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Raccolta di testi in prosa di Stefano Saccinto
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Cose da bambini

Quand'ero piccolo c'erano delle cose belle che apparivano all'improvviso. Una bella giornata di primavera e la maestra stiracchiava in alto le braccia e in uno sbadiglio diceva – Vogliamo andarcene fuori a giocare?
Noi saltavamo sulle sedie, qualcuno correva alla porta finestra.
- Aspettate, fatemi prendere almeno le chiavi.
Io non amavo esultare platealmente. Mi piaceva di più stringere i pugni sotto il banco e sprigionare l'entusiasmo dallo stomaco, sentirlo salire dietro la schiena, fare il giro della morte nel cervello e spremersi contro le palpebre serrate. Era come se in quei momenti mi sdoppiassi e una parte di me cercasse di tirare su l'altra, mostrandole che si poteva essere felici ogni tanto, anche di cose stupide.
Le belle giornate nel giardino della scuola erano un premio spettacolare. C'erano degli angoli speciali nascosti dietro le siepi, in cui si poteva creare il proprio nascondiglio senza che nessuno potesse scoprirlo mai. Un posto segreto per la parte segreta. E poi c'erano degli splendidi luoghi a vista, come il giovane pino nell'aiuola al centro del giardino su cui avevo trovato il modo di salire. Lo facevo senza farmi vedere da nessuno, perché l'avevo scoperto io e non volevo che vedessero come si faceva. Mi piaceva farmi trovare lassù e vedere tutte le ragazzine e la maestra avvicinarsi a chiedere come c'ero riuscito. Quando lei poi se le portava via per mano a vedere i fiori, era la volta dei miei amici.
- Ho capito come ha fatto – diceva qualcuno, provando ad arrampicarsi.
Avevo sempre la preoccupazione che l'avessero capito per davvero o che trovassero un altro modo di salirci. Invece alla fine non ci riuscivano e dopo un po' di tentativi, si mettevano seduti di fronte al tronco e se ne stavano a guardarmi.
- Adesso vi racconterò una storia – dicevo.
Loro erano felici. Solitamente rimaneggiavo film o videogiochi cambiando dettagli significativi. Restavano ad ascoltare con le bocche aperte perché nelle descrizioni mi ci mettevo d'impegno. Poi qualcuno si rendeva conto di aver già sentivo una storia del genere, di averla vista in televisione proprio la sera prima. Si metteva in piedi e mi puntava un dito contro.
- Ci prendi in giro, Distante! Questa storia non l'hai inventata tu.
Allora si divertivano a raccogliere pigne e a lanciarmele contro finché non venivo giù dall'albero.
- Andiamo a prendere il pallone? - proponevo.
- Io voglio giocare contro di te perché non penso proprio che sei il più forte della classe. Voglio batterti – diceva Cassone.
Facevamo le squadre e ci mettevamo a torso nudo per scioccare le bambine.
C'erano delle giornate in cui ci mettevamo a fare gli stupidi e delle cose vecchie non ci importava niente. Dimenticavo il pino pensando di essere diventato grande, ce ne andavamo alla ricerca di quelle strane pietre che avevano dei minerali trasparenti all'interno che luccicavano al sole. Credevamo che fossero pietre preziose. Io ne avevo una collezione nel fondo dello zaino. Ce la tenni finché un giorno da una di quelle pietre vidi venire fuori un tagliaforbice lungo quanto il mignolo. La lanciai via ripulendomi le mani sul grembiule e sentii i peli rizzarsi sulla colonna vertebrale. Pensai a tutte quelle pietre nello zaino e andai a togliercele con la paura di trovare un altro tagliaforbice. Avevo sentito dire che si chiamavano così perché erano capaci di saltarti via un dito con le lame.
Un giorno, in un angolo sperduto del giardino, scoprimmo i trifogli. Inizialmente pensammo che fossero tutti ammassati in quell'angolo, ma seguendone qualcuno più distaccato, ci rendemmo conto che ce n'erano in tutto il giardino. Così ci venne l'idea di cercare un quadrifoglio e ci disperdemmo dappertutto per vedere di trovarlo.
Ero quasi convinto che l'avrei trovato quando quel ragazzino fissato con i computer, Alimentatore, venne a tirarmi per il grembiule.
- Che cosa vuoi?
- Vie-vie-vieni a vedere una cosa.
- Ho quasi trovato il quadrifoglio.
- Se-se-senti me che que-questo è m-meglio.
Andai a vedere e in effetti era meglio. Era un foglio tutto intero di un giornale pornografico. Parlo di quelli con le foto, dove si vedevano le donne vere e proprie a tu per tu con mastodontiche erezioni. Ce lo guardammo un centinaio di volte, immagine per immagine, commentando. Vedemmo la maestra da lontano iniziare a insospettirsi.
- Che cosa state facendo voi due, laggiù?
- Niente, stiamo vedendo una cosa.
- Che cosa?
- Una cosa bella.
Forse aveva capito. Si teneva a distanza. Poi si fece coraggio, dopotutto era la maestra. Venne a vedere e noi lasciammo cadere il foglio e le guardammo il viso. Guardavamo come i suoi occhi guardavano quelle carni durissime e come le sue labbra si spalancassero per la meraviglia, esatte uguali a quelle delle donne fotografate sul giornale. Alimentatore aveva una mano nella tasca del grembiule, continuava a darsi colpetti ammonitivi tra le gambe.
- Vi sembra una cosa bella da guardare, questa? - disse la maestra. Era diventata rossa, ma non era arrabbiata.
Ogni tanto abbassava lo sguardo sulla pagina come quei bambini che hanno paura dei film horror e si mettono le mani sugli occhi mai poi guardano attraverso le dita. Forse fu questa cosa che vidi a farmi credere che si poteva ottenere qualcosa da lei.
- Ti piace, vero? - chiesi.
- Che cosa? - disse lei.
- Quel coso lungo nella foto. Lo vorresti?
- E che ne sai tu? - sorrise – Sei solo un bambino.
- Ormai sono grande – deglutii – Lo vorresti? - sentii il mento che mi tremava.
Lei non disse niente e io sapevo che non avrebbe detto niente. Si voltò soltanto, continuando a sorridere, e andò via. Noi le guardavamo il culo nei jeans e pensavamo ai culi di quelle puttane sul giornale. Alimentatore diede altri due o tre colpi al coso e poi smise.
- Che-che-che donna... – disse.
- Già – dissi io.
Lei si girò ancora verso di noi, guardandoci come se adesso avessimo un segreto, si sistemò i capelli dietro un orecchio e urlò – Bambini, tutti in classe adesso!
Seguimmo gli altri, anche se aveva detto bambini e noi sapevamo che non si riferiva a noi perché noi non eravamo più bambini ora.
Il giorno in cui ebbe l'idea di organizzare delle attività da svolgere in giardino e diede a Cassone il compito di raccontare le storie da sopra al pino, mi guardava con degli occhi da traditrice. Avrei potuto dirle che quel compito spettava a me perché Cassone non sapeva neanche salirci sul mio albero, ma non glielo dissi. Abbassai la testa sul banco e mi misi a piangere, bagnando tutta la lezione di storia sui Savoia. Misi le mani intorno alla faccia così che non mi potesse vedere nessuno e alla fine se ne accorse proprio Cassone.
Lei venne vicino a me, si chinò e mi tolse via una mano dalla faccia.
- Perché piangi? - sorrideva come quel giorno.
- No, niente, così – dissi.
- Maestra – la chiamarono le mie amiche di classe che avevano capito tutto – Sull'albero ci va sempre lui, forse piange perché adesso hai detto a Cassone di andarci.
- È per questo che piangi? - mi sussurrò in un orecchio, accarezzandomi la testa.
- Credo di sì – dissi, ma così piano che non volevo farmi sentire.
- Come? - aveva sentito bene, ma fece finta di no.
- Credo di sì, ho detto – gridai più forte.
- Ma tu ormai sei grande. Raccontare storie dal pino non è una cosa da bambini? - mi chiese.
Beh, mi ero sbagliato. Non era una cosa da bambini.

*

Roba ai bordi della città

Il cellulare sta suonando.

- Diego? – la voce incerta di Apollonia arriva calda nell'orec­chio. Anche perché sussurra.

- Ti ascolto.

- Non ti sto disturbando, vero?

- Non mi disturbi.

- La bambina dorme. Che ne dici di venire?

Guardo il gruppo jazz che sta montando proprio adesso sul palco. Uno ha la giacca, uno il gilè, l'altro il papillon e l'altro ancora la cravatta. Quello col gilè ha la maglia intima grigia sotto la camicia bianca. Sono l'esatto opposto dello stile. Roba che fa per me. La se­conda scura vibrante è ancora a metà. Resto in silenzio.

- Posso prepararti qualcosa, se hai fame.

- Un po' di fame ce l'ho.

Sorride. Si sente. - Fammi contenta, dai. Lo sai che passo il tempo a pensarti.

- Vado prima a fare benzina.

Tre spari del pomo d'Adamo risolvono il problema della mezza pinta.

Al semaforo non c'è nessuno ma mi fermo lo stesso. Una spalmata di luce rossa sulla faccia. Ogni volta mi fa pensare sempre alla stessa cosa: Lù quando si è presa due cazzottoni in faccia dal suo vecchio fidanzato. Aveva il trucco sulla faccia così sciolto che non si capiva se sulle guance fosse sangue o rossetto.

Svolto nei vicoli che hanno fame peggio di me. Si muovono cose oscure vicino ai bidoni della spazzatura. Roba ai bordi della cit­tà che potrebbe anche avere un'anima, stando a quello che si dice sul­la vita. Non mi pongo il problema quando fuori dalla macchina qual­cosa come un ratto mi si avvicina. Gli sferro un calcio con effetto a girare. Rotola col fruscio secco di una scopa sul cemento ruvido. Poi riesce ad arpionare il terreno, slitta e corre a nascondersi. Va bene così.

Dire che questo posto è fatiscente è complimentarsi. Un reti­colo di fil di ferro fa da scheletro al vetro protetto dalle sbarre di rug­gine. Un angolo di vetro è stato tirato giù almeno tre anni fa dal rigo­re sbagliato di un ragazzino. Se guardi bene ci sono ancora dei pezzi di vetro incastrati negli angoli.

Suono con un tocco, neanche ho preso la scossa. Una mano sul fianco, l'altra sotto il naso. Sento i passi nudi di Apollonia al se­condo piano.

- Chi è? - fa la sua voce con una mano sulle labbra.

- Sono io – diciamo sempre la stessa cosa al citofono, tutte le volte. Apre, salgo.

Sulle pareti della scalinata c'è la storia raffigurata come nelle caverne preistoriche. Le macchie di sangue dei tossici che avevano occupato le abitazioni prima che il comune le riassegnasse, i colpi di pistola dell'agguato che fecero a Giubbe Rosse l'anno dopo, le scritte a pennarello di Pendulo prima che si sposasse Mariarca. Nessun ente si è preoccupato mai di finanziare una mano di bianco. Soltanto Car­tone si è rifatto il piano suo. Sai, i clienti.

Sono al piano. Sbatto piano la punta dello stivale sul pavi­mento, in attesa. La catenella scivola via con una serie di scatti. Apollonia è in sottana rosa trasparente e mutande nere a contrasto. Non fa un bell'effetto. Lo fanno invece i lunghi ricci rossi tenuti sciolti che cadono sulle spalle e invitano a mirare più in basso. Due aureole grandi così che sfumano in un rosa sporco. Sento odore di latte.

- Entra – mi spalanca tutto.

Entro.

Apollonia ha venticinque anni ed è piena come un frutto ma­turo. Non ha un bel viso, bisogna dirlo. Ha la pelle troppo chiara e gli occhi vicini, di un colore azzurro acciaio che finisce per sembrare grigio. La settima di seno scende spaventosamente verso l'ombelico, ma in alcuni suoi movimenti sa restare ferma dove deve. Quando lei ti sta di fronte però, con la schiena un po' ricurva in avanti e le spalle strette, i suoi capezzoli sembrano chiederti commiserazione.

- Ditele che siamo il massimo, per favore. Lei lo crede. Tranquilli.

A piedi nudi mi fa strada verso quel buco che è la cucina. Tutto che marcisce, ma lei tiene pulita ogni cosa. Come porta per la camera da letto ha una tendina bianca tenuta con due chiodini. Zoe si muove producendo un fruscio. Ci giriamo a guardarla prima di seder­ci al tavolo. Forse una zanzara.

- Fatto qualche bel disegno oggi?

- Niente di esaltante. Il novanta percento della gente che vuol essere tatuata si fa scrivere un nome o una frase. Se ci scappa un tri­bale si può già esultare. Non capisco dove sia andata a finire la fanta­sia.

- Non dimenticarti che hai fatto un nome anche a me – sorri­de, spostando in avanti la spalla.

- Non hai voluto altro.

- No, no, mi basta il nome di mia figlia.

- Lo so, me l'hai detto un milione di volte – mi passo una mano nei capelli.

- Che cos'hai? Sembri un po' triste?

- È un'insoddisfazione generale. Roba che passa ma non pas­sa mai. Prendi e non hai mai niente. Sembra tutto così inafferrabile – mi guardo attorno. Questo posto è come se fosse casa mia ma non lo sento mio. L'atmosfera famigliare che si respira non mi è mai stata famigliare. Niente mi è mai stato famigliare. Neanche io.

- Cosa vuoi che ti preparo?

- Quello che preferisci.

- Hai molta o poca fame?

- Ho fame e basta.

Sta seduta con le ginocchia sulla sedia e gli avambracci lun­ghi sul tavolo. Apollonia è una donna generosa. Generosa nel dare e generosa nel prendere. Qualsiasi cosa le dai, il suo corpo sembra rin­graziare. Un centinaio di chili sodissimi di forme che stanno bene come stanno. La mattina lavano le scale dei portoni nei dintorni. La sera, fino alle undici, danno una ripulita al ristorante dove lavora. Tre mesi e perde il posto, mai avuta una giornata di contributi. Eppure quel sorriso è sempre lì, senza che conosca il tocco di un rossetto. E le sue guance sono rosse naturali.

- Ti preparo due uova. Sono senza spesa da un po'.

- Andranno benissimo.

Si mette alla cucina. Mi fisso a guardare le vene in rilievo sui polpacci, le caviglie solide.

- Non ci volevi venire, dì la verità.

- No, davvero. Non è questo.

- Hai incontrato qualche bella ragazza con cui preferivi pas­sare la serata.

- No, no. Stai dicendo soltanto cazzate.

- Mica l'ho mai capito se ti piaccio almeno un po'.

Si aggiusta il bordo delle mutande con una mano. Mi fa sor­ridere.

- Che cosa ci vengo a fare da te allora, se non mi piaci?

- Per la mia situazione. La bambina, questo pezzettino di casa, il lavoro che mi manca sempre.

Apollonia ha appese alle pareti un milione di foto di Zoe che sorride e fa le smorfie. In una c'è lei che fa la linguaccia mentre la tiene in braccio e Zoe che ha la testa riversa sulla sua spalla e ride. Hanno gli stessi capelli, occhi di colore diverso. Zoe li ha castani. Deve avere preso la corporatura del padre perché è piuttosto gracile. Apollonia l'ha avuta a quindici anni e lui non se l'è mai presa. Nep­pure ci ha provato. In dieci anni non è mai venuto a trovarla. Zoe non sa neppure che faccia abbia. Si mette al mondo un figlio e si fa finta che non esista.

Mi lascio andare testa e tutto sul tavolo. Certe volte mi sento così. Vinto. È come se mi portassi un male inguaribile dentro. Quelle volte non mi va di fare niente, di dire niente, di pensare a niente. Sono uno che con la fantasia ci lavora. Ma quelle volte non me ne frega niente neanche della fantasia.

Il profumo delle uova cotte e dell'olio fritto si insinua tra il braccio e la fronte, oltrepassando la condensa del mio respiro sul ta­volo, dove ho schiacciato il naso. Sento due dita accarezzarmi i ca­pelli. Le mani di Apollonia sono le mani di una donna di settanta, ot­tanta anni. Hanno tutto l'amore che serve. Sempre. Alzo un po' la te­sta, la guardo da quella posizione.

- Sembri così disperato questa sera. Che cosa è successo?

Le sorrido, avvicinando il piatto. Cerco le posate intorno. Deve essere davvero in pensiero, non se ne dimentica mai.

- Aspetta – mi dice.

Si muove attorno al tavolo per aprire un cassetto. Me le al­lunga. Da un ripiano in alto fruga in una busta per tirare fuori un pez­zo di pane tagliato. Mi allunga anche quello. Capovolge un bicchiere e se lo porta fuori, sul balconcino.

- Bianco o rosso? - sussurra più rumorosamente che può.

- È uguale. La stessa cosa.

Se ne torna con un Nero di Troia denso come sangue.

- Tu non mangi?

Scuote la testa.

- Non bevi neanche?

- Lo sai che lo tengo solo per te.

Mi ficco in bocca un pezzo di pane. È morbido, di questa mattina. Apollonia non tiene più di un giorno il pane in giro. La sera finisce nella busta della riserva per il pane cotto con le rape.

Dopo il primo sorso di vino mi torna stranamente l'appetito. Gusto tutto in silenzio, bagnando la mollica nell'olio e bevendo pia­no, facendo girare il vino intorno ai denti. Alterno un boccone a uno scorcio di Apollonia. L'attaccatura del seno, le labbra che respirano piano, quella parte di schiena incurvata che riesco a vedere da qui. Il suo profumo sazia. Starla a guardare ti riempie la vista. Ti viene vo­glia di abbracciarla per come se ne sta zitta a vederti fare le cose. In pace. Come se fosse la tua donna.

- Allora, che è successo?

- Niente – le rispondo – È passato.

- Hai detto che non ti passa mai.

- Non del tutto. C'è un sottofondo che rimane sempre.

- Ma ti senti male? Hai qualche dolore?

- No. È una cosa di dentro, non te lo so spiegare. È come se certe volte mi piangesse il cuore.

- Hai male al cuore? - cerca una posizione più comoda.

- Apollonia, – allungo le mani sulla tavola. Prendo le sue dita – non ci pensare. Ho ventinove anni e la salute è buona. Sono solo un po' stanco di come vanno le cose.

- Hai problemi con lo studio? Viene poca gente?

- È tutto a posto, sono solo stanco – finisco l'ultimo dito di vino.

- Sei stanco di me?

- Sono stanco di me, di quello che non riesco a fare.

Avrei potuto ridipingerle i muri in tutto questo tempo, avrei potuto rifarle le ringhiere, avrei potuto comprarle e montarle una caz­zo di porta per la camera da letto. Ma tutte queste cose mi vengono in mente soltanto adesso. Che cosa ci è successo? Non se ne sentono più, in giro, di storie in cui qualcuno fa qualcosa di buono per gli al­tri. Non è che siamo diventati più cattivi. Non ci viene più in mente. È peggio. Crescevamo con l'idea di diventare eroi e di cambiare il mondo. Di essere i buoni. Invece poi ci è passata la fantasia. Che storie racconteremo a quelli che verranno dopo di noi? La storia di come ci siamo addormentati su un pavimento di specchio mentre il mondo veniva risucchiato via e diventava solo un'immagine.

- Una cosa questa sera devi farla. A me – mi stringe le mani. I pensieri se ne vanno. Sarà per un'altra volta. Apollonia gira intorno al tavolo e si mette ferma accanto a me. Le sue cosce unite aspettano davanti ai miei occhi.

Mentre le penetro il culo a terra nel bagno, sentendo tutta la sua carne vibrare nell'impatto col mio ventre, lei continua a tentare di mordersi il palmo della mano. Viene diverse volte. Sembra che si stia sciogliendo. Quando lo prende dietro riesce a venire più di una volta. Si sente più libera. Forse perché la prima volta in cui lo fece davanti, uno stronzo le lasciò la fregatura. Una fregatura che ora ama più di ogni altra cosa.

- Diego, – porta la mano indietro sulla mia. Intreccia le dita e stringe, mentre le mie sprofondano nei suoi glutei – è... è... è... è... - forse è venuta ancora. La settima si allarga sul pavimento. Una coda di pavone rossa si apre dalla sua testa – È il cielo che ti manda.

Il nome Zoe continua a fare avanti e indietro sulla sua spalla. 

*

Volevo ricordare

a tutti i membri di larecherche che Un'estate qui, testo scritto da me e gentilmente pubblicato da Rupe Mutevole è in catena di lettura qui:http://www.anobii.com/forum_thread?topicId=3190554#new_thread

Per chi fosse interessato a leggerlo gratuitamente (solo spese di spedizione, trattasi di 2 euro per inviarlo al lettore successivo, nonché il fastidio di recarsi alla posta) in versione cartacea, invito all'iscrizione in catena o a inviarmi un messaggio privato. Nel testo si parla di mejfy, di un giovane poeta (?) disadattato, di ubriacature e di giornate di lavoro come cameriere nei ristoranti sul mare.

Ho rimesso il post perché l'altro ieri si è avviata la catena. Abbiamo ben 3 iscritti. Quindi cercate di farvi spazio tra la folla.

Con affetto,

Stefano Saccinto.

