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Raccolta di testi in prosa di Fabrizio Rigante
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I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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La leggenda di Mosph

La leggenda di Mosph

di Fabrizio Rigante

 

1.

 

Jonathan Boerefijn non avrebbe mai potuto immaginare che il giorno della scomparsa della piccola Elke avrebbe segnato l’inizio di una nuova vita non solo per lui e per sua moglie ma per tutta l’umanità.

La piccola Elke, in una delle tante serate gelide che caratterizzavano l’inverno di Stór Björg, era uscita di casa per pattinare sul laghetto ghiacciato di poco distante dal villaggio. Jonathan la portava spesso lì, almeno da quando aveva compiuto i due anni, perché un bambino al di sotto di quell’età non avrebbe resistito a temperature così sotto lo zero. Le aveva da poco regalato dei pattini nuovi che desiderava così tanto, per questo, presa dall’euforia, non aveva fatto attenzione alla piccola crepa che si trovava proprio al centro del laghetto.

Elke era scivolata un paio di volte, prima di cadere proprio dentro il lago ghiacciato. E la cosa non era di certo gradevole: il corpo tende a immobilizzarsi, il sangue smette di circolare e la voce – oh, la voce non c’è più ma è come se qualcuno facesse un incantesimo e rendesse improvvisamente muto il malcapitato cascato nel lago. Era questo che Elke aveva provato, povera piccola – dicevano a Stór Björg – ma questo era colpa del padre, perché non era per niente responsabile mandare una bambina di soli dieci anni a pattinare da sola sul lago – con tutti i fatti che si sentivano in giro di chi si era perfino fratturato gli arti cadendo – per assistere la moglie nella preparazione di un grosso pesce. Proprio una follia! E Jonathan se lo sarebbe ripetuto tante volte, negli anni successivi. Se in un primo momento aveva pensato che quel grosso pesce fosse stato mandato dalle divinità per sfamarli, non per buona parte dell’inverno ma perlomeno per dargli qualcosa da mettere sotto i denti, dopo la morte della piccola Elke aveva maledetto quel grosso pesce e aveva deciso di rinunciare alla pesca per tentare altri lavori. Tutto questo non faceva altro che provocare l’ira di sua moglie Dagmar, che, per quanto fosse superstiziosa, in questi casi preferiva che Jonathan facesse delle cose concrete anziché aggrapparsi a vecchie idee legate alla fortuna o alla sfortuna.

Elke era stata ritrovata dallo stesso Jonathan un’ora e mezza dopo, quando Dagmar, preoccupata perché la piccola non era ancora tornata a casa per cena, aveva insistito affinché Jonathan uscisse a cercarla. Elke aveva le punte dei capelli ghiacciate e le labbra, un tempo così rosee, ora avevano perso il loro naturale colore ed erano talmente sbiadite da confondersi con il mento e con la parte superiore della bocca. Per quanto Elke fosse vestita con berretto, sciarpa, guanti e stivaloni da neve, l’acqua gelata le era entrata nella pelle e aveva bloccato immediatamente la circolazione sanguinea, provocando una morte per assideramento.

Tornato a casa con la piccola tra le braccia, mentre sua moglie era scoppiata in lacrime e cercava vanamente di risvegliarla, Jonathan si era seduto sulla sua poltrona preferita, in preda allo sconforto più totale, aveva lanciato un’occhiata a quel maledettissimo pesce catturato quel pomeriggio e aveva attribuito a se stesso tutta la colpa.

A mente fredda, e qualche giorno dopo aver dato l’ultimo saluto alla bambina, sotto gli sguardi affranti di tutto il villaggio, Jonathan era giunto alla convinzione che non c’entrava niente con la morte di Elke e che se era stato deciso che doveva morire, così doveva essere.

Quello, comunque, fu l’inverno più rigido che Jonathan avrebbe mai ricordato. Dagmar, qualche mese dopo la tragedia, gli aveva promesso di dare alla luce un altro figlio, ben cosciente, però, che non è possibile sostituire un figlio con un altro. Tuttavia, nonostante le promesse, Dagmar non era più riuscita a restare incinta. Al che aveva letto nella morte di Elke un segno degli dèi, che le avevano concesso quella sola possibilità, che lei l’aveva gettata al vento e che quindi avrebbe trascorso i suoi prossimi inverni, soprattutto quelli della vecchiaia, probabilmente da sola – visto che Jonathan era di dieci anni più grande di lei – e in totale tristezza.

La notte della morte di Elke era stata anche l’ultima volta che Jonathan era andato a pescare. Leggendo un segno di sciagura in quel pesce, si era convinto che tutti i pesci lo avrebbero danneggiato, per questo aveva aperto una bottega in cui offriva qualsiasi tipo di riparazione domestica (finestre, porte, tetti, caminetti eccetera.). Il problema era la distanza notevole da casa sua alla bottega e che quando l’inverno era rigido e la neve fioccava senza tregua per settimane, i cavalli rischiavano seriamente di morire di freddo durante il tragitto di ritorno, e se ciò fosse accaduto sul serio anche lui ci avrebbe rimesso la pelle. Quando invece faceva il pescatore questo non accadeva, perché erano i vicini ad andare da Jonathan per chiedergli di vendergli i pesci. Ma dopo l’incidente che aveva coinvolto la piccola Elke, i vicini, che a loro volta avevano due bambini, si erano decisi a lasciare la periferia del villaggio proprio per evitare che i marmocchi si abituassero a fare giochi pericolosi sul ghiaccio.

Così l’inverno era sempre più rigido e gli affari non andavano per niente bene. Per questo il primo giorno in cui la neve finalmente cessò Jonathan disse a sua moglie:

«Oggi vado a pescare. Andrò verso Alltaf Kalt.»

«Lo sai», rispose Dagmar, «che potrebbe ricominciare a nevicare da un momento all’altro. Non è il caso di correre un rischio simile.»

«Cara, ascoltami», le disse allora Jonathan. «Ha nevicato per un mese intero e oggi è uscito per la prima volta il sole dopo notti che sono sembrate lunghe un’eternità. Se domani riprenderà a nevicare può darsi che ci toccherà resistere con poche provviste per altri due mesi.»

Nonostante le continue insistenze di Dagmar a rinunciare, Jonathan aveva preso il carretto con i cavalli, aveva inforcato sciarpa, berretto e guanti di lana e verso la metà della mattinata era partito alla volta di Alltaf Kalt, promettendo a sua moglie di tornare in tempo per la cena. Chiudendo la porta di casa alle proprie spalle, Dagmar si era immaginata se stessa con i capelli grigi, seduta sulla poltrona a piangere la prematura scomparsa anche di suo marito, dopo quella già straziante di sua figlia.

Alltaf Kalt, nella lingua locale, significava non a caso “sempre freddo”. Jonathan, però, era convinto che sarebbe riuscito a portare a casa un discreto bottino nonostante le basse temperature. La sua barchetta, proprio quella con cui aveva pescato il pesce gigante la sera della morte di Elke, era ancora lì dove lui l’aveva lasciata. La neve l’aveva ricoperta, com’era prevedibile, per cui Jonathan dovette prima cospargervi del sale per sgombrarla. Il mare di Alltaf Kalt era una tavola piatta.

Jonathan assicurò il carro con i cavalli sotto alcuni pini, anch’essi tutti imbiancati, sperando di fare abbastanza presto da non doverli ritrovare morti assiderati. Si fece coraggio e iniziò a remare, cercando di mantenere la vista della riva alle sue spalle.

I suoi buoni propositi, ma soprattutto le sue buone previsioni, vennero meno quando il cielo si fece grigio e si addensò di nuvole. Pioggia in arrivo, pensò Jonathan. Ma niente di tutto ciò. Solo una fitta nebbia, talmente densa da impedirgli perfino di vedere la punta della barca. Si voltò: la riva era alle sue spalle o almeno di questo era convinto. Inforcò la bussola e sorrise tra sé, rassicurato.

Caricò la canna da pesca e gettò l’amo. Trascorse forse un quarto d’ora, forse tre quarti d’ora o forse addirittura due ore, ma sta di fatto che per quell’arco di tempo Jonathan non percepì nulla che sott’acqua fosse vivo. Quella maledettissima nebbia, inoltre, non gli permetteva nemmeno di capire se fosse ancora giorno o se la sera si stesse avvicinando. L’ultima cosa che voleva era far venire un colpo a sua moglie.

Così decise di tornare verso la riva, quando sentì qualcosa urtare la barca. Jonathan era in quel momento in piedi e, preso di soppiatto, aveva rischiato di fare un ruzzolone in acqua, esperienza tutt’altro che gradevole di quei tempi. Si voltò e vide che accanto alla sua barca ce n’era un’altra. Eppure non c’era nessuno a guidarla.

Jonathan ne osservò attentamente le caratteristiche: legno di pregevole fattura, molto resistente; interno con doppi scompartimenti per metterci i viveri ma soprattutto un mostro dal possente fisico, e con tanto di corna, scalfito sulla parte anteriore della barca.

Chiunque a Stór Björg avrebbe riconosciuto quell’incisione: era il demone Chernabog, che secondo le superstizioni popolari era il Signore degli Inferi, Colui che il Male generava e che al Male rispondeva. C’era solo un luogo in cui si sarebbe potuta fabbricare una barca simile: l’isola maledetta di U’athkal.

Jonathan ne aveva sentite talmente tante sul conto dell’isola di U’athkal che ormai si era convinto che chi raccontava quegli aneddoti facesse a gara con gli altri per costruire la storia più inverosimile. Qualcuno diceva che U’athkal era la sede del demonio in persona. Secondo altre versioni, invece, U’athkal era solo la sede degli adoratori del demonio; ma secondo altri ancora era il rifugio ideale per i fuorilegge, sicuri che le autorità non si sarebbero mai avventurate nel mare di Alltaf Kalt. Jonathan aveva sentito dire persino che gli abitanti di U’athkal erano cannibali e che il loro piatto preferito era la carne fresca di neonato.

Storie davvero inverosimili, si era detto tante volte. E tante volte gli era stato descritto il totem adorato dagli sciagurati che in quel luogo maledetto avevano messo dimora. Quel totem raffigurava proprio Chernabog e quella barca proveniva senza alcun dubbio da U’athkal. Ma quando Jonathan decise di esplorare quella misteriosa barca appena arrivata, facendo molta attenzione a non far allontanare troppo la propria, si accorse che essa custodiva una coperta, che a sua volta avvolgeva un neonato profondamente addormentato (Jonathan si chiese subito come potesse essere ancora vivo).

Decise di raccogliere la coperta e il bebè ivi avvolto. Questi aprì gli occhi ed emise un vagito. Jonathan decise di sorridergli, al che il piccolo iniziò a muovere le manine in segno di felicità.

Il resto è facile da immaginare.

Ma non è altrettanto facile immaginare la reazione di Dagmar allorché vide suo marito, di ritorno in tarda serata – altro che cena! – non soltanto senza un solo pesce ma con un fagotto in cui era avvolto un bambino trovato in una barca maledetta!

«Non possiamo tenerlo, Jonathan!», gli disse Dagmar. Ma Jonathan non le dava ascolto e si stava prodigando per riscaldare del latte al piccolo. «Mi ascolti?», ripeté la donna. «Ho detto che è una follia tenerlo, soprattutto se consideri che l’hai trovato in una barca…»

«Tesoro, ascoltami», disse finalmente Jonathan dopo aver versato il latte in un biberon e averlo dato al bambino, «questo è un segno degli dèi che ci stanno concedendo una seconda occasione! Non possiamo rinunciarci, non adesso…»

«Non adesso? Ma che vuoi dire, scusami? A stento abbiamo le risorse per sfamare due bocche e vorresti tenere con te un bambino figlio di chissà quale mostruoso accoppiamento!»

