chiudi | stampa

Raccolta di testi in prosa di Paolo Dapporto
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

La botte di ferro

La botte di ferro

 

 

Il dottor Fiorelli, giovane psicanalista, era stato chiamato dalla casa di riposo “Villa Maddalena” per fornire un quadro sulla salute mentale dei ricoverati. Il direttore voleva dare un tocco di modernità alla struttura che, anno dopo anno, si stava svalutando, come era facile verificare dal numero dei clienti in continua diminuzione. Dava la colpa alle badanti straniere: puttane che sfruttano gli ultimi barlumi di vecchi rincoglioniti e qualche volta se li sposano.

Dieci visite in una mattina. Già da quel numero, il dottore si rese conto della superficialità del lavoro che gli veniva richiesto.

Il primo cliente era una donna grassa e trascurata, come sanno esserlo solo certe vecchie quando vengono lasciate sole. Si rifiutò di rispondere alle domande del dottore. Pensava che fosse un prete, di quelli moderni. Disse solo una frase:

«Io coi preti ci parlo solo se hanno la tonaca addosso.»

Poi fu la volta di un uomo che si era presentato in pigiama, ciabatte e barba lunga di una settimana.

«O bellino! E proprio a te lo vengo a dire» rispose alla domanda del dottore prima di ritornarsene da dove era venuto.

Mentre si rigirava sconcertato la penna tra le mani, il dottore sentì bussare educatamente alla porta e vide affacciarsi un uomo sulla settantina, magro, piccolo di statura, vestito con giacca e cravatta.

«Sono Ugo Cianchi, dottore. Il direttore mi ha detto che lei mi vuole parlare.»

«Si accomodi, signor Cianchi. Solo alcune domande di routine.»

«Mi dica, dottore.»

«Ecco, vorrei mi spiegasse il motivo per cui lei ha scelto di usufruire dei servizi di questa struttura.»

«È una storia lunga, ma se vuole gliela racconto volentieri.»

Il dottore dette un’occhiata rapida all’orologio e fece cenno di sì con la testa.

«Comincerò da quando sono venuto in pensione, circa tre anni fa. Andava tutto bene, la mia pensione e quella di mia moglie ci bastavano per vivere tranquilli. Ero proprietario di una bella casa, una bifamiliare, in una cittadina qui vicino. Nell’appartamento di sotto stavamo noi, mentre in quello di sopra avevo sistemato mia figlia Anna con suo marito Sergio e mio nipote Jacopo, un ragazzo di sedici anni. Mi sentivo al sicuro, in una botte di ferro, come si dice dalle nostre parti. Poco dopo però mia moglie si è ammalata. Un cancro di quelli incurabili se l’è portata via in pochi mesi. Sono rimasto solo in quella casa grande, ma mi sono ripreso presto.»

«Non è facile trovare la forza e la voglia di vivere quando si rimane soli a una certa età.»

«Vede dottore, in realtà non ero rimasto proprio solo, perché da un po’ di tempo io avevo un’altra donna, quindici anni più giovane di me. Le confesso che la morte di mia moglie mi ha procurato quasi un senso di sollievo, di libertà. Mi aveva lasciato campo libero, non avevo più bisogno di trovare le solite scuse per uscire, che poi una moglie lo capisce benissimo che hai un’amante, anche se la mia, di moglie, chiudeva gli occhi per non vedere.»

«Ma allora, dopo la morte di sua moglie, era tutto sistemato. Se anche quella donna era libera, potevate sposarvi.»