*

Echi, 1

1

Mi chiamo Stefano Saccinto, abito in un paese del sud e un tempo ho avuto diciassette anni, come è capitato sicuramente a molta altra gente. Avevo un gruppo di amici che mi volevano bene, una ragazza di nome Francesca, un Phantom F-12 grigio col raffreddamento a liquido e il cilindro rotto, un paio di orecchini a cerchio e il sospetto di essere uno scrittore. Questo in quanto avevo chiesto come regalo per i nove anni una macchina da scrivere, avevo sempre avuto ottimi voti nei temi di italiano e avevo scritto a sedici anni il mio primo romanzo. Si chiamava Una di quelle notti. Tranne il titolo, problemi non ce n’erano. Però mi incasinavo sempre.
Devo proporre un utile esempio: per conoscere una ragazza, durante gli anni dell’adolescenza, tutti sapevano che bastava avvicinarla in modo stupido e presentarsi. Se lei era interessata, in un modo o nell’altro, gli eventi avrebbero potuto avere uno sviluppo positivo. Potevo sorridere e godermi la vita. Invece io partivo sempre dal cercare di entrare nel suo campo visivo. Passavo intere mattinate ad organizzare appostamenti che dovevano sembrare casuali, nel tentativo di farle scoprire che esistevo, mi informavo su tutte le sue abitudini e le facevo diventare le mie: se lei era nella squadra di pallavolo, io non mi perdevo una partita, se lei amava il laboratorio di scienze, io ne diventavo un assiduo frequentatore. Di avvicinarla non ne avevo assolutamente l’intenzione. Preferivo che si consumasse la fase due: il logorante sciogliermi in versi poetici per decine e decine di componimenti di cui lei non avrebbe mai saputo niente nella vita. Poi prendevo a studiare il volo degli uccelli, i fondi nelle tazze di caffè, il modo in cui una sigaretta prendeva fuoco e un’altra serie di strumenti di previsione e concertazione del futuro da me scoperti. Drammi imminenti si prospettavano se mi accorgevo di aver schiacciato per sbaglio le fughe delle mattonelle sul pavimento dove camminavo, se non avevo scansato una grata, se non mi ero leccato il pollice guardando passare una macchina di colore rosso. A tutte queste mie dimenticanze era dovuta la mancanza di attenzioni che la ragazza di turno ostentava lungo i corridoi della scuola o per le vie del paese. Quanto le volevo bene, se dimenticavo queste cose? Poco. Dovevo impegnarmi di più: correvo a scrivere una nuova poesia. E insomma le cose andavano avanti in questo modo. Finché non se ne usciva uno che, avvicinandosi a lei in modo stupido e presentandosi, riusciva ad ottenerne l’interesse. La cosa era semplice, ma io non la capivo. Il mio problema, quello per cui la vita non era per niente facile, erano i miei complessi. Ostruivano il mio accesso alla felicità in modo ridicolo. Eppure ci riuscivano sempre. E, alle volte, sembravano avere un fondamento.
A quattordici anni, un altro utile esempio, avevo avuto la mia prima vera crisi esistenziale, a seguito del sospetto, maturato grazie alle inclinazioni di un piccolo specchio quadrato, che stessi iniziando a perdere i capelli. Il sospetto divenne scoperta quando provai a rasarmeli per togliermi il dubbio e una vertiginosa V rovesciata si prolungò fin sopra la mia fronte. Quattordici anni e già ispiravo pietà. Mi sentivo Buddha mentre le folte chiome dei miei amici di classe diventavano sempre più lunghe e, con il taglio strategico, invece che nascondere il mio dramma, non feci altro che portarlo alla luce. Ebbi tutte le vacanze di Natale di quell’anno per deprimermi. Mi piazzai una mano sotto il mento e mi decretai per sempre vecchio. Pensai che sarei morto quell’inverno stesso, invece non accadde. Ma ogni volta che passavo davanti allo specchio del corridoio, mi battevo le mani sulle cosce e mi veniva lo sconforto. Che cazzo di sfortuna! Neanche il tempo di farmeli crescere lunghi almeno una volta.
Il secondo esempio rimanda al primo: con la strana vacuità cranica che si conformava già a quell’età sulla mia testa, capivo che non sarebbero bastate centinaia tra le più belle poesie che un poeta potesse comporre, per interessare una ragazza. Tutto mi sembrava così difficile, ma quando le cose arrivavano ad esasperarmi, riuscivo finalmente a trovare il giusto slancio per lasciarle perdere e andare oltre. Entravo nella fase del menefreghismo ascetico.
- Non è importante quello a cui sei costretto a rinunciare, – mi dicevo – ma quello che ti resta -. Avevo la mia senilità adolescenziale, una specie di pessimo ottimismo che mi tirò via da tutte le superficialità in cui si sprecava la vita degli altri ragazzi e che mi spinse ad attivare definitivamente il sesto senso che andava al di là della realtà. Il senso magico che mi permetteva di immaginare tutte le cose invece di viverle, che mi permetteva di affermare tutte le cose che non avevo avuto il coraggio di dire davvero e di inscenare tutte le improbabili situazioni in cui avrei voluto trovarmi e che, nella realtà, per vergogna, scansavo come fossero cataclismi. Nella vita avrei potuto anche restare immobile per sempre. Avrei recuperato dopo. Avrei fatto una cosa migliore di vivere: avrei scritto.
Belle erano le avventure poetiche che vivevo con le mie muse, in un mondo tutto mio fatto di amori platonici che non approdavano mai alle mie labbra e che tenevo, tutti ordinati, riposti nei vari fogli come le farfalle rare di una collezione privatissima che non smettevo mai di rimirare. Mi scintillavano gli occhi ed ero felice. Anche quando ero triste. Tutto era solo mio, io decidevo se una poesia fosse bella o se fosse brutta, io decidevo se una delle mie muse fosse realmente innamorata di me oppure no. Potevo scorreggiare e non c’erano lamentele. Ma questo morbido cosmo felice era simile al nucleo fetale racchiuso nel ventre protettivo di tua madre. Quello che per nove mesi, mentre la vita ti aspettava fuori, ti aveva reso dolce la nascita: prima o poi abbandonarlo sarebbe diventato inevitabile.
Diverse erano le risposte che non ero mai riuscito a darmi. Non avevo mai capito se ero bello oppure brutto, se ero simpatico o tendenzialmente antipatico, mi chiedevo per quanto tempo avrei continuato a fare il cameriere e se avessi davvero delle qualità per potermi considerare uno scrittore. Pensavo che a questi dubbi avrei trovato le giuste risposte più in là, negli anni.
Le cose andavano bene e le cose andavano male. Non ne ero mai sicuro e quello che mi tormentava di più erano le scelte e la vergogna. Le scelte non riuscivo a farle, annaspavo nell’indecisione perenne. C’erano alcune cose certe, ma non ero mai sicuro che lo fossero realmente. Per esserne sicuro le mettevo in discussione ed ero talmente bravo a farlo che i dubbi cominciavano a profilarsi come lo sbocciare delle stelle dopo il crepuscolo. Erano stelle a forma di punti interrogativi. E le risposte chi le avrebbe date, adesso che le cose erano diventate così complesse?
Della vergogna neppure riuscivo a liberarmi. Mi vergognavo di tutto: dei miei capelli, della mia faccia, del mio primo orecchino. La vergogna andava a braccetto con l’indecisione che era una bellezza. Te le vedevi insieme passeggiare per i corsi della mia mente nei momenti più inaspettati di una giornata come due vecchie comari pettegole.
- Vossignoria preferisce il tè coi biscotti o i biscotti col tè? – si arrotolava il cervello della prima.
- Fate voi, fate voi – arrossiva il cervello della seconda.
La vergogna portava i dubbi e i dubbi portavano la vergogna. Mi vergognavo a credermi uno scrittore e per questo mi veniva il dubbio che non lo fossi. Il dubbio che non fossi uno scrittore mi faceva vergognare di averlo pensato. Così continuavo ad interrogare i miei sensi cercando di capire se preferissi davvero scrivere oppure se amassi così tanto leggere da aver provato a scrivere io stesso.
- Mi chiedessero che cosa ne penso di leggere e di scrivere, risponderei che leggere è come il caldo d’inverno e come il freddo d’estate. La tua mente si conforma alle parole e ne trae una sensazione di piacere accomodante, simile al leggero contatto di una carezza. Scrivere è come il caldo d’estate e come il freddo d’inverno. È qualcosa che sembra che tu faccia contro te stesso. E quando la tua mente cerca di conformarsi, il tocco della suddetta mano assume le precise caratteristiche di uno schiaffo. Di una serie di schiaffi. Assestati con la forza di un padre determinato a farti definitivamente aprire gli occhi. Come se fosse possibile.
Io non so perché decisi di prendermi tutti quegli schiaffi, nella vita. Mi ingannò forse l’orgasmo del romanzo. La perversa gioia di innalzare al cielo una sempre meglio intonata, sacrosanta bestemmia. La consideravo la mia trasgressione, sempre accompagnata dalla veloce mano che portava a redenzione. Era il mio viatico ascetico verso forme di una maturazione superiore che non mi avrebbe dato la scuola e che non mi avrebbe dato la famiglia. Appena intonavo la bestemmia, calava la mano. Appena lo rifacevo, lei lo rifaceva. E io pensavo che l’avrei rifatto ancora, tanto prima o poi sarei diventato grande e la mano avrebbe dovuto smettere o se la sarebbe vista brutta.
A diciassette anni, nel millenovecentonovantanove, dopo il primo romanzo, presi la decisione che avrei passato la vita a scrivere. Mi sentivo già la faccia gonfia, ma ne ero contentissimo.

*

Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte30

Ultimo esperimento per internet. Io ero nato solo per sperimentare. L'inesistenza di uno stile. La vacuità di un tema. Le illusorie alchimie del verbo. E storie dalla contorsione inverosimile.
PUBBLICARE UN ROMANZO ONLINE.
Parte prima.
Scegliere il testo più diretto tra tutti quelli che hai scritto. (Stronzata per stronzata, chissà perché, io scelsi Schizzando nel vento. Era il più semplice da correggere.)
Alleggerire la pesantezza del testo eliminando tutte le cazzate che non servono e incantano gli occhi del lettore portandolo a pensare ad altro.
Modificare i titoli dei capitoli invogliando il lettore a cliccare sul nome del tuo post. Una volta dentro è fregato: o legge o si dilegua immediatamente.
Testare i titoli dei capitoli su vari siti cercando di comprendere la migliore combinazione di lettere per catturare più lettori possibile.
Pompare un po' il volume delle letture sui siti dove è possibile.
Magari inserire un commento ingannatore con qualche saluto o dedica a qualche inesistente commentatore di vecchie pubblicazioni.
O anche vero.
Pubblicare un capitolo per volta.
Attendere.
Analisi: di tutto l'esperimento, il commento ingannatore era quello meno funzionale allo scopo di catturare il lettore. Egli si sentiva escluso se il testo non era dedicato a lui o si imbarazzava quando magari gli veniva dedicato. Era un eccesso di attenzione. Se prima una volta ti aveva commentato, adesso non se lo sognava neanche.
PUBBLICARE UN ROMANZO ONLINE.
Parte seconda.
Inserire da qualche parte una cazzo di trama del testo. Molto leggera. Puntata più sul contenuto diretto che su divagazioni sentimentali o filosofiche sullo stile e roba varia. Se nella trama vi sono forti provocazioni, il lettore la prende a sfida e va a vedere che cosa hai scritto. Attenzione però: il lettore poi parte col pregiudizio.
Sforzarsi a rispondere ad ogni commento aumentandone il numero visibile dalla home. Più commenti ci sono e più uno è tentato di accedere al testo.
Pompare il volume delle visite. Fa sempre bene. Certe volte non ti ricordi di averlo fatto e credi davvero di avere avuto tipo duecentoquarantadue lettori. Aumenta l'autostima.
Attendere.
Analisi 2: dovevo fare un'analisi per forza ad ogni parte dell'esperimento?
Domande: e se non lo leggevano neppure così? Non lo so, questa domanda andava fatta alla fine, altrimenti l'esperimento cosa lo facevo a fare?
PUBBLICARE UN ROMANZO ONLINE.
Parte terza.
Perseverare nel pubblicare i capitoli con ordine (es. una volta a settimana o ogni due giorni, ecc...) senza velocizzare in presenza di forti opinioni positive, né rallentare e demoralizzarsi in assenza di lettori e commenti. I lettori puoi sempre pomparli tu per poi dimenticartene.
Una volta terminata la pubblicazione a capitoli su un sito, raccogliere, dopo circa una settimana, tutte le parti del testo e pubblicarle in un ultimo enorme file con il titolo di TITOLO (versione integrale).
Meglio con commento visibile in home di ringraziamento per l'attenzione.
Allegare al post tutti i commenti ricevuti con riferimento ai vari capitoli. Si ottengono in tal modo due importanti effetti: 1) Il numero di commenti ad opera appena pubblicata è già elevato ed i lettori si incuriosiscono; 2) Si intasa la lista degli ultimi commenti arrivati, molto spesso presente in home page. Questa procedura, va detto, fa molto incazzare tutti gli altri autori del sito. Ma cattura invece gli avventori occasionali nei giorni di presenza del titolo sulla home.
Attendere.
Analisi 3: Schizzando nel vento spaccò in due tutti i siti su cui fu pubblicato. Dopo incerti inizi e incessanti attese di giorni, qualcosa iniziò a muoversi intorno al post. Io non lo so che cosa fosse, so solo che le visite cominciarono ad esserci e non ce le aggiungevo tutte io. Erano frequenti. E man mano che andavo avanti con la pubblicazione, i vecchi capitoli venivano ripresi e forse letti. Era un romanzo vero e proprio con la sua romanzesca lunghezza. Le parti erano di circa cinque o sei pagine A4.
Mi prefissai di continuare a pubblicarlo anche se non ci fosse stato nessun commento, ad oltranza. E di non commentare nessuno per il momento. Potevo spingerlo a sentirsi obbligato a ricambiare. Il test doveva essere alquanto scientifico. Era l'ultima reale possibilità che mi stavo dando. Dopo questa io e internet ci saremmo visti solo per i siti porno.
Tre o quattro capitoli più tardi cominciai a capire che il tutto non mi bastava. Non avevo pazienza. Non ce la facevo proprio. Cominciai a rallentare le pubblicazioni. Ripresi a deprimermi. Decisi di abbandonare l'esperimento. A salvare il tutto venne una ragazza che scoprii essere mia coetanea. O meglio, il suo commento. Aveva letto la spregiudicata trama sul blog e aveva pensato di punirmi leggendo il primo capitolo del testo e smascherando la scarsezza di qualità. Ma la sua temerarietà si infranse contro lo splendore delle pagine elettroniche che le brillarono dinanzi agli occhi e prese a commentare ogni capitolo successivo, chiedendomi di continuare a pubblicarlo. Nel frattempo su tutti gli altri siti su cui era stato diffuso, il primo capitolo aveva ricevuto diversi commenti. Tutti riportavano la stessa lamentela. Troppo lungo per un monitor. Magari, avendolo su carta, sarebbe stato un buon testo.
- Già. Già - pensai - Diteglielo voi agli editori che non avevano voluto starmi a sentire. Diteglielo voi a Ladisa e alla Baldini&Calstoldi che in questi dieci anni chissà che cazzo hanno pubblicato di così eccezionale.
Una piccola breccia si era aperta. Grazie a questa mia coetanea che neppure conoscevo e che faceva lo sforzo immane di sorbirsi quel gran malloppo praticamente ogni due giorni. All'ottavo capitolo smise di commentarlo. Ma ve lo giuro, mi aveva letteralmente, per la prima volta, fatto sognare per più di una settimana. Era la persona estranea che per più tempo aveva seguito il testo. Io continuai a pubblicarlo. Le visite furono sempre di meno, anche se i capitoli precedenti venivano comunque ripresi. Persino il primo. Per la prima volta mi parve di avere un pubblico. Che forse non mi ammirava. Ma almeno seguiva quello che facevo. Il mio lavoro non era inutile.
Arrivai al penultimo capitolo e un'altra piccola magia internettiana avvenne. Trovai un commento dopo dieci o undici pubblicazioni in cui nessuno aveva pensato di postare neppure un saluto o un mavaffanculo. Il commento era di un ragazzo che aveva frequentato il liceo in cui Schizzando nel vento era ambientato. Mi disse di averlo trovato per caso e di averlo letto tutto d'un colpo. Per lui era un bel libro. Diceva che aveva una capacità molto forte di rievocare il periodo d'oro degli anni novanta. Era lo scopo del testo.
Dopo una settimana pubblicai il tutto in versione integrale con allegati i commenti della coetanea e del ragazzo della mia scuola. La pagina fu visitata da 1200 persone nei due giorni di permanenza in home. Sugli altri siti c'erano capitoli seguiti anche da quattrocento lettori. Commenti zero. O quasi. A me andava bene lo stesso. Avere la pallida speranza che qualcuno stesse leggendo il libro non mi faceva sentire più solo. Come spesso mi era capitato in tutti quegli anni.
Alla fine su neteditor il testo raggiunse le 1424 visite con una contraffazione di sole 30 da parte mia. Diciamo che tenni l'indice al posto suo per vedere meglio cosa succedeva. Alcuni che scesero in paese per le festività natalizie mi fermarono per strada per complimentarsi. Per dirmi che avevano letto il testo. Che era un buon testo. Schivai la notorietà pensando che dopotutto avrei comunque rifiutato l'invito al Maurizio Costanzo Show e non mi sarei presentato a ricevere le lauree ad onorem. E anche il Nobel, no? Ma la mia leggenda letteraria si era ormai compiuta. Perché Schizzando nel vento, mi guardai attorno, l'avevo scritto io. Non c'erano dubbi.

*

Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte28

Io e la ragazza che amavo troppo assai prendemmo finalmente casa nostra. La stanza in cui avrebbe dovuto esserci il computer e quello che avevo scritto non c'era, ma andava bene lo stesso. Gli zaini con tutti i testi che avevo steso dall'età di dodici anni finirono relegati in garage in un'umida cantina dove non c'era neppure la luce. Questo perché in casa ci serviva spazio per un enorme corredo che non avremmo mai usato in tutta la vita. Occupò un intero armadio e pace all'anima degli spazi mancanti.
Quando ero piccolo e cominciai a scrivere, pensai che un giorno avrei avuto una libreria con tutti i miei testi pubblicati. Nella mia temeraria fantasia credevo che sarei riuscito a riempirla tutta intera soltanto con quello che avrei scritto. Neanche fossi Salgari. Adesso una libreria ce l'avevo. Pubblicato non avevo pubblicato niente. Tranne le tre sottilissime copie dell'antologia che conteneva cinquanta poesie di altri e una sola mia. Pensai che quella fantastica idea, che avevo inseguito per anni, era ormai da bocciare. Era molto più interessante l'umida cantina del garage.
Intanto il lavoro di dodici ore al giorno era finito. L'azienda fallì miseramente come miseramente mi aveva accolto. Trovai un altro lavoro per l'estate e poi ripresi la mia vecchia vita. Quella delle giornate sparse come cameriere durante l'anno. Firmai un contratto soddisfacente e mi liberai dell'occupazione di tutti i giorni. Adesso avevo di nuovo tempo. La ragazza che amavo troppo assai tornò a comprendermi ogni giorno di più. Sprofondammo nel più morbido amore. Ogni tanto litigavamo ancora, ma poi ci guardavamo e ci veniva da ridere. Certe cose non le capiva lei. Certe cose non le capivo io.
Pensai: e adesso che farò? Continuerò a scrivere o sono finalmente soddisfatto? Dopo un testo di genere, era come se avessi provato l'unica droga che mi mancava, nella vita. Mi risposi: se mi viene continuo se no vaffanculo a voi e a chi vi ha fatto leggere tutta la roba che vi ha fatto leggere. C'erano sempre risposte semplici e c'è sempre un vaffanculo per ognuno.
Spesso mi vedevo vecchio e rimbambito, ancora al mio computer a godermi solitari orgasmi nella stesura di nuovi testi mentre il mondo mi assecondava con il pietismo che si può rivolgere ad uno che è sempre stato testardo nel perseguire un sogno che non fa per lui.
- Scrivere è sempre stata la sua passione – avrebbe detto con estrema banalità mia moglie, ormai vecchia, scuotendo gravemente la testa ai nipoti che sarebbero venuti a farmi visita, un giorno.
- Che cosa hai detto? - avrei urlato senza staccarmi dal computer, pensando: questa volta è la storia giusta, ve la faccio vedere io, la passione.
- Dicevo che sono belli, i tuoi libri – e avrebbe riso con la complicità dei giovani, prendendosi gioco di me.
Cancellai dalla mente le tristi divagazioni sul futuro. Per fare prima mi dissi che quanto avevo scritto poteva ormai bastare e non ci volevo pensare più. Mi concentrai sul correggere tutto quello che avevo steso. Così. Nel caso in cui magari fossi venuto meno e a qualcuno fossero capitate per le mani le mie cose. Non si sapeva mai. Cominciai con Malko. Lo ripresi dall'inizio e mi misi con la santa pazienza a ripercorrere ogni singola riga per correggere dapprima gli errori grammaticali. Poi eliminare delle parti che facevano un po' cacare. Poi inserire almeno un preambolo e un epilogo. Visto che c'ero anche un intermezzo. La santa pazienza non durava più di due pagine. Il testo faceva proprio ribrezzo. Soprattutto lo stile. Quelli del Foglio non la pensavano come me. Quando esaltavano lo stile era perché non avevano letto il libro. Capii che avevo fatto bene a non dar loro retta. Finii il lavoro con una mano sulla faccia per non guardare. Nonostante la rifinitura, questo testo non aveva ancora niente a che vedere con tutti i pareri favorevoli che aveva ottenuto. Era come Volo. Non si meritava il successo.
Decisi che l'avrei riscritto completamente. Ma non adesso. Adesso non mi andava. Ripresi il mio primo libro. Quello aveva una storia spettacolare. Ci misi mano e ce la tolsi dopo i primi tre righi. Mi veniva lo sconforto. Idee zero. Me lo rilessi e basta. Trattenendo i conati. Decisi che l'avrei riscritto completamente. Ma non adesso. Adesso non mi andava. Poi mi venne la fissa di andarmi a correggere il testo più strano che avessi mai scritto: L'opera. Il terzo in ordine cronologico. Avevo sempre pensato che non l'avrei mai pubblicato, ma sta a vedere che la chiave del mio successo era chiusa nell'unico cofanetto in cui avevo deciso di non guardare? No, non c'era. Decisi che non l'avrei riscritto mai più. Non mi andava. E allora dove stava questo grande talento letterario che avevo creduto? Ne L'era delle cavallette, è logico, me l'avevano detto pure alla Palomar. Ma vaffanculo, quelli neanche sapevano di che cosa parlava il testo. No.
Proprio dovevo smetterla di seguire il parere degli altri, di dargli importanza. Se c'era una cosa che dovevo fare, era quella. Per anni mi ero lasciato distruggere dalle critiche sui siti, dai rifiuti, dai silenzi, dalle prese per il culo delle case editrici e dalla mancanza di interesse che chiunque mostrava nei confronti di quello che avevo scritto. Volevo delle attenzioni. Non mi importava se le meritassi o meno, le volevo e basta. Ne facevo un punto essenziale per andare avanti quando ormai ero arrivato a non avere più alcuno stimolo. Un solo commento positivo poteva rigenerarmi completamente, farmi credere che dovessi riprendere a martellare il meccanismo. In questo modo avevo vissuto tutte le mie cose letterarie, considerandole ora i peggiori scritti che fossero mai esistiti, ora i capolavori più geniali della storia della letteratura. Non c’era tregua, c’erano solo sbalzi continui. Dovevo smetterla di cercare le attenzioni altrui e ritornare alle mie solitudini. Era da lì che erano nati i miei capolavori.
Ripresi Schizzando nel vento. Pensai che se c'era un libro da sacrificare doveva essere lui. Senza fare tante storie. Lo dovevo all'uomo che vedeva scritto cazzo. Me lo rilessi stancamente con una forte riluttanza ad apportare correzioni. Rievocai la mia grande pazienza. Inspirai. Mi alzai le maniche corte sulle spalle. Accesi una sigaretta. Il testo se ne stava, timido, nella sua virginea adolescenza. Lo guardavo con occhi da maniaco, le dita piegate come in attesa del momento buono per agguantarlo e il mozzicone pendente dalle labbra assottigliate in un ghigno. Per noi fu come una prima volta, ma ebbe tutto il selvaggio sapore di uno stupro: lettere sparse sul pavimento, fogli accartocciati che volavano dappertutto, personaggi spiaccicati in faccia al muro. Sembrava una guerra. Non avevo mai corretto un libro e perciò mi trattenni persino. Però avevo ottenuto il primo mattone su cui costruire un giorno il mio cinismo: il testo non era più vergine. Alla fine del tutto, ansimando, mi rilessi l'intero file. Mmm. Per me faceva ancora cacare. Però se avevano pubblicato Melissa P…
Adesso ero pronto. Il talento veniva considerato zero se non si metteva in moto il caso. Decisi di creare il caso. Il vero talento era il caso. Convergere gli interessi sulla roba che scrivevo. Usare la fantasia. Senza patetismi del cazzo, senza pensare che qualcosa fosse dovuto, conquistare un lettore alla volta e fare in modo che si affezionasse agli scritti perché un lettore non è altro che una persona che si affeziona ai tuoi scritti. Anche perché gli piacciono. È chiaro. Sennò che legge, le stronzate? Io ero affezionato ai miei scritti. Anche se non mi piacevano. Dovevo trovare il modo di farmeli piacere, correggendoli fino a che non avrebbero brillato di perfezione. E di farci affezionare gli altri.
Cominciai come al solito dalle case editrici. Mandai mail a raffica, avevo deciso di non investire più un solo soldo per la causa. La mail era una, uguale per tutte, esattamente come facevano loro quando rispondevano agli scrittori. Tutte le case editrici erano importanti. Nessuna era essenziale. Esattamente come loro consideravano gli scrittori. Bruciata una casa editrice, ne avrei cercata un'altra. Avevo otto scritti pubblicabili. Una volta finito il giro delle case editrici con uno, potevo iniziare con un altro. Nel frattempo magari, se mi andava, avrei steso qualcos'altro. Le mie risorse erano infinite. Come le vie del Signore. Come ultima riserva verso gli ottant'anni avrei potuto investire i risparmi di una vita per pubblicare un libro solo, a scelta, tra tutti quelli che nel frattempo avevo scritto. Avevo anche quest'ultima possibilità. Se non morivo prima. Se morivo qualcuno avrebbe tentato di pubblicare la mia roba. Molti sapevano che avevo scritto. A qualcuno qualcosa piaceva. In omaggio alla mia morte avrebbe tentato di diffondere il verbo. In ogni caso ce l'avrei fatta. Di questo ero sicuro come del fatto che ero in grado di respirare.
La prima mail che fece il giro delle case editrici era esplicativa: breve presentazione autore, breve presentazione opera, dati anagrafici. La seconda mail indicava i vantaggi di una eventuale pubblicazione di Schizzando nel vento: potevano inserirlo nel filone di cazzate adolescenziali e aspettarsi masse di quattordicenni che si strappavano i capelli, film campione di incassi all'esordio cinematografico e insomma soldi a palate. La terza mail fu simpatica: so che non mi risponderete neppure, ma tanto ho una pazienza infinita. La quarta direttamente offensiva: vi ostinate a pubblicare le stronzate e non volete prendere in considerazione questo capolavoro? Cercavo di spronarli. Ma non era per loro.
Capii che il metodo delle mail andava messo da parte. Nessuna casa editrice rispose a nessuna delle mail. Potevi chiederglielo semplicemente, cercare di convincerli, chiederlo con buon umore, offenderli o minacciarli. Il meccanismo continuava a girare senza scomporsi. Ticchettai con le dita sulla tastiera, guardai altrove. Bisognava cercare un'altra strada. Decisi di fermarmi per l'ultima volta a pensare. Se non trovavo qualche buona idea, non avrei più pensato a quello che facevo e sarei passato alla quinta fase del tentativo di contatto, tirando fuori la mia arma ad energia solare: le lettere minatorie corredate da pezzi d'orecchio.
Mi chiedevo perché fosse così difficile ottenere l’interesse di una casa editrice. Poi pensavo al mercato, al fatto che erano veramente pochi in Italia i buoni lettori e mi rendevo conto che la situazione editoriale continuava soltanto a mirare bersagli facili. Perché i lettori erano comodi e gli editori peggio di loro. Le case editrici continuavano a prendere per il culo gli scrittori, chiedevano soldi per poi stampare libri inutili con cui saturare ulteriormente il settore e non preoccuparsi eccessivamente delle loro vendite, invece di affrontare una battaglia quotidiana per far emergere qualcosa di veramente nuovo, aspettavano o rincorrevano un colpo di fortuna con la pubblicazione di qualche vip o di qualche testo farsa con cui rovinare l’adolescenza di un’intera generazione. Nell’attesa, continuavano a pubblicare gli stessi, passabili, autori e gli stessi passabili libri. Non c’era niente da fare, o rientravi in una delle categorie o potevi considerarti tagliato fuori. Così andavano le cose, tutti avevano qualcosa di più interessante a cui dedicarsi e io ero solo uno che si difendeva una fantasia tutta sua di cui non fregava un cazzo a nessuno.
Dovevo smetterla di cercare un contratto. Dovevo smetterla di abbassarmi a rimescolare gli avanzi degli avanzi con una mano, alla ricerca di qualcosa per me. Io ero stato un allievo degli dei, con queste cose non c’entravo niente e con questa gente non c’entravo niente. Quello era il loro mondo e non il mio. Il mondo delle presentazioni letterarie, delle interviste giornalistiche, delle uscite in libreria, degli incontri con i lettori, mi annoiava profondamente, era una vera e propria tristezza. Io, il mio lavoro l’avevo fatto scrivendo e avrei dovuto farlo scrivendo. Del resto mi interessava poco, a pensarci bene. Il problema era che non volevo essere un presuntuoso, non volevo snobbare quello che non ero riuscito mai ad ottenere. Volevo prima ottenerlo per poi snobbarlo. Snobbare il premio Nobel prima di ottenerlo non sembrava niente di geniale. Ma snobbarlo dopo averlo ottenuto rimetteva a posto le cose. Nel loro giusto ordine. Così come dovevano essere. Sorgeva una nuova questione: avrei dovuto fare qualcosa per ottenere qualcosa oppure non avrei dovuto fare niente?
Mi scervellavo sulla questione. Stavo per dare di matto. O forse avevo già dato. Bene. Adesso mi mancava soltanto di capire quando e come avremmo usato il fantastico corredo.

