinvoltura relazioni passeggere che lasciava sempre in sospeso. Le raccontò che in quel momento stava suonando in un'altra città, nella quale aveva anche una famiglia, e che tutto ciò era normale per lui. Sapeva di aver tradito la sua fiducia, ma la cosa non gli provocava il minimo rimorso. Per anni aveva avuto pena di tutte quelle sciocche ingenue che si facevano abbindolare da lui con tanta facilità.

Mentre parlava aveva visto emergere delusione e rabbia sul viso della biondina. Le lacrime le riempivano gli occhi ma si sforzava di ricacciarle indietro.

«Me la sono andata a cercare, sono proprio una stupida… - disse alla fine, sforzandosi di sorridere - ma la lezione mi è servita. Ti ringrazio per avermi aperto gli occhi, Alfonso. Come dice una canzone, Venezia è un inganno…»

«Venezia non c’entra, siamo noi a voler essere ingannati.»

La ragazza guardò l’orologio, erano quasi le nove.

«Il mio treno sta per partire, – disse, poi lo guardò negli occhi. - Mi ricordo di te, sei il violoncellista dell’orchestra. Vorrei aver conosciuto te al posto suo.»

Si interruppe, poi a voce più bassa.

«Ma forse non è troppo tardi… il prossimo mese devo tornare per motivi di studio.»

Scrisse velocemente un numero sullo scontrino del bar e glielo porse.

«Mi piacerebbe sentirti suonare, - aggiunse sorridendo – scommetto che sei proprio bravo!»

*

Maestro Ciro

MAESTRO CIRO

 

 

Ariana non riusciva a non guardare fuori dalla finestra. Sul ramo di un albero del cortile si era posato un merlo. Era il sesto merlo che vedeva quel giorno. Lo vedeva bene perché stava su un ramo che sporgeva proprio verso la scuola. La guardava con aria interrogativa e un po’ diffidente, col suo occhio tondo e il becco giallo. Anche tre passeri, due gazze e quattro piccioni si erano posati sull’albero quella mattina.

«Ariana stai attenta, non ti distrarre!» la richiamò la maestra, e si rivolse poi alla nuova insegnante di sostegno che le sedeva accanto.

«Quella bambina mi preoccupa, la vedo regredita, è come assente. Peccato, l’anno scorso aveva fatto tanti progressi con Ciro! Andava matta per la matematica, contava sempre tutto.»

Era la quinta volta che la maestra la richiamava ma non le importava. La scuola era iniziata da due settimane ma lei non aveva più voglia di andarci, dopo aver scoperto che non c’era più maestro Ciro. Il primo giorno l’aveva cercato a lungo per i corridoi, e dopo esser entrata in classe aveva ancora sperato fino all’ultimo che arrivasse, magari in ritardo.

Poi le avevano detto che non c’era più, che era stato trasferito. Non voleva crederci: se n’era andato senza salutarla, senza dirle niente, con la complicità di quell’interminabile estate calda. E pensare che aveva contato tutti i giorni che la separavano dall’inizio della scuola: uno, due, tre, … più di novanta!

 

Ciro le mancava, come avrebbe fatto adesso? Nessuno come lui sapeva farla ridere, farla sentire bella, brava… normale! Da piccola aveva avuto una leggera paralisi e trascinava un po’ la gamba sinistra. Tra un passo e l’altro non riusciva a contare allo stesso modo perché il piede sinistro ci metteva sempre il doppio del destro. Ma insieme a lui riusciva a dimenticarsi del suo problema.

Un giorno Ciro le aveva chiesto:

«Com’è che ti chiami Ariana con una enne sola? Dove sta l’altra?»

Un bambino antipatico si era intromesso:

«Non le manca solo una enne, le manca anche una rotella!».

Lei gli aveva raccontato che era moldava, che era arrivata in Italia da piccola con la madre e che non aveva mai conosciuto suo padre.

  Ciro era buono e simpatico, l’aiutava a fare i compiti e anche studiare era divertente con lui. Facevano la gara delle tabelline. Lei era velocissima, vinceva sempre e lui ogni volta esclamava: “Sei proprio un portento!”

Le aveva anche insegnato a cantare e a recitare. Le diceva che aveva una bellissima voce e l’aveva preparata per la recita finale, assegnandole una delle parti principali.

Lo spettacolo era stato un momento magico, indimenticabile. Faceva la parte della regina e tutti i genitori la guardavano, mentre seduta al centro della scena sorrideva felice, con una corona di cartone in testa e un vestito lungo e vaporoso che le nascondeva le gambe. Gli altri bambini le giravano attorno danzando, poi si sedevano mentre lei cominciava a cantare. L’avevano applaudita per trentasei secondi, li aveva contati tutti. Sua madre si era emozionata e si era soffiata il naso.

