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Raccolta di testi in prosa di Roberta Attanasio
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Scarpine di seta

(Liberamente ispirato al dipinto La lezione di danza di Edgar Degas)

Le nostre lezioni di danza proseguivano nonostante la guerra. Quel giorno avevo sentito il maestro parlare in termini inequivocabili col suo amico Gérard e avevo saputo del fratello di Sophie, colpito al braccio destro e alla gamba. Ma le nostre lezioni di danza proseguivano, nonostante avessi saputo di altre macerie nei pressi della Cattedrale e degli altri feriti della gendarmerie, nonostante mi pervadesse il senso di rassegnazione verso un progetto di salvezza irrealizzabile e un piano di fuga che mi pareva impossibile. Ci pensavo sempre, quando nei momenti di pausa, guardando le mie amiche mostrare una alla volta i passi al maestro, mi sventolavo, come assente. E invece continuavo a pensare a noi, a noi tutte, ai nostri esercizi, alla fatica, ai nostri sacrifici e alla giovinezza rubata da un conflitto che non accennava a spegnersi. Lo zio Charles mi diceva che ogni guerra è uguale all’altra. Sarà stato perché prima di quella non ne avevo vissute e a me sembrava terribile. Il conflitto, stando alle parole che mi dicevano, non aveva risparmiato nessuno. Solo Marguerite, tra noi ragazze, sembrava non saperlo o non farci caso. E non perché il fratello, fedele servitore della Repubblica, parole che avevo sentito pronunciare da lui stesso, era al sicuro, a casa, per le sue gambe mancanti e l’impossibilità di reggere ormai una baionetta. Marguerite ci mostrava una forza, che sia stato coraggio o follia, che noi tutte segretamente cercavamo di imitare. Quei suoi passi così leggeri mi ricordavano gli ampi voli sulla Senna che solevo osservare nei giorni perduti e felici con mia madre e mia sorella. Il ricordo del vento che ci rincorreva sorprendendoci spensierate sulla riva era ormai strappato alla dolce e amara malinconia dai rombi assordanti degli aeroplani da guerra e dall’assordante paura dei bombardamenti. Marguerite era per me uno di quei cigni incoscienti e dolenti sul pelo dell’acqua. Ricordo che si grattava sempre la schiena quando si rilassava dopo uno sforzo intenso. Poi, con un balzo elegante e sicuro, scendeva dal piano su cui le piaceva fermarsi nelle brevi pause e iniziava a danzare sotto i nostri occhi a volte distratti e sotto quelli attenti e severi del maestro. Mi chiedo ancora se la mia non fosse stata tutta una ingenua menzogna per darmi coraggio, per cercare di imitare Marguerite, o se davvero la nostra ferrea disciplina di ballerine, la nostra familiarità col dolore e la fatica non ci abbia davvero aiutate a resistere. Avevo sentito di francesi gettarsi nella Senna, di mille uomini portati via lontano. Francesi che un giorno prima erano stati uomini diventare numeri, solo numeri e inspiegabilmente improvvisamente essere chiamati nemici della Patria. E noi nel mezzo di queste cose continuavamo le nostre lezioni di danza come se il mondo fuori, in quelle ore, non ci appartenesse più, come se noi di quel mondo in quelle ora non ne facessimo parte.

Una sera, all’uscita da scuola, corsi nel riparo. Avevo il cuore in gola, il respiro trafelato, per quanto credessi di aver familiarizzato con la paura, convivendoci costantemente, capii che fosse impossibile esserne indifferenti. Guardai piangendo il sorriso sollevato di mio padre, rincuorato dal mio arrivo e lo sguardo atterrito di mia madre mentre mi stringeva a sé. Quando uscimmo, i danni non mi sembravano enormi. Case cadute e macerie, ma eravamo tutti sopravvissuti e la cosa a suo modo mi rincuorava. Ma il pomeriggio seguente Marguerite non venne a lezione. Così il giorno dopo, e l’altro, e il seguente, il successivo. Ci fu detto che era partita con la madre e il fratello per cercare scampo da un conflitto assurdo. Ma nel frattempo ripensavo alla sirena, alla corsa, ai bombardamenti, alla paura e a quell’occhio gettato d’istinto verso la casa di Marguerite, distrutta. Il maestro ci invitò e intimò di continuare a danzare. Ma quella sua aria cupa mi lasciò inquieta. Ritornai alla sbarra seppure continuando a sperare di veder comparire attraverso lo specchio l’immagine di Marguerite, dei suoi nastri e delle sue scarpine consumate. Non ho mai saputo cosa fosse successo davvero.

