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Raccolta di testi in prosa di Fernando Massimiliano Andreoni
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Il Battito

 IL BATTITO 

 

 

 

A te

L’amore sospeso

La donna ritrovata 

 

 

“Tic tac, tic tac, tic tac”. Quel ticchettio era inesauribile, inspiegabile, agghiacciante ma attraente al tempo stesso. Fred saliva le vecchie scale della torre medievale sempre più in fretta, sempre più con il cuore in gola, con un solo obiettivo in testa: scoprire che cosa fosse.

Le scale erano vecchissime, piene di ragnatele, scarafaggi, e altre strane…creature, probabilmente insetti, ma mai visti prima, e ogni due o tre passi emettevano uno scricchiolio che non lasciava presagire niente di buono.

L’aria era scura, le poche finestre tutte appannate, o sporche, la luce entrava a stento, e si avvicinava l’ora del crepuscolo. Fred accese la piccola torcia che aveva nello zaino, e continuò ad avanzare. Non era esattamente paura l’emozione che percepiva: c’era un misto di curiosità, timore, speranza, fiducia. Quest’ultima probabilmente infondata, come gli avrebbe ribadito il suo amico Michele se fosse stato lì: “Scusa, ma come fai a dare credito ad una tipa, mezza zingara e mezza fattucchiera che ti ha estorto dieci euro per leggerti le carte e poi ti ha detto che avresti dovuto salire sulla vecchia torre, ma dai…?!”

Ma Fred aveva seguito il suo istinto, quello stesso per anni lasciato marcire in cantina, quello stesso che negli ultimi tre mesi lo aveva “costretto” a mettere sotto sopra tutta la sua vita, a rovistare tra i ricordi, spesso dolorosi, ad affrontare le relazioni attuali, spesso bloccate, e tentare di spiccare il volo. Forse la torre aveva un nesso con quel volo? Forse dalla sua sommità, dove da sempre nidificano le rondini, avrebbe potuto idealmente lanciarsi verso una nuova vita?

Mentre questi pensieri affollavano la sua mente si accorse che i gradini erano terminati. Davanti a lui si apriva un piccolissimo pianerottolo, capace di contenere al massimo tre o quattro persone, e alla sua destra una porticina, malmessa, tutta sgangherata e polverosa. Fred girò la manopola, ma la porta non si apriva, evidentemente era chiusa a chiave. Osservando l’ambiente vide un chiodo arrugginito da cui pendeva uno spago quasi trasparente, tanto era vecchio, con una chiave penzolante alla sua estremità. Strappò la chiave, la infilò nella serratura e si trovò in una grande stanza, piena di oggetti, piena di storia, ma la storia di chi? Tavoli, sedie, quadri, tende, lampadari, tappeti: gli sembrava di essere finito in un buco spazio temporale che lo avesse proiettato in un’altra epoca. La luce penetrava, timidamente, da un paio di finestre, con gli scuri non del tutto serrati, mentre lentamente il fascio della torcia di Fred provava ad illuminare gli oggetti.

Ad un certo punto la sua attenzione fu catturata da un riflesso: davanti a lui spiccava, poggiato alla parete più grande della sala, uno specchio. Era molto grande, sarà stato alto almeno tre metri e largo almeno la metà. Prima di avvicinarcisi aprì un po’ di più gli scuri di uno dei due finestroni, per vedere meglio, e poi ci si pose davanti.

Attese alcuni attimi, sentiva solo il rumore del proprio respiro, inaspettatamente era cessato ogni cigolio, nessun rumore, un silenzio quasi irreale. Ed era scomparso anche il battito, quel battito che lo aveva condotto fin lì. Guardò meglio e nello specchio vedeva molto bene se stesso: i capelli grigi, la barba curata, le sopracciglia che non erano stranamente mai invecchiate. E poi le scarpe da tennis, i jeans, e il giubbotto leggero su cui cadeva un’estremità del foulard. Poi, all’improvviso, qualcosa sembrò muoversi. Si stropicciò gli occhi, un po’ incredulo, ma c’era una leggera nebbiolina nello specchio, una nebbia particolare, quasi di color azzurro. Fred roteò gli occhi per guardarsi intorno, ma non c’era traccia di nebbia, quella foschia era solo nello specchio.