«Le cose miglioreranno, cara, te lo prometto.»

«Oh, tu prometti sempre un sacco di cose che non sai mantenere! Non è questo il momento giusto per crescere un figlio, peraltro un bambino appena nato!»

«Ma se fosse stato nostro figlio…»

«Lascia perdere, ti prego… Lui non è nostro figlio…»

«E allora che cosa proponi di fare, eh? Vorresti che lo riportassi in mare, che mi macchiassi di infanticidio? Ho già sulla… ho già sulla coscienza una vita innocente e non ho alcuna intenzione di aggiungerne un’altra…»

Dagmar tacque e sostenne lo sguardo di Jonathan. Poi scoppiò in lacrime.

«Scusami, cara, non volevo…»

«Non… no, è che…»

«Lo so a che cosa pensi: che questo sia un modo per colmare il vuoto che ha lasciato Elke. Io penso invece che sia l’opportunità per cambiare le nostre sorti. E poi il giovanotto sembra già un maschietto arzillo e quando cresce può esserci utile a spalare la neve quando arriva l’inverno…»

«Sì, ma… e se qualcuno venisse a rivendicarlo? Non sappiamo nemmeno chi sono i suoi genitori…»

«Siamo noi i suoi genitori, mia cara. Siamo noi due.»

 

 

2.

 

Il piccolo Adam crebbe in fretta. Gli inverni continuarono a essere molto rigidi ma Jonathan non ebbe mai problemi a mettere da parte un’abbondante scorta di pesce durante la stagione estiva. Adesso, oltretutto, poteva godere dell’aiuto di Adam, che gli faceva da assistente.

Già da quando compié i sette anni Adam accompagnava suo padre al lago – di certo non quand’era ghiacciato, visto che Jonathan temeva che la storia si ripetesse – e lo aiutava a pescare i pesci più grossi che ci fossero. Gli passava la canna, agganciava l’esca all’amo e stordiva i pesci quando, usciti dall’acqua, si dimenavano di qua e di là schizzandoli dappertutto. Adam rideva per gli spasmodici movimenti dei pesci e Jonathan faceva altrettanto, ma preferiva portarli a casa morti, altrimenti Dagmar si sarebbe dispiaciuta lei stessa di ucciderli e sarebbe stata capace addirittura di riportarli in acqua.

Adam raggiunse i dieci anni che era un ragazzino vivace e spiritoso. Fu progressivamente che Jonathan e Dagmar notarono i segni di un’inquietante stranezza.

Un primo episodio riguardò Dagmar, che scovò in una scatola della stanza di Adam un mucchio di lucertole morte. Morte e vivisezionate, tagliuzzate e imbottigliate in alcuni barattoli, come dei soprammobili. Ma soprammobili non lo erano, per cui Dagmar domandò subito ad Adam spiegazioni. Adam le rispose che le lucertole lo incuriosivano e che, volendole osservare mentre si decomponevano, aveva deciso di conservarne i corpi.

Quando Dagmar riferì l’episodio a Jonathan, questi minimizzò, tendendo a difendere Adam a ogni costo.

Eppure fu proprio Jonathan, l’inverno seguente, a trovare Adam immerso completamente nel laghetto ghiacciato dove la piccola Elke era morta.

Jonathan lo stava cercando perché in quegli ultimi giorni avevano sentito, soprattutto di notte, gli ululati di alcuni lupi, emigrati in quelle regioni in cerca del clima ideale, e si era preoccupato perché era già arrivata la sera e Adam non era ancora rincasato. Così anche lui, come era successo a Dagmar anni prima, aveva visto se stesso piangere la morte del secondo figlio, e – ironia del caso – per circostanze analoghe a quelle in cui era morta la primogenita. Aveva fatto in tempo e l’aveva finalmente trovato. Ma non era riuscito a trattenere un moto di stupore quando l’aveva visto uscire dal lago ghiacciato – era stato Adam stesso a rompere lo strato gelato (Jonathan si era accorto che il bambino aveva uno dei coltelli che utilizzavano per la caccia, oltre che, a volte, per scuoiare i pesci) e a infilarsi lì dentro. E poi, quando era emerso da quelle acque gelide e mortali, non aveva battuto i denti una sola volta, come se la sua temperatura corporea fosse rimasta quella di sempre e non fosse improvvisamente scesa sotto lo zero.

Tornati a casa, Jonathan gli chiese spiegazioni.

«Ho trovato questo», disse Adam, e tra le sue mani Jonathan vide (ma lo vide anche Dagmar, che assisteva intanto alla scena dalla cucina) il fermacapelli di Elke, perso in quella notte fatale e mai più ritrovato.

Adam aggiunse: «È stata Elke a chiedermi di portarglielo.»

«Che cosa… che cosa hai detto?» domandò Jonathan incredulo.

«Ho detto che me l’ha chiesto Elke», ripeté Adam in tutta tranquillità.

Ci furono dieci drammatici secondi di silenzio. Al che Jonathan, con la voce mozzata dall’emozione, disse: «Per favore, Adam, vai in camera tua. Devo parlare con tua madre.»

Il bambino si alzò dalla poltrona senza battere ciglio e, ancora con il fermacapelli tra le mani, si chiuse nella sua cameretta.

Jonathan attese un minuto abbondante prima di parlare, sicuro che Adam non potesse sentirli.

«Gliene hai parlato tu, Dagmar?»

«Jonathan, ma che stai dicendo? Perché mai avrei dovuto…?»

«Perché io non gliene ho mai parlato o… o forse… o forse l’ho nominata nel sonno e lui mi ha sentito ma come… come è possibile che sappia di lei

«Ascolta, caro, può essere che qualcuno nel villaggio glielo abbia raccontato e gli abbia detto che prima di lui c’era una sorellina che è morta in un incidente e che…»

«Ma no, ma no! L’episodio risale a dieci anni fa! Dieci anni fa! Chi vuoi che ne parli più ormai e chi vuoi che gli dica di proposito una cosa del genere! Oltretutto al villaggio forse pensano che lui già sappia tutto, che gliel’abbiamo detto noi e che…»

«Non c’è altra spiegazione. Deve averlo saputo da qualcuno se né tu né io ne abbiamo mai parlato in sua presenza…»

«Ma neanche quando lui non c’era ne abbiamo mai parlato…»

«Appunto. Da quando Adam è qui non abbiamo più pronunciato nemmeno il nome di lei. Nemmeno una volta.»

Jonathan tacque e pensò al modo in cui la comparsa di Adam e la sua repentina crescita e la gioia che aveva provato per avere avuto un secondo figlio gli avesse fatto dimenticare il dolore del lutto. Erano anni che non andava a trovare la piccola Elke al cimitero. Non ci andava più da quando c’era lui.

«Gli parlerò io», disse allora, risoluto. «È come dici tu: l’ha sentito da qualcuno.»

«Jonathan, non…»

«No, cara, non voglio che il bambino sia scosso da fatti che tutti, noi per primi, abbiamo sepolto. Il passato va dimenticato, non dissotterrato. Questi sono fatti che riguardano la nostra famiglia e non trovo giusto che altri ficchino il naso in affari così privati.»

«Ma cosa speri di ottenere? Cosa speri di fare, se anche ti dicesse da chi l’ha saputo?»

«A questo ci penserò in un secondo momento. Ora scusami, cara, ma voglio parlare con mio figlio.»

Detto ciò, Jonathan si congedò da una sempre più perplessa Dagmar e si avvicinò alla cameretta di Adam. Ma mentre stava per aprire la porta, udì la voce del bambino proveniente dall’interno. Jonathan rimase in ascolto, cercando di afferrare la conversazione o il monologo (anche se spesso Adam faceva alcune pause, il che gli diede da pensare che stesse parlando con qualcuno).

Quando sentì Adam dire «È qui fuori che ascolta», fu allora che Jonathan si decise a entrare.

Adam era seduto sul letto, da solo. Nella stanza non c’era nessun altro.

«Con chi stavi parlando?», gli chiese subito Jonathan.

«Con nessuno.»

«Non dire le bugie, ti ho sentito…»

«Origliavi alla porta, allora…»

«Non fare finta di niente, per favore.» Jonathan si sedette sul letto, accanto al bambino. «Non me lo vuoi proprio dire con chi stavi parlando?»

Adam sospirò, un po’ seccato. «Dai, papà, se te lo dico dirai che sono pazzo!»

«Non te lo dirò, promesso.»

«Stavo parlando con Elke», disse Adam. «Sai, è molto dispiaciuta perché dice che non vai mai a trovarla al cimitero.»

«Adam, ascoltami bene», e Jonathan gli mise entrambe le mani sulle spalle. «Quel nome… sì, insomma… da chi l’hai sentito, chi ti ha parlato di Elke?»

«Nessuno, papà. Vuoi che non sappia chi è mia sorella? Dorme con me tutte le sere. Si mette proprio lì su quella sedia», e indicò una sedia a dondolo su cui c’era una bambola sorridente con in mano un orsetto dalla cui testa usciva un po’ di paglia.

Jonathan l’afferrò subito e indicandola ad Adam disse: «Dove… dove hai preso questa bambola? Chi te l’ha data?»

«Ma… papà, l’ha presa Elke dal bauletto su in soffitta, dove ci sono tutte le sue cose. È dispiaciuta anche per questo, perché dice che non ha più i suoi giocattoli e allora si sente molto sola…»

«Ora basta! Non…», e provato dall’emozione Jonathan uscì dalla camera chiudendo la porta dietro di sé.

Incontrò lo sguardo di Dagmar, che lesse in lui, oltre a un’ovvia incredulità, la resurrezione di quei sensi di colpa che lo avevano rabbuiato pochi giorni dopo la morte di Elke.

«Cosa ti ha detto?»

Jonathan andò in salotto e prese da un mobile una pipa; dopodiché l’accese e iniziò a fumare nervosamente.

«Perché... perché stai fumando? T-Tu... tu hai smesso da tanti anni e perché ora…?»

«Dagmar, sa tutto! Sa ogni cosa!», sbottò Jonathan. «Ma la cosa più assurda è che lui dice... lui crede di poterle parlare… e dice di vederla e che lei gli fa compagnia ogni notte e che siede su quel vecchio dondolo che le avevo regalato io e che voleva quella bambola che…»

«Quale bambola?»

«Quella bambola con l’orso semi-rotto, ricordi? Ma l’avevamo fatta sparire e… e tutti i suoi giochi sono finiti in soffitta nel bauletto… tutti quanti! Come ha fatto a scoprirli? È stato lui a prendere l’orso? E come faceva a sapere dove avevo messo la chiave?»

«Io te l’avevo detto», disse Dagmar.

«Che cosa?»

«Te l’avevo detto che quella barca era maledetta e che ci avrebbe procurato delle sciagure!»

«Ah, finiscila! Parlare con i morti non ha mai fatto del male a nessuno! È che non riesco a spiegarmi come sia possibile…»

«Jonathan! Si incomincia così, parlando con i morti, e si prosegue con i riti di magia nera e con i sacrifici umani! Che cos’altro stai aspettando? Che porti qui una congregazione di stregoni e che si metta a invocare il demonio? Se prima credevo che qualcuno gli avesse parlato di lei ora… ora penso che questo non sia possibile perché nessuno, tranne tu e io, sapeva della bambola e che i giocattoli erano finiti nel bauletto in soffitta.»