«Sì, sì, Mirella era libera, divorziata da diversi anni con due figli grandi, sposati, che vivevano per conto loro. Il vero problema erano le persone che stavano al piano di sopra, nella mia casa, mia e solo mia. Circa un anno fa, diversi mesi dopo la morte di mia moglie, mi sono fatto coraggio e ho portato Mirella a casa per farla conoscere a figlia, genero e nipote. Appena l’hanno vista, sono rimasti sconcertati. Si aspettavano una donna anziana, come la mia povera moglie, e invece si sono trovati davanti una donna ancora giovanile, due belle poppe e un bel culo, mi scusi dottore! Sembrava quasi più giovane di mia figlia Anna. L’hanno trattata con freddezza e arroganza, come se lei fosse stata una poco di buono, una rovina-famiglie, capito? Mirella si è offesa e non ha più voluto mettere piede in casa mia. Meno male che anche lei aveva un appartamentino tutto suo, dove spesso mi trattenevo anche la notte. Io sarei stato disposto ad andare a vivere in casa sua, ma i suoi figli non erano d’accordo. Ma è mai possibile che nessuno si faccia i cazzi suoi! Mi scusi, dottore, per la volgarità, ma la situazione era insopportabile. Come se gli anziani non avessero il diritto di vivere la propria vita da persone libere. Lei è giovane e non può averlo provato, ma da vecchi si ha ancora più voglia di nuove emozioni, del profumo della pelle di una donna, quel profumo che odora di peccato.»

«Io posso capire, anche se non l’approvo, l'atteggiamento di sua figlia e dei figli di Mirella, ma suo genero e suo nipote...»

«Ha proprio ragione. Li ospitavo in casa mia, non gli facevo pagare l’affitto, e loro mi ripagavano così. Il peggiore era Jacopo, mio nipote. È sempre stato un ragazzo irritante, fin da piccolo. Viziato, bizzoso, mi cercava solo quando voleva qualcosa in regalo o aveva bisogno di soldi. Quando ha raggiunto l’età del motorino, gliel’ho comprato io, mica i genitori. Per ringraziamento me lo lasciava proprio davanti al garage, tanto che per uscire dovevo fare manovre incredibili. In casa teneva il volume della sua musica così alto, che, se volevo riposarmi nel pomeriggio, mi dovevo mettere i tappi nelle orecchie.»

«Strano. I nipoti sono affezionati ai nonni.»

«Lei non conosce Jacopo. Quel ragazzo è una bestia. Va a scuola ma non studia. Ora che frequenta le superiori, gli ci vogliono due anni per superarne uno. Ma lui se ne frega e, se qualcuno gli dice qualcosa, gli risponde di farsi i cazzi suoi.

«Ma lei mi ha chiesto perché sono qui, in un ospizio, e vengo subito al punto. Circa sei mesi fa, si era all’inizio dell’estate, quelli di sopra mi hanno invitato a cena nel loro appartamento. Un evento strano perché non mi invitavano mai. Mia figlia e mio genero erano particolarmente gentili, mentre Jacopo non mi degnava neppure di uno sguardo. Non si era ancora finito di cenare, quando si è alzato ed è uscito di casa. Si è sentito forte il rumore del motorino truccato.

«Mia figlia ha cominciato a chiedermi se stavo bene di salute, se facevo i controlli medici, se mi sentivo solo in quella casa grande che avevo, facendo finta di dimenticarsi che una donna, anche giovane, io ce l’avevo e che con questa donna io ci facevo all’amore diverse volte alla settimana, non come lei che, con quel torsolo di marito, ci scommetto che ci farà l’amore una volta al mese ad andarle bene. Si è proposta anche di accompagnarmi per una visita di controllo presso un medico di sua conoscenza.

«Poi è stata la volta di Sergio, il torsolo, a parlarmi con un tono di voce suadente, dopo avermi messo una mano sulla spalla. Mi ha chiamato babbo, e questo mi ha fatto andare subito in bestia. Io non sono il babbo tuo, deficiente! Come avrà fatto mia figlia a innamorarsi di te, per me è stato sempre un mistero. Dopo avermi chiamato babbo, ha tirato fuori un discorso strano che non mi è piaciuto per niente.