Continuo a sventolarmi, la guerra è finita ma le macerie nel cuore non potranno essere ricostruite. Ho il cuore straziato ogni volta che passo sulla Senna, rivedo i cigni e ripenso ai suoi passi e ai volteggi leggeri.

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Con te, nel tuo nome, oltre noi stessi

Con te, nel tuo mondo fatto di dolci parole, nel tuo mondo di versi ordinati in un tempo scandito con cura.

 

Con te ho imparato la tenerezza di un gesto, la tenerezza di un bacio e quella simile di una carezza.

 

Con te ho visto il Decumano Inferiore della nostra città come una fila che divide al mezzo i capelli, e non più come soltanto la ferita di Spaccanapoli.

 

Ho imparato a distinguere il dolore di un solco profondo d’aratro nel terreno morbido, dalla promessa di una nuova fecondità.

 

Ho imparato che l’uomo è diverso, ho imparato che amore e passione sfrenata sono petali screziati di uno stesso fiore.

 

Con te ho visto la Marina con occhi nuovi, come fossero le stelle che di notte illuminano le barca che vi riposano agli ormeggi.

 

Mi sono fatta cullare dal vento di settembre che scompone i capelli e i petali che si erano aperti in estate.

 

Ho imparato a guardare i papaveri sotto le loro corolle di sogni e imparato la forza della rinascita audace e improvvisa figlia di una strana aria di maggio.

 

Con te ho imparato il gioco di ogni erotico segno, così la dolcezza che in esso è sempre connaturata.

 

Nel tuo nome ho vissuto davvero i freschi abbracci d’Autunno e le tiepide arie di Primavera, quando un germoglio rinasce da una foglia caduta in un moto perenne e deciso.

 

Con te, che hai vissuto le mie lacrime ancor prima che sgorgassero, ancor prima che si facessero vento sopra il mare in tempesta di questa mia anima inquieta.

 

Con te, giorno dopo giorno, tu il mio salvatore, la terra ferma promessa di vita per il naufrago vagabondo, una mano tesa, forte, in questa folle e perduta tregenda che ancora sbatte le ali, come un tremendo uccello, e le mie vele rotte e affrante pervade come straziante lamento.

 

Con te, giorno dopo giorno, in questi giorni felici in cui pure ancora un poco offusca la malinconia il mio sguardo nuovo.

 

Con te, per te, in te ogni mio respiro si fa nuovo, rinasce, come onda del mare che gira, che gira, e riemerge pura alla superficie che l’ha generata.

 

Un’onda del mare che sale, che  scende, in una danza speciale e segreta, nella notte, fra la luce di luna che avanza nel buio di queste mie notti.

 

Con te, oltre noi stessi, le nostre mani unite, sopra due cuori che ora sono un solo cuore, sopra  due anime che ora sono un solo spirito, oltre noi stessi.

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Il ciclo dell’Amore

Questo viaggio chiamavamo amore… mentre percorrevamo sentieri e giardini in fiore, mentre viole e rose appuntavi al mio petto ed io baciavo i tuoi occhi e le loro lacrime in fiore. Questo viaggio chiamavamo amore…

Ricordi? La rugiada come eco di luce ravviva la rosa, e così dei tuoi occhi il chiaro fonte si faceva sorgivo. La Primavera, stagione bella, ritorna come da un lungo sonno, dopo la stagione silente, e la mia mano ritorna, come un’edera al caprifoglio, suadente,  ad unirsi alla tua. Sembra un’arpa che richiama alla vita, il suono che s’ode sul Mondo. Poi corre l’Estate, e tra le spighe dorate la cicala frinisce, al calare del Sole, quando l’imbrunire è il profeta d’Autunno e il silenzio s’annuncia; e l’Estate corre, corre tra i campi, corre leggera e ridente; e fugge, dorata e sanguigna, rigonfia. E i nostri aliti, al meriggio, levati tra l’arie, compiacenti e beati, assorti, con le dita inanellate alle dita, e nel mentre saliva, questo nostro respiro, si fondeva al meriggio, alla nuda Estate.