«Lo so, cara, lo so… lo so», ripeté Jonathan. E l’abbracciò. Intanto tirò un’altra boccata dalla pipa.

«Che facciamo adesso?», chiese Dagmar.

«Ne parlerò con Padre Abe. È l’unico che possa aiutarci. Lui saprà cosa fare.»

«Ma… Padre Abe? Davvero vuoi affidarti a quel matto?»

«Lui non è un matto ma è solo un uomo molto credente.»

«Davvero? E tutti i suoi riti e i suoi esorcismi ti sembrano tipici di un uomo che ha tutte le rotelle a posto?»

«Non abbiamo altra scelta. Padre Abe è la nostra unica speranza.»

 

 

3.

 

La vita di Padre Abe non era di certo di quelle più movimentate. Da diversi anni le sue giornate trascorrevano nello stesso modo: sveglia, colazione frugale, bagno caldo o freddo a seconda della stagione, preghiera, lettura di testi scritti in lingue antiche (Padre Abe conosceva più di venti lingue, anche quelle parlate all’alba dei tempi) e lezioni di religione agli allievi dell’ordine.

Ma questo accadeva negli ultimi tempi. L’epoca in cui Padre Abe era un cavaliere – ed era giovane, giovane! – sembrava lontana più di mille anni luce. E ormai quell’epoca e tutto ciò che le apparteneva si era sbiadita in un ricordo che il più delle volte lui credeva fosse un sogno. Un’altra vita. Un altro uomo.

Eppure erano un po’ di anni che faceva degli strani sogni. Definirli strani sarebbe perfino riduttivo. Per non dire che erano a tutti gli effetti degli incubi, Padre Abe minimizzava e si focalizzava sul fatto che non fossero sogni ordinari.

Lui era in un’isola, la leggendaria isola maledetta di U’athkal, dove si diceva che le forze del Male e gli adepti di Chernabog si riunissero per riti blasfemi e per divorare carni umane razziate nella regione (in effetti erano frequenti i casi di scomparse improvvise, specialmente di bambini). Davanti a lui si parava l’infernale Chernabog, Signore degli Inferi. Chernabog alzava, come un trofeo, il primo della progenie infernale, un figlio nato dall’immondo accoppiamento con una donna che anni prima era la sua Signora e che invano Abe aveva tentato di proteggere.

Ne aveva parlato con Dannusk, che all’epoca in cui questi incubi avevano iniziato a tormentarlo era appena diventato il capo del suo ordine. Dannusk gli aveva consigliato di tenere gli occhi sempre ben aperti e di fare attenzione a tutto ciò che vedeva e che lo circondava. I segni del demonio, aveva detto, si sarebbero rivelati ma spettava a lui interpretarli come tali.

Così, quando una mattina si ritrovò nel suo studio, innanzi a Jonathan Boerefijn, un modesto pescatore del villaggio di Stór Björg, Abe aveva percepito fin da subito, come se possedesse un sesto senso, che quella era la volta buona in cui avrebbe scoperto il significato di quelle orribili visioni.

Jonathan gli stava dicendo che suo figlio Adam, da diversi giorni, sosteneva di vedere e di parlare con Elke, la figlioletta morta anni prima in un tragico incidente. La cosa aveva iniziato a preoccuparlo, ma ciò che l’aveva sorpreso era che Adam conosceva fin nei minimi dettagli cose che solamente Jonathan e sua moglie potevano sapere.

«Un bambino provvidenziale», disse Padre Abe. «Se ha il dono di parlare con i defunti, vuol dire che gli spiriti dei morti vi proteggono, mio buon Jonathan. Dovreste essere lieto di tutto ciò, non preoccupato.»

«Sì, ma… ascoltatemi, padre… vedete, mio figlio… sì, ecco… mio figlio in realtà non è davvero mio figlio ma è un trovatello che ho raccolto una sera in cui sono andato a pescare…»

«Un trovatello?»

E così Jonathan gli raccontò come aveva trovato il piccolo Adam. E quando gli disse del dettaglio della barca, del simbolo demoniaco su di essa inciso, l’espressione di Padre Abe cambiò improvvisamente e i suoi occhi, che prima guardavano Jonathan con superficialità e quasi con noia, ora si riaccesero, ma di una luce spaventosa che aveva a che fare con il terrore.

«Ne siete proprio sicuro? Era buio, potreste aver visto male…»

«No, no… ne sono convintissimo. Quella nave proveniva dall’isola maledetta, ne sono più che certo.»

«Cosa ne è stato di quella barca?»

«L’ho lasciata in acqua e me ne sono andato.»

«Quindi non c’è nessuna prova che quel simbolo esista…»

«Padre, sono trascorsi dieci anni

«Lo so, lo so… ho capito…», e rifletté per qualche istante.

Jonathan attendeva nervosamente un suo responso.

«Ebbene? Che cosa devo fare? Che cosa suggerite di fare?»

«Potrei vedere il bambino?»

Così Jonathan fece accomodare anche Adam nello studio di Padre Abe. Alla vista del bambino, Abe avvertì degli improvvisi giramenti di testa. Quando incontrò lo sguardo del piccolo Adam, la luce iniziò ad affievolirsi, fino a smorzarsi del tutto; e così Abe si ritrovò nel buio totale con quel bambino, sul cui volto si era disegnato un sorriso ghignante; e gli occhi… oh, gli occhi non erano umani, ma erano gli stessi occhi che…

«Padre, vi sentite… vi sentite bene?»

Padre Abe si sedette nuovamente sulla poltrona al di là della scrivania e si massaggiò le tempie.

«Niente di grave. Ho solo avuto un abbassamento di pressione.» Riportò lo sguardo sul piccolo Adam e non ci vide altro che un normalissimo bambino di dieci anni. Si sforzò di sorridere. «Ciao, giovanotto», disse. «Mi parleresti della tua sorellina?»

Adam si volse verso il padre, come se volesse chiedergli il permesso di dire tutto ciò che sapeva – Jonathan gli aveva fatto intendere che Elke era un argomento tabù. Ottenuto il consenso iniziò a dire tutto quello che sapeva. Lo stesso Jonathan si sorprese sentendogli dire perfino la data di quel giorno nefasto e descrivere i sentimenti di Elke come se lui stesso l’avesse vista.

A un certo punto, mentre raccontava il momento in cui Elke era scivolata nel ghiaccio, Adam chiuse improvvisamente gli occhi, strinse i pugni, si alzò e divaricò le braccia e le gambe; e Jonathan e Abe videro tutto buio, proprio come quando Abe aveva visto Adam per la prima volta. Intanto Adam diceva:

«Papà, ti prego… aiutami… ho tanto freddo… ho tanto freddo…», e lo diceva con la stessa voce di Elke, con la stessa identica espressione del viso, come se lo spirito di lei fosse entrato nel corpo di lui.

Jonathan era impietrito, mentre Abe, che aveva in quel momento ripensato alle parole che anni prima aveva udito da Dannusk, aveva cercato di non farlo muovere e di lasciare che Adam finisse il suo racconto.

Poi la luce tornò e Adam si risedette – gli occhi chiusi e la fronte imperlata di sudore. Si risvegliò e guardò prima suo padre e poi il sacerdote, cercando in loro delle risposte.

Al che Padre Abe sussurrò nell’orecchio di Jonathan:

«Venite con me. Non posso parlare in presenza del bambino.»

Jonathan non aveva nemmeno il coraggio di rispondere un misero sì e lo seguì meccanicamente.

Fuori dallo studio, Abe disse, secco:

«Questo è un prodigio che solo delle forze sovrumane sono in grado di compiere. Jonathan, ascoltatemi: vostro figlio deve restare sotto la tutela del mio ordine. È troppo pericoloso farlo tornare a casa.»

«Ma… Padre, ma che…?»

«Ascoltatemi… ascoltatemi bene: fate venire anche vostra moglie domani sera e vi spiegherò ogni cosa. Nel frattempo inventatevi una scusa per il bambino e convincetelo a trasferirsi qui. Io intanto informerò i miei superiori di ciò che è accaduto quest’oggi.»

E senza dargli nemmeno il tempo di rispondere, Padre Abe si allontanò dallo studio, mentre il piccolo Adam usciva e chiedeva a suo padre: «Allora, papà, possiamo tornare a casa?»

 

 

4.

 

La sera successiva, Jonathan lasciò intatta l’intera cena. Dagmar non aveva neanche provato a sedersi a tavola per mangiare, mentre Jonathan non faceva altro che immergere il cucchiaio nella minestra e girarla; alzarlo e girarla ma in bocca non aveva messo nulla. Questo fece arrabbiare Dagmar, che gli rimproverò di averle fatto preparare la cena per niente. Jonathan non si giustificò nemmeno, ben sapendo che Dagmar aveva intuito il motivo della sua inappetenza.

Misero a dormire Adam e se ne andarono. Non era la prima volta che lo lasciavano a casa da solo. Sapevano che poteva cavarsela: il caminetto era acceso e Adam era capacissimo di alimentarlo, di prendere la legna e di fare in modo che non si spegnesse.

Aveva nevicato per tutto il giorno e sia Jonathan sia Dagmar, mentre a cavallo andavano a trovare Padre Abe nel suo istituto, tremavano e battevano i denti, attendendo con ansia l’arrivo a destinazione.

Sebbene non fosse ancora arrivata la tarda serata, il villaggio di Stór Björg era già immerso in un sonno profondo.

Quando Jonathan e Dagmar entrarono nel suo studio (era stato un novizio all’ingresso ad accompagnarli da Abe), il sacerdote era intento a scrivere una lettera molto importante.

«Non vi aspettavo così presto. Accomodatevi», disse, dopo averli salutati cordialmente. Si accorse subito di quanto Dagmar fosse terrorizzata. «Non preoccupatevi, signora Boerefijn, è tutto a posto.»

Una volta seduti tutti e tre, Padre Abe disse:

«Ho informato Dreylenth, il mio superiore, di quanto è accaduto ieri in questo studio», e guardò Jonathan, che ricordava benissimo e che intanto stringeva la mano di sua moglie. «Dreylenth», continuò Abe, «è convinto, proprio come il sottoscritto, che il fenomeno a cui abbiamo assistito non possa essere dovuto a un essere umano ma a una divinità, nella fattispecie a una divinità maligna. Solo le semi-divinità hanno la facoltà di parlare con i morti e i morti possono parlare con i vivi attraverso di essi, utilizzando il loro corpo. Questa è la sola spiegazione che si possa dare a tutto ciò. Ma la cosa che mi ha fatto pensare – e che ha messo in allarme anche il mio superiore – è che le origini di vostro figlio siano tuttora ignote. Noi non sappiamo chi l’abbia concepito né in quali circostanze – o in quali luoghi – sia avvenuta la sua nascita, ma il fatto che sia stato trovano in una barca proveniente dall’isola maledetta ci convince sempre più che egli sia il risultato di un’unione immonda legata a…»

Si fermò e interrogò gli sguardi dei suoi interlocutori, che pendevano dalle sue labbra. «La conoscete la leggenda di Lady Nerisaga, non è vero?»

La conoscevano eccome. Sul leggendario Lord Frumon e su Lady Nerisaga, coloro che avevano messo fine alla rivalità secolare tra i regni di Taneos e Atios, erano già stati scritti molti libri. Ma erano solo leggende e per quanto a Stór Björg la gente credesse alle divinità e agli spiriti maligni, quella storia così improbabile aveva fatto storcere il naso quasi a tutti.

«È solo una leggenda, padre», disse allora Jonathan. «Che cosa c’entra con mio figlio, tutto questo?»

«Adam non è vostro figlio», precisò Abe. «È proprio questo il punto.»