Si diede un pizzicotto, per capire se stesse dormendo, ma era ben sveglio. Iniziò ad osservare meglio lo specchio, perché al di là della nebbia sembrava animarsi qualcosa. Vide allora un neonato, prima piangere, poi ridere, tra le braccia di una donna, poi dentro una culla, infine in un grande letto coperto con un panno di quelli che non si usano più. Quel volto era familiare, quelle scene erano familiari, e non ci mise molto a comprendere che erano scene della sua vita. Nell’istante esatto in cui realizzò questa certezza, in cui cuore e mente si unirono in un’emozione indicibile, il ticchettio ricominciò, molto più intenso di prima, sempre con la stessa tempistica: “Tic, tac, tic, tac, tic, tac”.

“Com’è possibile?”, pensò tra sé, anzi, non lo pensò, lo disse, muovendo le labbra. Ma mentre lo diceva il suo sguardo era irresistibilmente attratto, come una calamita, da quello specchio e dalle scene che “stava proiettando”. E vide sorridendo se stesso che gattonava per le stanze della casa, e due braccia che lo sorreggevano. E ancora contemplò estasiato il volto di sua madre, il suo sorriso, quelle gambe altissime, che da piccolo gli sembravano infinite, e quelle scarpe che indossava, sempre con il tacco, anche in casa.

Di che cosa si trattasse esattamente Fred non riusciva davvero a capirlo, ma la cosa gli piaceva, tanto che decise di sedersi per terra. Intanto la vita, la sua vita, scorreva velocemente davanti ai suoi occhi, e la cosa buffa è che riusciva a vedere soltanto i momenti di felicità e di gioia, quasi che quelli più duri, quelli dolorosi, li avesse già affrontati altrove. Ed ecco momenti della sua adolescenza, le prime cotte, la discoteca, i viaggi, le speranze. E poi lo specchio si popolò di nuove figure, altri bambini, di nuovo piccoli e poi sempre più grandi: sì erano proprio i suoi figli, e nello specchio ora viveva la sua esperienza di padre. Fred era commosso, ed aveva quasi smesso di fare caso al ticchettio che, imperterrito, riempiva ormai tutta la stanza. Ma ad un certo punto le immagini si fermarono. Fu come se la pellicola fosse incappata in un fermo immagine, dove c’era lui con i suoi ragazzi. Fu a quel punto che il rumore destò nuovamente la sua attenzione, quasi un ritorno alla realtà, dopo l’immersione in quel turbinio di emozioni e di scene già vissute.

Si alzò e cercò di capire da dove provenisse quel suono. Ad un certo punto scorse all’altra estremità della stanza un orologio a pendolo. Era molto alto, più di lui, e con sua grande sorpresa, era in funzione e segnava anche l’ora esatta. Gli si avvicinò, e con una mano provò a togliere un po’ di polvere al quadrante. Nella parte sottostante l’orologio notò un’altra serratura. Memore della porta osservò il muro lì vicino, a destra e a sinistra e intravide un’altra cordicella di spago ed un’altra chiave. Staccò anch’essa e la inserì nella serratura. Lentamente aprì lo sportello. Appena girata la chiave nella fessura il battito cessò e nella penombra udì una voce che gli diceva: “Buonasera Fred”. L’uomo fece un balzo all’indietro, istintivamente. Poi con un bel respiro provò ad avvicinarsi nuovamente, allungando il viso davanti al corpo. “Non avere paura”, ripeté la voce, “Non voglio farti del male”.

“Chi sei tu? E dove sono capitato? Anzi che cosa mi sta accadendo?” chiese Fred a colui che ancora non aveva potuto vedere. “Quante domande, calma, c’è un tempo per ogni cosa, intanto fammi uscire da qui”. Ed ecco che un omettino, poco più alto di un metro e trenta, prima con un piede e poi con l’altro, uscì dal pendolo. Cominciò a scuotere le gambe, i piedi, a togliersi dalle braccia e dal corpo chili di polvere, a dimenare la testa e a pulirsi i capelli, che, se erano sembrati bianchi ad una prima impressione, apparvero dopo pochi istanti, neri come la pece.