«Mi ha detto che tra un mese sarebbero andati in vacanza, menomale, così vi levate per un po’ dai coglioni. E portatevi via anche Jacopo, che sarebbero stati in pensiero per me, così tutto solo in città, e ridagli con questo solo, per cui forse sarebbe stato meglio se in quel periodo fossi andato in una pensione, o pensionato, ma che ero diventato, un cane? Ha aggiunto che era pericoloso guidare l’automobile alla mia età. Ora che Jacopo aveva diciott’anni, la mia macchina potevo darla a lui, piuttosto la bruciavo. Io non ho replicato, ho preso l’uscio, sono ritornato giù e mi sono messo a letto, rimuginando sulle loro parole in cui intravedevo un’oscura minaccia.

«Il giorno dopo ne ho parlato con Mirella a casa sua. Mi ha detto di non preoccuparmi, perché, con la mia pensione e la mia casa, ero in una botte di ferro. Ha lasciato cadere subito l’argomento, perché aveva furia di fare l’amore.»

«Mirella aveva ragione. Non vedo che cosa potessero farle i suoi parenti.»

«L’ho capito alcuni giorni dopo, quando, facendo manovra per uscire dal garage, ho urtato lo scooter di Jacopo che, come al solito, era parcheggiato lì davanti. Appena mio nipote ha visto il suo scooter ammaccato, ha cominciato a offendermi, a dirmi che ero un vecchio rincoglionito, che non sapevo guidare, e che era più bravo lui anche se la patente ancora non ce l’aveva, era già bocciato due volte all’esame di teoria e secondo me la patente non la prenderà mai. Fin qui, nulla di nuovo, ma è stato il termine che ha usato subito dopo a farmi drizzare le antenne: mi ha detto che ero un vecchio da interdire. Ho fatto finta di niente, ma ho capito il gioco dei suoi genitori. Jacopo si era tradito con una parola che, conoscendo il tipo, poteva aver sentito solo in casa. I miei parenti mi volevano interdire, prendermi casa, macchina e mettermi in un ospizio per vecchi.»

«Ma non è così semplice interdire una persona sana e lucida come lei.»

«Lei non conosce mia figlia e mio genero. Sono capaci di tutto, di inventarsi chissà che cosa. Poi c’era la storia con Mirella. Per un medico o un giudice, la storia di un vecchio che sta con una donna più giovane è vista sempre con sospetto. Pensano subito che la donna si voglia approfittare di lui per portargli via tutto quello che possiede.

«Dopo la scena con mio nipote, ho cominciato a tremare, più per la rabbia che per la paura di quello che mi poteva succedere.»

«L’ira è una brutta bestia. Fa perdere il filo della ragione.»

«Se mi fossi fatto vincere dall’ira, come l’ha chiamata lei, sarei volato su per le scale e gliene avrei dette di tutti i colori a quegli ingrati. E se Jacopo si fosse messo nel mezzo, gli avrei dato anche uno schiaffo. Era da tanto che avevo quella voglia. Dallo stomaco mi saliva su per l’esofago un liquido acido che mi arrivava fin dentro la gola. Sono rientrato in casa e sono corso in bagno per vomitare. Poi mi sono steso sul letto e ho cercato di ragionare. Mi conveniva reprimere quella rabbia che mi bruciava lo stomaco, altrimenti avrei sciupato il vantaggio che mi aveva dato Jacopo con le sue parole: io sapevo, ma loro non sapevano che io sapevo.

«Quando sono partiti tutti per il mare, anche Jacopo, mi sono recato in un’agenzia e ho messo in vendita la palazzina bifamiliare. Quindi mi sono informato sulle case di cura per anziani e mi è stata consigliata questa Villa Maddalena. Ho preso la macchina, quella Punto rossa che avrà visto nel parcheggio, e sono venuto a parlare col direttore. Gli avrei pagato anche più della retta normale, perché, con la mia pensione e con la vendita della casa, avrei avuto soldi sufficienti per il resto della mia vita. Però esigevo un trattamento speciale: stanza singola, vitto abbondante e libertà di uscire anche per tutta la notte, perché la notte io vado a fare l’amore con Mirella. Il direttore, appena ha sentito parlare di soldi extra, ha accettato senza fiatare. L’agenzia ha trovato subito un compratore per la mia bifamiliare e la vendita è stata conclusa mentre i miei cari parenti erano tranquilli al mare. Quando sono rientrati dalle vacanze, dall’appartamento di sopra avevo già fatto togliere i mobili, miei anche quelli. Vedesse le loro facce, quando hanno realizzato che dovevano cercarsi una casa in affitto.»