«Padre, insomma», intervenne Dagmar, finora rimasta in silenzio, «ci potete spiegare che cosa ha Adam?»

«Secondo la leggenda, il matrimonio tra Lord Frumon e Lady Nerisaga», riprese Abe, «non durò molto. Questo non perché i due avessero smesso di amarsi ma perché qualcuno li odiava, o meglio era geloso della loro unione e bramava per sé il potere. Questo qualcuno era l’infido Gralamin Songsteel, uno stregone desideroso di abbandonare l’anonimato in cui si logorava per diventare il re supremo del mondo. Un folle. Ma nella sua follia Gralamin fece qualcosa che probabilmente segnerà le sorti del nostro pianeta. Gralamin rapì Lady Nerisaga e la portò negli Inferi. La voleva tutta per sé. Ma anche Chernabog la voleva e lascio immaginare a voi chi ebbe la meglio.»

«Padre, è solo una leggenda! Una favola!», protestò Jonathan.

«Oh, pensate quello che volete. Ma i fenomeni a cui abbiamo assistito – il fatto che Adam possa parlare con i morti e che possa assumerne la voce – e che sia in grado di dominare le luci e le ombre – sono anche queste favole o sono fenomeni reali

«Non capisco ancora che cosa c’entri Adam in tutto questo», disse Jonathan.

«C’entra eccome. Quando Gralamin condusse Lady Nerisaga negli Inferi, fu Chernabog a concupirla. E fu Chernabog ad avere un figlio con lei…»

«Lei sta dicendo che…», e Jonathan si alzò.

Rimanendo seduto, Abe rispose:

«Sì, sto dicendo che Adam potrebbe essere il figlio di Chernabog e di Nerisaga e che la sua venuta al mondo potrebbe scatenare dei disastri che cambieranno completamente la nostra era.»

Ci fu qualche secondo di silenzio. Jonathan si risedette.

«Dreylenth», riprese Abe, «mi ha detto di aver avuto delle visioni. Erano legate alla nascita e alla crescita del figlio del demonio, una calamità che va fermata prima che possa distruggerci tutti quanti.»

«Che cosa state dicendo, padre? Che dovremmo uccidere nostro figlio?»

«No, Jonathan, non dico questo. Dico solo che vostro figlio – come lo chiamate voi – non è umano e che i suoi poteri potranno crescere a dismisura, nel corso degli anni, e che se adesso si limita a parlare con i morti un giorno potrebbe arrivare addirittura a farli resuscitare e a controllarli e chissà cos’altro ancora sarà capace di fare – non voglio neanche provare a pensarci. Dreylenth mi ha detto di aver visto alcune immagini probabilmente legate a ciò che sarà, e che queste immagini lo hanno terrorizzato così tanto da non farlo dormire per settimane intere, fino a condurlo quasi alla follia.»

«Quali immagini? Di che si tratta?»

«Si tratta», disse Abe, «di visioni legate all’universo e a ciò che da esso può essere vomitato. Credete che lassù non ci sia nessun altro? Siete degli stolti se pensate a ciò! Lassù non vivono solo gli dèi ma vive anche il Male e ci vivono anche gli aborti della natura, creature appartenenti a civiltà milioni di anni più evolute della nostra. E queste creature, se dovessero arrivare nel nostro pianeta, non esiterebbero a fare degli uomini un ingordo pasto!»

«Padre», disse Jonathan, rimasto pazientemente in silenzio, «mi pare che adesso stiate delirando.» Si alzò e Dagmar fece altrettanto. «Quello che noi vogliamo – che vorremmo da voi – è sapere se si può fare qualcosa per Adam, se Adam è in pericolo e se sotto la vostra tutela sarà più al sicuro.»

Lo sguardo di Abe parlava da sé.

«L’avete detto», disse il sacerdote. «Adam non è al sicuro con voi. Anzi, siete voi che non lo siete. E sapete perché? Perché se lui, il Signore Oscuro, scoprisse che suo figlio è vivo e che si trova nel vostro villaggio, non stenterà a mandare i suoi infernali segugi a scovarlo per riportarlo nell’abisso in cui è nato. Se invece il bambino resterà qui – oh, ne dubito, ne dubito fortemente che il Signore Oscuro possa spingere il proprio occhio fin dentro a un istituto devoto alle divinità che lo hanno condannato all’esilio nelle viscere della Terra.»

«Ma come fate a esserne così sicuro? Chi vi dice che non verranno lo stesso a prenderselo?»

«Niente è sicuro, tranne la vita e la morte», disse Padre Abe. «Ma ci sono probabilità più alte che sia così.»

 

 

5.

 

Erano ormai diversi anni che dell’isola maledetta di U’athkal non si parlava più. I casi, tutti irrisolti, di scomparse di bambini erano diminuiti progressivamente. Si mormorava che gli dèi finalmente avessero mandato i loro emissari in quel luogo dannato e avessero fatto piazza pulita, facendo sparire U’athkal dalla faccia del pianeta. Altri dicevano semplicemente che forse i cannibali si erano saziati o che erano morti tutti o che avevano trovato un’altra terra da cui prelevare le vittime.

Anche del ratto di Lady Nerisaga non si parlava più da anni. Ma Abe non l’aveva dimenticato. Lui c’era, lui aveva conosciuto Gralamin e aveva letto negli occhi di Lord Frumon, l’indomani della scomparsa della sua sposa, allo stesso tempo follia e disperazione. Ora le cose erano cambiate: per tanti secoli il pianeta aveva conosciuto solo guerra e quando finalmente il matrimonio tra Frumon e Nerisaga aveva sancito la pace, proprio ora qualcosa aveva fatto ricominciare la paura che tutto ricominciasse, che le forze del Male tornassero a minacciare la pace tra gli uomini.

Per questo Abe si era cautelato e aveva convinto Jonathan e sua moglie ad affidargli Adam, il trovatello che poteva parlare con i morti. In realtà Adam non aveva più manifestato questo tipo di capacità né aveva più parlato di sua sorella. Crescendo era diventato un giovanotto come tutti gli altri.

Ma in seguito a ripetuti casi di gatti ritrovati squartati in diverse aree del villaggio, fu allora che Abe destò nuovamente i sensi. Queste povere bestie erano state private degli occhi, degli artigli, dei baffi e persino degli organi interni. Una vivisezione vera e propria. Nell’istituto subito si era mormorato che tutto ciò avesse a che fare con la magia nera e con i riti blasfemi. In tal senso i gatti servivano per richiamare gli spiriti maligni per chissà quali oscuri scopi. Prima di giungere a una conclusione così pessimistica, Abe aveva atteso che gli episodi si verificassero con una certa frequenza, in modo tale da convincersi che ci fosse una premeditazione.

Quando, però, dai gatti si passò ai novizi, che fecero una fine ben peggiore – furono ritrovati tre corpi di tre giovani novizi, con gli occhi, i capelli e gli organi genitali asportati, accanto a dei segni oscuri incisi sui corpi – fu con i novizi che Abe si decise finalmente a interrogare Adam. Non che avesse mai sperato che tutto filasse liscio e che dopo il ratto di Nerisaga davvero gli uomini potessero vivere in pace, ma il fatto che Adam, da piccolo, fosse riuscito a parlare con la voce della piccola Elke non lo collegava direttamente a Gralamin e a Nerisaga; e il ritrovamento nella barca proveniente dall’isola di U’athkal era solo un elemento in più ma non una prova confutante.

Ma alle morti dei novizi si era aggiunto qualcos’altro: una lettera da parte di Dannusk, che lo informava che nell’Ildelia, nell’Enthasia e perfino nella Kimacia, regioni in cui non era mai accaduto niente di spiacevole, si erano verificati dei casi analoghi a quelli di Stór Björg, a cui si era aggiunto un caso inspiegabile.

Un gaglioffo di nome Thybelard, aveva scritto Dannusk nella sua lunghissima lettera, era stato catturato proprio mentre stava per uccidere un novizio, ed era stato interrogato e torturato. Le torture lo avevano portato a una confessione delirante in cui diceva che il suo Signore, il più grande di tutti i Signori Oscuri, intendeva trasmettere i suoi poteri al suo unico figlio, per metà umano e per metà demone, concepito con la principessa Nerisaga diciotto anni prima.

Non serviva fare due più due per arrivare alla conclusione poiché il risultato era fin troppo evidente. Dannusk, comunque, aveva anche scritto che dopo la confessione Thybelard era stato ritrovato morto nella propria cella. Nessuno era riuscito a capire le cause della morte. Non c’erano segni di strangolamento né ferite. Si era pensato a un arresto cardiaco, anche se questo era parso a tutti, e in primis a Dannusk, un pretesto per non fare niente innanzi a ciò che Thybelard aveva confessato. Ma visto che Dannusk non intendeva restare con le mani in mano – e sapeva di Adam perché Abe gliene parlava spesso e lo aggiornava di frequente su ciò che faceva – aveva deciso di scrivergli quella lettera e di raccontargli quest’ultimo misterioso episodio.

Così Abe, dopo aver riletto per l’ennesima volta la lettera di Dannusk, andò finalmente a interrogare Adam, dicendosi che non doveva e non poteva accusarlo, visto che non c’erano prove contro di lui, ma che la sua semplice reazione avrebbe potuto dargli delle indicazioni utili per trarre delle conclusioni parziali.

Adam non gli chiese perché avesse scelto proprio lui. Ad Abe parve molto tranquillo.

«Hai saputo», incominciò il sacerdote, «della morte del giovane Astur, non è così?»

Il ragazzo annuì. «Ti ho convocato per sapere se negli ultimi tempi hai avuto delle visioni o se ti è capitato di fare degli strani sogni in cui Astur o gli altri novizi morti di recente ti parlavano per rivelarti il nome del loro assassino.»

Adam alzò gli occhi sul sacerdote. Abe si ritrasse, vedendo nel suo sguardo le intere fiamme degli Inferi.

“Questo ragazzo è il figlio del demonio”, pensò Abe.

«Allora? Non mi rispondi?»

«Sono stato io», disse Adam, con una freddezza glaciale in netto contrasto con il bagliore e la luminosità del suo sguardo. «Li ho uccisi io.»

«C-cosa?»

«Sì, sono stato io», ripeté il ragazzo, con una voce monocorde e monotona. Scandiva bene ogni sillaba, al che Abe pensò che fosse posseduto. «È stato il Signore Oscuro a ordinarmi di farlo. L’ho fatto per sua volontà.»

A quelle parole, si affacciò nella mente di Abe uno scenario apocalittico: quel novizio che era innanzi a lui, e che da bambino aveva dimostrato di saper non solo parlare con i morti ma di poter prestare loro il proprio corpo, non solo avrebbe continuato a uccidere in nome del Signore Oscuro, ma di questi sarebbe stato la carne sulla Terra, il Profeta del Male. Lo scenario vedeva il giovane Adam, col passare degli anni, crescere e aumentare il proprio potere oscuro, un potere che avrebbe soggiogato l’intera umanità se qualcuno non l’avesse fermato sin da ora che era ancora giovane e che probabilmente non conosceva nulla della magia oscura e di ciò che in epoche remote avevano praticato gli stregoni. Già, ma quale certezza aveva Abe a tal proposito? L’aveva controllato, sapeva anche che cosa Adam aveva letto ma se davvero fosse stato il figlio di Chernabog avrebbe potuto conoscere da sé tutte quelle arti e allora la lettura dei libri sarebbe stata superflua.