“Davvero non hai ancora capito?. “No, non ho capito niente”. “Niente accade per caso, c’è un destino per ognuno di noi, io almeno lo chiamo così, altri lo chiamano diversamente. E’ il destino di felicità che le stelle hanno scritto per noi, sarebbe sufficiente seguirlo, ed abbiamo una bussola fantastica, il nostro cuore. Ma spesso, troppo spesso, lo dimentichiamo, e quindi perdiamo la strada. Tutto qua. Tu hai capito già da un po’ di tempo di averla ritrovata e hai capito come si fa ad ascoltare il cuore, finalmente. Oggi hai incontrato la zingara, non era lì per caso, sei salito fin quassù, ed anche questo era scritto da qualche parte. E quindi qualcosa deve ancora succedere. Quella che hai visto scorrere nello specchio era la tua vita, anzi, i momenti di felicità della tua vita. Belli vero? E quanti, non dimenticarli, mai!”

Fred era incredulo, con la bocca aperta. Sapeva di essere sveglio ma non riusciva a credere a quello che gli stava accadendo. “Ma tu chi sei, esattamente?”, domandò all’ometto, con un’aria un po’ sbigottita, tra la curiosità e l’inquietudine. “Io sono il ricordo di qualcosa”, rispose lo strano ometto, che, mentre parlava, si posizionò in un punto della stanza dove la luce illuminava più chiaramente, e, fuori dalla penombra, si mostrò in tutte le sue fattezze: una giacca sgualcita, un papillon blu come la notte più profonda, un panciotto stile anni ’30, dei pantaloni pieni di polvere e di muffa, e due scarponi che pareva aver rubato ad un clown del circo. Ed uno strano, ineffabile, profondo sorriso spalancato sulle labbra.

“Ehi, ma mi comprendi? Forse non parli la mia lingua? Ti ho detto che sono il ricordo di qualcosa!”, ribatté l’ometto, con un tono ben più deciso. “Sì, sì, ho capito, o almeno credo”, rispose a quel punto con un balbettio appena percepibile Fred. “Ma scusami, puoi essere più chiaro: di quale ricordo si tratta?” aggiunse, ricordando il suo coraggio che raramente lo aveva abbandonato. “Ah allora ci sei, finalmente, pensavo che tu avessi fatto tutta questa faticaccia per niente. Sì, sono il ricordo di un amore, di un amore sospeso, di un amore antico, di un amore che hai dimenticato, o forse lo hai creduto, e se sei qui significa che sei pronto a ricordarlo, e, forse, anche ad accogliere le conseguenze di tutto ciò!”

Fred rimase ancora più sorpreso da questa rivelazione, ma c’era anche qualcosa di potente, di attraente come una calamita, in quell’essere, in quello che diceva, e soprattutto in quello che lasciava intendere. Decise di avvicinarsi, fece un passo avanti e strinse forte la mano del suo interlocutore. Una scossa fortissima lo attraversò completamente, dalla punta dei piedi all’ultimo capello, gli interruppe il respiro e svenne, cadendo a terra.

Si svegliò di soprassalto. Il letto sembrava il campo di una battaglia, cosa che non succedeva mai, anzi, generalmente i suoi movimenti notturni erano molto limitati. Aprendo gli occhi osservò le cose intorno a sé, le pareti arancioni e piene di foto, le pile di libri e fumetti, il computer a terra, il telefono in un angolo del letto, i fogli di appunti stropicciati. “Tutto regolare”, pensò tra sé e sé. Dunque era stato un sogno? Un po’ troppo reale per essere solo un sogno, un po’ troppo a tre dimensioni, un po’ troppo forte. E ascoltando un po’ più anche il suo corpo, notò che la mano destra, quella che aveva stretto la mano dell’ometto, era ancora indolenzita, quasi ricordasse ancora la scossa elettrica.

Si vestì velocemente e scese al piano di sotto. Decise di non prepararsi il caffè come faceva di solito. Si era ricordato di un appuntamento e, ovviamente, era in ritardo. Uscì, chiuse la porta di casa, indossò il casco e partì in moto. L’altra persona era fortunatamente più in ritardo di lui, e l’incontro di lavoro fu abbastanza semplice e rapido. Ma la testa di Fred era altrove, era rimasta alle parole del tipetto dell’orologio, e soprattutto queste tre…: ”Un Amore Sospeso”.