  Ciro aveva un sorriso ampio e caloroso, era robusto e solido come una quercia, aveva mani grandi e forti che sapevano essere delicate con i bambini. Era napoletano e parlava con un accento strano che la divertiva. Ariana sentiva un tuffo al cuore ogni volta che lo vedeva arrivare e voleva sempre abbracciarlo. Le sembrava di sciogliersi nel calore del suo corpo e si sentiva dentro uno strano rimescolamento mentre annusava il buon odore che avevano i suoi vestiti.

Dopo un po’ lui se la staccava da dosso e ridendo le diceva:

«A piccerì, sì proprio ‘na zecca!»

Quando aveva caldo e si toglieva il maglione, lei gli contava i bottoni della camicia: sette e due nove.

Ciro per lei era speciale, era bellissimo, anche se qualche suo compagno diceva che era un mostro perché aveva un occhio di vetro. All’inizio non sempre capiva dove stesse guardando ma poi si era abituata a riconoscere l’occhio giusto. In fondo cosa c’era di strano? Anche un personaggio dei cartoni animati aveva un occhio solo perché veniva da un altro pianeta.

Forse anche Ciro veniva da un altro pianeta. Diceva che era normale essere diversi, che in qualche modo siamo tutti diversi, che non sarebbe divertente essere tutti uguali, tutti con due occhi o con due gambe identiche.

Ariana aveva un sogno segreto che non aveva mai confidato a nessuno: da grande avrebbe voluto sposarlo. Non le importava se anche avesse avuto dei figli con un occhio solo.

Ma forse lui aveva capito che lei lo amava e proprio per questo se n’era andato, com’era successo a sua madre. Si ricordava bene quando la mamma aveva litigato col suo ultimo fidanzato. Dall’altra stanza li aveva sentiti urlare e si era tappata le orecchie, affannandosi a contare le piastrelle del pavimento. Poi lui era uscito sbattendo la porta e sua madre era rimasta a singhiozzare in cucina. Quando le si era avvicinata, abbracciandola le aveva detto:

«Non innamorarti mai di nessuno, Ariana, perché gli uomini sono fatti così: se li ami troppo ti abbandonano.» E così infatti era successo: Ciro se n’era andato perché lei lo amava.

 

Il suono della campanella. Era ricreazione, il momento più triste della giornata. Gli altri bambini si alzavano, correvano e giocavano mentre lei rimaneva seduta in un angolo.

Vide la maestra venirle incontro sorridendo:

«Ariana, indovina chi viene a trovarci oggi…»

Il suo sguardo corse impaziente verso la porta, da dove si affacciava un occhio che avrebbe riconosciuto tra mille. Era proprio lui, che le sorrideva aprendo le braccia per accoglierla.

Non ricordava di essere mai stata tanto veloce in vita sua. In tre secondi gli era saltata al collo e lo abbracciava forte, mentre il grumo di tristezza accumulato negli ultimi giorni si scioglieva in un fiume di lacrime.

«Uè, piccerì, che sò ‘sti lacrimoni! Mi stai bagnando tutta la camicia! Su, fammi un sorriso, hai visto che sono venuto a trovarti?»

«Perché te ne sei andato? È vero che ti hanno trasferito?»

«Sì, è vero, ma non mi rassegno, sai! Sto facendo di tutto per tornare, e forse ci riesco!  Guarda che non mi dimentico di te, non ti lascio sola…»

*

La gerla

 