Doveva agire sin da ora e fermarlo, impedire che continuasse a comunicare con quello che poteva essere davvero suo padre. Per questo ordinò che fosse portato in una cella di isolamento, laddove l’oscurità sarebbe stata la sua unica compagnia. Questa, però, era una soluzione provvisoria – si disse Abe mentre due sacerdoti portavano via il ragazzo (e mentre ciò accadeva, Adam lo guardò con quello sguardo malevolo che ricompariva ogni volta che Abe chiudeva gli occhi o che cercava di dormire).

Quella notte stessa, Abe vide, oltre agli occhi di Adam, ciò che il ragazzo sarebbe diventato se non avesse fatto qualcosa. In realtà i provvedimenti erano già stati presi tempo addietro, poiché Abe aveva inviato un messaggio a Lord Frumon in persona, invecchiato precocemente per il dolore ma ancora con un briciolo di speranza di ritrovare la sua sposa. In questo messaggio, speditogli non tramite lettera ma tramite un cavaliere ingaggiato appositamente, Abe gli parlava di Adam, delle misteriose circostanze del suo ritrovamento, dei suoi poteri e delle morti che avevano colpito i gatti e i novizi.

Lord Frumon aveva risposto ad Abe che avrebbe inviato una delegazione di cavalieri che avrebbero avuto il compito di prelevare Adam e di portarglielo. Vivo. Sebbene Adam fosse figlio del Signore Oscuro, egli era – pensava Lord Frumon – anche figlio di Lady Nerisaga, e di lei era tutto ciò che era rimasto sulla faccia della terra. Ecco perché Lord Frumon voleva che il ragazzo finisse sotto la sua tutela. Forse – aveva pensato Abe – avrebbe trovato un modo per benedirlo e per far emergere, delle due, la metà buona, derivata dal legame di sangue con Nerisaga.

Ma quella notte… oh, quella notte Abe non l’avrebbe mai dimenticata. Il sacerdote vide, infatti, ciò che sarebbe accaduto in un futuro ancora lontano dalla loro epoca, ma un futuro che in un certo modo si stava già delineando e che forse era già diventato inevitabile.

Si trattava di scene cruente di guerra, di inganni e di vendette; ma gli uomini non erano i soli a giocare questa immensa partita a scacchi, poiché c’era dell’altro, c’erano in tutto questo delle creature innominabili che si sarebbero nascoste nelle viscere del pianeta e che pian piano avrebbero assunto il controllo; e i loro nomi impronunciabili erano Dhu’yithael, Mosanyac, Sthollelo, D’dartehoth, Rlineggog, Krlogggham, Bha-gorstt, Kiboguaug, Man’lit, Mazhubog, Phuggha-tho, Abhanacyo, Losthotau, Aoig, Ehon, Ephacak, Hilelol, Ihamepho, Kelot-zoshug, Krnaqugthome, Le-ig, Rura, Nabboth, Photho-onisha, Rschuatsh; e l’elenco potrebbe continuare all’infinito e riempire pagine e pagine poiché il cosmo è pieno di queste creature; e Abe vedeva che non tutti gli uomini cercavano di opporsi a esse ma anzi le adoravano come delle mostruose e blasfeme divinità; e per loro, per il loro dominio, sarebbero arrivati a scontrarsi con altri uomini, finché quelle creature non avessero preso il sopravvento; e tutto questo era possibile grazie a un portale magico che aveva spalancato il loro passaggio sul globo terrestre – con tanti pianeti di cui è pieno l’universo! – ormai infestato e infettato fin dentro il sottosuolo; e l’artefice di questa visione, di questo risultato abominevole e di questo scenario altri non era che il giovane Adam, diventato il più potente dei maghi – proprio quello che Gralamin aveva bramato diventare e proprio il fuoco che aveva spinto lo stesso Gralamin al ratto di Nerisaga; ma mentre Gralamin avrebbe avuto un ruolo marginale e sarebbe sparito subito di scena, Adam avrebbe continuato a essere nominato e adorato da tutte le civiltà future, anche da quelle che sarebbero giunte tra mille, cento, diecimila millenni; e queste civiltà lo avrebbero chiamato: Mäwqh Osha Saak-gaalrűd Phashali Hor-tan – formula oscura di cui nemmeno uno come Abe poteva comprendere il significato, poiché questa era la lingua di tutte le lingue, ovvero la lingua del Signore Oscuro.

Con il sonno massacrato da tali visioni, Abe infilò immediatamente la tunica e corse laddove aveva fatto rinchiudere Adam. Il suo cuore batteva all’impazzata, come se volesse scoppiare da un momento all’altro, e i suoi capelli sudavano come se avesse appena finito di percorrere cento chilometri a piedi e poi avesse nuotato per tutto il globo senza sosta.

Sfinito, Abe ebbe subito la conferma dei suoi timori.

«Padre, proprio voi stavamo cercando», gli disse uno dei due novizi posti di guardia alla cella di Adam.

C’era stata una forte luce, una luce che era penetrata fin dentro la cella del prigioniero. I novizi avevano creduto che fosse il segno di una divinità («Di una divinità! Ma certo! Ma di una divinità maligna, evidentemente!», aveva commentato Abe) e avevano visto la porta della cella aprirsi da sola, come se qualcuno avesse infilato il chiavistello nella serratura. Poi la luce era entrata e aveva avvolto il prigioniero, che anziché essere terrorizzato – reazione che avrebbe avuto qualsiasi novizio rinchiuso nella cella di isolamento e posto al cospetto di un fenomeno sovrannaturale di siffatte dimensioni che avrebbe creduto si potesse leggere solo nei libri – si era alzato e con le braccia in alto aveva pronunciato questa frase:

«Signore Oscuro, Tu che vedi oltre le ombre e oltre le stelle, avvolgimi nella luce della tua oscurità e conducimi laddove potrò trovare la mia strada!»

Udendo il racconto dei novizi, Abe aveva subito ordinato che gli preparassero un cavallo fresco per un lungo viaggio. Sarebbe andato lui stesso a trovare Lord Frumon, il solo, forse, ancora capace di fermare il figlio del Male.

 

6.

 

Il figlio del Male non aveva scelto l’oscurità in maniera arbitraria ma gli era stata imposta. Il Male non è sempre la via più semplice da seguire ma a volte è la sola via che si possa seguire; e specialmente quando il sangue che circola nelle vene, e che ogni giorno viaggia attraverso tutto il corpo, e che fluisce fino al cervello, appartiene al Signore degli Inferi – ebbene, proprio in queste circostanze pare più che improbabile che la scelta sia diversa.

Adam aveva un destino già scritto, per quanto i Libri del Destino, nell’era precedente alla creazione della Porta e alla rinascita degli Eroi, non fossero stati ancora scritti, o perlomeno non quello che lo riguardava. Ma il rapimento di Lady Nerisaga e l’atto diabolico che l’aveva unita carnalmente a Chernabog avevano cambiato tutto, poiché se Adam fosse stato figlio di Frumon questa storia non meriterebbe nemmeno di essere narrata.

Ad ogni modo, da bambino Adam aveva manifestato solo una parte del suo lato demoniaco. Una volta cresciuto e raggiunti i quattordici anni, aveva maturato dentro sé un cambiamento; un cambiamento che non era legato tanto all’età e all’ingresso nella preadolescenza, quanto piuttosto alla maturazione di capacità extrasensoriali e di altri poteri. Per esempio, Adam era in grado di leggere nel pensiero; sapeva comunicare con qualsiasi tipo di animale; poteva prevedere se settimane o mesi dopo avrebbe piovuto; era in grado di respirare sott’acqua e di non sentire il bruciore causato dalle fiamme, nonostante le ustioni. E di notte poteva entrare nei sogni altrui e spiarli, proprio come si potrebbe spiare dal buco della serratura, senza essere visto.

Adam si era fatto un sacco di domande a proposito di queste facoltà che gli altri allievi non possedevano. I morti li sentiva ancora, e in particolare vedeva sua sorella Elke, cresciuta come lui, come se fosse stata ancora viva. Eppure, si era detto Adam, lo spirito di lei era cresciuto finché lei aveva dieci anni e a dieci anni il suo corpo avrebbe dovuto materializzarsi. Non sapendo rispondere a queste domande, Adam aveva tralasciato la cosa e aveva cercato di non pensarci. Ma l’ombra di suo padre aveva già iniziato a perseguitarlo e il luogo in cui Adam era ancora indifeso non era l’istituto di Padre Abe bensì la sua mente.

Così il Signore Oscuro entrava nella sua mente e ne plagiava i contenuti, spingendolo poco a poco verso la malvagità assoluta. Una malvagità che, poco tempo dopo, avrebbe superato la sua. L’allievo finalmente avrebbe superato il maestro.

Il Signore Oscuro era entrato nei sogni di Adam e gli aveva mostrato l’isola maledetta di U’athkal, il luogo da cui, infante, Adam aveva fatto capolino nel mondo, prima di essere lasciato libero di devastarlo. Proprio a U’athkal, in una delle sue caverne, il Signore Oscuro aveva convinto Adam a provare il piacere del sangue e a dimostrargli, con il sacrificio prima di gatti e poi di giovani novizi come lui, quanto gli fosse fedele. In cambio, gli aveva detto il Signore Oscuro, lui gli avrebbe mostrato tutte le strade del potere e della magia oscura. Per questo Adam aveva ucciso quelle povere bestie e poi quei tre novizi, che addirittura erano suoi amici. Proprio nell’uccisione dell’amicizia, gli aveva detto il Signore Oscuro, egli avrebbe colto la dimostrazione di quanto Adam desiderasse diventare il primo dei suoi tanti adepti sparsi per il mondo. Il primo, sangue del suo sangue.

La mente del giovane Adam si era poco a poco riempita di menzogne, di alfabeti appartenenti a linguaggi arcani e di visioni demoniache nonché di anime che danzavano attorno a un gigantesco fuoco che aveva assunto le sembianze del Signore Oscuro.

Ma poi Adam aveva confessato gli omicidi ed era stato imprigionato. La cosa non era durata molto: non esistevano prigioni in grado di incatenare il Signore del Male, così era entrato nella sua mente e gli aveva detto che lo avrebbe liberato e che, però, da quel momento in poi avrebbe dovuto continuare a cercare se stesso da solo. Forze divine lo stavano indebolendo e poco a poco lo vedeva sempre di meno e si sentiva sempre più senza poteri. Così, gli disse, sarebbe stato da solo che Adam si sarebbe costruito e che sarebbe diventato il più potente Signore Oscuro dell’eternità.

C’era una meta a cui non avrebbe potuto rinunciare: era la città di Underburg, situata oltre le montagne a ovest di Stór Björg.

Underburg era sovrastata da un castello in cui viveva uno degli adepti di Chernabog, Valaraukar.

Valaraukar era un nobile che, dall’alto del suo castello, dominava e sovrastava la piccola e insignificante Underburg, una cittadina in cui si adoravano creature blasfeme prima ancora che i loro nomi fossero pronunciati per la prima volta. E questo perché l’immenso castello di Valaraukar custodiva la più grande biblioteca delle regioni dei ghiacci. Una biblioteca in cui, per secoli, gli stregoni e gli adepti del Signore Oscuro avevano depositato i loro volumi di stregoneria o di magia nera o di negromanzia o chissà di cos’altro ancora. Una collezione di inestimabile valore di cui Valaraukar andava fiero. E nelle prigioni e nei terribili sotterranei adiacenti al castello spesso si udivano grida incessanti di giovani donne rapite, rese schiave e possedute dalle anime dannate; e durante la possessione, attorno al castello si formava un bagliore luminoso che contrastava con l’oscurità che l’avvolgeva perennemente; al bagliore seguiva la nebbia, che lo dissolveva del tutto.