Terminato l’incontro aveva bisogno di qualcosa di forte. Lì vicino c’era una delle sue pasticcerie preferite. Ci arrivò in un attimo. Entrò soprappensiero, ordinò un caffè senza fare troppo caso alle persone che affollavano il locale. Velocemente si recò alla cassa a pagare il conto e alle sue spalle sentì la voce di una donna che gli diceva: “Ciao Fred Rosetti”. Era una vita che non si sentiva chiamare per cognome ed era una vita che non sentiva quella voce. Si voltò e vide, in mezzo alla gente, sorridente, Ginevra, la sua compagna delle scuole medie, la sua fidanzatina. Ebbe un attimo di smarrimento, che fu molto evidente, tanto che Ginevra continuò: “Scusa, mica farai finta di non riconoscermi, dai non te la tirare!”, e accompagnò questa frase con una fragorosa risata. Fred affrontò l’imbarazzo e lo sconvolgimento, si avvicinò alla donna, e mentre le sussurrava un “Ciao” molto lieve, le baciò una guancia e, quasi inavvertitamente, le sfiorò una mano con la sua. Improvvisamente lui e Ginevra furono attraversati da una sorta di scossa elettrica, come quella che in inverno si percepisce toccando l’auto o sfiorando i piumini indossati, ma Fred la riconobbe subito, era la stessa del sogno, stessa intensità, stessa forza, stessa emozione e, guardando Ginevra, riconobbe anche lei, l’amore rimasto sospeso nel tempo. E lei gli sorrise come se non si fossero mai lasciati.

 

06 novembre 2015

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Non temere la notte

NON TEMERE LA NOTTE

 

 

Non sempre è come sembra

Ma sempre c’è una strada

Dagli astri ben voluta

Che mi conduce a te

 

 

 


 

La luna era alta nel cielo, rossa come un tizzone ardente. L’aveva vista altre volte così, ma con lo sguardo si soffermò a lungo ad ammirarla, mentre nella radura risuonava solo il rumore del suo respiro, pesante e potente al tempo stesso.

Il maschio si mosse dalla roccia su cui era rimasto accovacciato per molti minuti osservando il cielo. Mosse lentamente gli arti, osservando con la coda dell’occhio dietro di sé, quasi in attesa di qualche cenno di vita animale.

Il bosco si infittiva là davanti: castagni, pioppi e molti altri tipi di alberi si intrecciavano fornendo all’occhio uno sguardo d’insieme armonico e selvaggio. Mentre avanzava si accorse di essere già passato di lì altre volte: ombre di rami, radici che spuntavano dal terriccio umido e sabbioso avevano un aspetto familiare.

Rapidamente iniziò a muoversi tra i fusti degli alberi: all’interno della boscaglia la luce della luna filtrava in maniera irregolare, illuminando a tratti: una goccia di rugiada sembrava staccarsi da una foglia di acero, brillando con un riflesso azzurrognolo, il muso di uno scoiattolo spuntava dal cavo di un platano, con gli occhi strizzati perché colpiti da un raggio di luce e laggiù, in fondo a quello che appariva come un sentiero naturale, liane scendevano da alti arbusti e intrecciandosi, si muovevano quasi a passo di danza sotto una leggera brezza.

Ad un certo punto gli parve di non conoscere quel pezzo di foresta: molte volte l’aveva attraversata, segnando con tutti i sensi di cui la natura lo aveva dotato la mappa di quei luoghi, ma in quel momento, quel tratto particolare, sembrava completamente a lui nuovo e inesplorato.

Strizzò entrambi gli occhi nel tentativo di individuare elementi conosciuti: la corteccia di un albero, la sagoma di un tronco, il disegno di un ramo, ma niente destò la sua attenzione come un qualcosa di già incontrato.

Mentre procedeva molto lentamente osservò in terra una qualcosa di molto particolare: il terriccio era completamente sottosopra davanti al suo arto, e, pochi centimetri più avanti, si infossava abbondantemente. Avvicinandosi con estrema cautela i suoi occhi individuarono distintamente il perimetro di un’orma, una molto grande, quella di un predatore; sì quella di un orso.

Con un movimento molto più rapido dei precedenti cercò di scrutare meglio il terreno, per scoprire altre orme, per capire la direzione che doveva aver preso il grosso bestione, per decidere che fare, per scoprire da quale parte proseguire.

Le orme però non erano per niente chiare, e non ce ne erano molte altre nitide come la prima, quasi come se il predatore avesse deciso di muoversi sugli alberi. Pur intuendone l’impossibilità alzò gli occhi in alto per vedere se e cosa si muovesse tra i rami intorno a lui.