Il dottor Fiorelli guardò l’uomo che aveva davanti con uno sguardo tra l’incredulo e l’ammirato. Aveva un’ultima domanda.

«Signor Cianchi, mi tolga una curiosità. Perché ha scelto di vivere in una casa per anziani, invece che in una pensione normale?»

«Caro dottore, ho pensato a tutto. Qui ci sono medici e infermieri, ventiquattr’ore su ventiquattro. Con l’età che ho e con la vita che faccio» Ugo strizzò l’occhio al dottor Fiorelli «non si sa mai quello che mi può capitare. Ora sto cercando di convincere Mirella a vendere il suo appartamento e venire a vivere qui. Lei fa un po’ di resistenza. Dice che è troppo giovane per l’ospizio, ma il direttore mi ha assicurato che per lui va bene. Se gli diamo un altro extra, ci sistema in una camera matrimoniale e la sera viene anche a rimboccarci le coperte. È Villa Maddalena, dottore, la nostra botte di ferro.»

*

La Z di Zorro

La Z di Zorro

 

La mattina, alle sette e mezzo precise, mi svegliava la sirena delle Officine Galileo, un suono acuto che feriva le orecchie. Non è proprio come alzarsi al suono delle campane.

«Paolo, Roberto, svegliatevi che fate tardi a scuola» ribadiva la mamma senza pietà. Sulla tavola di cucina ci aspettava una tazza fumante di caffellatte, con il caffè che non era caffè, ma “caffè d’orzo”, perché quello vero non ce lo potevamo permettere. La mamma ci metteva nella cartella una brioscia, più o meno un pezzo di pane che di brioscia aveva solo la forma, ci rincorreva per un ultimo colpo di pettine e giù di corsa per le scale.

La strada era un fiume di grembiulini bianchi e neri, troppo lunghi o troppo corti, che si muovevano tutti nella stessa direzione. Un fiume carico di risate, di corse che toglievano il respiro. Un’allegria che si interrompeva di colpo appena si entrava nella scuola, troppo grande e austera per ragazzi così piccoli.

Seduto in quel banco di quinta elementare, sezione maschile A, dentro un’aula senza odori né colori, mi assaliva un ritorno di sonno. Rimbalzando sul soffitto altissimo e sulle pareti spoglie, la voce della maestra si trascinava dietro un’eco inquietante che incuteva timore e rispetto. Era tutto così chiaro e luminoso che mi sembrava di essere finito dentro una foto in bianco e nero che avesse subito un eccesso di esposizione.

Io, nato da un matrimonio tra un metalmeccanico e una sarta, avevo come compagno di banco un ragazzo che apparteneva all’unica famiglia ricca del quartiere, un rione abitato dagli operai delle fabbriche vicine. Biondo, lo avevano chiamato Bruno. I ricchi tendono sempre a intorbidire le acque.

La casa di Bruno era un’anomalia: un villino liberty, circondato da un grande giardino, su cui si affacciavano le finestre di alti palazzoni anonimi che mostravano ancora le ferite della guerra finita da poco. Molte donne della zona lavoravano per la ditta dei suoi genitori, dove si confezionavano tovaglie e lenzuoli di qualità, tutto ricamato a mano. Ci lavoravano anche mia zia e mia nonna: mia zia ricamava, mia nonna stirava. Mi chiedevano sempre di lui.

«Come va Bruno a scuola? Sei davvero amico di Bruno? Chi è più bravo di voi due?»