Gli stregoni e i luminari della scienza, giunti fino a Underburg proprio per studiare quell’inspiegabile fenomeno, si erano chiesti che fine facesse il castello di Valaraukar, e alcuni, interrogati degli stregoni che dallo sguardo si sarebbero detti più folli del più folle del manicomio più grande presente sulla faccia della terra, rispondevano che il castello giungeva intatto nell’abisso per consentire alle anime dannate, e su tutti al Signore Oscuro, di arricchire la propria mente con il sapere custodito nei libri e il proprio corpo con la carne delle giovani donne rapite.

A Underburg giunse il giovane Adam Boerefijn dopo essere fuggito da Stór Björg.

 

 

7.

Valaraukar sapeva tutto di lui, gli disse al suo arrivo. Si sarebbe detto che avesse da poco superato i cinquanta, ma perlustrando con attenzione il castello, e trovata finalmente una scartoffia chiamata un tempo carta d’identità, il viaggiatore avrebbe appurato che in realtà Valaraukar ne aveva poco più di trenta. L’età in apparenza maggiore era dovuta alle circostanze in cui Valaraukar si era trovato a vivere per anni e a ciò che per anni aveva fatto, in sostanza da quando Chernabog si era impossessato della sua mente e l’aveva divorata.

Adam avrebbe voluto fargli un sacco di domande, ma Valaraukar fermò subito la sua indole assai curiosa.

«Alle domande ci sarà sempre una risposta», gli disse. «E qui sei proprio nel posto in cui riuscirai a fugare tutti i tuoi dubbi.»

E condottolo attraverso un lungo corridoio illuminato solo da delle torce molto fioche, Valaraukar estrasse da una tasca del mantello un mazzo contenente dieci chiavi, ognuna delle quali rappresentava una sezione della biblioteca, intitolata come una branchia del sapere oscuro.

Così Valaraukar condusse Adam attraverso libri di scienza, di occultismo, di stregoneria, di astronomia, di religione, di astrofisica e di tutto ciò che gli uomini più dotti e più saggi avessero mai scritto e concepito. Libri che dirottavano la mente verso le regioni più remote del cosmo, laddove le creature degli abissi si nascondevano e bramavano, insaziabili, altre vittime.

Adam, con gli occhi che luccicavano per la gioia – un barlume che poche volte si era visto in quegli occhi scuri, l’ultima delle quali chissà quante notti prima – si era seduto a un lungo tavolo e aveva iniziato a sfogliare un gigantesco volume in pelle, con le pagine di pergamena finissima.

«Lascia perdere quelle sciocchezze», gli disse Valaraukar. «E leggi questo, piuttosto», e gli passò tra le mani un volume illustrato intitolato La leggenda di Lady Nerisaga. Mentre Adam lo sfogliava voracemente, Valaraukar disse: «È un libro che parla di una storia molto recente; un libro sull’episodio più importante della nostra era, un episodio che segnerà il nostro destino e quello di chi ci sarà dopo che noi saremo diventati cenere (al che Adam aveva alzato lo sguardo come per dire: «Parla per te!») – Un libro… un libro che de te fabula narratur», concluse.

«La storia della mia nascita…», mormorò Adam.

«Già, proprio così.»

 

 

8.

 

Per la prima volta Adam si trovava di fronte a un libro che gli parlava delle sue misteriose origini, o che perlomeno lo faceva indirettamente, narrandogli l’antefatto della sua nascita.

Se da quando aveva iniziato a sviluppare quelle capacità extrasensoriali di cui già si è detto Adam aveva sospettato di non essere umano, perlomeno da un certo lato, dall’altro non aveva mai collegato la scelta del Signore Oscuro nei suoi confronti a un possibile legame di parentela. Egli credeva che il Signore Oscuro lo avesse scelto perché era speciale, perché sapeva fare cose che gli altri non sapevano fare; perché poteva fidarsi di lui e per altre ragioni; ma mai, mai e poi mai Adam avrebbe pensato al Signore Oscuro come a suo padre, il suo vero padre.

Fu leggendo la storia di Lady Nerisaga che comprese parzialmente da dove venisse e da quali infausti eventi fosse venuto al mondo. Giovane com’era, e animato soprattutto da ciò che di umano restava in lui, Adam fu inorridito leggendo di come Gralamin avesse rapito sua madre, di come l’avesse portata negli Inferi e di quali altre stregonerie avesse compiuto; e di come lei avesse sofferto prima, dopo e durante il parto e… oh, e quando lesse di suo padre – e si domandò chi mai avrebbe potuto narrare fin nei minimi dettagli una storia del genere se quella stessa storia non fosse stata vissuta in prima persona – suo padre, che aveva sottratto Nerisaga, sottratta a sua volta a Frumon, dalle grinfie di Gralamin, non per salvarla ma per farla propria, per unirsi alla donna più bella e più ambita del pianeta per generare il primo di una stirpe maledetta.

Adam chiuse il libro.

«Cosa ne è stato di mia madre?» si limitò a dire.

Valaraukar attendeva quella domanda sin dal momento in cui gli aveva dato il libro.

«Nessuno lo sa», disse Valaraukar. «Lo sa forse l’autore di quel volume, anche se non lo dice.»

Adam voltò il libro: sulla copertina, in caratteri in rilievo, il nome dell’autore risultava Al-Nager Nimso Stelg.

Il giovane ripeté quel nome tra sé, come se gli suonasse famigliare. Quando ebbe l’illuminazione, posò il suo sguardo su Valaraukar, che sorrise soddisfatto.

«Prevedibile, non è vero? Gralamin Songsteel avrebbe fatto meglio a usare uno pseudonimo anziché un semplice anagramma! Nessuno sa come sia possibile che egli abbia scritto il volume che hai tra le mani.»

«E di mio padre… il mio vero padre – che ne è di lui?»

«Tuo padre?», e qui Valaraukar si lasciò andare a una risata demoniaca, da far venire i brividi anche a un guerriero capace di affrontare un orda di duecento scheletri da solo. «Tuo padre ha dei progetti minimi per te. Tu sei solo lo strumento giusto per raggiungere uno scopo più grande. Quando ti riprodurrai, lo farai per lui, perché lui lo vorrà e chissà… chissà quali immondi accoppiamenti o quali terrificanti esperimenti intende fare! Forse unire un ibrido umano-demoniaco a una creatura dell’abisso, chi lo sa!»

«Chi vi ha dato questo libro?»

«Quel libro», disse Valaraukar, «è stato scritto con il fiume che scorre attraverso gli abissi, laddove le creature delle tenebre si lavano. Un fiume di fango, sangue e lava. Quel libro faceva parte di una collezione di rarità che ho comprato anni fa da un vecchio bibliofilo», e dopo una brevissima pausa proseguì: «Vieni: voglio mostrarti una cosa che potrà illuminarti.»

Detto ciò, lo condusse attraverso tutta la sterminata collezione di libri; e giunto a uno scaffale occupato da una quarantina di volumi rilegati in pelle, ne sollevò uno, rivelando così la presenza di una botola nascosta proprio sotto di loro. L’aprì e gli fece strada, stringendo tra le mani una torcia.

Scesero ben duecentocinquanta scalini, in condizioni a dir proco precarie, senza aria e con una luce minima che, quando illuminava il volto scarno di Valaraukar, disegnava sul mento spigoloso e sugli zigomi pronunciati delle ombre simili a diavoletti ribelli che danzano attorno a un pallido fuoco.

Dopo quell’interminabile discesa, Valaraukar finalmente si fermò innanzi a una porta d’acciaio su cui era inciso: Mäwqh Osha Saak-gaalrűd Phashali Hor-tan.

Era la porta degli Inferi. Era una delle porte degli Inferi, poiché un luogo così maledetto, il cui Re aveva seguaci in tutto il pianeta, e forse addirittura un suo corrispettivo nel cosmo, non poteva avere solo un ingresso. Valaraukar aveva oltrepassato quel limite una sola volta, quando aveva giurato fedeltà all’Oscuro Signore e aveva versato il proprio sangue nel fiume Ithoragtan, un fiume in cui sangue, fango e lava formavano un unico liquido; e lì Valaraukar aveva conosciuto il Male e l’orrore più profondo, anche se non si era trovato mai al cospetto di Colui-che-sussurra-nelle-tenebre, ma trovarsi dove lui dimorava era più che sufficiente.

Così, mentre Valaraukar raccontava al giovane Adam cosa aveva provato quando aveva varcato le soglie degli abissi, questi, ancora con il volume che parlava della sua nascita sottobraccio, aveva avuto una visione folgorante del libro stesso che attraversava Ithoragtan restando perfettamente asciutto e intatto; e anzi, a contatto con il fiume, il volume cresceva di dimensioni fino a diventare un gigantesco volume su cui Adam avrebbe potuto navigare e attraversare tutto il fiume infernale, che l’avrebbe condotto probabilmente al cospetto del Signore Oscuro.

Ipnotizzato da questa visione, Adam, disattento ormai al racconto di Valaraukar, iniziò lentamente a eclissarsi, come se fosse stato un disegno a matita e qualcuno lo stesse cancellando con una gigantesca gomma. Valaraukar aveva capito che dietro quel fenomeno c’era senz’altro Chernabog, così, terrorizzato, per quanto da un lato fosse attratto dal Male del Signore Oscuro, dall’idea di poter tornare in quella cava infernale e di vedere di nuovo con i propri occhi le acque maledette dell’Ithoragtan, fece per indietreggiare, ma Adam l’afferrò per il polso e lo trascinò con sé nell’abisso.

 

 

9 .

 

La corrente del fiume scorreva per chilometri e chilometri nelle più oscure profondità terrestri, arrivando forse dalla parte opposta del globo; e intanto Adam insisteva con Valaraukar affinché lo conducesse dal Signore Oscuro, da suo padre, e gli spiegasse perché lo aveva usato solo per accaparrarsi ancora più potere di quanto già ne avesse. Valaraukar gli diceva che non sapeva come arrivare dal Signore Oscuro e che se anche l’avesse saputo avrebbe preferito morire piuttosto che condurlo da Chernabog.

Il libro, intanto, come secondo la visione precedente di Adam, bagnato dall’Ithoragtan era cresciuto di dimensioni, e intanto, mentre Valaraukar era stato spinto al di fuori e cercava inutilmente di mantenersi a galla, Adam lottava contro le pagine giganti che da sole si voltavano e che facevano emergere tutti i personaggi di cui il libro narrava: e così Adam poté assistere, durante l’incredibile viaggio lungo l’Ithoragtan, al ratto di Nerisaga, sua madre, da parte di Gralamin; alla follia di Frumon e alla sua inutile ricerca; alla riunione degli Stregoni, decisi a fare qualunque cosa pur di ritrovare Nerisaga; alla fuga di Gralamin con Nerisaga; alla discesa di questi negli Inferi; alla sottrazione da parte di Chernabog l’Oscuro Signore, fino alla nascita di Adam nella maledetta isola di U’athkal.

Queste visioni avevano lo stesso impatto che può avere la luce di primo mattino su un uomo che è rimasto rinchiuso per oltre due settimane in una cella buia: la luce è così accecante che le tenebre ormai saranno talmente ordinarie da rendere visibile qualsiasi oggetto.

Poi la nave-libro si fermò in prossimità di un cancello, da cui Adam non riusciva a vedere nulla. Intanto si voltò verso Valaraukar e notò subito che la sua pelle si era raggrinzita, che i suoi capelli erano diventati tutti grigi e che i suoi vestiti si stavano sbrindellando. I suoi occhi erano spiritati e quando Adam incrociò il proprio sguardo con il suo, Valaraukar, che era suo malgrado seduto sul bordo della nave-libro, indietreggiò un po’, come terrorizzato, e allungando il braccio davanti a sé come per dirgli di stare lontano.