Per far questo trattenne il respiro per alcuni attimi: il timpano, da sempre molto sensibile, captò il canto notturno di una civetta che risuonava in lontananza, lo sciacquettio del rigagnolo che scorreva poco più avanti, e il fruscio del vento tra le foglie, oltre all’inesauribile verso di un paio di grilli che parevano comunicare a distanza.

L’analisi dei rumori circostanti lo tranquillizzò e si avvicinò al ruscello per bagnarsi le labbra e far scorrere qualche sorso d’acqua in bocca.

Intanto la luna si era spostata e in quel momento si era infilata quasi a forza tra i grossi rami di due faggi che si incrociavano proprio sopra lo scorrere dell’acqua, provenienti ognuno da una sponda diversa del torrente. Era come se avesse scelto di incastonarsi in una cornice naturale, e il riflesso di quel corpo tondo, ora meno rosso e più giallo di prima, gli colpì il centro di entrambe le pupille che, dal canto loro, brillarono di un rosso amaranto così scintillante che si sarebbe potuto vedere a centinaia di metri di distanza, come due piccoli fari sparati nel bosco.

Mosse la testa a destra e a sinistra e riprese a muoversi, sempre in cerca di sentieri conosciuti, fino a quel momento non ancora individuati.

Per qualche metro seguì il corso d’acqua e, quando questo deviò in maniera improvvisa verso destra, lui si voltò nella direzione opposta e vide che poco più avanti gli alberi si diradavano. Seguendo il proprio istinto arrivò fino a quel margine di foresta e scorse, in mezzo ad una specie di anfiteatro naturale, una roccia molto grande con un bordo a spiovente. Vi si avvicinò con circospezione, mentre con le orecchie cercava di ascoltare ogni piccolo suono o vibrazione, quasi a coprirsi le spalle e, arrivato in prossimità di essa, fu attratto da uno spettacolo impressionante.

La roccia si trovava al limitare della collina e, sotto di essa, il contorno della radura precipitava a strapiombo per alcune centinaia di metri. Ma non era questo che aveva destato la sua attenzione. Più avanti, laggiù, in mezzo all’orizzonte, si accendevano le luci della città: centinaia, migliaia, milioni di piccoli lumicini di tutti i colori illuminavano a giorno la pianura.

Si accucciò sulla roccia stranamente ancora calda del tepore del tramonto autunnale di qualche ora prima e, quasi con avidità, si mise a scrutare il panorama con estrema attenzione. Individuò facilmente strade, autostrade, aeroporti, dove le luci seguivano delle linee regolari, ma anche i grattacieli che, con l’alternanza di luci accese e luci spente disegnavano lo skyline della metropoli. Non si era mai addentrato con così attenzione in quel paesaggio notturno e, per qualche attimo, l’affanno che aveva sentito salire su dalle viscere fino alla gola parve placarsi. Guardava con ingordigia il muoversi degli elementi sull’orizzonte, persone, come piccolissime formiche in lontananza, ma anche mezzi meccanici, che muovevano le loro luci quasi fossero occhi e i cui suoni arrivavano sulla montagna come rumori ovattati e quasi privi di sonorità.

Improvvisamente un fruscio proveniente dal bosco lo fece sobbalzare. In un attimo si ritrovò all’estremità opposta della radura, con le orecchie attente ad ogni movimento, anche il più impercettibile. Ne scorse uno a circa ottanta piedi dalla sua posizione, poi settanta, poi più vicino. In un batter d’occhio si addentrò nuovamente tra gli alberi, mentre il rilievo su cui sorgeva la foresta diventava più scosceso.

Mentre procedeva con passi piuttosto sicuri un gufo si mosse poco sopra di lui facendolo sobbalzare e, nel movimento inconsulto e precipitoso, sbatté il viso contro un arbusto rampicante particolarmente robusto. L’impatto fu repentino e violento, anche se non interruppe il suo procedere, e gli lasciò il viso molto indolenzito nella porzione colpita.

Mentre radunava nuovamente tutte le sue energie, una piccola ferita sul labbro superiore provocò rapidamente la fuoriuscita di sangue. Senza fermarsi si leccò entrambe le labbra e un sapore dolce e acidulo al tempo stesso gli riempì le papille gustative, accompagnato da una sensazione di calore.