La vita vince sempre, niente riesce a fermarla, nemmeno la guerra. Questo pensava Agnese, mentre con mosse esperte si accingeva a superare l’ultimo costone roccioso che la separava dall’accampamento militare, in cima al monte Lastroni. La primavera stava arrivando, la sentiva nell’aria, la annusava anche lassù, tra le cime ancora innevate.
Quel mattino, prima di incamminarsi verso il fronte con le altre portatrici, alla luce incerta della lanterna aveva scorto un croco, ben dritto sul suo stelo, sul prato ancora invaso dal ghiaccio. Si era fermata a guardarlo, mentre l’orizzonte iniziava ad arrossarsi dietro le creste del Chiadenis. Era il primo che vedeva quell’anno: anche tra la desolazione e la morte, tra la fatica e la miseria, la vita continuava a sbocciare. Quell’inverno del ’17 era stato lungo e terribile: il gelo e la neve avevano invaso ogni cosa, i campi, le strade, le trincee, le uniformi dei soldati e i cuori della gente. Ma sarebbe arrivata di nuovo la primavera, e con lei una nuova speranza.
Era spuntata da poco l’alba e insieme alle compagne si inerpicava sul sentiero che dalla piana di Sappada conduceva alla linea delle trincee. Conosceva quel percorso così bene che avrebbe potuto farlo a occhi chiusi, mettendo un piede dopo l’altro ora su una pietra, ora su una radice.
La gerla di vimini che aveva sulla schiena era colma di indumenti e uniformi asciutte da consegnare ai soldati; le altre donne portavano cibo, rotoli di filo spinato, attrezzi vari per riparare le trincee. Agnese, coi suoi sedici anni, era giovane e robusta e non si sottraeva alla fatica, a cui era avvezza fin da bambina. Il carico che aveva sulle spalle le pareva leggero, ma sapeva che avrebbe cominciato a pesare sempre più, man mano che si fosse avvicinata alla cima. Le donne si mettevano in cammino col buio, per evitare di esporsi ai cecchini nemici, sparsi tra le montagne, e il tratto iniziale era il più rischioso. A volte si affiancavano ai mulattieri, che tiravano le bestie oberate dai pesanti basti.
Da quando faceva la portatrice, Agnese si alzava ogni mattina alle cinque, falciava il foraggio nel prato dietro casa e aiutava sua madre ad accudire le bestie. Poi indossava la gonna più corta che aveva, vi avvolgeva sopra il grembiule, si annodava il fazzoletto sulla nuca e calzava gli zoccoli di legno sulle calze grosse. Aveva accettato quell’incarico con entusiasmo, orgogliosa di rendersi utile e di portare a casa una lira e mezza al mese, come un soldato. Suo padre poteva essere fiero di lei e smetterla di rimpiangere quel figlio maschio che non aveva mai avuto. Con lui al fronte, a casa erano rimaste tutte donne: lei, la madre, due sorelline piccole e la vecchia nonna.
Durante la salita ogni tanto il gruppo si fermava per fare una sosta. Margherita, la capo gruppo, dava la voce e tutte si raccoglievano dietro gli alberi, si sfilavano le gerle, si rifocillavano. Qualcuna tirava fuori il lavoro a maglia, qualcuna il rosario, qualcun’altra intonava una canzone. Poi si rimettevano in cammino, mentre il sole sorgeva alto rischiarando il profilo aspro dei monti alle loro spalle. Per arrivare all’accampamento ci volevano quasi tre ore e le capitava a volte di sentirsi sfinita. Avrebbe voluto riposarsi ancora, recuperare il fiato. Poi pensava ai soldati lassù al freddo e si faceva forza: la sua fatica non era niente in confronto alla sofferenza di quegli uomini, giorno e notte a combattere contro la neve e il gelo, nemici peggiori degli austriaci.
Ora pensava a quel soldato timido dagli occhi neri che le sorrideva sempre e che un giorno, con la sua parlata strana, le aveva raccontato del suo paese, giù al sud, dove fiorivano gli aranci in riva al mare. Che cosa assurda, trovarsi a combattere insieme a gente che veniva da tanto lontano contro un nemico che fino a ieri era amico e vicino di casa.
All’arrivo dei primi soldati, il maggio di due anni prima, qualcuno aveva creduto di trovarsi sul fronte nemico, perché a Sappada si parlava tedesco, ma si erano presto ricreduti, vedendo il patriottismo dei sappadini. Anche suo padre, emigrato in Germania, era rientrato in fretta per arruolarsi volontario tra gli alpini. Diceva che era una guerra giusta, che sarebbe durata poco e che tutti dovevano fare la loro parte per la salvezza del paese. Sua madre un giorno aveva ribattuto che non esistono guerre giuste e che per lei i soldati austriaci erano bravi ragazzi, tanto quanto i nostri, e