*

Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte27

A rispondermi, prima fra tutte, fu la Palomar Edizioni. Di Bari. Bruciò tutti sul tempo. E forse anche sul resto, dato che non si fece sentire più nessuno. Ma, prima di loro, a chiamarmi fu una mia amica di Palese che non sentivo da almeno sette anni.
- Tu sei pazza - le dissi, soprattutto perché stavo dormendo ancora. Erano appena le undici del mattino. Non credevo neppure che avesse il mio numero, non la frequentavo già più quando ci fu l'avvento dei telefonini. Mi spiegò che le era arrivato il mio manoscritto. A lei? Dovevo aver sbagliato indirizzo. Mi chiese se l'avessi invitato alla Palomar. Le risposi di sì. Mi disse che in quel periodo stava lavorando lì, come segretaria. Mi vennero le lacrime agli occhi.
La mia amica di Palese l’avevo conosciuta nelle estati di dieci anni prima perché veniva ogni anno per quindici giorni a trovare un suo cugino che era il mio migliore amico di quei tempi. Andavamo insieme al mare, uscivamo la sera e la continua vicinanza me la fece diventare cara, al punto che non seppi più, verso i quindici anni, se fosse solo un’amica o cosa. Quello che mi piaceva di più di lei era che leggeva. E non scriveva. Era un genere raro di amico, dal momento che quasi tutti i miei scrivevano e non leggevano. E dato che leggeva, le avevo fatto leggere il mio primo libro inviandole un capitolo alla volta per posta. Mi disse che era bellissimo e non somigliava a nessuno di quelli che aveva mai letto e che sarei certamente diventato uno scrittore. Con il tempo avevamo smesso di scriverci e dall’epoca non ci vedevamo neanche più. Ogni tanto, presa dai ricordi, aveva riletto il mio libro e mi aveva inviato una lettera. Le avevo risposto per un po’ e poi non ci eravamo più sentiti.
Il fatto che adesso lavorasse alla Palomar e che la Palomar fosse una delle case editrici che avevo scelto per inviare L’era delle cavallette, mi sembrò una chiara dimostrazione che il caso, mio unico vero dio, si fosse finalmente deciso a imbastire la trama decisiva della mia storia. Gli elementi c’erano tutti: il testo più simile ad un romanzo che avessi mai steso, contenente per di più un solo errore, una casa editrice di Bari, di cui il mio paese era in provincia e la mia amica che poteva garantire sul fatto che fossi un grande scrittore.
Tutto sembrava come doveva essere. Ma non sapevo che influenza avesse lei sui grandi capi. Magari era fidanzata con il capo redattore. Mi disse che lei coi vertici c'entrava poco. Poteva provare a parlarci. Adesso vedeva cosa si poteva fare. Avrei voluto chiederle di entrare immediatamente più in intimità con qualche superiore, ma aveva già riagganciato. Con il testo nelle sue mani, mi sembrò di non avere più nulla da aspettare. Pensai che avrei rifiutato l'invito al Maurizio Costanzo Show e che non avrei accettato neppure le lauree ad onorem. Ero una persona seria, io. Lontana dalle televisioni e lontana dalle università. Peccato per quella maledetta laurea che ero stato costretto a prendere, fortuna volle che almeno non fosse in Lettere.
Parecchi giorni dopo mi chiamò un ragazzo. Era della Palomar. Avevano letto il testo. Erano rimasti entusiasti. Soprattutto per lo stile. L'avevo intuito io che era questione di stile, ah. Attaccò con una lunga trafila di parole che avrebbero commosso qualsiasi sensibile padre a vedersi così apprezzata la propria creatura. L'era delle cavallette. Accesi il computer, valutai il nome del file. L'avevo scritto io. Non c'erano dubbi. Mi annunciò che avrebbero pubblicato il testo. Bene. Bene, bene. Mi spiegò che però le case editrici, come io potevo già ben sapere, chiedevano un aiuto all'autore perché investire su un giovane era comunque rischioso. Ma qui si andava a colpo sicuro, eh. Beh, se si andava a colpo sicuro, l'aiuto a che gli serviva?
Sì, sì, vaffanculo, è il mio contributo che volete? E prendetevelo, qui si va a colpo sicuro. Il testo è... e attaccai a rievocare tutte le dolci parole che erano state pronunciate sullo stile con cui era stato articolato il testo. Come avremmo dovuto fare? Dovevo presentarmi lì. Al più presto. E il contributo? Dovevo portare assegni, il codice del mio conto in banca, lasciare la mia macchina come caparra? O vendermi direttamente momenti di deretano per la strada? Ne avremmo riparlato una volta lì.
Mi fiondai a Bari giusto il tempo di organizzarmi. Cioè quasi il giorno stesso. Salii nel bell'appartamento che erano gli uffici della Palomar. Uno scrittore stava appena uscendo con la sua bella copia rilegata in mano. Pareva soddisfatto. Lo salutai sorridente. Mi trascurò alquanto.
Ehi, coglione, sono uno scrittore anch'io, che cosa credi?
Guardai dentro. C'era un'enorme libreria sulla parete dietro al banco della segreteria. Due ragazze se ne stavano sedute dietro di esso. Qualcuno doveva aver loro parlato di me. Dovevano aver spiegato loro che quel giorno sarebbe passato dalla redazione il più grande scrittore vivente, nonché più affascinante. I polsi delicati presero a danzare nell'aria ravviando i capelli e il chiacchiericcio tra le due si fece concitato, mentre gli sguardi di sfuggita si succedevano a ripetizione, afflitti da un nervosismo teso alla ossessione di non fare brutte figure dinanzi ad un ospite così ammirato. Il più grande scrittore vivente, nonché più affascinante, ero io. Non c'erano dubbi. Puro talento selvaggio. Mi ero presentato come mi vestivo tutti i giorni. Con le scarpe rotte.
La mia amica di Palese non c'era. Non mi aveva più chiamato da quella volta. Qualcosa era andato storto. Forse si era lasciata col caporedattore con cui forse era fidanzata. Feci per chiedere di lei, ma il ragazzo che mi aveva telefonato giorni prima, accompagnato da una ragazza tutta sorrisi, mi venne incontro, allungando una mano.
- Tu devi essere... - mi strinse la mano calorosamente, tirandomi verso la porta aperta di una stanza - Abbiamo letto il tuo libro... - con la testa voltata nel vano tentativo di trovare quel volto conosciuto, mi lasciai trascinare.
- Devo farti i complimenti per bla bla bla, bla bla bla. Bla - forse lei era cambiata. Magari era una delle due che stavano dietro la scrivania. Certo che era cambiata parecchio, allora.
- Allora... - il ragazzo redattore attaccò con un discorso preso dalla genesi dei tempi su quanto fosse eccezionale lo stile con cui avevo steso il mio testo. Stava cominciando a convincermi.
Sulla scrivania campeggiava L'era delle cavallette. Era il mio. Non si erano sbagliati. Mi disse quello che potevamo farne. Ad esempio intrecciare i capitoli per confondere le idee ai lettori. Poi la mia sembrava proprio la sceneggiatura di un film. Magari potevamo proporlo ai registi baresi. Io pensai a uno di cui avevo visto un film. Glielo dissi. Mi dissero bravo. Naturalmente l'avrebbero presentato ai concorsi, alle riviste, alle librerie, al Papa, alla Madonna. Avremmo fatto una pubblicazione internazionale. Internazionale? Non mi sembrava vero. Ecco che cosa succedeva a scrivere qualcosa di genere e con un certo stile. Stavolta ci avevo visto giusto. Non come gli altri schifosi testi che non si capiva neanche di che genere fossero. A me non mi mancava saper scrivere. A me mi mancava che non avevo mai scritto una cosa ben delimitata in un genere definito. Dare una definizione precisa a tutto. Ecco. Scrivere qualcosa di definibile. Adesso l'avevo fatto. Ero uno scrittore.
Chissà se avevano trovato il mio errore. Chiesi se ne avessero rilevati. Mi risposero di no e attaccò a parlare la ragazza. Aveva uno sguardo ipnotico. Non era neanche bella, ma aveva un cazzo di sguardo per davvero strano. Non capii cosa disse, ma mi convinsi che dovesse necessariamente essere vero.
Nel frattempo si era aggiunto un terzo personaggio di mezza età con la barba bianca e un paio di occhiali da lettura sul naso. Un dottore. Forse avevano l'infermeria e ora stava senza fare niente ed era venuto a sentire di cosa parlavamo. Dal momento che aveva avuto la possibilità di stare a colloquio con il Tarantino della letteratura. Ero io.
- Bla bla bla, bla bla bla – la ragazza non si fermava mai. Quando si fermava e mi osservava, come se mi stesse concedendo la possibilità di dire qualcosa, interveniva il ragazzo. Spostavo lo sguardo su di lui e tutto ricominciava. Mi sembrava un racconto di Sclavi in cui le cose cominciavano a ripetersi senza tregua.
- Lo stile, lo stile – si esaltava il ragazzo.
- Lo stile, eh! - sospirava la ragazza.
Della storia non parlavano mai. Cominciai a strisciare le chiappe sulla sedia cercando di capire cosa fosse quella strana protuberanza che sembrava mi stesse solleticando l'ano.
- Lo stile - cominciò a cazzeggiare persino il dottore, vaneggiando con un fare alienato che mi ricordò il vecchio editore di quell'altra casa editrice di Bari che avevo incontrato anni prima, nella sua stanza piena di libri. Quello che aveva visto scritto cazzo, insomma. Questi almeno non mi facevano storie sulle parolacce.
Porca puttana troia! Mi piantai una mano sulle labbra. Non avevano trovato l'errore. Non facevano storie sulle parolacce. Non parlavano mai della storia. Guardai inorridito la faccia di ognuno. Potevano essere Visitors.
Chiesi se la scena in cui David McCarry litigava con il nonno a causa della ragazza non fosse fuori luogo. Si guardarono in faccia e restarono in silenzio per diversi attimi. Risposero che non era assolutamente fuori luogo, scuotendo contemporaneamente la testa. Bene. Mi portai la mano al petto. Sospirai. Sorrisi. Non era fuori luogo, anche se David McCarry non litigava con nessun nonno riguardo a nessuna ragazza. Non nell’era delle cavallette, almeno, ma in un Elanka Wwea che non avevo mai inviato alla Palomar. Loro non potevano saperne niente. Non avevano letto il libro. Annuii e pensai al da farsi. Una volta uscito avrei potuto tentare di rintracciare la mia amica. Per fare due chiacchiere sui vecchi tempi. Era un buon proposito.
Arrivammo al contributo. Lo chiesi. Mi sembrava come vagamente che stessimo perdendo tempo. La cifra si attestava intorno alla conveniente somma di cinquemila euro. Ne parlarono semplicemente come se ce l’avessero tutti. Come i denti, gli occhi, le unghie. Tossii. A me sì. Mancavano. Tossii ancora. Lo dissi più forte. Si zittirono improvvisamente. Poi buttarono le mani avanti. E ripresero. Stavolta a fargli forza si mise davvero d'impegno anche il dottore. Potevo fare un finanziamento, chiedere un prestito ai parenti oppure magari chiedere del denaro al mio comune che aveva fondi per la cultura inutilizzati e poteva fare un concorso ad personam per farmi ricevere quella cifra. A me già se li doveva fregare la nostra giunta, quei soldi. Ero proprio sfortunato.
Dissi che mi sarei organizzato. Lo promisi. Mi sarei fatto sentire al più presto, appena raccoglievo i soldi per la pubblicazione internazionale. E poi il film. La Palomar, le cose, o le faceva per bene o niente. Me ne andai contento come lo scrittore che era uscito quando io ero entrato. Le due ragazze pensarono: guarda quest'ennesimo decerebrato come si fa inchiappettare dalla donna dallo sguardo ipnotico.
- Fatti sentire, però... - mi aveva detto il ragazzo redattore con lo sguardo commosso, stringendomi le mani prima che andassi via.
O sto ancora raccogliendo i soldi oppure non ho più risposto alla Palomar.
- E tu fatti vedere, amico mio.