Degli altri compagni non mi chiedevano mai niente.

Bruno era diverso dagli altri ragazzi. Non rideva, non giocava, era sempre triste, con certe occhiaie scure e profonde che gli scendevano lungo la faccia. Le sue ginocchia e le sue braccia non mostravano i segni delle battaglie combattute sul greto del torrente che correva lungo la scuola. Alla fine della lezione veniva a riprenderlo sua madre, anche se abitava vicino. Alcune volte, davanti al cancello, lo aspettava suo padre appoggiato a una macchina di lusso. Io credo che Bruno avrebbe preferito fare delle belle corse con i compagni, quelle corse a perdifiato fino all’ultimo albero del lungo viale, ma i suoi genitori erano di quelli che “i figli non devono sudare”. Quando lo vedevo salire nell’automobile con la sua aria triste, ringraziavo il cielo che non mi aveva fatto nascere in una famiglia ricca.

Io ci provavo: «Bruno, nel pomeriggio vieni a giocare con noi nel prato dietro la palestra» ma lui nulla, la sua mamma non lo lasciava uscire.

Un giorno mi invitò a casa sua, o meglio nel suo giardino. Me lo disse con l’aria di un grande onore impossibile da rifiutare. Infatti ci andai.

Quello però non era un posto per giocare: un giardino grande e triste, senza animali, senza prato, solo pochi alberelli striminziti che spuntavano da un pavimento di ceramica. Niente a che vedere con la vita che animava il greto del torrente, luogo di battute di caccia a lucertole e ranocchi con i soliti amici.

«Così i bambini non si sporcano» mi disse sua madre, mentre ci serviva il tè all’aperto su un piccolo tavolo metallico di forma antica. Era una signora distinta, magra, dai capelli precocemente imbiancati. Aveva più l’aspetto di una zia che di una mamma.

Una mattina, la maestra ci assegnò un tema in classe dal titolo: “A fare la spesa con la mamma”. Ma cosa credeva la maestra? Che a casa mia avessimo tempo da perdere? Che andare a fare la spesa fosse una specie di divertimento come andare al cinema?

 

Io non vado mai a fare la spesa insieme alla mamma.

Lei lavora in casa, cuce vestaglie per una ditta, e, quando c’è bisogno di qualcosa, dall’ortolano, dal pizzicagnolo e dal vinaio, ci manda me o mio fratello. Non fa neppure la lista, intanto sono sempre poche cose, come ieri: “Da Mario prendi un’aringa, di quelle al latte che piacciono al babbo, da Gino fatti dare delle arance, meglio se avesse quelle un po’ battute, i capirotti, che costano meno. Quando hai fatto, vai da Loris e fatti riempire un fiasco di vino rosso.” Guardo l’aringa che mi incarta Mario: tolte testa e coda, cosa resta da mangiare? Speriamo che la mamma ci prepari anche una frittata insieme ha questa aringa. Lei fa spesso delle frittate, dice che dentro ci nasconde gli avanzi. Nella bottega di Loris entro senza fare rumore. Dicono tutti che lui nel retrobottega aggiunge acqua nella damigiana del vino. Cerco di prenderlo con le mani nel sacco o meglio con la canna dell’acqua nella damigiana. Loris invece sta dormicchiando su una sedia in attesa di clienti. È vecchio e forse non è vero quello che si dice in giro.

 

Proprio così: un’acca in più che le maestre non sopportano. Secondo loro, l’errore più grave che si possa commettere nella vita. E io quell’acca ce l’avevo messa apposta. Ogni tanto mi andava di inserire uno strafalcione in un compito di scuola, una specie di firma, un segno di riconoscimento, la mia Z di Zorro.

Se oggi qualcuno mi domandasse perché lo facessi, non saprei dare una risposta. Divertimento? Sfida? Follia? Masochismo? Delirio di onnipotenza? Forse semplicemente il desiderio di non distinguermi troppo dai compagni per essere accettato nei loro giochi. Sì, perché i primi della classe non godevano di buona reputazione nel mio quartiere, dove i galloni ci si guadagnavano con la forza, la velocità, la fionda, l’archetto, la cerbottana.