Era ormai arrivato sulla sommità della foresta che sempre più ripida, si stagliava con gli ultimi alberi verso il blu profondo del cielo mentre la luna, salendo da est, continuava a levarsi nell’oscurità della notte senza ancora essere arrivata al suo zenit.

Lì sotto, di nuovo, la montagna precipitava in una gola molto profonda, tanto che alcune piccole rocce schizzate sotto i suoi piedi impiegarono almeno un minuto per giungere in fondo alla vallata, raccontandone la distanza attraverso l’eco della loro caduta.

Dopo averne osservato l’ altezza si voltò di nuovo verso gli alberi che, di fronte a lui, segnavano la fine del bosco, e, in quel medesimo istante, sentì nuovamente, l’avanzare del rumore da cui aveva tentato invano di allontanarsi.

Quaranta piedi, trenta, venti, le foglie dei rami che iniziarono a muoversi in maniera quasi spasmodica e poi, sempre più vicino, un rumore goffo e a tratti fragoroso, smorzato e ansimante al tempo stesso, un misto tra l’affanno di un respiro ed un grugnito.

Fu il naso la prima cosa che spuntò dietro quegli alberi, un naso pronunciato che con energia iniettava aria nei polmoni e con altrettanta forza la espelleva insieme a liquidi e rantolii di vario genere. Ma attaccato a quel naso c’era l’enorme corpo di un pachiderma, un orso labiato, con la tipica macchia bianca sul muso, con le sue quasi trecentocinquanta libbre di peso addosso, e con un’aria impenetrabile tra il minaccioso ed il bonaccione.

Si fermò improvvisamente al limitare del bosco scorgendo una sagoma stagliarsi alla luce della luna sul bordo della montagna. I due maschi si osservarono in silenzio per lungo tempo. Non ci è dato di sapere che cosa sia passato per la testa dell’orso, mentre, leccandosi ancora con la lingua la ferita da cui non colava più alcuna goccia di sangue, l’altro maschio parve intravedere in quell’incontro un dejà-vu, quando, circa trenta lune prima, aveva incontrato un orso simile, e si era poi infilato in una grotta stretta e inaccessibile al grosso mammifero per evitare un’impari lotta.

Adesso era più adulto, adesso era più esperto, adesso aveva pochi attimi per decidere il da farsi. Senza che potesse evitarlo alcuni fotogrammi della sua vita gli si posero davanti: scene di vita, i suoi eredi, la garanzia del proseguo della sua stirpe, che giocavano ancora piccoli a rincorrersi in un prato pieno di margherite e di farfalle, l’odore del muschio sotto le radici degli alberi dopo una giornata di pioggia, l’immagine di un cervo che lo aveva guardato negli occhi in un atteggiamento di sfida durante una delle ultime battute di caccia.

Ma tutto questo in un paio di interminabili secondi. Subito dopo gli occhi dei due maschi si incrociarono, l’amaranto contro il grigio, pupille che nella notte scrutavano l’altro: la preda, il carnefice o, semplicemente l’avversario?

In quel preciso momento tra le zampe posteriori dell’orso si udì un altro movimento, ansimante e incerto, e la macchia bianca del muso di un piccolo orso fu la prima cosa che apparve sotto il dorso dell’orso adulto.

L’orsetto si leccò abbondantemente una zampa con la lingua e si raggomitolò sotto l’addome del genitore che con un colpetto affettuoso lo spostò e lo fece girare su se stesso. Appena il tempo di gettare un ultimo sguardo verso il profilo del suo rivale e l’orso sparì tra gli alberi spingendo amorevolmente il cucciolo davanti a se.

L’altro maschio respirò a pieni polmoni, osservò la luna, ora completamente bianca, che si stagliava nel punto più alto della volta celeste, mentre da est brillavano nella profondità del cielo boreale Andromeda, Pegaso, l’Acquario e la costellazione dei Pesci e, con passi lenti e misurati, arrivò fin sotto la quercia che delimitava il confine nord della montagna.

Dal limitare del bosco, silenziosa e inaspettata, si avvicinò la sagoma di un altro essere, una femmina, che senza quasi produrre alcun rumore gli si avvicinò, sfiorandone il petto.