*

Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte26

Parlai alla gente di ciò che aveva letto senza confrontarlo con niente di mio. Lasciai la ragazza che amavo troppo assai leggere Baricco e Ammaniti e le comprai anche altri testi loro, mentre cresceva il volume di roba mia che non aveva letto. Diedi all'estimatore di ogni forma d'arte Il vagabondo delle stelle di Jack London e Pulp di Bukowski. Smisi di mettermi a confronto con il mondo letterario, come se non ne avessi mai fatto parte. Era così che dovevano andare le cose.
Per un periodo, come reazione alla rinnovata scoperta della mia fragilità e della caducità di tutto il mondo letterario che avevo inutilmente costruito per tutta la vita, pensai che avrei dovuto rinnegare tutto e cercare nuove strade per concedermi finalmente una svolta. Passai un’intera estate a cercare di distruggere ogni preoccupazione attraverso l’ascetico influsso delle sublimi traslazioni alcoliche. Amavo le distorsioni generate dagli effluvi mistici che annebbiavano il cervello, ma temetti che, nella vita, al posto di uno scrittore, avrei solo rischiato di diventare un alcolizzato. Non potevo permettermelo. La cosa mi avvicinava vertiginosamente a Bukowski e io avevo smesso di essere un allievo degli dei.
Abbandonai il posto dove lavoravo e ne trovai un altro. Abbandonai anche quello e corsi da un'altra parte. Ci lavorai venticinque giorni e me ne andai a casa. Il mondo esterno continuava a terrorizzarmi. Mi spaventava l’antico incubo di diventare un uomo-azienda, ma, per esorcizzare anche quel vecchio demone, decisi di accettare per la prima volta un posto fisso.
Presi a lavorare come cameriere tutti i giorni per dodici ore al giorno e quindici o sedici ore il sabato. Con un solo giorno di riposo che spesso saltava per esigenze aziendali. La paga non era entusiasmante, però c’era l’allettante esca dei contributi che continuò a ritirarsi nella corrente per mesi finché non riuscii a darmi uno slancio decisivo riuscendo ad afferrarla. Con i proprietari del ristorante si replicò il classico rapporto di sudditanza che tutti pretendevano, nel mondo del lavoro, nel periodo della grande crisi: gli orari li facevano loro, le paghe le facevano loro, loro decidevano come dovevi vestirti, cosa dovevi dire alla gente, a che livello andasse impostato il volume della radio. Dalle mie parti vigeva il dogma: attacca il ciuccio dove vuole il proprietario. A furia di seguire questo metodo mi resi conto che il novanta per cento delle volte il ciuccio andava attaccato in culo a me. L’atteggiamento di disprezzo che veniva espresso dalla proprietà mi rivelò che non era possibile oramai lavorare senza che ti fosse gradualmente tolta fino all’ultima goccia della tua dignità e della tua libertà. Quando entravi al lavoro dovevi necessariamente trasformarti in uomo-azienda e dovevi farlo contro te stesso in un controsenso esistenziale che non ammetteva interpretazioni. Quella gente pretendeva di gestire direttamente il tuo corpo, neanche più soltanto la tua mente. Eravamo arrivati all’ultima fase del delirio di onnipotenza dei capitalisti. Avevano deciso di tentare il colpaccio, di comprare tutto agli allettanti saldi del pieno della crisi. Era una vita che non si poteva fare, ma riuscimmo a stabilire un patto di non belligeranza e andammo avanti per il bene della cazzo di azienda.
Avanti, così, per due anni. La piccola scimmia delirante finalmente camminava e parlava nell’idioma elfico dei bambini. Delirava. Da qui la definizione. Cresceva in modo vertiginoso e mi somigliava sempre di più. Appena ti giravi lei era cresciuta. O ero io che non ero attento oppure non so cosa fosse. Il primo giorno che la portammo all’asilo si aggrappò allo stipite rischiando di staccarlo. Poi smise di colpo di piangere e volle restare. Da quella volta non esisteva un giorno che volesse saltare l’asilo. Per lei la vita era bella, sorrideva sempre, di qualsiasi cosa, ogni giorno aveva milioni di scoperte da fare. Mi sembrava molto più decisa di quanto non mi sentissi io, ad affrontare l’esistenza. E aveva solo tre anni.
La recente indipendenza conquistata dalla piccola permise a me e alla ragazza che amavo troppo assai di chiarire alcuni punti lasciati in sospeso anni prima. A cominciare dalla questione del sesso. Chiarimmo quasi tutto. Riuscimmo a riconquistare una nostra dimensione e un minimo di complicità che potesse distinguerci come due persone affini all’interno di un contesto più esteso. A volte uscivamo la sera, altre volte andavamo al mare. Le cose erano di nuovo belle. A volte. A volte tornavano le vecchie paranoie. Ogni vetta conquistata finiva inevitabilmente a strapiombo su una voragine. Non c’era modo di tornare ad essere quello che eravamo stati un tempo.
Ogni giorno, segretamente, mi dicevo: scriverò ancora qualcosa, scriverò, devo solo aspettare, ma ogni giorno ero sempre più stanco e smettevo di seguire tutte le idee che mi avevano saturato la mente tempo prima. Avevo un rifiuto sempre più netto. Come se quelle idee mi avessero ormai stancato. Pensare a scrivere non mi provocava più alcun piacere. Mi convinsi che quello che mi mancava era solo un posto di lavoro migliore. Io che il primo libro che avevo scritto, lo avevo scritto contro ogni conformismo e attaccando tutti quelli che se ne sarebbero stati a leggerlo in poltrona immersi nel tepore di casa, invitandoli a leggerlo in mezzo alle tempeste, stando in piedi e camminando, con frenesia, con rabbia, con l'anima nuda di fronte al tempo, mi ero ormai conformato alla triste realtà della casa, del lavoro e di un cazzo di paio di pantofole in cui riscaldare i piedi durante la lettura di un quotidiano sulla poltrona di casa.
Certe volte mi chiedevo che cosa avessi vissuto a fare. Per arrivare dove. Mi sentivo inadeguato. Soprattutto come padre. Certe scelte non riuscivo a farle. Mi innervosivo. La mia non era una vita sbagliata, di sbagliato c'era ciò che era successo prima. Aver preso a scrivere senza che ce ne fosse motivo. Come quando ti spingi oltre la tua portata e in un certo qual modo ti rovini la vita. Essere convinti di aver sfiorato l'apoteosi e poi guardarsi allo specchio, alla fine di una stupidissima giornata di lavoro e vedere la tua faccia che riconosci sempre meno, porta un grande sconforto. Ti dici che non stai facendo niente. Che non stai andando in nessuna direzione. Che hai deciso di aspettare la morte come la gente a cui cercavi di scuotere la coscienza. Iniziai a sentirmi ipocrita. E mi cullai con la mia mediocrità pensando che tanto una vita valeva l'altra e vaffanculo.
I discorsi letterari con chiunque terminarono definitivamente. Se capitava che qualcuno mi chiedesse qualcosa riguardo allo scrivere, così, tanto per farmi piacere, rispondevo che io ormai non scrivevo più. Era stata una cazzata adolescenziale. Anche Rimbaud aveva fatto la stessa cosa a ventunanni. E forse era proprio vero che a certa gente questa cosa capitava. A me era capitato. Mi dispiaceva soltanto di non aver concluso l'ultimo testo che mi mancava e che era fermo ormai a circa centocinquanta pagine. Credevo che sarebbe stato il mio migliore testo di sempre. Era la storia del capitano Glynk. Ma ormai non mi importava più neanche di quello.
Alle volte mi soffermavo a vedere l'Esperanza veleggiare via, lontano, verso porti sconosciuti con un vento triste in poppa, tagliando con la lama del suo scafo le distanze incommensurabili attraverso i mari di leggenda. Ma non avevo più la facoltà di immaginare. E non sapevo più cos'era un sogno. Lasciavo che la nave andasse via, lungo la rotta dell'estate e chinavo la testa verso il pavimento. Io non ero mai stato uno scrittore. Per tutto quel tempo mi ero solo ingannato. Addio, pensavo, capitano Glynk. Non c'era più nessun battello ebbro che rompeva gli ormeggi lungo la valle sotto i due alberi di noce. Solo un vecchio natante arenato con gli altri nel cimitero delle navi di Chittagong. Non ero mai stato quel tanto incosciente da vivere una vita abbastanza folle. Però l'avevo sognato. In compenso avevo il fatto di scrivere. Era il mio compromesso con la realtà, il motivo per cui avevo accettato di vivere una vita normale. Adesso non avevo più né la mia vita folle, né la volontà e la voglia di stendere ancora un altro rigo. Tutte le parole scritte mi sembravano inutili, pareva avessero perduto ogni significato. Forse, mi dissi, un giorno mi concederò di completarlo così avrò finalmente il piacere di leggere la sua storia dall'inizio alla fine. Così, per sapere almeno come va a finire.
Smisi di guardare le vetrine delle librerie. L'ultima volta che l'avevo fatto campeggiavano davanti a tutti una serie di testi tutti uguali con titoli alienanti: Tre metri sopra il cielo, Ho voglia di te, Scusa se ti chiamo amore, Notte prima degli esami e altri tre o quattro che neppure ricordo. Pensai a Schizzando nel vento. Avrebbe fatto la stessa squallida fine. E in fondo era quello che si meritava. Ma ormai pure il suo tempo era passato. Mi ero svegliato tardi. O forse ero solo stato sfortunato a non trovare i giusti editori. O forse per davvero la mia roba non era mai stata all'altezza. Era una possibilità.
Una notte, al rientro dal lavoro e dopo aver baciato le due bimbe che dormivano nell’altra stanza, mi misi al computer che non accendevo da parecchio. Girando stanco all’interno di quell’ormai arido scenario informatico, cercando una canzone su cui poter fumare l’ultima sigaretta della giornata, finii nella cartella delle cose che avevo scritto. Come appariva triste! Piena di file impolverati che il tempo avrebbe lentamente divorato, dava l’idea di essere vuota, se si scorrevano con lo sguardo gli alienanti titoli che negli anni avevano contenuto grandi significati che si erano poi assottigliati in solitarie speranze per tramutarsi infine in mondi sepolti. Sembrava un silenzioso cimitero monumentale di grandi uomini le cui storie erano state ormai dimenticate.
Aprii ad uno ad uno tutti i testi e lessi un pezzo di ognuno. Non capivo cosa significavano, cosa intendevano rappresentare. Perché avevo scritto quell’immensità di parole? Per fare cosa, per vivere quale tipo di vita? Che cosa poteva esserci mai di appassionante nell’inventare storie e nello sperimentare innumerevoli alchimie letterarie per trovare la formula giusta per scriverle? Niente. Eppure non ero riuscito a farne a meno. Da diversi giorni, ad esempio, mi era venuta un'idea. Avevo cercato di non darle ascolto, ma mi era venuta e non se ne andava più. Mi misi a rileggere l'ultimo testo che avevo scritto. Quello pulp. Anch'io potevo scrivere cazzate a cui si poteva dare una definizione. Aggiunsi l’idea che mi era venuta in mente e finì che mi rilessi tutto il testo. Pensai che non aveva niente che non andasse. Me lo rilessi ancora, il giorno dopo.
Pensai di stamparlo. Lo rilessi stampato. Tranne un errore abbastanza stupido verso le ultime pagine, mi sembrava proprio una buona storia. Ne stampai altre otto copie. Volevo solo sapere se era solo quell'errore ad essere presente o se magari ce ne fossero altri. Trovai nove case editrici su internet. Avevo proprio una fottuta curiosità a riguardo, possibile che non ci fossero altri errori? Decisi di vedere che ne pensavano quei nove editori.
Spedii le copie. E pensai - Adesso non me ne frega niente, ve lo mando a ripetizione finché campo perché, davvero, se c'è un altro solo errore, io devo scoprirlo. E gli altri testi? Pure, pure, a loro tempo. Non passerò certo la vita dello scrittore, ma potete aspettare di vedermi morto se pensate che dopo aver scritto gli otto migliori libri che avrei potuto, accetterò in silenzio che frotte di dementi che si definiscono Scrittori continuino a prendermi in giro da quelle cazzo di vetrine delle librerie. Ho scritto tutto così velocemente che ho ancora tutta la vita davanti. Bene, bene. Imparerò a memoria i dizionari, leggerò un libro ogni due giorni, scandaglierò la rete alla ricerca di editori, rivedrò ogni singola parola di tutto ciò che ho scritto. Ho forse deciso che non scriverò più niente? Oh, è certo che non lo farò, ma niente può impedirmi di riprendere la mia lotta contro il meccanismo.
Strane luci al neon mi allucinavano il cervello.

*

Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte25

Per una strana deformazione caratteriale, mi ero sentito spesso vicino a marchiare per sempre la ruvida superficie del mondo letterario con il mio nome. Senza un contratto effettivo di pubblicazione. Senza un vero e proprio seguito di lettori. Senza le capacità necessarie per correggere e promuovere i testi. Forse senza neanche i testi giusti. Ma cosa importava? I miei libri mi piacevano non perché li avevo scritti io, ma li avevo scritti proprio perché volevo leggerli e nessuno li aveva mai scritti. Il mio era il parere della persona di cui più mi fidavo che valutava l’opera dello scrittore più esaltante che avessi mai incontrato. Ero io che valutavo me stesso. E mi valutavo in maniera estremamente positiva. Senza farmi sconti, però. Riconoscevo le innumerevoli pecche nello stile e la scarsa credibilità che avevano certe parti di quasi tutti i libri, ma sapevo che al momento giusto mi sarei inventato qualcosa per renderli perfetti. Nessun altro sarebbe stato in grado di farlo.
Quello che non andava di tutta la faccenda era che spesso non ero capace neanch’io di tirare fuori i risultati di tutte le mie equazioni. Oppure non mi andava di applicarmi ulteriormente e quindi le storie rimanevano sospese in un limbo di insoddisfazione che si accumulava anno per anno e libro dopo libro. Ero pigro. Profondamente pigro. Spesso dimenticavo elementi costituenti delle storie. A volte, incontrando nella rilettura un personaggio, mi chiedevo – E questo chi cazzo è? -. Così ero costretto a rifocillare la memoria con dei mantra assillanti che mi ripetevo per tutta una giornata, per diverse giornate che formavano i mesi dell’anno che ci mettevo (in generale) per stendere uno scritto.
Ricordati di ricordarti di respirare.
Poi rilasciavo tutto come se avessi compiuto uno sforzo innaturale, avevo una sorta di rigetto nei confronti dell’ultimo libro steso che mi portava ad odiarlo e a dimenticarne le fasi essenziali. E mi rendevo conto che, a causa di quelle ossessive ripetizioni, avevo trascurato la realtà in modo ignobile, restando chiuso in un mondo mentale che aveva impegnato la mente e gli occhi per tutto quel tempo.
Ricordati che hai un corpo, ricordati di nutrirlo, ricordati di lavarlo.
L’ultimo romanzo che aveva risucchiato tutte le mie facoltà mentali nel periodo della depressione e della successiva cura , venne fuori, come era stato per Elanka Wwea, ispirato da una morte, quella di mio cugino di Melito, e da un videogame concernente il mondo della malavita americana negli anni settanta. La morte e la disumana immersione nei mondi virtuali creavano un mix traumatico che stimolava una grande forza di applicazione. Ma andare avanti in quel modo diventava davvero macabro.
La scena iniziale del libro mi venne in mente per l’invasione di cavallette che ci fu quell’anno nel mio paese. Erano enormi, rumorose e si infiltravano dappertutto. Le quantità che se ne sparsero nell’aria per quel lungo periodo fecero pensare ad una vera e propria piaga degna della più celebre saga fantasy ebrea. Non si poteva andare in giro a piedi senza che ti zompassero attorno alle caviglie, in petto, in fronte, non si poteva tentare di uscire da un’auto senza che cercassero di saltarci dentro, finivano sotto le gomme con crepitii osceni. Sembrava di guidare sopra un tappeto di popcorn. Si aggrappavano a qualunque cosa e restavano appese sulla schiena della gente. Sghignazzavi. Finché non ti veniva il dubbio che ne avessi, appesa dietro, una anche tu.
L’invasione delle cavallette si presentò come un evento insolito che delineò un periodo che parve fuori dal tempo. La convivenza forzata ispirava un fascino strano. Anche nelle ore notturne e per le stradine solitarie, non era forse la migliore compagnia che si potesse invocare, ma non ti sentivi mai solo. Pensai che fosse un ottimo elemento d’arredo per una storia pulp. E l’arredai così, il testo che scrissi quell’anno, col nome L’era delle cavallette.
Da quando avevo concluso 5, stanco dei continui tentativi di esprimere una filosofia di vita o messaggi subliminali all’interno dei testi, avevo cercato di raschiare fino all’osso l’involucro emotivo che aveva racchiuso ogni successivo libro per tirarne fuori soltanto una semplice storia. Che non contenesse il mio parere sui comportamenti umani, che non comprendesse una morale o che non tendesse a farmi tratteggiare i personaggi in base alla simpatia che mi ispiravano. Avevo cercato di pormi al di sopra di ogni giudizio, di distaccarmi dal contesto letterario e di essere il più invisibile possibile, di far parlare le storie e i personaggi e basta. Il Capitano Glynk aveva risposto al meglio a questo mio proposito. Però, purtroppo, avevo in mente per la sua stesura un’opera così mastodontica che mi ero perso per strada. L’era delle cavallette divenne il mio testo immorale, asettico, quello in cui il mio punto di vista era finalmente scomparso a vantaggio di un racconto. Avevo raggiunto la semplicità che mi era sempre mancata. Il testo comprendeva un solo genere: il pulp. Ero riuscito a non uscire fuori tema in nessun punto. Mi reputai soddisfatto del lavoro svolto.
La stesura dei miei testi non mi dava più, però, le belle soddisfazioni di una volta. Fantasticare sulla loro pubblicazione ormai mi sembrava sempre più stupido. Avrei potuto stampare il testo, cercare case editrici interessate al pulp e sperare che lo accettassero, ma mi rendevo conto delle difficoltà. Avrebbero certamente trovato elementi non convincenti, parti che avrebbero potuto giudicare poco chiare, mi avrebbero rovinato persino le idee che me l’avevano ispirato oppure non avrebbero risposto, lasciandomi per sempre il dubbio su cosa non andasse, come era successo con tutti gli altri libri che avevo inviato. Persino un parere positivo non era ormai credibile, dal momento che mi avrebbero cercato dei soldi. Capii che non esisteva una via d’uscita e lentamente cominciai a maturare una decisione che spesso avevo sfiorato, ma che avevo sempre, alla fine, rimandato: pensai che avrei smesso di scrivere. Non conveniva più. Le maggiori crisi di identità che avevo avuto erano nate dall’impossibilità di traslare sul piano reale quello su cui avevo sempre concentrato la maggior parte dei miei sforzi. E ultimamente tali crisi si erano fatte davvero pesanti.
Fin da quando avevo conseguito la laurea, non avevo mandato che pochissimi curriculum in giro, non mi ero mai deciso a cercare un posto fisso di lavoro e a rincorrere un minimo di stabilità per la mia vita e la mia famiglia. Non l’avevo messa a rischio mai, per quello che mi riguardava ero certo di non averla mai trascurata. Scrivevo di notte e mi alzavo regolarmente per andare a lavorare. I sacrifici li richiedevo solo a me stesso e neppure li consideravo tali. Però non mi andava più bene. L’idea che prima o poi sarei diventato uno scrittore non mi permetteva di cercare altro. Il cibo, invece, me lo dava il lavoro, che avevo sempre odiato.
I testi che scrivevo non li leggeva più neppure la ragazza che amavo troppo assai, dai tempi della prima parte di Malko. Lei si leggeva Ammaniti e Baricco. Un altro mio amico, estimatore di ogni forma d'arte, mi confessava che avrebbe voluto leggere qualcosa di veramente bello, di veramente nuovo. La mia roba si ragnatelizzava nella memoria di vari computer. Il mio. Quello di mio padre. Quello dei miei suoceri. Erano i posti dove avevo scritto. Erano i posti in cui avevo vissuto. Lì c'era la mia essenza letteraria. E lì sarebbe morta. Adesso le preparavo l'estrema unzione.
Parlai alla gente di ciò che aveva letto senza confrontarlo con niente di mio. Lasciai la ragazza che amavo troppo assai leggere Baricco e Ammaniti e le comprai anche altri testi loro, mentre cresceva il volume di roba mia che non aveva letto. Diedi all'estimatore di ogni forma d'arte Il vagabondo delle stelle di Jack London e Pulp di Bukowski. Smisi di mettermi a confronto con il mondo letterario, come se non ne avessi mai fatto parte. Era così che dovevano andare le cose.
Per un periodo, come reazione alla rinnovata scoperta della mia fragilità e della caducità di tutto il mondo letterario che avevo inutilmente costruito per tutta la vita, pensai che avrei dovuto rinnegare tutto e cercare nuove strade per concedermi finalmente una svolta. Passai un’intera estate a cercare di distruggere ogni preoccupazione attraverso l’ascetico influsso delle sublimi traslazioni alcoliche. Amavo le distorsioni generate dagli effluvi mistici che annebbiavano il cervello, ma temetti che, nella vita, al posto di uno scrittore, avrei solo rischiato di diventare un alcolizzato. Non potevo permettermelo. La cosa mi avvicinava vertiginosamente a Bukowski e io avevo smesso di essere un allievo degli dei.

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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte24

Nell’arco degli stessi mesi, la seconda causa della mia rovina fu aver accompagnato la ragazza che amavo troppo assai a Milano per permetterle di testimoniare in tribunale a favore di una sua amica, quotidianamente stuprata, da bambina, dal nonno materno. Il processo si svolse con una raccolta di forti indizi a favore della deposizione dell’ex bambina quotidianamente stuprata, ma tra tutti gli elementi raccolti, non esisteva una sola, concreta, prova che incastrasse il nonno pedofilo, al punto che la ragazza che amavo troppo assai non era citata in qualità di testimone diretta di episodi di violenza o di intimità tra l’amica e il nonno, ma in quanto testimone delle crisi che l’ex bambina quotidianamente stuprata aveva avuto nel periodo dell’adolescenza, negli anni in cui le violenze erano ormai cessate da parecchio. A favore della ragazza testimoniarono anche uno fratello del nonno pedofilo e il pediatra che l’aveva avuta in cura quand’era bambina, nonché lo psichiatra che aveva seguito il suo caso. Il fratello del nonno pedofilo puntò la sua deposizione su una serie di episodi che denunciavano l’assoluta mancanza di pudore del soggetto, il medico curante espose le analisi condotte a seguito di una strana forma persistente di mal di pancia dalla quale era affetta l’ex bambina, di cui all’epoca degli stupri non si era trovata causa, e lo psichiatra delineò l’ossessione maniacale che l’ex bambina aveva nei confronti della pulizia, per cui arrivava a farsi un numero immane di docce al giorno e a lavarsi le mani di continuo, e tutta una serie di comportamenti inspiegabili in un soggetto con forme di disturbi diverse da quelle derivanti da un abuso subito nell’infanzia. In poche parole la dichiarò fortemente compatibile con il profilo di un’ex bambina quotidianamente stuprata.
I giorni del processo li passammo a Milano, a casa della famiglia della ragazza. Al tribunale, in occasione della deposizione della ragazza che amavo troppo assai, conobbi il pediatra dell’ex bambina e intravidi da lontano il pedofilo. Lo rimossi immediatamente dai miei ricordi, al punto che non avrei saputo riconoscerlo un minuto dopo. Ma rimase purtroppo impresso nei miei pensieri contro la mia volontà, quando l’ex bambina, fortemente insicura dell’esito che avrebbe avuto il processo, mi mise in mano tutte le deposizioni di cui era in possesso e mi costrinse a leggerle una ad una per convincermi che la sua storia era vera.
Cazzo, che nottata agghiacciante, passata sul divano in stoffa della cucina lontano centinaia di chilometri dalla voglia di dormire, a divorare le righe nella ricostruzione mentale di squallide stanze e viscide scene sepolte dal tempo, umanamente deplorevoli, in cui si erano consumate tragedie infinite. Stando alla deposizione di lei, l’ex bambina era stata usata come puttana personale dall’ignobile nonno che non si fermava di fronte a niente. Si affermava infatti che la moglie fosse a conoscenza dell’innominabile cosa e che episodi di violenza fossero stati praticati anche mentre la nonna dormiva accanto ai due. Mi veniva il vomito, ma di più era la rabbia. Ogni volta che raggiungevo un passo spaventoso mi mettevo una mano sugli occhi. Poi mi dicevo che non dovevo temere di guardare l’orrore. Era la vita, la parte più schifosa, ma temerla significava restarne soggiogati. E leggevo chiedendo alla mia mente di non immaginare. E poi mi costrinsi a non censurare niente perché la verità era la verità e andava guardata senza riserve. E così immaginavo l’ex bambina nella vasca da bagno e il nonno che faceva scivolare una mano dentro l’acqua. Non la lasciava in pace un momento. Mi chiedevo che gusto di merda potesse mai esserci, che godimento, che soddisfazione si poteva ottenere da una cosa simile. Mettere un dito nel culo di una bambina… se a me fosse capitato anche per un caso estremamente fortuito, me lo sarei staccato a morsi senza pensarci due volte. E poi tutto il resto.
Terminai la nottata con la testa tra le mani, le mani tra i capelli e le maledette lacrime che sgorgavano senza freno. Mi chiesi cosa avrei potuto mai fare io per l’ex bambina quotidianamente stuprata. Che ormai era diventata una ragazza. E che ragazza. Se non fosse stato per le cose fuori di testa che faceva per quello che le era successo da piccola, se la sarebbe voluta sposare qualsiasi principe.
Le letture su quel divano però non mi rovinarono solamente quella nottata. Si impressero nella mente come prova ormai certa dell’ingovernabile dannazione umana, della vacuità di fondo che potesse avere anche una mente apparentemente razionale. Il pedofilo, ad esempio, come faceva a rapportarsi agli altri? Come facevano a non accorgersi che fosse pedofilo? Non guardava in modo particolare i bambini, non era tentato di fare loro avances? E se lo faceva perché non lo scoprivano? E se non lo faceva allora sapeva quanto fosse orrendo quello che faceva e se lo sapeva perché non si uccideva o perché aveva superato il confine tra immaginarlo e farlo? E tutte queste cose.
Non ne venivo a capo. Passavo momenti interminabili a pensarci e poi smettevo. Poi riprendevo ancora e non capivo. Allora smettevo. La piccola scimmia delirante cadeva a terra accanto a me e io guardavo il suo piccolo corpo indifeso. Che cosa poteva spingere un essere senziente ad avvicinarsi ad un corpo del genere con delle intenzioni? Riprendevo a pensarci e il circolo di domande diventava sempre più assillante. Non c’era una spiegazione, ma le cose senza spiegazione erano sempre state la mia ossessione. A furia di farmi domande finì che non smettevo più di pensarci. Diciamo che mi occupai della cosa a tempo pieno perché aveva la sua cazzo di gravità. E quando mi accorsi che erano ormai giorni e giorni che ci pensavo ripetutamente, mi vennero i brividi e capii che avevo un problema: la mente si era bloccata sull’episodio e non progrediva di un solo passo, mi chiedevo perché mi avesse sconvolto così tanto quella storia, se di storie del genere era pieno il mondo. Forse fu la debolezza della mia mente in quel periodo, ma se un uomo del genere l’aveva passata liscia per tutto quel tempo, allora dietro il volto apparentemente innocente di chiunque, poteva nascondersi un pedofilo. Anche dietro il mio. E cominciai ad accusarmi. Per i continui pensieri sulla cosa, per aver immaginato le scene, quella notte, per aver avuto in dotazione un organo genitale e per essere stato un maschio. Mi accusavo perché sapevo cos’era il sesso, perché avevo normalissimi istinti sessuali nei confronti delle donne e perché avevo fatto sesso con la ragazza che amavo troppo assai quando lei aveva quindici anni. Ehi, ma io ne avevo diciassette. Non importava, ero colpevole di pedofilia precoce. La presenza della piccola scimmia delirante divenne un atroce tormento di cui non potevo liberarmi, come se respirassi veleno ma fosse l’unica cosa che si potesse respirare e dovevo respirarlo per forza. Il suo sopraggiungere divenne simile al grondare sangue delle pareti dell’infanzia: sapevo che stava per iniziare un incubo e che nessuno avrebbe potuto proteggermi. Soltanto io potevo salvarmi, ma non sapevo come.
Arrivai all’esasperazione quando compresi che la cosa non andava via per niente. Che era presente quando mi addormentavo e che si ripresentava immediatamente al primo battito di ciglia. All’inizio. Poi cominciai a passare le notti cercando di scavare con lo sguardo nel soffitto per trovare una via di fuga dalla mia mente. Decisi di parlarne con la ragazza che amavo troppo assai. Era una cosa estremamente difficile da delineare. Ci provai e lei capì subito: ero entrato nel panico. Mi ero immedesimato nel nonno pedofilo per capire cosa aveva potuto spingerlo a vivere quella vita disgustosa, ma non ero stato capace di mantenere le distanze emotive e così la mia sensibilità si era frantumata definitivamente.
Ero in preda ad una grave crisi di identità, ad una crisi letteraria, alle paranoie, all’insonnia, ad un esaurimento nervoso e a potentissimi sbalzi di umore che cominciarono a portarmi dal piangere per la disperazione più estrema al piangere per la commozione più sincera quando arrivavo a rendermi conto di non essere io il pedofilo della storia dell’ex bambina quotidianamente abusata. Una cosa da ridere. Se non fosse che stava capitando a me. Naturalmente imposi alla ragazza che amavo troppo assai di non lasciarmi assolutamente mai, nella vita, da solo con la piccola scimmia delirante, neanche quando avrebbe avuto trentacinque anni. Pensarci era troppo orrendo, che cosa cazzo accadeva ad una mente umana deviata, nel chiuso di quattro pareti. E mi tornavano in mente tutte le scene che mi ero costretto ad immaginare per andare incontro alla fottuta verità. Era necessario scoprirla tutta quella notte e tutta insieme? Piangevo in risposta alle mie domande. Ventitre anni e piangevo. Davanti a mia madre, davanti a mio padre, davanti a mio fratello e mia sorella più piccoli. E loro ridevano.
Quanto è fragile la mente umana e quanto ci si possa complicare l’esistenza io lo scoprii in quel periodo in cui affrontai due psicologhe e una neurologa, Mialin come tentativo di terapia in pillole e Tavor come terapia definitiva. Ero convinto che non sarebbero servite a niente. O furono loro o fu la mia stessa mente, ma poco per volta cominciai a dimenticarmi le risposte che avevo dato alle mie domande. Poi dimenticai le domande. Poi il motivo per cui me le ero fatte e alla fine tornai al punto di partenza ed ebbi solo quello che avevo cercato quella notte: la verità di quella assurda storia in cui il nonno fu dichiarato infine innocente dal tribunale di Milano. Ecco che cosa avevo fatto per l’ex bambina: avevo rischiato di impazzire. Poteva bastare per convincerla che le avevo creduto?
Da quella notte era passato più di un anno. In quell’anno dimenticai me stesso.