La maestra mi scrutò con occhi severi e premiò Bruno per il miglior tema della classe. Chissà che cosa si sarà inventato Bruno, che a fare la spesa non c’era mai andato né solo né in compagnia della mamma, che nelle botteghe ci mandava la mia nonna quando aveva finito di stirare le tovaglie.

Mi ricordo ancora la beatitudine che gli si leggeva in faccia. Lo vidi perfino sorridere mentre stringeva con forza l’automobilina rossa che gli aveva regalato la maestra, un premio a sorpresa. Era così bella quella macchinina con la carica a molla che mi pentii amaramente di aver messo la mia Z nel giorno sbagliato.

Fuoriuscì, prepotente, tutta la rabbia repressa per l’automobilina rossa, la villa liberty, l’automobile di lusso, il tè servito nel giardino, la nonna, la zia. Decisi di vendicarmi con quella perfidia che hanno solo i bambini.

Confabulai con alcuni compagni che, all’uscita dalla scuola, lo circondarono: «Stupido! Paolo l’errore ce l’ha messo apposta.»

Stavano ridendo tutti di lui. Sembrava che non avessero aspettato altro per poterlo umiliare. Bruno spalancò gli occhi incredulo e scoppiò in un pianto dirotto.

La storia non finì lì.

Bruno si lamentò con sua madre, una di quelle donne che “mio figlio non si tocca”, sua madre si lamentò con mia zia, mia zia si lamentò con mio padre, mio padre si lamentò con me: «Perché hai fatto questa scenata a Bruno, inventando una storia così strampalata? Non lo sai che i suoi genitori sono delle persone perbene che danno lavoro alla nonna e alla zia?»

La questione stava prendendo una brutta piega. Non era proprio il caso di scherzare con il lavoro.

Lei, la sua mamma, non ancora contenta, andò a raccontare l’episodio alla maestra. La maestra mi prese in disparte:

«Non farlo più!»

«Non fare più che cosa?»

«Non mettere più errori volontari nei compiti.»

«Ah!» preso alla sprovvista non seppi rispondere altro.

«E non mortificare Bruno. Lui è un bambino fragile, non è come te.»

Delle mie fragilità non si preoccupava nessuno.

 

Finite le elementari, ci siamo persi di vista. Io sono andato in una scuola media pubblica, quella del quartiere, Bruno in una scuola privata, per famiglie ricche. Si sono sciolti anche i legami tra le famiglie, perché mia nonna era vecchia e non ce la faceva più a stare in piedi a stirare e anche mia zia, con gli occhi rovinati a forza di ricami su lenzuoli e tovaglie, aveva dovuto smettere di lavorare.

Io non la misi più la Z di Zorro nei compiti, tranne una volta proprio alle scuole medie. Mi ero innamorato della professoressa di francese e volevo che lei mi notasse, si accorgesse di me. Parlando di Firenze, in un compito scrissi la ma ville, errore grossolano che suona così male che non poteva passare inosservato.

Lei segnò l’errore con la matita blu e mi guardò con la sua solita aria di superiorità (Dio, come mi piaceva quella sua espressione), col nasino rivolto all’insù, del tipo “ma guarda in che razza di scuola mi hanno mandato a insegnare”.

*

Bridge

Bridge

 

Dio, come ho giocato male stasera!

 

Sono tornato a casa tardi e fatico a prendere sonno in questa camera buia, dove non filtra neppure un filo di luna. Non so se mettermi di fianco oppure restare supino. Dopo l’operazione al ginocchio è difficile trovare la posizione giusta per dormire.

 

Enzo, che di solito sopporta i miei errori, stasera non ha nascosto il suo disappunto e alla fine della serata mi ha salutato con un frettoloso “buonanotte”. Perché continuo a giocare a bridge? Non ho mai avuto una grande passione per le carte e spesso mentre gioco i miei pensieri navigano altrove.