non aveva senso ammazzarsi tra fratelli. Agnese la pensava come sua madre e come la maggior parte dei suoi compaesani, che non avrebbero mai voluto entrare in guerra. Detestava certe sue compagne, che prima si trovavano sempre in canonica a parlare di pace e amore e poi si erano fatte imbottire la testa dagli interventisti. Adesso passavano ore a sferruzzare passamontagna e scapolari per i soldati, orgogliose di contribuire allo sforzo bellico.
Erano finalmente arrivate al fronte. Agnese posò la gerla e respirò a fondo, lasciando spaziare lo sguardo tutto intorno, sulla magnificenza delle vette che la circondavano. Di fronte a loro la roccia bianca del Peralba, il gigante alla cui perdita non ci si era ancora rassegnati, risplendeva al sole. Dalla sua sommità occhieggiavano minacciose le postazioni delle artiglierie nemiche, dominando la valle in ogni direzione. Ogni tanto il suo occhio era attirato dalla chiazza di un’insolita fenditura nella roccia. Durante l’ultimo anno di quella estenuante guerra di posizione i soldati avevano impiegato le loro energie a scavare caverne e cunicoli, che sarebbero serviti da riparo contro le intemperie o da ricovero per armi e munizioni. Agnese si chiedeva se anche gli austriaci, dall’altra parte del fronte, avessero fatto la stessa cosa. Dopo migliaia di anni, la crudeltà di quel conflitto sarebbe riuscita a lasciare ferite indelebili perfino sull’immobile sacralità della montagna.
Dopo aver consegnato il materiale ed essersi un po’ rianimate, erano state fatte chiamare dal capitano.
«Ragazze, oggi avete un triste incarico. Ci sono dei morti e dei feriti da accompagnare all’ospedale da campo.»
«Cos’è successo?» chiese Margherita, seria, le mani sui fianchi e la bella testa ricciuta, guardando dritto negli occhi il capitano. Aveva venticinque anni, era sicura di sé e salda e come una roccia e godeva di tutta l’ammirazione di Agnese.
«Un drappello stanotte ha tentato di avvicinarsi al Peralba, - rispose il capitano - ma sono stati travolti da una valanga. Abbiamo scavato per ore per recuperare i corpi.»
Dei fagotti grigioverdi giacevano sul bordo della trincea, legati alle barelle. Agnese gettò loro uno sguardo di compassione. Quando si avvicinò l’ora della partenza i morti vennero attaccati per primi ai muli, poi arrivarono i feriti, visi lividi e sofferenti che sbucavano dalle coperte. Le parve di riconoscerne uno; chissà se i suoi occhi neri sarebbero ancora riusciti a vedere gli aranci in riva al mare.
La primavera era passata, e anche l’estate era ormai un ricordo. L’ottobre aveva rivestito la valle delle calde sfumature dei larici, che macchiavano di giallo e di rosso le pendici dei monti.
Agnese si preparava a uscire, quando sentì qualcuno bussare con insistenza alla porta. Corse ad aprire: era Margherita, l’aria concitata, il respiro affannoso.
«Agnese, non saliamo al fronte più con le gerle! Il nemico ha sfondato a Caporetto, l’esercito è in ritirata!»
«Oh, mio Dio! E adesso?»
«Bisogna sgombrare, tutti scappano! Preparano i carri, caricano poche cose e partono con l’esercito. Gli austriaci stanno arrivando!»
Si era affacciata anche la madre, con le sorelline attaccate alla gonna. In strada era caos ovunque, bambini che piangevano, gente che si affannava di qua e di là trascinando animali e masserizie, soldati affaccendati a smontare tende e a trasportare armi e munizioni.
«Ma come si fa a partire così, abbandonando la propria casa in mano al nemico?»
«Partiamo anche noi, - rispose Margherita - dicono che è meglio non farsi trovare, sono feroci, si accaniscono sui civili, ... siamo in guerra Agnese. Faremo i profughi, che Dio ci assista... che protegga anche voi, addio!» e si allontanò svelta.
«Madre, che facciamo?» chiese Agnese, agitata.
«Resteremo. La nostra vita è qui: la casa, il podere, quei pochi animali che l’esercito ci ha lasciato. E poi, senza tuo padre e con la nonna malata, dove vuoi che andiamo?»
Agnese piangeva come una bambina tra le braccia della madre, e le sorelline spaventate le facevano eco. La donna cercava di tranquillizzarle.
«Calmatevi, cosa volete che ci succeda? Non ci faranno del male: i soldati austriaci non sono né più buoni né più cattivi dei nostri. Sono anche loro dei poveri ragazzi a cui hanno messo in mano un fucile. Se avessero potuto scegliere, nessuno di loro avrebbe voluto questa guerra, proprio come noi!»