*

Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte23

La prima volta che maturai la convinzione di essere speciale fu intorno ai cinque o sei anni. Dev’essere l’età in cui succede a tutti. Mi accadde guardando le stelle. Per tutta la vita mi posizionai controcorrente per raggiungere qualcosa di diverso rispetto a tutti gli altri e per vedere confermata la mia idea di essere speciale, sempre tenendo a mente la consapevolezza che mi illuminò l’infanzia. Adesso ero un uomo sposato, con figli, con problemi di lavoro, una laurea inutilizzabile presa per ripiego, residente in una casa prestata dai genitori e che stava ormai per diventare uno scrittore stitico che sapeva solo accatastare altra merda sulla propria condizione di infelice. La vita mi aveva devastato. Come aveva fatto con tutti quelli della mia generazione. Io non ero immune alla normalità, non ero un essere speciale. I posti che non avevo visto non li avrei visti mai, le persone che non avevo conosciuto non le avrei conosciute mai, i libri che non avevo letto, non li avrei letti mai più. Questa era la vita. Gli dei mi avevano ingannato. Io mi ero ingannato con l’intrico di miliardi di contraddizioni. Mi sottrassero definitivamente le fruste ed io sprofondai nel terrore più completo della realtà, sentendo la mente ogni giorno più fragile e più vicina a subire un collasso.
La prima causa della mia rovina fu l’omicidio, che avvenne in quel periodo, di mio cugino di Melito, ucciso dalla camorra a ventuno anni. Mio cugino di Melito era un bambino bello, quand’era piccolo, biondo e scuro di carnagione, con il muso in avanti rispetto alla fronte, e un sorriso spettacolare. Due anni lo mantenevano più piccolo rispetto a me, ma ogni volta che ci incontravamo, fin da bambini, aveva sempre qualcosa che io non avevo. La prima volta aveva una piscina gonfiabile enorme che aveva messo sotto un tavolo in cortile, dal quale si tuffava come fosse un trampolino. La seconda volta aveva una motoretta a benzina con cui girava per tutto il paese a velocità spregiudicata. E la terza volta, intorno ai quattordici anni, aveva un cellulare a cui stava appiccicato tutto il tempo anche se non lo chiamava nessuno perché erano davvero poche le persone ad averlo, a quei tempi. Per compensare la mancanza di chiamate, mandava a ripetizione le cinque o sei suonerie di cui l’apparecchio disponeva.
Mio cugino di Melito mi voleva bene e io gliene volevo, anche se litigavamo spesso. E litigammo l’ultima sera che stette da noi, quella volta a quattordici anni. Il motivo è così stupido che vorrei averlo dimenticato, ma purtroppo lo ricordo ancora. La ragazza che amavo troppo assai ci passò davanti mentre eravamo appoggiati alla ringhiera della villa e lui la chiamò con un’emissione vocale modulata sulla falsa riga di una gomma che si sta forando. Le fece – Pssssssss-. Non ci fu una discussione per gelosia e né un problema di mancanza di rispetto nei confronti della mia ragazza perché la ragazza che amavo troppo assai, quando lui forò verso di lei, quella sera, era stata la mia ragazza e non lo era più. Lo pregai quando la vedemmo da lontano e gliela feci vedere, dopo che gli avevo raccontato più o meno quello che era successo, di fare finta che fosse invisibile perché avevamo litigato e non ci salutavamo neppure. Non volevo che lei pensasse che volessi infastidirla, dal momento che aveva già allora il suo tipico contegno altezzoso quando era offesa e me l’aveva mostrato proprio la sera in cui ci eravamo lasciati. Non ci tenevo a rivederlo.
Per quel motivo io e mio cugino di Melito facemmo lite e per quel motivo non lo seguii a Melito per qualche giorno come gli avevo promesso e come avevo fatto altre volte in passato. In realtà non mi andava già da prima, ma il pretesto mi sembrò valido, anche se la mattina prima di partire ci mettemmo e piangere e facemmo pace. Lui mi pregò di andare a passare qualche giorno a casa sua, ma anch’io l’avevo pregato di non fischiare alla ragazza che amavo troppo assai. Non so se fui mai così testardo come quella volta, ma decisi di non andare a Melito, pensando che prima o poi ci sarebbe stata un’altra occasione per passare del tempo insieme.
Venne a trovarci qualche altra volta, ma ogni volta solo per un giorno e per un motivo o per un altro non ci parlammo più da quella mattina prima che partisse. Uno, finché si è vivi, è sempre convinto che prima o poi sistemerà le controversie con la gente a cui vuole bene e se ha un cugino con cui ha fatto lite, una volta, quando si era piccoli e stupidi, si aspetta che avrà l’occasione, un giorno, da grande, per dirgli – Ti ricordi, quella volta che facemmo lite per colpa della ragazza che amavo troppo assai? -. Si aspetta che potrà dirgli – Mi dispiace per non essere venuto a casa tua e averti lasciato andar via tutto triste e solo. So che cosa significa quando uno a cui vuoi bene ti abbandona -. E invece io non feci in tempo. Lui aveva ormai fatto le sue scelte peggiori, entrando a far parte del giro e prima che potessimo neppure immaginarlo, ce lo consegnarono morto, a voce, due carabinieri. Mia madre si premette una mano sulle labbra invocando la Madonna. Mio padre continuava a chiedere furioso – Cadavere? – come se fosse un’offesa pronunciata a danno suo dal carabiniere. Io avevo capito che era stato lui ad uccidere qualcuno. Pensai – Cazzo! –. Poi capii che, invece, era il contrario. E allora pensai – Cazzo! -. Avevano ucciso lui, il giorno della festa della mamma. Sua madre era venuta a trovarci e non ricevette neanche gli auguri. Provò a chiamarlo, ma lui non rispose per tutto il giorno. Mia zia sorrise, preoccupata – È strano, non se ne dimentica mai -. Non se n’era dimenticato.
Dapprima l’inquietudine che provammo, al di là del naturale dolore, riguardava il coinvolgimento della camorra. La lunga catena di vendette che la banda di Di Lauro aveva messo in atto in quegli anni, e di cui sembra che restò vittima anche mio cugino di Melito, era simile ad una guerra senza rispetto per il senso basilare di umanità. Le vittime erano spesso parenti innocenti dei nemici, subivano torture e morti orrende e sui corpi ammazzati venivano infine praticate ulteriori ingiurie. Una cosa vomitevole. Anche un boss mafioso potrebbe avere un minimo di dignità. Ma dimostrazioni in tale senso difficilmente si ottennero nella storia. E poi venne la rabbia per aver perso una persona a cui volevamo bene, per come l’avevamo conosciuta noi, che consideravamo nostra, nonostante tutto. Venne la vergogna per aver avuto paura quasi prima che dispiacere e tutta una serie di rimpianti e sensi di colpa. Fu un periodo di merda di quelli da definizione sulle enciclopedie.

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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte22



Pensai che avrei distrutto tutto e che mi sarei finalmente deciso a combattere quella assurda malattia mentale che faceva traboccare quantità enormi di parole vuote dalla mia mente, nel nevrotico contorcermi quotidiano senza un solo minuto di tregua e di rilassatezza. A volte, per spegnermi, avrebbero dovuto abbattermi. I miei miliardi di parole si sommavano storicamente alle montagne di libri che avevano resistito al tempo e che, dai passati immemori, erano riusciti a giungere fino a noi. Pianeti di libri, universi interi tappezzati da pagine scritte in una abominevole esplosione di messaggi e opinioni e storie e personaggi di cui non se ne poteva più. Basta. Di un altro scrittore si sarebbe potuto fare a meno e se potevo rendere questo servizio all’umanità, l’avrei reso senza fare troppe storie.
Mi laureai senza quasi accorgermene, mi rintanai in casa e mi convinsi che il mio unico posto era quello. Quasi tutti i miei amici diedero inizio all’ultima fase dell’abbandono che era cominciato quella sera sui gradini della strada male illuminata in cui ammazzammo tutti i nostri sogni sul futuro universitario insieme. Prima smisi di acquistare libri. Poi smisi definitivamente anche di leggere. Tutto quello che mi aveva spinto, millenni prima, a lanciarmi a volo d’angelo sulla superficie incerta del mare letterario, per imparare ad affrontare le paure, per sfidare la vita e per ricevere il segreto dagli dei, era ormai scomparso. O se ancora non lo era, stava per farlo inesorabilmente e senza alcuna pietà per le fondamenta instabili che avevano sorretto fino ad allora la mia esistenza.
Saper distinguere la verità dalla finzione è una delle competenze più incredibili che un uomo possa maturare. Il segreto è tutto nella linea di demarcazione e la linea è così sottile e così precisa che a pensarci vengono i brividi. La vita può trasformarsi in un’allucinazione protratta se ad essere falsa è qualche componente del mondo esterno. Ci si può lasciare ingannare da un acquisto che non sì è tecnicamente all’altezza per valutare e farsi fregare in maniera lieve. Ci si può fare ingannare da un falso comportamento di una persona e prendere una fregatura più grossa o farsi fregare da un atteggiamento corale o sociale. In questo caso la fregatura raggiunge già livelli eccellenti. Ma la fregatura più grossa che si può ricevere è l’inganno che uno può operare su se stesso. Un abbaglio di quelli mai visti, che può durare anni e, nel peggiore dei casi, anche una vita intera.
Quello che mi aveva permesso ogni volta di sopportare me stesso e i fastidi che mi procuravo era che avevo sempre saputo quello che andava fatto in qualsiasi momento della vita. Avevo avuto cosmi di dubbi e ripensamenti, ma, nel culmine del fermento delle idee, avevo tirato fuori ogni volta, in maniera quasi ascetica, una direzione. E l’avevo seguita. E le cose erano andate bene. I dubbi che si addensarono nella mia mente in quei mesi erano però dubbi orribili che mi occultarono definitivamente il futuro e mi portarono alla vista la mia vita completamente rovesciata: l’ipocrisia che esisteva nel vivere l’attimo presente era sconcertante, non comprendeva un passato e non permetteva un futuro. La presenza di chiunque sotto il mio naso divenne una presenza vaga, fatta di forme simili a fantasmi con cui si poteva interagire con l’unica possibilità di accedere a estasi di comunicazione che avevano una fase di eccitamento, di plateau, di orgasmo, per terminare poi nel lento rientro ad una ordinaria apatia. Non esisteva la possibilità di una comprensione totale e non esisteva la possibilità di una comprensione definitiva. Tutto andava ribadito ogni volta, ogni giorno, con estrema difficoltà comunicativa e armarsi sempre del proprio intero bagaglio di convinzioni sembrava umanamente impossibile. La mente degli uomini, una volta scalfita, riassorbiva la ferita e tornava a mostrarsi, insensibile nei tuoi riguardi, come l’avevi trovata, al punto che si finiva sempre ad avere gli stessi problemi con le stesse persone e questo non permetteva alla vita di proseguire. Se un tempo ero stato un allievo degli dei, se avevo studiato da loro il modo per ottenere lo slancio di progredire di un gradino ancora, verso una coscienza omnicomprensiva e per ottenere la forza di rendere possenti le braccia ed allargarle agli altri uomini per permettere loro di issarsi a guardare la vita da una nuova vetta, voleva dire che avevo perso il mio tempo. Non avevo imparato niente.
Cercai di ricominciare tutto concentrandomi solo sulle piccole soddisfazioni che la vita famigliare può dare. Andavo a fare la spesa con la ragazza che amavo troppo assai preoccupandomi per la prima volta delle cose che preferivo mangiare, mi divertivo a far rientrare il bilancio economizzando e accumulavo le piccole somme di denaro che ci avrebbero permesso di sopravvivere nei giorni in cui sarebbe mancato il lavoro. Le cene in famiglia erano davvero un bel momento. La bambina che si spremeva nel pannolino zittendosi improvvisamente mentre mangiavamo, mi riempiva di orgoglio. Defecava che era una bellezza, proprio come me. E poi vederla arrampicarsi ai divani e allungarti una mano, farla addormentare con le canzoni dei Radiohead, usarla come chitarra per le canzoni degli Oasis, morsicarle le chiappe e schiaffeggiarla per farla ridere, mi appagava della stancante monotonia dell'assenza di contesti letterari.
La vita aveva un sapore strano e momenti di vera serenità famigliare se ne vedevano pochi. A pranzo avevo sempre poco appetito, la sera quasi sempre cenavamo dai miei genitori o dai suoi. Non riuscivamo a sederci sul divano per goderci un film perché la ragazza che amavo troppo assai si addormentava e raramente andava a entrambi di uscire. Nei periodi invernali poi, con la bambina ancora piccola, non uscivamo mai. Io mi mettevo al freddo davanti al computer mentre lei la metteva a dormire e quasi sempre rimaneva a letto per evitare di dover accendere i termosifoni. Nelle nostre vite appariva un dislivello che le faceva sembrare due vite separate. Avevamo ritmi diversi, orari diversi, bisogni diversi, diversi interessi e diversi modi di affrontare le cose. Non si capiva come avessimo potuto vivere in simbiosi, un tempo. Per di più non riuscivamo per niente a capirci, su ogni questione. Lei cucinava come il cazzo. Se glielo dicevo la prendeva male, come era giusto che fosse. Ma se non le dicevo niente continuava a cucinare come il cazzo. Ogni situazione rappresentava un paradosso. Aveva maturato tutta una serie di superstizioni sessuali per cui si poteva ottenere soltanto un amplesso in posizione missionario con gemiti ridotti al volume zero. Non si poteva fare l’amore quando era sveglia la bambina, ma quando dormiva, doveva dormire anche lei per mantenere il ritmo. Se riuscivo a beccarla nei cinque minuti prima di addormentarsi non le andava di fare l’amore. Se tentavo di svegliarla durante il sonno mi faceva notare che stava dormendo. Cacciava via le mie mani e mi rimproverava proprio.
Che cazzo le avevo fatto? E che schifezza era mai quella? Mi aveva torturato l’esistenza prima di sposarci con questo maledetto sogno di vivere insieme e di dormire insieme. Ah, si trattava proprio di dormire. Doveva esserci stato un equivoco di fondo mai chiarito. Restavo a pensarci per nottate intere mentre mi morsicavo la mani nel disperato desiderio del suo corpo che strusciava contro le lenzuola accanto al mio. E la mente veniva devastata da estatiche visioni d’erotismo che mi facevano venir voglia di piangere e buttarmi giù dal balcone.

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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte21

Intorno ai quattordici anni avevo tutta una serie di libri tascabili che raccoglievano poesie dei grandi autori. Uscivano in edicola. Ogni mese ne avevo uno nuovo. E conoscevo un posto dietro casa mia, lungo la strada di una delle tante scorciatoie per evitare la salita, su una collina, dove due alberi di noce si allungavano verso il cielo e distendevano i loro rami verso la città raccolta nella conca formata da diversi colli. Dipinto fino alla valle, l'insieme di piccole case dalle facciate rosa, bianche e celesti, si inerpicava lungo il fianco di una collina di fronte, fino al limitare del castello. Il passaggio della gente a piedi e delle piccole macchine lontane, uniti al volo pomeridiano di centinaia di rondini, trasformavano l’opera d’arte rappresentata da quella grande colonia umana in un gigantesco essere vivente disteso sotto il mio sguardo con le alture a fare da possenti cuscini che ispiravano pensieri fugaci del dormiveglia.
Rimbaud, Pavese, Pessoa, Lee Masters, Hikmet, Borges, Thomas, Yeats, li conobbi tutti su quella collina nelle loro piccole edizioni da poche migliaia di lire. Percorrevo il sentiero nell'erba scrutando le sfumature sempre diverse delle nuvole e del cielo. I due alberi di noce emergevano dalla curvatura del colle. Li raggiungevo, mi issavo sui loro rami e mi incastravo nella fionda che formavano. Allungavo una gamba e lasciavo penzolare l'altra e, all'ombra delle loro rade foglie, destrutturavo la città e la ricostruivo in modo simile agli scenari interiori che i versi, con estrema semplicità, riuscivano ad evocare.
A volte, nei giorni in cui mi sentivo più ispirato, portavo sulla collina il mio quadernetto di poesie che non erano poesie. Respiravo le atmosfere dei grandi poeti e lasciavo scorrere la mia penna. Mi puntellavo le labbra con il tappo osservando la città che si arrossava al tramonto e scrivevo un nuovo verso. Non andava mai bene. Decisi che, per espandere i pensieri, fumare potesse essere d'aiuto. Cominciai a fumare una sigaretta alla volta, sulla collina.
La solitudine più bella della mia vita la provai in quegli anni in quel posto. Scoprire il mondo attraverso le parole dei maestri scomparsi era il modo migliore per capirlo fino in fondo, per scoprirne il lato emotivo e vibrante e per raggiungere l’onniscienza necessaria per plasmare la realtà, come se fossi un allievo degli dei. Dalla vetta dell’albero di noce la città era la mia, si poteva coprire tutta con una mano aperta, con una mano spazzarla via e con una mano strapparla alle radici e issarla verso il cielo. La sfida che rappresentava la vita mi sembrava un’avventura che non avrebbe conosciuto limiti e niente poteva togliermi la convinzione che l’avrei vinta. Tutto era ancora da conoscere e innumerevoli erano i luoghi che non avevo visto, i libri che non avevo letto, le persone che non avevo conosciuto. Sapere che non sapevo quello che mi aspettava rendeva la vita bella e libera da qualsiasi ottenebrante forma di destino.
Fermo con gli spettri di un fumo antico che mi avvolgevano librandosi nella semioscurità della stanza, me ne stavo, quasi dieci anni dopo, a contemplare i vecchi ricordi e a battere un dito sul bordo del ripiano del mobiletto del computer, mentre la luce artificiale del monitor mi accarezzava la fronte. Ancora un volta avevo passato ore intere davanti allo schermo senza aver steso una sola riga. La notte esprimeva silenzi che ti invadevano l’anima, interrotti dal rumore dei motori di solitarie auto in transito e dallo slittare delle loro gomme sulle stradine sali e scendi nei dintorni della prima casa in cui io e la ragazza che amavo troppo assai, con la piccola scimmia delirante al seguito, andammo ad abitare. Era una casa piccola, ma indipendente, comprata dai miei genitori per investire il piccolo capitale di cui disponevano, costruita sopra una abitazione a pianterreno, a cui si accedeva per mezzo di un portone in legno massiccio e una ripidissima rampa di scale lunga una ventina di metri. Ci permisero di trasferirci lì a tempo indeterminato senza pagare l’affitto e con la clausola che avremmo potuto starci per quanto tempo volevamo, senza alcun obbligo.
Di tutti i propositi che io e la ragazza che amavo troppo assai avevamo avuto da fidanzati, del letto basso giapponese e della conformazione erotica che avrebbe dovuto avere la nostra camera da letto, degli schizzi alle pareti e delle mie frasi disseminate sui muri di cui avevamo fantasticato un tempo, non restò alcuna traccia quando scegliemmo i mobili per arredarla e quando l'arredammo. Tutti i mobili su cui eravamo almeno un po’ d'accordo erano di una banalità sconcertante. Mi adeguai alla banalità. Per fortuna prendemmo almeno una piccola libreria su cui avremmo messo i libri. Per ora sui suoi ripiani figuravano solo le tre copie dell’antologia. Era un ottimo traguardo.
Il computer era stato parcheggiato in un angolo della grande sala su cui si svolgevano quasi tutte le attività della famiglia. Avrei potuto continuare a scrivere soltanto di notte. La prossima casa, ci dicemmo, la prenderemo con una stanza in cui poter scrivere e tenere gli zaini con le copie di tutti i miei scritti, dalla notte dei tempi in poi, che ormai erano diventati tre. Per il momento li relegai sulle scale che portavano in terrazza.
Avevo fatto delle scelte sbagliate. Questo non si poteva discutere. Il fatto era che se avessi potuto riprovarci, le avrei rifatte esatte uguali. I miei più grandi errori erano più che altro tre. Il primo era stato quello di non concentrarmi mai sulla correzione delle parti di un testo che non mi convincevano davvero. Questo però mi aveva permesso di scrivere sette libri in sei anni, più un numero imprecisato di raccolte in versi. Il secondo errore era stato quello di credere che la diffusione fosse complementare alla stesura di un testo. Il fatto è che scrivere può essere bello come masturbarsi, ma per fare l’amore si deve essere almeno in due. Se poi si può provare a farlo in cinquecentomila, nasce il sospetto che possa venirne fuori l’orgia più soddisfacente della storia. E il terzo errore era quello più complesso ed era quello che riguardava la gente che mi era più vicina: gli amici, la ragazza che amavo troppo assai, i genitori e i fratelli. L’errore era stato tentare di coinvolgerli in qualche modo, convincerli ad affacciarsi al mio mondo o aver permesso che lo facessero, pensare che in quel modo potessi regalare loro ciò che avessi di più bello. Non aver saputo affrontare la solitudine che può provare un pioniere da solo di fronte a un mondo sconosciuto aveva reso debole la mia battaglia, mi aveva fatto perdere di vista le fruste e mi aveva fatto comportare come un qualsiasi deficiente viziato con la pretesa insostenibile di riuscire a vincere i propri mostri. In un certo qual modo avevo sempre sperato che il duro della lotta potesse affrontarlo qualcun altro al posto mio.
L’ammasso di parole accatastato nelle miriadi di file di tre diversi computer divenne fastidioso come l’acceso vociare inconcludente di miliardi di idee contraddittorie, espresse solo per il gusto di sentire la propria voce parlare, per paura di un semplice silenzio. E il silenzio mi divenne amico, si presentò in una forma nuova, più accettata di qualunque parola corrosa dai millenni di falsi significati e dall’abuso reiterato nei confronti della lingua che avevo operato in tutti quegli anni e che i milioni di inutili scrittori della rete, come me, continuavano a esercitare. Scoprii di poter stare giorni interi senza proferire una sola parola, elaborare una sola opinione, un solo dissenso. La vita scivolava via, era quello che doveva fare, nient'altro.