Adam tornò a guardare verso il cancello, che intanto si sollevava poco a poco; e all’interno poté vedere una luce verde che girava su se stessa; e man mano che si avvicinava, riuscì a scorgere una figura, in piedi, su una sorta di libro gigante, e un compagno che gli era alle spalle. Non era un compagno: era uno scheletro. La figura in piedi aveva qualcosa che gli ricordava qualcuno, eppure, per quanto Adam scavasse nella memoria, non era in grado di comprendere chi fosse lo sconosciuto. Poi subentrò una sensazione mista di orrore e di stupore: lo scheletro era Valaraukar e quella figura imponente, tutt’altro che rassicurante, ma che anzi sembrava aver visto le più immonde battaglie e aver vissuto per oltre duecento millenni ed esplorato tutti gli angoli più bui dell’universo – quella figura altri non era che lui stesso.

Ebbe la conferma dei propri sospetti voltandosi nuovamente verso Valaraukar, per niente stupito ma solo terrorizzato.

«Fermo! Non vorrai…»

Ma era troppo tardi. Adam immerse le mani nell’Ithoragtan e attraversò la luce che si muoveva su se stessa; e tutto questo mentre udiva degli echi che mormoravano: «Ave, Mäwqh Osha Saak-gaalrűd Phashali Hor-tan! Ave, Mäwqh Osha Saak-gaalrűd Phashali Hor-tan

Solo echi, non diavoletti o altre creature oscure. Ormai Adam non vedeva sotto di sé nemmeno la nave-libro, e nemmeno Valaraukar, ma solo una luce che lo stava conducendo, poco alla volta, nelle profondità più recondite dell’abisso.

 

 

10.

 

Al suo risveglio, Adam si sentiva stordito, stanco, ma per niente terrorizzato. Aveva compreso che quello era il suo habitat, poiché lui era per metà un demone, e i demoni sono abituati ad attraversare acque infernali e ad avere a che fare con altri esseri della loro stessa natura.

La nave-libro era tornata a essere un semplice volume rilegato in pelle. Adam lo afferrò, lo aprì, ma le pagine erano diventate tutte bianche. Non c’era un solo rigo, non una sola figura. Eppure lui l’aveva letto, ne era sicuro. Quanto al suo sfortunato compagno di ventura, ciò che restava di lui era anche ciò che Adam aveva visto nel portale-specchio: uno scheletro. Valaraukar, in quanto umano, non avrebbe mai potuto sopravvivere dopo un viaggio del genere nelle acque maledette dell’Ithoragtan.

Adam alzò lo sguardo e si accorse dell’ambiente in cui si trovava: tasti intorno a lui di ogni colore che si illuminavano a intermittenza; testi in caratteri non scritti con l’inchiostro ma appartenenti a qualcosa di non umano, qualcosa superiore all’uomo ma che solo l’uomo stesso poteva aver creato.

Il ragazzo poteva capire cosa dicevano quei testi: «Salve, figlio di Colui-che-sussurra-nelle-tenebre. Questa è la Larva di Denebola. Siamo diretti verso il pianeta Zshotegu. Mancano quaranta minuti all’arrivo», e il testo si trasformò in un conto alla rovescia che partiva proprio da quaranta.

Nel periodo in cui era allievo di Padre Abe, Adam aveva letto libri che parlavano di civiltà di gran lunga più evolute dell’uomo che si trovavano negli angoli più sperduti del cosmo, ammesso che il cosmo abbia una un inizio e una fine. Leggendo quei libri, Adam si era interrogato su come fosse possibile la netta inferiorità dell’uomo; e si era anche detto – ma questo prima ancora di conoscere l’Oscurità – che se gli uomini stessi, o meglio se uomini con cattive intenzioni fossero riusciti a impossessarsi delle strumentazioni di quelle civiltà ignote o a conoscere le loro dinamiche e la loro storia e a svelare il loro sapere – se ciò fosse accaduto, la Terra si sarebbe trasformata da un lato in un pianeta all’avanguardia, dall’altro sarebbe aumentata la possibilità che si creassero conflitti tra gli uomini, ingordi e desiderosi di superare gli altri in un’utile gara al mezzo più evoluto.

Ora che Adam conosceva il Male e che aveva visto l’abisso, ora la cosa era diversa: e se il Fato – o lui stesso – l’aveva condotto in quell’ambiente che non apparteneva senz’altro né alla sua epoca né alla sua specie, qualcosa voleva pur dire. Adam era abituato ad attribuire un significato a ogni singolo evento, anche il più banale, dunque per lui quel viaggio era in realtà un messaggio per lui stesso. L’interpretazione che Adam diede a quelle visioni fu la facoltà di ottenere vendetta.

Adam intendeva vendicarsi di suo padre; intendeva diventare non solo il suo erede, ma cancellarne il nome dalla memoria collettiva dell’uomo. E visto che gli si era presentata la possibilità di diventare qualcuno anche nell’intero universo, la sua ambizione crebbe di conseguenza, fino a portarlo sul baratro della megalomania.

Da quel momento, Adam Boerefijn aveva finito di esistere e nasceva la nuova calamità del mondo, colui che avrebbe permesso, senza volerlo, la resurrezione degli eroi, spariti dopo la pace tra Taneos e Atios; nasceva colui che avrebbe esplorato il cosmo, che avrebbe attraversato legioni di creature dell’abisso, di cui sarebbe diventato il nuovo Re, il nuovo Signore, il nuovo Dio; colui che, una volta esplorati i pianeti più lontani della galassia, avrebbe desiderato far assaggiare anche alla Terra il sapore aspro delle stelle più oscure, rendendo ridicolo a suo confronto il nome di Chernabog il Signore Oscuro.

Ma per condurre sulla Terra tutte quelle creature non sarebbero bastati centomila veicoli identici a quello in cui lui stava viaggiando. Ci voleva qualcosa che li attirasse immediatamente, che non li facesse viaggiare, ma che li facesse ricomparire, attraverso un salto temporale di miliardi di anni luce.

Fu così che morì Adam Boerefijn e che nacque Mosph, colui il quale creò la leggendaria Porta di Mosph, il nuovo vaso di Pandora.

*

Evira

Penitenziario di Prescott – A.D. 2458

 

Nonostante siano dodici giorni che ho davanti a me queste carte, ancora non riesco a trovare un senso alla faccenda che ha coinvolto la città di Prescott due anni fa esatti. Forse un senso vero e proprio non riuscirò mai a trovarlo, eppure credo che se affrontassi la questione con maggiore meticolosità forse arriverei alla soluzione.

Il caso è stato chiuso già da un anno, archiviato come omicidio colposo. Ma a mio parere tutto ha radice in qualcos’altro, in qualcosa che non vuole e che non può essere rivelato. Sono convinto che la follia abbia avuto la meglio. Perlomeno questo è ciò che gli inquirenti dicono. Sono arrivato anche io a questa conclusione ma una parte di me ancora non crede che un uomo tranquillo e innocuo come Paul Baxter possa trasformarsi improvvisamente in un sadico omicida.

Ricomincerò daccapo e riordinerò le carte. Questa cosa servirà probabilmente a riordinare anche il caos che regna nella mia mente.

 

Il fuoco è il nostro dio. Al fuoco noi sacrifichiamo le nostre figlie, le nostre madri, le nostre mogli e le nostre sorelle; al fuoco noi gridiamo non solo di illuminarci ma anche di aiutarci a sopravvivere, perché la fame e la sete sono tutto ciò che abbiamo quando vaghiamo amorfi per le strade senza nome di questa città maledetta.

Il fuoco mi ha restituito vigore, forza e virilità. Mi ha condotto verso il regno dell’abbandono dei sensi e delle gioie, là dove solo gli eletti hanno la facoltà di giungere.

È al fuoco che ho giurato obbedienza. È al fuoco che ho sacrificato Evira.

 

Da oltre due secoli la città di Prescott celebra ogni anno i giochi in onore del nostro antico sovrano, il sommo T’chankankrot, padrone di ogni replicante e di ogni essere umano. I giochi hanno luogo nella torre di Broldgar, un palazzo di ventisette piani uniti da una scala a spirale. In ogni piano della torre di Broldgar risiedono nove replicanti; ma di questi nove uno solo è un uomo o una donna in carne e ossa. La prova consiste nel trovare l’essere umano e ucciderlo; dopodiché, dare fuoco al palazzo e riuscire a fuggire indenni. Il premio, ambito da ogni singolo abitante – me compreso – è l’assaggio di una sostanza in grado di destare i sensi dell’abbandono e di restituire la luce alle menti ottenebrate: la Chaar, polvere bianca dai poteri mai del tutto svelati. Si diceva che la Chaar provenisse da una terra molto lontana, da una terra in cui gli uomini e le donne non sono stati sostituiti dai replicanti e godono ancora di ogni diritto; da una terra in cui le guerre non hanno ancora portato la miseria e la fame e non hanno ancora sottratto la speranza di condurre una vita serena.

Reduce da una guerra che solo per pietà di T’chankankrot non mi ha ucciso, tornato alla città di Prescott, solo, senza moglie, parenti né figli, fu una notte che il fuoco si rivelò a me come guida. Perso in un magma di sogni assurdi e deliranti, derivati dalla follia di scontri fratricidi a cui non riuscivo a dare una ragione, il fuoco si presentò a me sottoforma di luce antropomorfa, capace anche di comprendere la mia lingua. E fu così che mi spiegò la mia missione: era arrivato il momento – mi disse – di uccidere colei che da tempo era destinata a cambiare le sorti e le abitudini di Prescott, la sola che potesse determinare un cambiamento notevole in una città in cui nessuno voleva e poteva far niente affinché qualcosa mutasse. L’era degli eroi è finita già da qualche secolo e ciò che sarà non potrà che essere sempre più oscuro del presente. Se il presente è nero, il futuro lo sarà mille volte di più; e T’chankankrot, attraverso i propri sacerdoti, ha dissuaso anche i più impavidi da ogni effimero tentativo di rivolta. Colei che avrebbe prodotto il cambiamento che nessuno voleva si chiamava Evira.

A soli otto anni, Evira era già considerata la discendente della dea Mandir, sconfitta dall’esercito di T’chankankrot nella battaglia di Sùlmar diversi secoli orsono, quando le città erano dotate di strade e quando l’uomo era padrone di se stesso, oltre che delle macchine. Evira era stata scelta per partecipare ai giochi rituali nella torre di Broldgar. Sarebbe entrata, come tutti i concorrenti, nello stesso istante del suo replicante, ma io – mi dissi – sarei riuscito a cogliere in un piccolissimo particolare qualcosa che la distinguesse dal suo doppio, affinché la mia missione fosse portata a termine. Era infatti un mio immenso desiderio assaggiare il potere della Chaar, sostanza di cui avevo sentito parlare sovente durante il mio viaggio di ritorno. Tra le dune, tra i ghiacci, tra le montagne e perfino nelle isole più remote, si mormorava che la Chaar riuscisse a svelare i misteri celati nelle menti degli uomini, che riuscisse a restituire una nuova età e una nuova vita; che insomma fosse in grado di riportare gli uomini all’età della luce.

Ma io agivo per conto del dio fuoco, non per conto personale. Il fuoco voleva che uccidessi Evira perché se fosse stata lei a vincere i giochi rituali quell’anno, se fosse stata lei a incendiare la torre di Broldgar, la profezia si sarebbe compiuta e oltre alla torre tutta la città stessa di Prescott sarebbe stata avvolta dalle fiamme, perché il suo potere avrebbe perso ogni controllo e sarebbe stato autodistruttivo.