E mentre una nuvola copriva parte della luna, il viso della femmina si avvicinò a quello del maschio, fino ad annusarne l’odore, e a sincronizzare il respiro. Il battito di ali di un falco che in picchiata si lanciava su una preda ruppe la magia di quel silenzio, i visi dei due lupi, finalmente vicini, si sfiorarono e il loro accovacciare il muso sulla spalla dell’altro si stagliò sullo sfondo della luce della luna. Avrebbero trascorso lì la notte, accovacciati sotto l’occhio delle stelle.

 

02 ottobre 2016

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Tutta la vita in un attimo

 

 

 

 

 

 

 

TUTTA LA VITA IN UN ATTIMO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un attimo di te

Vale tutta una vita

 

 

 

 

Non era stato facile entrare nella vita di Irene, anzi, era stato molto più difficile restarci; e non tanto per tutte quelle difficoltà che lei puntualmente non mancava di ricordare (figli, casa, lavoro, denaro, parenti ed affini), quanto per gli slittamenti del suo animo, che spesso aggredivano il cuore e si facevano trascinare dalla testa, in un andirivieni tra passato e presente, tra desiderio di volare e pesi alle caviglie, alla ricerca di un centro di gravità permanente che più di una volta Irene aveva immaginato di scovare in lui.

Lui, Daniele, era un tipo in gamba, aveva molte passioni, gli riusciva piò o meno quasi tutto, ma non eccelleva in niente e una delle spiegazioni che la vita gli aveva proposto, lo aveva scoperto da un po', risiedeva nel fatto che per tanti, tanti anni, si fosse dedicato e concentrato su ben altro e su altri (figli, lavoro, ecc), e avesse dimenticato se stesso, evitando quindi di coltivare in maniera profonda e appropriata le proprie passioni, ottenendone, tra l'altro, effetti collaterali molto negativi. Quasi come vivere la vita di un altro uomo, o forse, quasi come Neo in Matrix quando ancora soltanto riusciva ad intuire che tutto quello che aveva intorno aveva qualcosa di strano, di non reale; quasi come aver perso rotta e bussola contemporaneamente.

Non era stato felice di scoprirlo e, comunque, era andata così. C'erano volute lacrime e sangue per comprendere, ma c'era riuscito, e  Irene era “parte integrante” del processo, anzi, ne era il fondamento: non avrebbe potuto esserci la sua evoluzione senza di lei, non avrebbe potuto esserci lei senza l'evoluzione.

Mentre osservava quell'enorme lampadario che pendeva in mezzo alla parete del salone e i suoi impercettibili movimenti, senza saperlo, i pensieri di Daniele erano andati in questa direzione. Sarà stato perchè la stava attendendo, sarà stato perchè non vedeva l'ora di abbracciarla, sarà stato perchè fremeva aspettando il momento in cui i loro sguardi si sarebbero incrociati, sarà stato perchè lei era diventata il centro naturale della sua vita e tutto il resto le ruotava intorno, sarà stato perchè ne era profondamente innamorato.

E non c'era una ragione né un perchè, o forse i perchè erano migliaia di migliaia. Ma c'è un motivo per innamorarsi di una persona, di una donna, o forse invece sono misteriose e perigliose le strade che conducono all'amore? Certamente di lei amava ogni cosa, e mentre la sua attenzione si era spostata su una valigia a qualche metro da lui, sembrava volerle leggere, tutte, come fossero scritte sulla parete dietro la valigia, tutte queste cose: il colore degli occhi, le lentiggini sulle braccia, gli slanci,  le debolezze, gli eccessi di scrupolo, i pudori, l'impegno quotidiano verso i suoi figli, il modo in cui scriveva, le parole sussurrate, la sua generosità, il rumore dei suoi passi, la passione che ci metteva, il modo in cui faceva l'amore, e la lista sarebbe potuta proseguire fino all'infinito ed oltre.

“Strana quella valigia”, pensò per un attimo, dimenticata da tutti, chissà con quali ricordi nel suo interno. Non si era mai sentito come in quel periodo, così consapevole ed in contatto con il suo cuore. E, guarda caso, aveva iniziato nuovamente a disegnare, una delle passioni dimenticate, anzi, la passione con la p maiuscola. Ed era proprio questa la ragione della sua presenza nella hall di quell'albergo, “Colori d'autunno”, da poco ristrutturato nel centro di Bologna, un incontro nazionale tra alcuni disegnatori e sceneggiatori di fumetti per il lancio di una nuova collana. Da qualche minuto aveva finito di disegnare sketch e firmare tavole, quando volse lo sguardo verso la porta girevole all'ingresso dell'albergo.