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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte20

Frequentavo la scuola media, lontana più o meno due chilometri da casa. La raggiungevo a piedi tutte le mattine e tutti i pomeriggi, sempre a piedi, tornavo a casa. Un lunghissimo viale dalla pendenza più fastidiosa che uno possa incontrare divideva l’ultimo tratto tra il paese e la 167 dove abitavamo. Lo chiamavamo la salita. Sembrava che non finisse mai. Per evitare quel tratto, noi ragazzini ci eravamo inventati dei percorsi alternativi in mezzo alle campagne che non erano meno insidiosi, ma che, essendo più fantasiosi, stemperavano la fatica del tragitto. Io ne conoscevo diversi. Uno s’inerpicava sul colle passando attraverso due alberi di noce e dietro una vecchia struttura, non meglio identificata, simile ad un castello, da tutti conosciuto come la casa bianca, uno seguiva lo stesso percorso ma tagliava attraverso due cespugli di more e ce n’era un terzo che chiamavamo la scorciatoia perché era l’unico per cui per davvero si accorciava. Nell’ultima parte del percorso bisognava attraversare un piccolo frutteto e superare una recinzione di ferro divelta, prima di raggiungere nuovamente l’asfalto. Lungo la scorciatoia vidi per la prima volta nella mia vita un cadavere abbandonato.
La sera prima del giorno in cui successe la cosa, giocavo presso la chiesa con alcuni amici e amiche di scuola. Noi maschi avevamo preso la fissa di lanciare delle pietre mentre le ragazze si sovrapponevano a una saracinesca, schivandole e sbeffeggiandoci. Erano così lontane che non correvamo davvero il rischio di prenderle. Ci volevamo bene. Presi dall’eccitazione del rapporto in strada con l’altro sesso, cominciammo ad alzare sempre di più la mira, finché un ragazzo più grande di noi passò davanti alla saracinesca e, non so come, si prese una pietra in fronte. Si piegò su se stesso e cominciò a piangere, ma a me sembrava che stesse fingendo. Mi avvicinai con la bici sorridendo, ma, quando si rialzò, aveva un bernoccolo enorme con una livida sbucciatura proprio in mezzo alle sopracciglia. Capii che me le avrebbe date, ma, dopo il primo schiaffo che lanciò a caso verso la mia faccia, riuscii a scappare. Se avesse preso la pietra in un occhio, gli sarebbe uscito dall’altra parte. Ringraziai dio per aver cambiato la traiettoria all’ultimo secondo, mi vennero i brividi e me ne andai a dormire.
Passai la mattinata seguente con la paura che il ragazzo potesse presentarsi in classe. Era uno che frequentava la mia stessa scuola. Ma per tutta la giornata non si fece vivo, nonostante saltassi sulla sedia a ogni tocco di nocche sul legno della porta. Con il terrore dell’intuizione improvvisa, quando suonò l’ultima campanella, capii che mi avrebbe aspettato fuori. Il bernoccolo che aveva faceva davvero paura, non ne avevo mai visto uno così pronunciato a neppure dieci secondi dall’impatto. Mi conveniva dileguarmi nella folla e cercare di evitare l’incontro prendendo la strada più veloce di tutte: la scorciatoia.
Non ricordo un’altra sola volta in cui non abbia percorso quella strada in compagnia di qualcuno. Quel giorno anticipai tutti, pensando di aver fregato il mondo, ma quando svoltai la curva che portava nel frutteto, il mondo sghignazzò a vedere la mia faccia impallidirsi per lo scherzo che mi aveva preparato. Steso sulla piccola salita di terra incastrata tra due bassi muri di tufo, il corpo di una donna era sdraiato, nudo, sulla nuda terra. Mi rivolgeva le piante dei piedi, aveva le gambe divaricate e un palmo di riccioli neri che si gonfiavano sotto l’ombelico, le braccia aperte a caso verso l’alto.
Non passai più di tre secondi immobile davanti alla scena e non riuscii neppure ad alzare lo sguardo fino al volto della donna. Fotografai soltanto il corpo e il sangue. Mi sentii le narici invase dalle esalazioni. Girai su me stesso in modo automatico e discesi la collina cominciando a convincermi di aver avuto un’allucinazione. Quando raggiunsi nuovamente la strada ne ero ormai certo, per questo non provai neppure a fermare la pattuglia di polizia che passò al mio fianco proprio in quel momento e proseguii fino a casa lungo la salita dimenticandomi per sempre del mio inseguitore. Se mi avesse preso e pestato fuori dalla scuola, davanti alle ragazze, ai professori, ai genitori e tutti, sarei stato davvero contento. Me lo meritavo. Ma la donna morta mi sembrava troppo.
La trovarono i ragazzi che uscivano da scuola e decisero di prendere la scorciatoia dopo di me. Io non dissi niente a nessuno, non mangiai a tavola, restai a giocare sul balcone sbattendo una palla centinaia di volte sullo stesso punto del muro. Ogni tanto mi fermavo, mi piegavo, digrignavo i denti e mi dicevo – Non è niente. Niente – e immaginavo di potermi accarezzare la testa con due mani che non fossero le mie. Ore dopo, la notizia del ritrovamento si diffuse. Un’amica di mia madre venne a suonare a casa per dirglielo. Io continuavo a tirare la palla e sentivo pezzi di conversazione. Parlavano proprio della donna morta, ma con una serie di dettagli errati, per esempio: il luogo del ritrovamento. Mi avvicinai con la palla in mano e seguii il flusso delle parole con le labbra spalancate, come annusandole per capire dove conducevano. Conducevano proprio lì.
No, no, no.
- Tra i due bassi muri di tufo - diglielo.
No.
- E tu come lo sai? – due cumuli di pelle solcano una ruga sulla fronte, mentre la testa si volta all’improvviso.
- L’ho vista.
L’avevo detto.
È sempre difficile rivelare a tua madre quello di cui hai paura. Temi che possa pensare di aver fatto un figlio sbagliato. Lei spalancò le labbra, gli occhi e le braccia. Io mi aggrappai alla sua vita e piansi. Non per me, ma per lei. Pensai di averla rovinata con quello che le avevo detto. Era tutto un casino.
Dissero che la donna era stata uccisa dal suo convivente e portata lì o forse massacrata direttamente sul posto. Era magra, aveva una sottile sottana celeste aperta sul seno. Era vergine come una madonna. Come mia madre. E qualcuno l’aveva uccisa e io non ero stato neppure in grado di fermare quella pattuglia di polizia.
Quella notte mio padre mi permise di dormire con lui. Io tentati di farlo, ma non riuscii io e non ci riuscì neanche lui. Ogni volta che riuscivo a tranquillizzarmi fino ad assopirmi, la vertiginosa sequenza di diapositive insanguinate che si espandevano sul muro mentale riprendeva il suo scorrere ossessivo.
- Non te ne libererai – era la donna ossuta. Alla fine si era rivelata: si contorceva sulla terra dimenando le gambe nude. Lo faceva soltanto per spaventarmi. E ci riusciva benissimo. Io mi giravo nel letto e non dormivo. Sentivo un corpo muoversi accanto al mio. Era quello di mio padre. Allungava una mano e mi toccava la schiena.
- Vuoi alzarti? – mi chiedeva.
- No, no – appena riprendevo coscienza cominciavo a sentirmi stupido. Sorrideva.
- Non pensarci. Stava là e tu l’hai solo vista – non sapeva che dire. Il problema era proprio quello: io l’avevo vista – Dovresti pensare che poteva succederti qualcosa e invece, per fortuna, quello che l’ha uccisa era già andato via – cercava di rincuorarmi – Era solo una donna nuda sdraiata a terra.
- Sì, ma c’era il sangue – mi passavo una mano tra i capelli. Non era neppure la paura a tormentarmi.
- E tu non pensarci. Pensa che era solo una donna nuda sdraiata a terra – sembrava facilissimo, ma il tormento vero proveniva dalle ore di vuoto mentale in cui mi ero costretto a pensare di aver avuto un’allucinazione: la debolezza della mia mente mi aveva sconvolto più di quello che avevo visto. La mia coscienza poteva quindi smarrirsi. E io che fine avrei fatto?
La ragazza nel sogno di dieci anni dopo stava stesa davanti a me come la donna morta che trovai sulla collina. Seminuda, il corpo di un colore spettrale, riversa sulla nuda terra come fosse immondizia e con il sangue ghiacciato sparso sul terreno. Mi rigirai nella mente la scena del sogno almeno un milione di volte e nei giorni subito successivi iniziai a scriverne la storia cercando di imprimere sui fogli elettronici l’atmosfera che l’aveva permeato. Cercai così voracemente di dettagliare il tutto che scrissi circa duecento pagine in appena un mese, occupandomene solo di notte, e il sogno venne alla luce in forma scritta come il secondo capitolo del libro che chiamai Sulla strada per Elanka Wwea. L’ennesima fatica contorta: non davvero horror, non davvero fantasy e stesa sul pluriinflazionato tema dei vampiri. A chi poteva mai interessare l’ennesima storia sui vampiri?
Qualche tempo dopo esplose il fenomeno della saga di Twilight nel mondo: vendite record, seguiti e riseguiti, film e compagnia bella e tutto un filone di cazzo di libri sui vampiri da disintegrarti i nervi appena mettevi piede in una libreria. E la piccola scimmia delirante, una sera in cui la tenevo in braccio, nel corridoio, mi guardo fissò per qualche secondo e poi spalancò le sue fauci verso il mio collo, tentando di addentarmi.
Avevo odiato Schizzando nel vento per quello che era successo dopo, con le cazzate sugli amori adolescenziali alla Tre metri sopra il cielo, e adesso mi toccava odiare anche Sulla strada per Elanka Wwea per colpa di questi stronzi telepatici che ti fregavano le idee per farsi i soldi. Però avevo sempre il sole del Sud e i morsi della scimmia delirante. Restai sospirando, innamorato, con una mano sotto il mento ad aspettare il giorno in cui si sarebbero trasformati in baci.

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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte19

Una notte, a casa dei genitori della ragazza che amavo troppo assai, feci un sogno. Mi era capitato altre volte, nella vita. Ma il sogno che feci quella volta si piantò nel cervello e decise di allungare le unghie sulla corteccia cerebrale per un tempo indefinito. Era un sogno atipico, estremamente realistico, in cui tutto aveva una sua assurda fisica che riuscì a vincere le accurate analisi del risveglio e a convincermi che potesse essere un intero pezzo di vita del tutto simile a un ricordo. Solo che nel sogno io non ero io, l’ambientazione era rappresentata da una foresta americana, il periodo storico era antecedente al nostro di più o meno duecento anni e le cose che vi succedevano non erano completamente accettabili da una mente umana. Una mente sana intendo. Non ero mai stato in America e non ero nato nell’ottocento e già per questo riuscii a calcolare abbastanza precisamente che se quello che avevo sognato era frutto di un ricordo, il ricordo non doveva essere il mio. Non di questa vita almeno.
Nel sogno indossavo una camicia a quadri ed un paio di pantaloni. Oscillavo a piedi nudi su una sedia a dondolo posta in un angolo di un balcone lungo e stretto antistante la porta d’entrata di una casa in legno. Al balcone si accedeva tramite tre scalini, come nelle tipiche costruzioni americane di quell’epoca. Dal balcone osservavo la vallata dinanzi alla casa innalzarsi lungo la base di una montagna ricoperta di una fitta vegetazione d’alberi. Sopra la montagna incombeva un cielo plumbeo e, lungo il suo fianco, attraverso gli alberi, era visibile uno stretto sentiero di terra che portava quasi fino ai tre scalini della casa. Pensai che di lì a poco avrebbe piovuto e, mentre lo pensavo, una ragazza avvolta solo da una coperta, che sapevo essere la mia ragazza, venne a chiamarmi. Entrammo dentro e restammo a discutere e, nel voltarci, ci accorgemmo di due uomini vestiti con lunghi cappotti e cappelli da cowboy che allungavano le gambe per scendere da cavallo. Mi affacciai per capire chi fossero. Uno di loro aveva il volto scavato e un’ispida barba bianca. L’altro aveva l’occhio attraversato da una cicatrice rossastra, la faccia da lupo e un torace spaventosamente grande. Mi sembrò di riconoscere il primo: nel sogno era mio nonno.
Mi voltai verso la ragazza prendendola per le spalle. La visita dei due uomini mi infastidiva particolarmente. Mio nonno era un vecchio imbroglione sempre in fuga da qualcuno che, chiunque fosse, aveva un buon motivo per eliminarlo. Era spesso venuto da solo nella casa presso gli altipiani, cercando riparo dai suoi inseguitori. Restava giusto il tempo di nascondere delle armi o prendersi un po’ di denaro delle sue malefatte nascosto in casa.
- Non staranno qui per molto – spiegai alla ragazza che sbuffava, cercava di sistemarsi addosso la coperta sotto cui era nuda e guardava con aria infastidita i due uomini attraversare la soglia senza neanche salutarci. Pensai di uscire fuori, nel frattempo che loro erano in casa, ripresi posto appoggiandomi ai braccioli della sedia a dondolo e la ragazza venne a sedersi in braccio a me, con il petto di fronte al mio e di spalle alla porta d’entrata. Mi parlò dolcemente e poi prese a baciarmi e nel frattempo dentro si creò il trambusto. I due sembrava stessero litigando. Cercai di guardare oltre il viso della ragazza, ma lei portò un dito sulla mia mascella e mi costrinse a portare di nuovo gli occhi sul suo volto. Dall’interno il rumore di scodelle sbattute ai muri e lo scambio di urla divennero frenetici.
- Mi avevi promesso che avremmo mangiato – gridava la voce bestiale dell’amico di mio nonno e lui replicava di aspettare e che non era quello il momento e poi gli intimava di calmarsi. Dopo qualche secondo di silenzio, una serie di tonfi sempre più rapidi annunciarono l’arrivo immediato di qualcosa nella nostra direzione. Fu un precipitare irruento, uno scivolare di stivali nel tentativo di compiere la curva che portava alla sedia a dondolo, il colpo del palmo di una mano possente che agguantava lo stipite della porta e l’enorme figura dell’uomo dalla faccia di lupo si inarcò in avanti correndo verso di noi. Io tremai, nel sogno e nella realtà e quello che vidi dopo mi sembrò vero come tutto quello che mi era successo di reale fino ad allora nella vita. L’uomo che afferrava la ragazza e la faceva a pezzi davanti ai miei occhi, l’odore del sangue impresso sul muro dell’abitazione, il frantumarsi delle ossa e quel corpo spezzato come fosse stato un ramo sottile, non avevano la vaghezza del sogno, ma la macabra consistenza della realtà.
Scoprii mio nonno poggiato allo stipite della porta con una mano tenuta sulla visiera del cappello, abbassata per coprire gli occhi. Inveii contro di lui e contro il suo amico con la faccia da lupo. L’uomo bevve il sangue con avidità direttamente dalle ossa rotte, poi buttò il corpo oltre la balconata, si ripulì il muso con la manica di una giacca e si sistemò il cappotto. Aveva reciso la vita della mia ragazza e storpiato per sempre il suo corpo in meno di un minuto. Si spostò verso il suo cavallo e invitò mio nonno ad andare via con lui. Superai i tre gradini, raggiunsi il corpo ritorto della ragazza e stetti lì a guardarlo mentre i due rimontavano a cavallo.
- Trafiggile il cuore con un paletto e tagliale la testa – era la voce di mio nonno. Alzai la testa verso di lui, ma stava già andando via. Cercai un paletto e cominciai a colpire il torace e pensai che sfondare la cassa toracica non era l’operazione così semplice che si vede fare sempre nei film sui vampiri. Immaginai quanto sarebbe stato complicato allora staccarle la testa. Il mio sogno finì così.
Tre elementi contribuirono, a cercare di seguire una logica, alla composizione di una così forte voce dell’inconscio tesa a rompere l’assemblarsi degli strani meccanismi di routine su cui cominciava a reggersi la mia esistenza. Il primo elemento era certamente la prolungata e attiva concentrazione a cui avevo sottoposto tempo prima la mia mente, per completare un gioco sui vampiri che mi aveva particolarmente appassionato. Il secondo era il nuovo punto di vista attraverso cui guardavo la ragazza che amavo troppo assai e che le fece avere, nel sogno, la parte di chi, per essersi ostinata a chiedermi di occuparmi soltanto di lei, non mi aveva permesso di trarla a me per salvarla. E il terzo elemento era costituito da un vero ricordo di un episodio successo quando avevo l’età di dodici anni.