Questo viaggio chiamavamo amore mentre i caldi baci s’effondevano al Mondo,mentre tutto si faceva eterno, nel prodigio d’amore, assorto; ed il vento sfilava tra le sanguigne rose e gonfiava le ali tra le vite silvane frusciando tra le foglie vibranti.

Sì, questo viaggio noi chiamiamo amore, mentre ci assopiamo nel giardino di rose e di viole.

 

(V classificata II edizione del Concorso di Prosa Lirica, in occasione del centenario del viaggio “che chiamavamo amore” di Dino Campana e Sibilla Aleramo)

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Lontano. Io e te. Ascolta il mio canto

Lontano. Andare, correre, via, senza meta. Lontano. Fuggire da tutto, anche da se stessi. Da ogni rumore che non sia voce, che non sia suono, che non sia armonia, che non sia un canto di rigenerazione.

Respirare, come una chioma d’albero che oscilla, tra le stelle superne di questi cieli, troppo spesso coperti dalla malinconia, troppo spesso offuscati dalle lacrime. Lontano. Soffiare su un fiore le nostre lacrime. Lontano. Vivere, vivere senza ombre, senza i fantasmi delle nostre notti insonni. Vivere, senza l’ombra dei rimpianti, senza i fantasmi dei turbamenti. Lontano.

Io e te. Lontano. Oltre il canto del mare, e l’eco perfetta delle sue onde. Lontano, oltre i mari e i silenzi. Lontano, per vivere, sollevando il nostro cuore sopra quel baratro dei rumori molesti. 

Strappiamo le vesti di quel fantasma che aleggia sopra le nostre paure.

Credi che il tempo possa guarire le piaghe? Credi che il tempo possa lenire ferite che dolgono? Credi possa essere il balsamo che cura come un miracolo?

Lontano, la mia mente fantastica viaggi, mete arcane, promontori eccelsi ove rinascere. Lontano, il mio credo si spinge, verso l’onda che eterna rinasce. E in quelle immensità si perde, libero, vagando fra le celesti rive e le sedi remote, lontane. E dove credi si perdano le onde al di là dell’orizzonte? Sì, arrivano a mescersi al cielo, sì, lì, lontane, lontane dai nostri rumori, lontane dalle nostre paure, lontane dai nostri affanni. Nel silenzio, nella pace. Lontano. E andare, percorrendo cieli, percorrendo mari, volando liberi. Ah, lontano.

Vorrei correre, via, e mescolarmi al mare, mescolarmi al cielo, diventare Sole, diventare stella, vento, luce. Ondeggiare come una spiga di grano in un campo d’Estate. E perdermi, disperdendo la mia voce come un’eco sulle alture sconosciute al passo dell’uomo. Terre lontane, ove i nostri canti diverranno favole antiche d’un tempo. Favole belle.

E vivere, e librarmi nell’aria, come un soffione leggero. Io e te. Lontani da questo mondo stravolto, da queste ombre deformi, lontani da tutti i suoi fantasmi, lontani da tutti gli affanni. Felici, finalmente leggeri e felici. Io e te. Accetta questo mio invito, prendi la mia mano, lasciamo dietro di noi le ombre del tempo, lasciamo i rimpianti, le illusioni, gli inganni, dimentichiamo il mondo. Ascolta il mio canto, ascolta il mio pianto.

Lontano

Vorrei dirti ascolta, ascolta questo mio cuore, ascolta questo mio pianto, via, lontano, dammi la tua mano, andiamo lontano. Lontano.

 

(Testo pubblicato sul giornale telematico Eroica Fenice - La rinascita della cultura)