Dopo qualche giorno erano arrivati. I soldati che si aggiravano ora per le strade di Sappada avevano uniformi diverse e una luce più dura negli occhi. Tra la gente rimasta in paese c’era un senso doloroso di paura e d’inquietudine. Le donne andavano ancora alla fontana a prendere l’acqua con le secchie appese allo zampdon, il bastone ricurvo in uso nel Comelico, ma non si fermavano più a chiacchierare. Se ne tornavano svelte a casa, anche se un proclama del comando austriaco intimava di lasciare la porta sempre aperta: i soldati dovevano poter entrare in qualsiasi momento, per controllare, reclamare cibo o requisire animali. Gli spacci e le rivendite alimentari allestite dall’esercito erano deserte, il cibo scarseggiava.
Agnese, camminando per la borgata, aveva visto un gruppo di soldati entrare in una cascina abbandonata dai profughi. Dalla porta aperta li aveva sentiti ridere mentre rompevano stoviglie e frugavano ovunque. Si era fermata a guardarli, chiedendosi perché si comportassero a quel modo. Misurava con disagio la propria incapacità di distinguere tra il concetto di uomo e quello di nemico. Quei due anni di guerra erano finora stati per lei e la sua gente una grande avventura anche umana. Nonostante la drammaticità degli eventi avevano compreso nel profondo cosa significava essere italiani. Si erano abituati al rispetto, alla tolleranza e alla compassione attraverso la convivenza con i soldati, tutti brava gente, figli, fratelli, padri lontani dalle proprie case, che avevano trovato in mezzo a loro un po’ di calore. Erano nate storie d‘amore con ragazze del paese. Anche una sua cugina, la Elda, si era fidanzata con un soldato abruzzese. Erano sorte belle amicizie tra gente che parlava dialetti diversi, ma che si trovava unita nella stessa avventura.
Ma cosa c’era di diverso adesso? Non erano forse tutti ugualmente uomini quei soldati, anche se portavano il berretto di un’altra foggia?
Camminando assorta per strada era quasi andata a sbattere contro un militare che arrivava in senso opposto. Lui l’aveva evitata prendendola per un braccio e aveva riso divertito, sotto i baffi biondi: «Stai attenta, ragazza!»
Si era divincolata, mentre lui le lanciava un’occhiata strana, vischiosa. Era scappata via vergognandosi, senza capire il perché. Non si era mai sentita così addosso lo sguardo di un uomo. Era convinta di essere brutta, così magra e asciutta, così diversa dalle donne dai fianchi morbidi raffigurate sulle cartoline che i soldati tenevano sotto il materasso. Si era girata a guardarlo e anche lui si era girato, per vedere dove si dirigeva.
Qualche giorno dopo stavano ancora mangiando quando avevano sentito avvicinarsi degli uomini. Un colpo sulla porta. Agnese era corsa ad aprire e si era trovata davanti un gruppo di soldati, tra cui un ufficiale dall’uniforme luccicante di mostrine. C’era anche il militare in cui si era imbattuta giorni prima. Si fece da parte e con gentilezza li invitò ad entrare, ma dal tono troppo alto della loro voce e dalle loro risate sguaiate si rese conto che non era una visita amichevole.
“Wein, Wein...”, chiedevano, ma dal puzzo del loro fiato, di vino dovevano averne già bevuto parecchio. «Kein Wein, nein, niente vino!» si intromise la madre, allarmata, notando gli sguardi che rivolgevano alla ragazza e i cenni di intesa. Risoluta, si precipitò sulla figlia e la spinse verso la porta strillando:
«Scappa Agnese, scappa!»
Agnese scappò, evitando una mano che tentava di afferrarla. Corse veloce come un capriolo, col cuore che le saltava in gola, udendo dietro di sé le urla della madre, le risa dei soldati, il pianto delle bambine che urlavano «Mamma, mamma!».
Girato l’angolo della casa entrò nella stalla e si rintanò in un angolo del fienile. Si trovò accanto la gerla, la capovolse e ci si infilò dentro, raggomitolata. Dopo qualche minuto sentì un calpestio, come di qualcuno che andava e veniva. Attraverso l’intreccio della gerla vide la porta che si apriva, il chiarore della luna nel cielo di novembre, una mano che reggeva una lampada e una debole luce che rischiarava ora il recinto delle mucche, ora il deposito del fieno. Provò il terrore dell’animale braccato e temette di essere tradita dal battito del proprio cuore. Si chiese come fosse possibile, solo per aver passato il valico, dimenticarsi di essere uomini. Trattenne il fiato e chiuse gli occhi, recitando un’Ave Maria, finché sentì la porta richiudersi. Rimase a lungo immobile, per un tempo che le sembrò infinito, fino a che il dolore alle gambe la costrinse a muoversi. Dalla gerla sbucarono fuori pian piano i suoi piedi, prima uno, poi l’altro, avvolti nelle scarpet di panno nero, su cui sua nonna aveva ricamato due stelle alpine.

 

 

Premio Letterario Il Giardino di Babuk - Proust en Italie, V edizione 2019, Opera prima classificata nella sezione B (Racconto breve inedito) ]