*

Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte18

Molto tempo dopo l’invio delle famose mail che avrebbero dovuto aprirmi la strada ai contatti editoriali, compresi che non era così facile ottenere l’attenzione di un editore. Nessuna delle diverse case editrici contattate ai tempi di 5 aveva mai risposto alla mia mail. Non avevo mai avuto una vera e propria idea su cosa proporre. Per me andava tutto bene, ogni mio testo mi sembrava caratterizzato nel modo giusto, alcuni erano scritti un po’ come il cazzo, ma l’autore ero sempre io, che problema poteva esserci? Un giorno sarei diventato famoso e la gente avrebbe apprezzato la mia decisione di non correggere mai un testo già scritto.
Con tutta la maestria di cui ero capace, mi rimisi in postazione, nello stanzino con la finestra rossa, al computer a casa dei miei genitori, l’unico con la connessione internet, immergendomi nei panni di cacciatore di editori in rete. Ce n’erano diversi che avevano rilasciato eccezionali interviste su quello che intendevano per editoria, sulla mercificazione che negli ultimi tempi avevano subito i libri e sulla voglia di cambiare le cose contro i colossi che gestivano il monopolio della letteratura. Mi parvero buoni propositi, ogni editore mi sembrava che facesse al caso mio. Sembravano una schiera di rivoluzionari pronti a prendere in mano la situazione, estremamente convinti delle proprie idee e vedevano in maniera limpida l’orizzonte letterario futuro in cui mi sembrava di intravedere il mio posto.
- Questi sistemeranno le cose – pensavo tra me e me – parlano male delle pubblicazioni a pagamento, si sono rotti il cazzo dei finti libri che spopolano nelle librerie, rappresentano la più ferma opposizione al meccanismo e si sono infiltrati nel meccanismo stesso per combatterlo dall’interno. Sono degli eroi come lo fu Ferlinghetti ai suoi tempi.
Avevo delle speranze. Avevo Malko da mettere sul piatto per cominciare a dare una scossa al mondo letterario. Volevo la mia parte nella rivoluzione culturale, mi sentivo all’altezza dell’impresa. Contattai Stampa Alternativa, il Foglio, il Filo, Edizioni Creativa, Delos Book e tutte le altre il cui nome mi stesse quantomeno simpatico. O almeno il sito e quello che c'era scritto in homepage. Pensai che fosse un buon momento per fregare la vita.
Mandai a loro la seconda ondata di mail e pensai che queste erano case editrici diverse dalle altre, avrebbero risposto e l’avrebbero fatto in tempi brevi, non mi avrebbero trattato da fesso come avevano fatto tutte le case editrici fino ad allora. Questo potevo giurarlo. Mi avrebbero riconosciuto per quello che ero, tirandomi fuori dall’anonimato che la rete mi aveva imposto per esubero di falsi scrittori e di opere pubblicate ogni giorno.
Pensare allo stato attuale della letteratura in Italia era deprimente. Tutto era allo sbando, non esistevano movimenti letterari, né riviste autorevoli come lo erano state Weird Tales e Amazing Stories per gli Stati Uniti negli anni d’oro del fantasy-horror, i siti erano frequentati da gente che si reinventava scrittrice senza avere davvero delle idee o dei validi testi da proporre. Tutto era mediocre e io non ero sicuro di essermi mai elevato al di sopra di quella mediocrità. Però lo desideravo follemente. Sapevo che era la mia strada, che mi avrebbe portato da qualche parte, ma tutto quello che avevo steso poteva essere considerato un’immane ammasso di puttanate senza senso, dal momento che ogni volta avevo creduto nell’ideale che ispirava quello che avevo scritto, ma poi avevo dimenticato che cosa fosse. Poteva essere un problema di memoria, ma non ero mai stato sicuro di essere uno scrittore davvero geniale. Però spesso mi sentivo il più grande scrittore vivente. Era un punto di partenza molto valido.
Diverso tempo dopo, come avevo sperato, le case editrici finalmente si fecero sentire. Ad una ad una apparvero le mail che rispondevano al mio messaggio ed ogni volta mi sembrava un piccolo passo per me e un grande passo per l’umanità. Andai a leggere i loro messaggi. Stampa Alternativa diceva che non accettava nuove proposte. Il Foglio sì. Il Filo sì, ma meglio le poesie. Avevo il Foglio dalla mia parte. Andai a leggere la risposta di Edizioni Creativa.
Io avevo scritto - Come posso fare per mandarvi del materiale che vorrei farvi visionare? Tramite mail, posta ordinaria, piccione viaggiatore? -. Loro mi risposero solo - Innanzitutto firmandoti alla fine del messaggio - e sotto c'era la firma di chi me l'aveva inviato.
Mi fermai a ragionare su quelle strane risposte. Questa gente era convinta che uno scrittore fosse un coglione vestito a festa. Ogni tentativo di contatto rappresentava uno scontro, grande o piccolo che fosse. Come le case editrici che detenevano il monopolio, anche le piccole pretendevano di avere per le mani un potere, si erano annidate con falsi propositi nel panorama culturale italiano e avevano pensato bene di dettare legge, dall’alto della loro posizione. Basavano tutto sulla bravura a sgomitare, come gli scrittori nei siti, come gli stronzi alle file universitarie e sulla capacità di imporre le proprie stupide regole. Che cazzo me ne facevo, io? Non risposi mai più a Edizioni Creativa.
Tornai sulla Stampa Alternativa. Mi incazzai. Le scrissi una lunga lettera in cui chiedevo quale tipo di casa editrice potesse proporsi come alternativa se non accettava nuove proposte. Le chiesi di cambiare il nome in Senza Alternativa e mi risposero ancora più incazzati dicendo che io non ne sapevo niente della linea editoriale e della sopravvivenza sul mercato e bla bla bla. Bene. Avevo persino acquistato una serie di cazzate da mille lire che si vendevano nelle edicole di Bari, come racconti horror ispirati al Grande Fratello scritti come il cazzo. Mi ero convinto che era con loro che avrei dovuto cominciare. Mi piaceva il termine alternativa, non potevo farci niente. Mi dimenticai della loro esistenza pensando che un giorno loro si sarebbero ricordati della mia.
Per non perdere tempo e fiducia, cercai altre otto case editrici random e, senza contattarle, inviai otto copie di Malko completo a tutte loro e una al Foglio. Al Filo mandai due poesie tramite internet. Chiedeva 30 euro per tre copie di un'antologia contenente anche la mia poesia che avrebbe dovuto girare per i convegni letterari tra scrittori, editori, eccetera. Spedii le 30 euro.
Il Foglio fu l'unica casa editrice a rispondermi su Malko. Tre giorni dopo. Neanche il tempo che il testo fosse arrivato a destinazione. Se l'erano fatto leggere dal postino per telefono mentre arrivava. Mi mandarono un fascicolo pieno di promozioni per i testi che avevano già pubblicato. Insieme c'era una lettera che esaltava il libro come se fosse quello che aspettavano da anni - Soprattutto lo stile, sciolto e deciso - e roba del genere. Del contenuto non parlava mai. Il Foglio voleva che acquistassi non so quante copie a metà prezzo. Da qualche parte dovevo aver letto che non chiedevano contributi. A metà prezzo comunque, mi dissi, è un buon affare. Ma che me ne facevo di tipo 100 copie? Gli amici che l'avrebbero anche preso erano appena dieci. Mmm. Forse solo nove mi avrebbero dato i soldi.
Mi arrivarono le tre copie dell'antologia del Filo. Aprii l’involucro che le conteneva e quasi mi vennero le lacrime agli occhi. Guardai le loro copertine lucenti, sospiravo e tremavo di fronte alla loro immensa bellezza: era bianche con un riquadro verde e le scritte Antologia poetica, Navigando nelle parole vol. 8, Edizioni Il Filo. Mi rilessi solo la mia poesia una cinquantina di volte su ogni copia. La mia prima pubblicazione. Non mi era costata molto. O forse sì? Ne andavo orgoglioso lo stesso.
Tornai su internet, decisi che pubblicare un libro era il degno coronamento per averlo scritto. Andai a visitarmi il sito del Foglio. Se valeva la pena, la cosa dell’acquisto delle copie si poteva fare. Glielo scrissi per e-mail. Visitai il sito. Dei giovani autori non c'era traccia. In tutto trovai solo Giordano Lupi e due o tre scrittori. Giordano Lupi era quello con cui avevo il contatto e che gestiva la casa editrice, da quanto avevo capito. Chiesi delucidazioni. Mi risposero scrivendo che loro vendevano solo online tramite quel sito e che dei giovani autori sì e no si riuscivano a vendere cento copie di un testo. Quello era considerato un vero successo.
Feci due conti. 100 per 10 euro di copertina più o meno veniva mille. Mettiamo che a me fosse il 50 per cento, io prendevo cinquecento euro. Bene. Avrei dovuto stendere più o meno due libri al mese per campare. Era un buon inizio. La visibilità era comunque zero. Ci pensai. Mi resi conto che forse non avremmo fatto altro, tutti quanti, che aiutare Giordano Lupi a sfondare con i nostri investimenti. Era un buon piano. Non risposi più al Foglio.
Nove cazzo di copie del mio testo, più spese di spedizione mi erano costate circa cento euro. Ma il ragno era rimasto nel buco. Otto case editrici non mi avevano cacato neanche di striscio. Approfondii la ricerca su di loro tramite il web e scoprii che non erano più in attività. Quasi tutte. E io avevo inviato a vuoto Malko in giro per l'Italia. Con quel piano adesso sì che ce le avevo tutte, le carte per fregare la vita.
Poco tempo dopo trovai un messaggio del Foglio sulla mia posta elettronica. Pensai immediatamente che fosse un sollecito per la risposta se procedere o meno con la pubblicazione. Anzi no, pensai. È senz'altro la lettera in cui scrivono che ci hanno ripensato, che Malko è troppo bello e me lo pubblicano senza che io acquisti le loro copie. Anzi no, pensai. Me le regalano persino le copie, per fare promozione. Si regalano sempre copie del testo all'autore nei romanzi di Stephen King.
Aprii la mail. Era un messaggio pubblicitario di un testo di Giordano Lupi che era andato a Cuba e gli avevano fatto un'intervista o forse l'intervista l'aveva fatta lui a qualcuno di imprecisato. Il testo si poteva acquistare sul sito del Foglio. C'era anche una mail delle Edizioni Creativa. Ecco, si erano incuriositi e adesso mi chiedevano quale fosse quel famoso testo che avrei voluto inviare loro. Dovevano aver saputo che altre case editrici ci avevano messo le mani sopra, che non avevano più l'esclusiva. Magari una notizia trapelata dalla Delos che non mi aveva più risposto e che era una delle poche ancora in attività. No. Mi chiedevano se per caso non volessi acquistare uno dei loro libri. Ma trascurai l'invito perché sotto non era apposta alcuna firma.
Mi sembravano i rappresentanti delle enciclopedie di quando facevo le scuole elementari. Con questi non si potevano fare gli affari. No proprio. Però avevo le mie tre copie dell'antologia dei poeti del Filo. Andai a rileggermi un'altra cinquantina di volte ciascuna la mia fantastica poesia aspettando che la leggessero gli editori veri. Quelli dei convegni. Quelli quali? Quelli lì, insomma.

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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte16

Quando uno scrittore scompare senza il sospetto che ci sia mai stato


Se camminassi sempre diritto senza mai voltai indietro e il mondo ti si cancellasse alle spalle di passo in passo, ma così silenziosamente che neppure l'orecchio più sensibile riuscirebbe a percepire nulla, che cosa faresti se, forse per vedere magari quanta strada hai percorso, ti girassi un'unica sola volta e te ne accorgessi tutto d'un colpo, che dietro di te non esiste più niente?
Tutta una serie di oscuri indizi mi preannunciò che qualcosa di strano stava per accadere. L'amico chitarrista, a cui avevo orgogliosamente dato la continuazione di Malko, non si espresse in maniera entusiasta sul resto della storia. La prese per buona e basta e mi affidò la sua spettacolare copertina. L'altro, lo scrittore piccolo piccolo, non espresse quasi alcun giudizio a riguardo e lo scienziato, a cui lo raccontai una sera, disse che ero un pazzo, ma che non gli andava di leggerlo. Faceva così con tutto quello che scrivevo. La ragazza che amavo troppo assai, tramutatasi spaventosamente in una moglie basculante dai perpetui malesseri, si fece leggere appena un capitolo del proseguimento, prima di alzarsi nervosamente dalla sedia e inveirmi contro.
- Sei pazzo! - quasi urlò – Io sono incinta, non posso leggere queste cose impressionanti – e se ne andò via in quel suo modo altezzoso ed elegante con una nuvoletta sulla testa che esprimeva chiaramente il massimo delle sue bestemmie – Deficiente -. Lo psicopatico psicotico le aveva devastato nuovamente il cervello, ma stavolta lei non aveva apprezzato.
Arriva sempre un mattino, nella vita, in cui ti alzi e il mondo ti si spacca in faccia. Quegli indizi che avevano preso a sghignazzare, osservandomi dagli angoli più improbabili della realtà, quelle strane verità che a volte mi ero immerso a contemplare, chiedendomi come mai non mi fossi accorto prima di loro, erano diventate sempre più frequenti. Erano i sospetti che da soli non fanno una prova, ma che se unisci bene, come i puntini numerati dei giochi per bambini, fanno uscire fuori bei disegni. La raffigurazione stilizzata che comparve sotto i miei occhi fu quella di un dito medio issato a discapito di tutte le altre dita di una mano. Risaltava molto la sua rotondità, degna di un Keith Haring al massimo della comunicatività grafica.
Qualcosa aveva iniziato a cancellarmi il mondo alle spalle. E lo stava facendo benissimo. Prese minuziosamente a rimuovere dalla testa di chiunque e contemporaneamente l'idea che io fossi mai stato uno scrittore. Tutti cominciarono a dimenticarlo. Una cosa assurda. Gente che aveva sempre letto le cose che avevo scritto e che mi aveva quasi costretto a parlarne, gente che si incazzava se capitava che scrivessi qualcosa di nuovo informandola con ritardi di appena un giorno, assidui frequentatori e commentatori dei miei testi internettiani. Tutti, nello stesso inquadrato lasso di tempo, dimenticarono, rivelando anche violente forme di repulsione, le cose belle che un tempo mi avevano convinto di aver letto. Improvvisamente nessuno mi parlò più del fatto che ogni tanto univo lettere per comporre frasi che, collegate, formavano testi. Sembrava essere diventata una blasfemia.
Pensai che forse ero andato troppo oltre, ma non con i temi, con la profondità della mia ricerca. Con i tempi: avevo rotto il cazzo a tutti. E tutti mi abbandonarono quando mi ero ormai deciso a seguire senza nervosismi la mia vocazione. Bello è che verso quella scelta, in parte, mi ci avevano spinto gli altri. I cazzo di temi letti di volta in volta in classe con le ragazze che crollavano in lacrime dopo i primi due o tre capoversi o con tutti che non riuscivano a trattenersi dalle risate quando la roba assumeva colorazioni ironiche, professori che mi sorridevano mentre leggevano come intravedessero il leggendario futuro che mi aspettava, la ragazza che amavo troppo assai che prima di diventare mia moglie mi scriveva accorati messaggi chiedendomi di non smettere mai di scrivere, amici che mi avevano convinto che i miei testi dovevo per forza farli pubblicare perché avrebbero cambiato il corso della storia letteraria, intere mattinate della più bella estate letteraria passate a parlare di quando i miei testi sarebbero stati diffusi. Il chitarrista ci voleva fare persino un film, con Malko!
Tutto svanito nel nulla.
Iniziai a percepire qualcosa di strano. Che stava accadendo per davvero, non era una mia impressione: se provavi a tirare in ballo la questione dello scrivere, la gente (chiunque fosse) cambiava discorso immediatamente. Certe volte iniziava a cambiare discorso se nella mia frase associavo insieme già la lettera s con la c. Il suono duro divenne peggio che passare sotto le scale dei condomini, farsi attraversare la strada da gatti grigio fumo, rompere superfici di plastica riflettente. Andava evitato ad ogni costo, anche rompendosi un braccio per dissimulare.
- Questo pomeriggio volevo sc...
- Cazzo, la Juve ha venduto Zidane!
- Beh, dopo due anni pensavo ci avessi fatto l'abitudine.
Oppure:
- Avete sentito della nuova riforma della sc...
- Qualcuno ha mai letto un libro di Grazia Deledda?
- No.
- Neanche io
Sc...
- C'è un bel sole oggi. Anche se è sera. C'è stato stamattina.
Sssssc...
- All'ipercoop se fai la tessera soci ti fanno il venti percento di sconto sulle presine a fiori. Sono belle.
Ssssssssscattava la molla.
L'importante diventava dire un'altra cosa. Pareva che il mondo si fosse organizzato al meglio per prendermi per il culo. E per occuparsi di cosa, poi? Delle cazzate più totali. A te veniva di condividere gli spettri assurdi che ti infestavano la mente e loro preferivano parlare di una cosa troppo fessa che avevano visto in Tv. Oppure della malattia che aveva preso uno che neanche conoscevi. Che neanche conoscevano loro. Non era un caso, era tutto ben studiato. Ed io me lo studiai di rimando.
All'inizio non attendevo nemmeno che finissero la momentanea interruzione per riprendere il filo del discorso. Poi cominciai ad attendere. Ma le interruzioni si facevano sempre meno momentanee. Alla fine decisi di non intralciare: appena il discorso cambiava, facevo finta che me ne dimenticavo pure io, appassionandomi immediatamente alla stronzata del giorno. Sembrava che ne sapessi più di loro a riguardo. Notai, in quei giorni, che la gente non si sognerebbe mai e poi mai di inserire in un suo discorso le due parole accoppiate stavi e dicendo con accezione interrogativa. Galanteria anacronistica, raffinatezza superflua.
Decisi che forse sarebbe stato meglio parlare dei miei progressi in materia di diffusione letteraria, ma successe con questi la stessa identica cosa che con gli altri. Tutti si rompevano il cazzo come niente. Cominciavano a guardarsi attorno. A volte chiedevano l'ora. Dovevano andare. Certe volte anche mezzora prima del solito rientro. Certe volte mi si addormentavano accanto, in macchina. Quando il penultimo dei miei amici andava via, all’ultimo cominciavano a venire le palpitazioni. Usciva roba di grande fantasia pur di non ascoltarmi. Come se glielo avessero vietato seriamente. Pena decapitazione del pene. Sutura vaginale per le donne. Una cosa grave. Mi dissi che come scrittore non valevo un cazzo. Ma, certo, come conversatore neanche quello.
Riguardai il mondo cancellato alle mie spalle. Mi venne da ridere. Questi non sapevano niente. Io ero il più grande scrittore vivente. E loro cambiavano discorso. Mi inventai un gioco. Cominciai a parlare d'altro, con chiunque. Diedi ad ognuno degli spazi limitati. Calcio e fumetti a uno. Musica e film a un altro. Lavoro a quasi tutti gli altri. Le donne le concessi più o meno a tutti, ognuno aveva le sue cazzo di storie. Smisi progressivamente di parlare del resto e finalmente tutti videro lo scrittore inabissarsi nelle profondità a cui era stato destinato. Fine della storia. Tutti erano contenti così e alla fine, anche se controvoglia, decisi che ne sarei stato contento anch'io. Ma amavo fottutamente ancora quel cazzo di ticchettio che fanno le dita veloci sulla banalissima tastiera di un computer. Presi a battere le tesi per un euro a pagina.

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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte15

Non ebbi il tempo, in quei mesi, di annusare l'aria e di fiutare l'arrivo della tempesta, del cambiamento. La ragazza che amavo troppo assai aveva terminato gli studi di ragioneria soffrendo più del dovuto gli esami finali e aveva da poco iniziato l’università a Bari con un corso denominato pressappoco: Diploma di Laurea in operatori sociali. Una di quelle strane cose senza futuro, surrogato di chissà quale altro inutile corso del tutto simile al mio. Delle nostre vite non sapevamo precisamente cosa volevamo farne. Io sapevo che volevo scrivere, lei sapeva che volevo farlo e si era resa disponibile a non intralciarmi in alcun modo. Era molto romantica e subiva tutti i miei complessi, utili o meno, riguardanti la vita e la pseudo arte. Per di più era eccessivamente timida e rinunciataria. Non affrontava mai un dibattito, fuggiva a nascondersi con finta altezzosità. Era elegante, anche nel modo di mandarti affanculo. Lo fece proprio ad un esame di storia contemporanea in cui un giovane assistente fascista, genere d’uomo incapace che è riuscito ad ottenere una posizione assolutamente immeritata e che per questo è costretto a fingere estrema precisione per la disciplina, le chiese chi fosse il presidente americano in una stabilita data. Non si trovarono d’accordo e il ragazzo concluse che non poteva promuoverla. Oppure poteva, ma solo col minimo dei voti. Lei si alzò dalla sedia, assunse l’espressione più sdegnata di cui fosse capace un essere umano e mosse il suo culo jeansato verso me e i suoi genitori lì presenti, sorreggendo i libri sul petto con gli occhi aperti per appena mezzo millimetro.
- Andiamo – disse. Pareva che la cosa non l’avesse minimamente toccata. Durante il tragitto per il ritorno a casa, poi, i pianti si sprecavano. Ma sempre restava quel modo elegante, che connotava ogni suo gesto, di bestemmiare l’assistente fascista, in cui la parola deficiente rappresentava il massimo grado di turpiloquio.
Seppi fin da subito che non potevo vivere in quel modo: sofferenze e depressioni per i miei esami e per l’inutilità del mio corso di studi, sofferenze e depressioni per i suoi esami e per l’inutilità del suo corso di studi. Lei per di più veniva bocciata. Tutta questa fatica per garantirsi un futuro da disoccupati non mi sembrava proprio espressione di una garantita intelligenza.
Però le cose andavano così, pioveva sulle nostre giovani teste e noi tremavamo al freddo delle aule universitarie sperduti in contesti che, quando c’eravamo amati le prime volte, non avremmo mai immaginato per noi. L’amore sembrava passato in secondo piano. Lo facevamo nel piccolo e gelido ripostiglio in cui tenevo la moto. Era il nostro riparo da tutto, ma nelle nostre menti i pensieri esterni si infittivano e creavano un languore continuo che non ci permetteva di essere davvero felici. Di quegli enormi impegni avremmo dovuto fare a meno, ma già studiando e lavorando avevo problemi coi miei genitori sul fatto che andavo a dormire tardi la notte e mi svegliavo intorno a mezzogiorno, se avessi davvero deciso di testa mia, probabilmente mi avrebbero denunciato a qualche consiglio superiore.
Crescere era la cosa migliore che poteva capitare a chiunque, ma la strana connessione tra responsabilità e libertà, avevo forti difficoltà a comprenderla. Su di noi giovani adulti si riversavano forse i rancori dell’intera vita dei nostri genitori: le fatiche intraprese per costruire una famiglia, per garantirsi e garantirci un tetto, le continue liti sull’educazione, sul ponderato utilizzo del denaro e tutto il resto erano decisamente più importanti della nostra felicità, soprattutto se per la nostra felicità eravamo valutati, ai loro occhi, nullafacenti. La nostra generazione era marchiata. Destinata a distruggersi tra la mancanza di lavoro e la necessità di dimostrare sacrifici superiori a quelli che si diceva avesse fatto la generazione precedente. E i sacrifici erano tarati sull’ottenimento di risultati. Che puntualmente non raggiungevamo. Il fatto era che per noi non c’era neppure l’eroina a porsi come giustificazione per la nostra incapacità. Dovevamo farci il culo e basta, senza scuse. E senza ottenere niente e per questo continuare ad essere giudicati falliti. Io lavoravo a giornate per più di dodici ore alla volta e cercavo di pagarmi tutto quello che mi competeva. Ma vedevo lo sguardo grave che assumeva mia madre quando a mezzogiorno mi avviavo all’esplorazione della cucina e lo sguardo accigliato che aveva mio padre quando al suo rientro avevo ancora il pigiama e capivo che niente sarebbe mai bastato per renderli soddisfatti.
Ai miei occhi io e la ragazza che amavo troppo assai eravamo bellissimi, eravamo esseri perfetti. Ci bastavamo sempre, non ci serviva altro che le nostre piccole vite inutili per essere felici. E ci capivamo in un modo incredibile, bastava che ci guardassimo, per sapere cosa stavamo pensando, ci scambiavamo comprensione per osmosi. Ma il mondo non poteva capirci. Se rischiavamo di essere felici avremmo dovuto anche accettare di essere definiti egoisti, ignari del malessere che assediava le vite attorno a noi. E quelle vite poco per volta finirono per insidiarsi nelle nostre, dalle cattedre universitarie, dagli spogliatoi al lavoro, dalle postazioni in cucina delle mamme e fuori dalle porte dei cessi con la voce irragionevolmente adirata dei padri. Ci spingevano di continuo verso qualcosa che non sapevamo, costringendoci a decidere della nostra vita, per forza, anche se non volevamo. Accettavamo di studiare, accettavamo di lavorare, lo facevamo per il nostro bene, ma il bene non arrivava mai. E le crisi di identità, invece che risolversi, si rafforzavano.
Al confronto con tutti questi gravissimi problemi che non avevo mai saputo di avere, e che invece sembrava che avessi proprio, tutte le mie farneticazioni letterarie mi parvero il gioco incomprensibile di un bambino viziato. Mi chiedevo perché mai avessi deciso di scrivere e perché non mi fossi ancora liberato di quello strano vizio. Non capivo come avessero fatto gli altri, tra scrittori e poeti, i signori Conrad, Ginsberg, Bradbury a diventare grandi senza smettere di scrivere. Dovevano essere dei veri e propri idioti, ma per fortuna io cominciavo a ravvedermi. Pensai che dovevo concentrarmi su qualcosa di più concreto, accelerai con gli esami universitari e cercai di lavorare ancora di più. Gli specchietti che avevo montato per le allodole finirono per cominciare ad ingannare anche me.
Gli incontri con la ragazza che amavo troppo assai divennero essenziali perché riuscissi a ricordare un motivo per cui valesse la pena di trascinarsi avanti. Oltre la porta di ferro dipinta di rosso del box per la moto, la vita aveva di nuovo senso. Studiavo il suo corpo nelle sue pose eleganti e ricordavo da dove venivo, più o meno chi ero e più o meno dove volessi andare. E sapevo che, dovunque fosse, volevo andarci con lei. A volte, dopo l’amore, le sussurravo al buio, sulle labbra, epigrammi di Catullo e versi di Rimbaud, li tenevo a mente per tutta la giornata per sussurrarglieli soltanto. Altre volte partivo con strane ispirazioni a cui non davo freno, vedevo le parole incurvarsi come fumo di una sigaretta su per il buio della stanza per finire inghiottite dal nulla del nostro tempo senza la frenesia di avere un foglio sotto le mani per vergarle. Così era molto meglio, meglio che scriverle, meglio che impazzirci. Si respirava una pace inaudita. E ci lasciavamo andare ogni volta di più perché il nostro egoismo ci era caro e ci permetteva di vivere in un’epoca ostile alla felicità.
Forse ci lasciammo andare davvero troppo quando, alle soglie della primavera del duemilatre, ci risvegliammo dall’estasi dell’orgasmo e intuimmo che un coito non proprio interrotto e il massimo periodo di fertilità del suo corpo creavano un’inquietante sovraccarico ai nostri già numerosi pensieri. Ci rivestimmo e uscimmo fuori al freddo. Entrambi sapevamo che non c’era da preoccuparsi e basta, ma da cominciare a pensare cosa avremmo dovuto fare dal giorno dopo. Ma il giorno dopo appariva ancora lontanissimo.
E invece arrivò e arrivarono i successivi. Quelli in cui i ritardi cominciarono ad accumularsi sopra i ritardi. Quelli in cui ripercorrevamo tappa per tappa tutti i singoli movimenti di quella sera, rifacevamo i conti al meglio, ci informavamo sulle enciclopedie mediche e scoprivamo che era tutto a posto. E poi scoprivamo che non era tutto a posto. Allora cominciavamo a inventare teorie assurde sugli stati di conservazione degli spermatozoi all’interno dell’utero e sull’inizio del viaggio dell’ovulo all’interno del ciclo mestruale. Arrivarono i giorni in cui, seduti su una panchina a Bari, davanti all’ateneo, con gli zaini sulle spalle, ci tenevamo le mani e guardavamo la dura pietra su cui eravamo seduti. E poi iniziava a piangere lei e io cercavo di non essere da meno. Ci mettevamo in piedi, la tenevo stretta e cominciavo a dirle che forse poteva essere la cosa migliore che ci fosse mai capitata, che tanto avremmo vissuto come il cazzo le nostre vite cercando una sistemazione e invece così non avremmo potuto programmare niente e le cose sarebbero andate come volevano andare. Pensavo che avevo perso il controllo. Di tutto. Ma andava bene lo stesso, il controllo non era necessario, spesso mi era sembrata decisamente più interessante l’incoscienza.
Lei era incinta. La tempesta era finalmente arrivata.