Irene invece faceva da anni la giornalista: era un lavoro che le piaceva, come da sempre le era piaciuto leggere e scrivere, raccontare a se stessa e agli altri il mondo e i suoi cambiamenti, ma non solo quello esteriore, quello visibile a tutti, anche quello interiore, quello che racconta dello spirito del tempo e dell'evoluzione dei cuori di ognuno e del cuore del mondo.

Mentre si faceva largo tra la folla, a volte urtando inconsapevolmente qualche turista, con passo svelto ma non di corsa, cercava di organizzare mentalmente il pranzo che avrebbe voluto preparare per quella giornata. Cucinare le piaceva, molto e da sempre. Era sempre stata la cucina il luogo e il modo per accogliere gli altri, per regalare loro qualcosa di sé, del suo estro, del suo tempo spesso molto ridotto e troppo di corsa rispetto a quello che desiderava. La scelta alla fine era andata su uno dei suoi piatti forti e poco diffusi in giro, le lasagne di pesce, e stava mentalmente ripassando i passaggi della ricetta mentre guardava il grande orologio sulla facciata del palazzo della banca al di là della strada che segnava le tredici meno un quarto.

Da quando si era seduto su quella poltrona la valigia rossa lo aveva incuriosito, ancora prima di iniziare a disegnare. Daniele pensò che sembrava appena uscita dal negozio, bella, rosso fiammante, ancora con qualche pezzetto di cellophane appiccicato sulla superficie esterna, pronta forse per un lungo viaggio, ma sola, in un angolo, appena appoggiata ad una poltrona, priva di qualsiasi cartellino di riconoscimento, indicazione e soprattutto senza un proprietario nelle vicinanze. Osservandola più attentamente cercava ora di scorgerne qualche particolare nuovo. Ecco che da un lato riuscì a scorgere, penzolante, l'adesivo di una compagnia aerea, probabilmente l'ultima che l'aveva imbarcata, ma dalla sua posizione si poteva vedere solo una lettera maiuscola, la b. B come Berlino, Bruxelles, Bologna, Bangkok, le possibilità erano davvero molte. E poi, stranamente, gli sembrò anche di osservare dei movimenti, quasi impercettibili, accompagnati da un rumore continuo, quasi un ticchettio.

Era quasi arrivata, finalmente. La giornata, inizialmente nuvolosa, si era riempita di sole e di luce, e Irene aveva indossato i suoi vecchi occhiali da sole per evitare di inciampare in qualche gradino o nel piede di qualcuno della folla, come più di una volta le era accaduto. Ridevano spesso dei suoi “incespicamenti”. Aveva pensato e deciso più volte di cambiare gli occhiali, ma, in fondo, era così affezionata a quell'oggetto da non riuscire mai ed entrare nel negozio per acquistarne un nuovo paio. Adesso camminava più trafelata: non vedeva l'ora di abbracciare il suo uomo, di stringerlo a sè, di bere assieme un sorso di caffè, di raccontargli della mattinata al telefono con la redazione, di dirgli quanto lo amasse.

Irene entrò dalla porta girevole, la fece ruotare e mise il suo piede nella hall. Daniele riconobbe il ruomore dei suoi passi, alzò lo sguardo e, incrociando quello di lei, sorrise.

Fu in quel preciso istante che avvenne l'esplosione: qualcosa come fermare il respiro e il battito del cuore, che pure era diventato così potente in quegli ultimi anni, come vedere migliaia di stelline con la vista semi-annebbiata, come pensare di poter morire in quel preciso istante.

La valigia era ancora lì, fiera nella sua perfetta solitudine, e Daniele aveva provato altre volte quella sensazione così forte, così dannatamente violenta e potente, di fronte ad un sorriso inaspettato di Irene, ad un abbraccio dopo qualche giorno di assenza, o mentre facevano l'amore. Intanto lei era arrivata accanto a lui e gli stava delicatamente baciando l'angolo destro della bocca. Faceva sempre così, per quel buffo e malcelato senso del pudore che le impediva di baciarlo in mezzo alla gente. Anzi, era riuscita a trasgredire più volte la regola.

Mentre Daniele la stringeva forte a sé il proprietario della valigia la afferrò per il manico senza esitazione e la trascinò fuori della hall.

Era una bellissima giornata.

15 agosto 2017