 

Stasera pensavo al risultato di un mio racconto in un concorso: terzo posto. Appena ho avuto la notizia, ho fatto un salto di gioia, perché non me lo aspettavo, anche se il racconto mi sembrava bello. Ero soddisfatto di me stesso e il sorriso dipinto sul mio volto ingannava Enzo sulla bontà delle carte che avevo in mano.

 

Certo, Enzo ha le sue ragioni. Non solo non mi applico nello studio delle strategie, ma alcune volte gioco senza ragionare. In quella mano avrei dovuto attaccare col re di cuori, anche se era secco, così l’avversario avrebbe giocato l’asso, liberando delle carte al mio compagno.

 

Quando ripenso al concorso, mentre mi rigiro tra queste coperte sempre più calde, non sono più così contento. Il terzo posto non mi soddisfa: ha il profumo agrodolce della consolazione. Il giorno delle premiazioni saremo solo in tre, il primo, il secondo e il terzo, cioè l’ultimo.

 

A me non importa di perdere una mano se gli avversari sono persone con cui mi trovo a mio agio. Ma quando perdo con quelli supponenti, con la puzza al naso, mi prende una rabbia… Chi si credono di essere? Prima di pensare di essere tanto bravi e intelligenti, si confrontino anche su altri argomenti. Il bridge non è l’unica cosa che esiste al mondo.

 

Domani finisco di scrivere il racconto per il concorso sull’Arno. Boh, inventerò qualcosa, magari tirerò fuori una vecchia storia d’amore con una compagna di classe. Le storie d’amore tra adolescenti funzionano sempre. Lo intitolerò “Un amore sulle rive dell’Arno prima dei lucchetti”.

 

Però anche Enzo fa degli errori. Forza troppo il gioco anche quando le carte non glielo permetterebbero e gli avversari lo contrano. Lui gioca bene, però, se non ha le carte buone, è un gigante con i piedi d’argilla. La prossima volta glielo dico: “Devi essere più prudente, dichiari troppe volte 6 di qualcosa ed è difficile rispettare la licita anche se giochi bene la mano”.

 

Io ho tante cose da fare tutti i giorni, ma la cosa più bella è uscire fuori con Niccolò, il mio nipotino. Mi sono convinto che lui mi aspetti sempre e che stia male quando sente il campanello e vede che non sono io.

 

Ho provato a leggere e studiare i libri del bridge, ma sono di una noia mortale. Quello che mi ha prestato Enzo per la verità non è male: è scritto da un professionista inglese con humor e garbo. Lo leggo volentieri anche per il titolo: “Perché perdete a bridge.” Capissi questo, sarebbe già qualcosa.

 

Ora c’è anche la gatta che non sta bene. Non si muove dalla cuccia e non mangia. Povera Chicca, è vecchia e non gli resterà molto da vivere. Domattina la porto dal veterinario. Gli animali vecchi sono come le persone, vanno trattati con cura, come si trattano i bambini, come io tratto Niccolò e come vorrei essere trattato io quando sarò più vecchio.

 

Stasera poi ho avuto una sfortuna che non vi dico. Carte brutte: nessun asso e pochi re. E non è che, in compenso, io abbia fortuna in amore. Non ho mai creduto a questa fantasia popolare, anzi per me è vero il contrario: chi ha fortuna nelle carte ce l’ha anche nell’amore, perché il mondo è ingiusto e aiuta sempre le stesse persone.

 

Domani dovrei andare avanti anche con il libro che sto scrivendo a quattro mani con un detenuto del carcere di Prato. Per me non è facile parlare di traffico di droga e di omicidi. Preferirei parlare di sentimenti, di amori giovanili, di atmosfere serene.