Promessami dunque in cambio la Chaar, il fuoco mi convinse che non avevo altra scelta. Così giurai che avrei ucciso Evira e che lo avrei fatto più per la città di Prescott che per me stesso, anche se era proprio per me stesso che agivo.

Evira aveva con sé un oggetto che mi avrebbe permesso di distinguerla dal suo replicante: un orsetto di peluche, ricordo dei genitori morti T’chankankrot solo sa quanti anni fa. Evira non avrebbe mai abbandonato quell’orsetto anche a costo della vita, probabilmente. Il suo replicante ne aveva una copia esatta ma io sapevo che se una delle due lo avesse perduto, o se perlomeno quell’orso fosse sfuggito di mano, ebbene, in quel momento io avrei riconosciuto la vera Evira e avrei potuto portare a termine la mia missione.

Entrammo così tutti quanti nella torre di Broldgar. Evira era a pochi passi da me, abbracciata a quell’orsetto di peluche che sarebbe stato artefice del suo destino. Lei non mi notò ma io notai lei; e l’orso notò me, con quei suoi occhi piccoli e apparentemente spenti. L’orso mi vide e capì le mie intenzioni, anche se fino a quel momento non avevo fatto alcunché per lasciar intendere che volessi farle del male. Mi arrestai per questo nel momento in cui salimmo gli ascensori: Evira e l’orso (affiancati dal rispettivo replicante) salirono prima di me, in un piano che non potevo conoscere ma che sarei riuscito a trovare.

Fu poi il mio turno. Per la prima volta da quando era iniziato il gioco ebbi modo di osservare il mio replicante, immagine di me stesso allo specchio: la barba incolta, gli occhi stravolti per le ore notturne agitate e per la follia di ciò che stavo per fare. Ma oltre alla follia c’era anche qualcos’altro: era il terrore, il terrore di non sapere più quale fosse il mio vero io, se io stesso fossi il replicante e se quello davanti a me fosse il vero Paul Baxter. Ma una volta giunti al diciassettesimo piano, finalmente tornai in me e fui conscio di non aver mai perso la mia vera identità. Il mio replicante proseguì: al diciannovesimo piano sarebbe sceso e si sarebbe confuso con gli altri, fingendo di essere me.

Nel corridoio già sentivo alcuni spari e mi chiesi come mai non ci fosse stato neanche il tempo di entrare nel palazzo che già qualcuno stava cercando di porre fine ai giochi. Ma è chiaro che quegli spari non potevano essere diretti su un essere umano. Tant’è vero che per terra, ai miei piedi, non potei fare a meno di osservare i corpi che giacevano sì senza vita, con gli occhi sbarrati, ma anche senza alcuna traccia di sangue. Per questo mi dissi che qualcuno aveva agito troppo in fretta, senza pensare a ciò che stava facendo. A quel punto controllai per istinto di aver caricato la pistola. Era carica e la mia fondina la custodiva gelosamente.

Tre stanze, e in ogni stanza vi avrei trovato tre uomini. Oppure due replicanti e un uomo. La scena a cui assistetti, una volta entrato nella prima stanza, non può non essere descritta: un letto, una donna su di esso, e una corda legata al lampadario, a cui era appeso un uomo, ciondolante e grondante – lui sì – di sangue. La donna giaceva sul letto ma in un primo momento non seppi dire se morta o solo svenuta. La sua pelle era eterea, diafana, e il suo vestito era più una sottoveste. Poi la donna si destò e si mise a sedere sul letto e senza proferire parola si limitò a indicare l’uomo appeso al lampadario. Mi disse che era suo marito, o meglio che era ciò che restava di suo marito. L’aveva creduta vera. Aveva creduto che lei fosse sua moglie, quella vera. Le aveva sparato ma quando l’aveva vista riversa per terra i sensi di colpa lo avevano sopraffatto, così si era impiccato.

«È questa la fine che fanno tutti», disse la donna. «Questa è la fine che fanno quelli che sparano senza ragione, che si fanno mettere in ginocchio dal fuoco.»

Il dio del fuoco… Allora lei sapeva che cosa mi aveva spinto a partecipare ai giochi. Mi dissi che, al contrario del suo defunto marito, io avrei ragionato, prima di sparare.

«Non sei infelice per il tuo destino amaro? O forse temi di poter essere abbracciata dal fuoco?»

«Non c’è niente che io tema», rispose la donna, venendomi vicino. Fu allora che potei apprezzare il calore del suo corpo e il suo alito profumato. Le sue labbra lucide mi chiedevano di unirsi alle mie ma io ero lì per altri motivi, non per portarmela a letto. Tuttavia, c’era ancora un dubbio che volevo togliermi…

La donna gridò per un attimo, come se le avessi dato un pizzicotto. Si portò una mano sul polso sanguinante. Sorrisi tra me ma sorrisi anche a lei. Rimisi a posto il coltello, nella cintura.

«Perché l’hai fatto?», mi chiese.

«Non c’è un motivo», risposi. «Qui dentro la ragione non esiste. E tu lo sai meglio di me, non è così?»

Al che la donna strappò un lembo del lenzuolo e si fasciò il polso. In breve la fasciatura improvvisata divenne rossa. Ma era solo un taglietto che sarebbe guarito nel giro di qualche ora.

Uscito dalla prima stanza, entrai subito nella seconda. Lo spettacolo era ancora più folle del primo: due uomini e una donna, nudi, a letto, nel più classico dei ménage à trois, uno che la penetrava e l’altro che la sodomizzava. Lei era morta.

Richiusi subito la porta alle mie spalle e mi domandai se io fossi l’unico a giocare a quel macabro gioco di sesso e di morte.

La terza stanza mi convinse a cambiare piano: lo spettacolo era simile al primo ma cambiavano solo gli interpreti. Due maschi e una femmina, proprio come prima, solo che adesso i due maschi erano due vecchi, sui settant’annni passati da un pezzo, e la femmina era una bambina, forse della stessa età di colei che cercavo. La bambina, mentre i due la seviziavano, piangeva in silenzio, fingendo di stringere a sé qualcosa che in realtà aveva perso. Perché quel qualcosa era in piedi davanti a loro ed era il regista di quel film perverso che interpretavano: era l’orsetto di Evira, proprio quello che mi aveva lanciato uno sguardo indimenticabile prima di salire nell’ascensore. L’orso era alto come un uomo adulto e aveva una videocamera, che dirigeva con una mano – ovvero con una zampa – mentre con l’altra frustrava i tre, gridando di fare più forte o più piano.

Non era la mia Evira, non era quella la bambina che dovevo uccidere. O forse, schiacciata com’era da quei due pedofili, non riuscivo a distinguerla ed era proprio lei, o meglio il suo replicante, perché ero sicuro che lei fosse finita al diciannovesimo piano. Sta di fatto che non avevo tempo per farmi queste domande né per cercare risposte assurde che non avrebbero risolto i miei problemi.

Tirato un sospiro, forse per l’ultima volta in pieno possesso delle mie facoltà mentali, salii la scala a spirale della torre e corsi fino al diciannovesimo piano. E mentre salivo i gradini che parevano centinaia e centinaia, invece erano solo una trentina, incontravo donne e uomini che a malapena si reggevano in piedi e che mi dicevano: «Più su andrai più il fuoco troverai; più il fuoco troverai e più la follia vedrai; più la follia vedrai e più su andrai», e così via all’infinito.

Intanto, con la camicia che grondava sudore, estrassi dalla foderina la pistola, deciso a farla finita una volta per tutte. Volevo solo uccidere quella bambina e avere la mia ricompensa. Era solo questo che volevo.

Finalmente, e senza fiatone, giunsi al diciannovesimo piano. Qualcuno, però, mi aveva anticipato: da ciascuna delle tre stanze proveniva una nube di fumo, che presto si sarebbe espansa fino ai piani superiori e a quelli inferiori. Con la pistola saldamente in mano, avanzai gridando se ci fosse qualcuno. Non volevo improvvisarmi eroe – d’altronde stavo per diventare un assassino, più che un eroe, ed ero abituato più a uccidere che a salvare persone – ma volevo solo assicurarmi che Evira fosse lì e che fossi io a ucciderla. Perché se proprio doveva morire, dovevo essere io a ficcarle la pallottola nel centro di quella bella testolina.

Non l’avessi pensata: Evira uscì da una stanza richiudendo la porta. Aveva ancora con sé quel dannato orso ma la cosa più sconvolgente erano i suoi occhi: erano senza pupille, bianchi ma allo stesso tempo abbaglianti, mentre il suo vestito, che quando l’avevo vista per la prima volta era perfettamente pulito, ora si era scolorito e inoltre era macchiato di chiazze rosse dappertutto. Evira aveva ucciso e l’aveva fatto prima di me.

Le ordinai di non muoversi puntandole la pistola. Ma Evira non mi diede ascolto: messesi le mani sulle guance, si staccò la testa dal collo e con un ghigno me la scagliò addosso, proprio con la stessa forza con cui si potrebbe scagliare una palla da bowling. Per pochissimo riuscii a evitarla, tuttavia la testa mozzata mi afferrò un lembo della camicia, strappandomela. Così, toltomi la camicia e con la pistola sempre tra le mani, indietreggiai di qualche passo, guardandomi ora dalla testa che sembrava potersi muovere da sola, ora dal corpo, che ancora reggeva quel dannato orso a sé.

Stravolto, sparai senza pensare a quello che facevo, prima mirando alla testa, proprio sulla fronte, poi al corpo, che a ogni proiettile iniziò a far zampillare fiotti di sangue per tutto il corridoio. Sparai una, due, tre, dieci volte, fino a esaurire i colpi; ma non contento mi avventai sulla testa e con quello stesso coltello che aveva ferito la donna della prima stanza la sventrai con quanta forza avessi nelle braccia, riducendola a una poltiglia sanguinolenta di ossa.

Intanto l’incendio, appiccato probabilmente dalla stessa Evira, divampava e si avvicinava anche a me. Nel frattempo aveva afferrato l’orsetto, che ora stava per essere divorato dalle fiamme un po’ alla volta. Nella mia testa risuonavano ancora le parole del fuoco: «Se la ragione ritrovar vorrai, uccidere Evira tu dovrai!»

Mi resi conto che reggevo ancora quella mostruosa testa senza corpo tra le mani. La scagliai lontano da me, mentre cercavo vanamente di scendere dalla torre. Troppi erano però diciannove piani, e stavolta non c’era alcun ascensore che potesse velocizzare la fuga. Il fuoco dimenticò il patto maledetto che di notte avevamo stipulato e si impossessò di me, perlomeno dei ricordi successivi all’istante in cui caddi svenuto come se fossi morto.

 

Ho finalmente fatto chiarezza, una volta per tutte. In base alle testimonianze raccolte, Paul Baxter, ex alcolizzato ed ex drogato che mai però aveva perso il vizio né per l’alcol né per la cocaina, avrebbe ucciso la piccola Evira, sua figlia, in preda a un raptus di follia omicida. Tutta la storia dei giochi e del sacrificio al dio T’chankankrot non sono altro che frutto della sua mente deviata e allucinata, frutto insomma dei suoi costanti incubi. Paul Baxter è rinchiuso nel penitenziario di massima sicurezza di Prescott, in attesa del verdetto finale. Ma credo proprio che dopo le mie confutazioni l’ergastolo sarà la condanna minima che gli spetterà.

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