Il protagonista del mio prossimo libro sarà un maestro delle scuole elementari, uno degli ultimi esemplari di una specie in via di estinzione. Un uomo che ha conservato l’anima di fanciullo, come il maestro che avevo io. All’uscita della scuola veniva a riprenderlo il figlio, un ragazzone di una ventina d’anni. Dicevano tutti che era un maestro matto, ma noi gli volevamo bene.

 

Però, Enzo, almeno una mano l’ho giocata bene, quando ho indovinato due impasse. Ma Enzo stasera non era in vena di complimenti e quando scherzando gli ho detto: “Nel gioco della carta sto migliorando” mi ha risposto di no in modo secco, con la faccia severa.

 

Meno male che nel pomeriggio vado a prendere Niccolò. Lo porterò ai giardini, perché lui ha scoperto gli scivoli. Si diverte a buttarsi giù a testa in avanti e io devo stare in fondo a frenarlo, altrimenti va a sbattere la faccia per terra. Tra poco finirà due anni e gli devo insegnare a spegnere le candeline. Niccolò è la mia gioia. Quando un'amica mi ha chiesto quale fosse stata la mia prima sensazione di nonno, le ho risposto che ho provato per la prima volta il dispiacere di dover morire.

 

Una cosa che non capisco del bridge è questa strana gerarchia dei semi, con le picche che contano più di tutti gli altri. Nel poker vale un’altra regola, quella del “come quando fuori piove”, con le cuori che precedono le quadri. Mi farò spiegare il motivo da Enzo, che conosce bene la storia del bridge; comunque penso che la ragione stia nel volersi distinguere dai giochi popolari.

 

Appena sarà un po’ più grande farò un discorso serio a Niccolò. Gli dirò di non rattristarsi troppo quando non mi vedrà più. I nonni sono stelle comete, volano via quando meno te l’aspetti, insieme alle malattie di stagione e alla giovinezza.

 

Enzo mi dice sempre che gioco con troppa fretta, senza meditare a fondo sulla carta da giocare. Hai ragione, Enzo. Io gioco veloce perché vivo di pensieri semplici, nel bridge e nella vita.

 

Cavolo! Non è neppure un’ora che sono tornato e ho già voglia di andare in bagno. Mi devo alzare dal letto, ma mi fa tanta fatica. Dovrei andare dall’urologo, ma il pensiero di avere una brutta malattia mi terrorizza. Preferisco non sapere e nascondere la testa sotto la sabbia, come gli struzzi.

 

Però faccio bene a continuare a giocare. Il bridge stimola il ragionamento e la memoria. Spero anche che tenga a bada l’Alzheimer, una malattia che mi fa molta paura.

 

I pensieri cominciano a trasformarsi in sogni. Finalmente lei arriva, cortese come un’ombra e leggera come una carezza. I suoi occhi neri sono più profondi di un abisso. Mi sorride e dietro le sue labbra rosse intravedo quel dentino scheggiato che mi ha sempre fatto impazzire.

 

D’un tratto il suo sorriso si confonde con quello beffardo della donna di fiori. L’ho scartata dimenticandomi che il re era già passato e ho buttato a mare uno slam sicuro. Proprio da una donna mi sono fatto fregare.

 

Lo slam mi fa tornare in mente ricordi lontani di partite di tennis. Chissà se ora con le protesi alle ginocchia potrò ricominciare. Non l’ho detto a nessuno, ma è proprio per poter giocare a tennis che mi sono fatto operare. Ho tirato fuori altri motivi, dolori durante la notte, difficoltà a salire e scendere le scale. La verità è che quando si diventa vecchi si ha ancora più voglia di vivere: si sognano amori travolgenti con donne giovani che ti portano via, imprese sportive straordinarie, scoperte scientifiche che fanno il giro del mondo.

È brutta la vecchiaia se non si ha qualcosa in cui credere o qualcosa che occupi il tuo tempo, come scrivere un libro, come portare a spasso il nipotino.

 

Può bastare anche il bridge.

*

Sotto le foglie

Microsoft JScript runtime error '800a003e'

Input past end of file

/testi_raccolta.asp, line 83