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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte14

Decisi di sforzarmi a scrivere una raccolta di racconti horror. Ne avevo alcuni nel mio repertorio, potevo scriverne altri tre o quattro e metterli insieme. Sarebbe stato un libro. Ma le idee non è che mancassero, dovevo proprio costruirle da zero a forza di ficcarmi due dita nella mente, vomitare qualcosa di confuso e cercare di mettere ordine. Lo stesso presi la fissa. Riciclai tutto quello che mi era possibile recuperare dal materiale di quando avevo quattordici anni. Era poca roba, quattro o cinque racconti assolutamente poco originali di tre o quattro pagine. Erano tutto quello che componeva il mio manifesto horror, non aveva alcun valore.
Una mano la tenevo sotto il mento e con l'altra battevo tristemente le lettere sulla tastiera. Spesso mi davo gli schiaffi in testa per cercare di smuovere qualche pensiero e di far vibrare qualche connessione tra neuroni, ma la storia era sempre la stessa: non usciva fuori niente di buono. Completai la raccolta in pochi mesi, una delle cose più orrende che i miei occhi avessero mai letto, al punto che non ebbi neppure il coraggio di rileggerla per intero. Alla fine non ce l’avevo fatta a reggere un sufficiente numero di pagine con le storie horror e così ci inserii dentro anche qualche racconto di altro genere, convincendomi che fosse attinente. In qualche modo. Stampai la raccolta in A5 con una copertina e un titolo stupidissimi e la passai a qualche amico che me l'aveva chiesta.
Passarono diversi mesi tra inutili esami di inutili materie di cui non mi interessava niente, il buio che aveva occultato qualsiasi dorato scenario nella mia mente e il ripetersi ostinato degli zero alla voce messaggi in arrivo sulla mia casella di posta. Quel silenzio protratto e la sterilità di contatti, commenti o letture che i miei testi provocavano cominciò a farmi comprendere che io in realtà non avevo mai avuto le prove che fossi davvero uno scrittore. Uno scrittore capace di coinvolgere un possibile pubblico o di convincere un editore a pubblicare la sua opera. O erano tutti distratti da chissà cosa oppure c’era un livello letterario superiore a cui non ero mai approdato.
Girando per i vari siti, visitavo i profili di donne e uomini molto più grandi di me che ancora si arrovellavano su racconti e poesie senza riuscire a provocare alcun interesse, pagine dalle vedute estremamente ridotte che raccoglievano tristi commenti di banali lettori sull’emotività che si pretendeva tali racconti riuscissero a provocare. A me venivano le paranoie. Ingoiavo saliva incollata alla lingua e prendevo a sudare freddo. Immaginavo le schiere ricurve di anziani scrittori incapaci che raccattavano nell’immondizia letteraria per tirare su un nuovo racconto che rischiava di provocar loro feroci attacchi cardiaci per l’eccitazione. Li immaginavo uno ad uno seduti al lume di una flebile candela mentre sistemavano gli occhiali sul naso e si sfregavano le mani, perversamente eccitati da qualcosa che desideravano con avidità, ma che non sarebbero mai riusciti ad ottenere, come le attenzioni sessuali di una quindicenne, ad esempio. E poi vedevo i loro occhi brillare per il più stupido dei commenti: ‘Un bel racconto. Ben scritto’. Li vedevo sorridere, appagati della loro inutilità e cliccare sul pulsante avvio per poi spegnere ed andarsi a coricare sotto tristi coperte. Ancora una volta avevano fregato la letteratura. Perché non avevano mai sperimentato, mai osato, mai oltrepassato alcun invalicabile limite. E nonostante tutto avevano il diritto di sentirsi Scrittori.
Erano gli equivalenti letterati degli uomini-azienda, eredi delle segrete apparizioni della mia infanzia. Mi provocavano terrore, sempre meno fisico, sempre più fine, sempre più psicologico. Io frequentavo i loro stessi siti, contattavo le loro stesse case editrici e provavo per me la stessa identica tristezza che emanavano i loro nomi. Erano nomi che non avevano niente da dire al mondo. Guardavo il mio, cercando di puntarlo da diverse angolazioni, ma mi dava una strana sensazione: neanche il mio nome sembrava voler dire niente di particolare. La stessa cosa facevano i titoli dei miei testi. Per me potevano significare qualcosa, ma cosa avrebbero potuto significare per chi li vedeva per la prima volta, immersi nelle lunghe liste immemori che scorrevano ogni giorno sulle centinaia di homepage presenti nella rete?
Niente. Erano titoli anonimi di un utente anonimo disperso nella rete. Eravamo tutti anonimi: io e gli scrittori anziani, io e le brutte adolescenti sentimentali, io e i milioni di persone che si fingevano scrittori solo perché incapaci di vivere una vita degna. Questi terribili pensieri sconvolgevano la mia mente. Cercavo di convincermi di essere diverso da loro. Mi dicevo che avevo la giovinezza dalla mia parte, ma pensavo che tutti erano stati giovani una volta. Pensavo che io avevo letto Hesse, Hemingway e Kerouac, ma convenivo che non fossero così difficili da reperire. Avevo scritto i romanzi, ma potevano averli scritti anche loro. Non li pubblicavo in rete per gelosia, ma la stessa cosa potevano aver pensato di fare loro. Era come vedersi allo specchio, scoprirsi davvero ripugnanti e voler fuggire dalla propria immagine credendo in quel modo di poter rimettere a posto i propri connotati. E così presi a deprimermi e pensai che poteva essere vero, che potevo essermi ingannato per tutto quel tempo. Pensai che potevo non avere niente di speciale, che potevo non avere un vero talento e non aver scritto nulla di veramente interessante in tutto quel tempo. Doversi giudicare da soli non era facile, si perdeva di vista il senso della misura, ma era quello che mi toccava fare, dal momento che dall’altra parte un perpetuo silenzio si stendeva su qualunque cosa pubblicassi.
La mia lotta contro il meccanismo, gli anni passati a inseguire una sola, lunga storia, le visioni dentro le visioni che si rompevano diventando polvere di vetro su altri innumerevoli scenari provenienti dal nulla, tutto cominciò a collassare lentamente su se stesso, a comprimersi, ad assumere proporzioni infinitesimali rispetto anche al più stupido degli oggetti reali. Pirandello diceva che non esisteva la possibilità di vivere la vita se si intendeva anche scriverla. Me ne rimaneva ancora molta e non avevo mai deciso davvero cosa farne. Capii che dovevo concedermi un lungo periodo per rifletterci, nella speranza di non perdermi per sempre in quel dilemma. Ma il segreto motivo dei miei tormenti era che avevo volutamente dimenticato dove avessi riposto le fruste, nella ferocia del dubbio che stessi scrivendo per vivere meglio o che stessi vivendo per scrivere e basta.
Alle soglie dell'inverno del 2002 la distribuzione della raccolta di stupidi racconti horror ebbe esiti inattesi. Avevo dimenticato che l'avessi mai scritta, la sera in cui il mio amico chitarrista, che tempo prima mi aveva regalato la bellissima copertina di 5, scese dalla sua auto e fece vibrare il testo nella sua mano. Sorrideva. Doveva aver intuito che era il contrario di un capolavoro.
- Ho trovato la trama del primo film che girerò - mi disse.
- Bene. E qual è? - gli chiesi.
- Malko - mi rispose.
Mi guardai attorno. Era il mio. L'avevo inventato io. Senza dubbi. Era il secondo racconto del libro.
Nello stesso periodo, nei tempi in cui io e la ragazza che amavo troppo assai leggevamo i miei testi, man mano che progredivano, direttamente dal computer, Malko aveva fatto una strana impressione anche a lei. Le piaceva. Dirlo così è banale. Ma i suoi occhi mi dicevano qualcosa di più. Quella cazzata contorta, su uno psicotico psichico seduto su una sedia a rotelle, le aveva devastato la mente. Sono gusti. Doveva avere qualcosa di eccezionale che non avevo colto. Mi convinsi che fosse la cosa migliore che avessi mai scritto e decisi di tirarlo fuori dalla raccolta e farne un romanzo. E tutto rientrò nella anormale normalità che contraddistingueva la strana vita che mi ero scelto.

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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte13

Pensare a me stesso come a qualcosa di diverso da uno scrittore portava a risultati improponibili e considerando che la vita che conducevo era quella che avrei voluto davvero vivere, non esistevano grossi dilemmi su cui mi ero mai arrovellato. Le idee sbocciavano spontaneamente dalle mie mani quasi senza passare dal filtro della mente e fiorivano sui fogli virtuali annaffiate in maniera del tutto automatica come in un perfetto ecosistema emotivo e passionale. Le cadute psicologiche riguardavano la vita in sé per sé, l’inafferrabilità dell’attimo, il mistero che rappresentava la morte e l’angoscia dell’abbandono dei propri amori che prima o poi sarebbe avvenuto per chiunque.
Di tutte le pazzie visionarie che si erano affacciate alla mia mente in quegli anni, due erano quelle che avrebbero potuto proseguire l’ideale ricerca letteraria che avevo iniziato a praticare a sedici anni. Una di queste si chiamava l’Epilogo dei tempi, l’altra si chiamava Il capitano Glynk.
L’Epilogo dei tempi era lo sviluppo di un inizio di racconto che mi era stato ispirato dal sopraggiungere dell’autunno del 1999. Aveva le caratteristiche fantasy di un testo estremamente malinconico con una grande connotazione dark. Il motivo trainante di tutta l’opera era rappresentato dalla pioggia e dal viaggio attraverso luoghi di pura fantasia compresi all’interno di una vasta terra immaginaria chiamata Esistenza. I protagonisti del viaggio erano un vecchio e una bambina, partiti alla ricerca del terzo personaggio principale, chiamato Ega e inviato direttamente dal destino per portare a termine l’ambizioso progetto di distruggere il tempo.
E un vecchio era anche il protagonista dell’altra storia, Il capitano Glynk. Rappresentava la mia visione romantica sulle avventure di un anarchico navigatore di tutti i mari della Terra alla guida del più vecchio e più grande mercantile di tutti i tempi: l’Esperanza. Il mio sogno divenne quello di poter studiare e rappresentare all’interno del testo le leggende di tutti i paesi che avevano per protagonista il mare e rivelare al mondo la vittoria che la fantasia avrà sempre sulla realtà.
Centinaia di personaggi estremamente caratterizzati affollarono per mesi la mia mente cercando un ruolo all’interno di una della due storie e per un bel periodo riuscii a mandarle avanti contemporaneamente allungandone pagine a giorni alterni, profondamente più interessato a definire le fattezze del semidemone Plathor o a cercare lo scenario migliore per descrivere la devastante bellezza del Maelstrom che ad occuparmi dei demoni reali della politica o dello spettacolo italiani. Ma accadde qualcosa che non era mai successo se non quando, a tredici anni, cercai di scrivere il mio primo romanzo, anche questo fantasy, dal titolo Chisimaio: arrivato alle soglie della piramide attraverso la quale avveniva il passaggio dal mondo reale a quello fantastico, cominciò a mancarmi o la forza di volontà, o la visione prospettica del finale oppure, molto più semplicemente, la vera e semplice fantasia di proseguire.
Se gli altri romanzi erano stati illuminati, ad intermittenza, ora dalle luci del mondo reale, ora da sconosciute fonti di luce provenienti dal fascino dell’irreale, queste storie non avevano alcun attaccamento alla realtà e la spinta che proponevano era oltre un confine più ardito di quello superato persino con la stesura di 5. Per quanto fosse affascinante, ero costretto a rendermi conto che non ero ancora pronto per una cosa del genere e quindi abbandonai a 100 pagine A5 sia l’una sia l’altra storia.
La spiegazione più logica che riuscii darmi di quello strano freno che la mia mente aveva posto alla prosecuzione della mia ricerca era che niente di quello che avevo scritto poteva davvero considerarsi pubblicabile. Non lo erano certo le raccolte di poesie che avevo steso fino all’avvento delle mejfy e per quanto innovative non lo erano neppure le ultime raccolte di mejfy. Non era pubblicabile Una di quelle notti, perché era steso con uno stile improponibile ed era pieno delle fesserie che un sedicenne può confondere con trovare geniali e neppure lo era Schizzando nel vento in cui si vedeva chiaramente scritto cazzo. L’opera era l’esperimento illeggibile di una mente malata, Un’estate qui in fondo non era altro che un diario delirante e 5 era troppo grande e presentava difficoltà a cui la mia pigrizia in fatto di organizzazione non mi permetteva neppure di pensare. E poi lo consideravo come il mio asso nella manica, mi sembrava stupido giocarmelo al primo colpo. In tutto avevo avuto contatti con due case editrici: Baldini aveva rifiutato il primo libro, Ladisa il secondo e una copia non arrivò mai a destinazione. Era una copia del secondo a Baldini, inviata per chiudere il cerchio.
All'inizio mi sentivo molto motivato. La mia battaglia per venire a galla si era rivelata molto più dura di quello che pensavo a sedici anni. Io guardavo ancora avanti. Però cominciavo a voltarmi indietro. Iniziavo a pensare che forse avrei dovuto accettare di correggere Schizzando nel vento, che forse avrei dovuto continuare a contattare gli editori e non perdere tutto il mio tempo nelle stupide dispute letterarie sui vari siti che avevo frequentato, ad esempio. Il fatto era che la polemica mi eccitava, soprattutto quando partiva da altri e mi riguardava personalmente. Con le case editrici era una cosa a senso unico, non c'era dialogo e quindi possibilità di scontro. Decisi che per ravvivare la giovinezza, dovevo scontrarmi anche con loro, fronte contro fronte. Come gli alci.
Iniziai contattando tutte le case editrici il cui nome mi dicesse qualcosa, direttamente da internet, e chiesi loro se accettassero nuove proposte. Tutte si proponevano come la casa editrice diversa, quella che non ti frega e che non vuole spillarti i soldi. Bene. Io soldi non ne avevo. Tutte volevano investire sugli esordienti. Bene. Io ero esordiente. Tutte avevano nuovi metodi di diffusione, non come le grandi case editrici. Bene. Io amavo i nuovi metodi di diffusione. Scrissi a tutte una mail.
Nel frattempo andavo su neteditor per vedere che cosa succedeva sul fronte Mejfy. Sempre più messaggi negativi. Mejfy non era un genere. Prima le mie non erano poesie. In conclusione io non scrivevo niente.
Mi concentrai sulla mail alle case editrici. Controllavo assiduamente la posta. Certe volte passavo interi pomeriggi saltando da un sito all'altro nella speranza di una singola nuova visita sui miei messaggi e sui miei testi sparsi per la rete. Il lungo silenzio cominciò a intristirmi.
Il periodo dei grandi romanzi che mi aveva condotto da Una di quelle notti fino al mio grande capolavoro 5-Il seme di una rivoluzione, sembrava ormai terminato. Quando avevo finito di scrivere 5 e l'avevo consegnato allo scrittore piccolo piccolo, l'unico che aveva letto la mia intera bibliografia, avevo affermato che non sarei mai più riuscito a scrivere niente del genere. Scriveva anche lui. Mi sembrò che avesse capito cosa intendevo.

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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte12

Fu in mezzo a quel periodo frastornato di resistenze dei sogni dorati dell’adolescenza, di partenze sopite verso luoghi lontani e precoci inizi di abbandoni da parte degli amici, mezze confessioni di egoismi vari e fluide consistenze di rosei baci, che elaborai le mie più grandi idee circa quello che avrei voluto scrivere nella vita e circa quello che avrei voluto essere davvero. Tutto andava per il meglio e io dimenticai qualunque depressione. L’università era una necessità di facciata. Inutile alla mia crescita, ma utile a zittire il mondo attorno riguardo all’impegno che mi competeva nei confronti della realtà. Per di più avevo un lavoro e, per quanto potessi, cercavo di non rinunciare mai ad una giornata da cameriere. Non avevo bisogno dei soldi, ma non volevo dare preoccupazioni.
Nelle lunghe notti in cui la fucina del mio stanzino sfornava magiche mejfy che si libravano nel cielo attonito attraverso la piccola finestra rossa, mi concessi il lusso di migliaia di sigarette da accendere e da spegnere. Era tutto un tirare e riversare. Nelle mie orecchie suonava il lamento struggente dei primi Coldplay e degli Skunk Anansie, quello ancestrale dei Cure e degli Smashing Pumpkins, la foga dei Korn, dei 69 Eyes, dei Katatonia e più di tutto l’enorme scenario di significati allestito dagli eredi inascoltati dei Pink Floyd: gli Anathema. Era una distesa piatta d’acqua cristallina levata fino all’altezza delle ginocchia che raggiungeva qualsiasi orizzonte visibile. Era pura fantasia che intersecava la realtà con lo stesso potere di una vera e propria vista. Era il terzo occhio. Ed io ero lì a vedere attraverso la sua retina.
Una congiunzione astrale che prorompeva fino allo sfondo commovente dell’universo mi portò a scartare definitivamente ogni accenno del reale e a riversare l’intera mia mente nella contemplazione di ciò che esisteva al di sopra del tempo, al di sopra della vita e che si stagliava immobile e perenne come qualcosa di immune alla morte. In quegli anni compresi quali stati di esaltazione può raggiungere l’animo di uno scrittore. Attraverso la parola, vero emissario di pace tra i popoli, progresso infinito partorito dal genio innato del genere umano, un uomo poteva riscrivere la storia dall’alfa all’omega senza considerare alcuna influenza della realtà, se non la più mistica, la più sublime, emblema di bellezza perfetta. Io conobbi gli dei attraverso un’inaspettata illuminazione. E gli dei mi fornirono le fruste. Eteree, violente, intrise di estrema comprensione. E con esse dominai i demoni e le umane passioni.
Avevo vent’anni, la vergine d’oro al mio fianco, vedevo il mio sogno d’infanzia di diventare scrittore muoversi nella realtà come se ne fosse estremamente esperto, la forza di ideali irremovibili e tutto quello che qualsiasi sognatore poteva mai desiderare. Invidiavo me stesso. Mi dicevo – Come fai? Ad avere tutto quello che vuoi. Come fai a pensare di meritartelo? Questo maledetto talento e questa bellissima ragazza e questa famiglia così onesta da sembrare irreale. Come fai a studiare, lavorare, scrivere e riuscire in tutto senza il minimo sforzo, senza una nota stonata? Pensi di essere immortale? Gli dei ti stanno ingannando. Vogliono solo giocare con te per poi deriderti. Ti priveranno di tutto quello che ti hanno dato perché questo fanno a chi osa superare le colonne proibite. Ti hanno permesso di andare oltre e poi ti prenderanno per il collo per tirarti indietro. E rideranno e lo faranno così forte da disintegrarti la mente. E tu impazzirai. Tu non sei come loro. Tu sei il bambino schiacciato contro lo schienale del letto che trema quando il sangue inizia a scorrere lungo i muri. Ricordatelo. Qualcosa di oscuro si muove nel buio attorno alla tua stanza. Ti ha sempre cercato. E ti sta ancora cercando. Deponi quelle fruste e arrenditi.
E invece di arrendermi, digrignavo i denti e prendevo a frustare la voce nella mia mente. – Non posso deporle – rispondevo al silenzio – ne ho bisogno ancora. Non me le merito, ma voglio provare a tenerle per tutta la vita. A me sarà concesso. Non sono più il bambino. Adesso sono lo scrittore col sangue all’occhio e non potete fermarmi.
Questa era la sfida di tutti i giorni: superare di un altro centimetro il limite nell’avanzare incolume nei territori delle paure ataviche. E ci riuscivo sempre. Le striscianti e grottesche ossessioni tremavano man mano che avanzavo, contorcendosi su se stesse come i dannati infernali al passaggio del sommo Virgilio.
In questo stato di purissima esaltazione scrivevo il mio quarto libro dal titolo 5 – Il seme di una rivoluzione. Era la ricostruzione precisa al millimetro di un intero futuro immaginario per la mia vita e più che per ogni altro testo, i personaggi emergevano tridimensionalmente dalle sue pagine scrutandomi viso a viso e minacciando l’estensione di una guerra infinita tra la fantasia e la realtà. Una rabbia ascetica era il mio viatico, come era accaduto per il primo libro, ma più dirompente fu l’esplosione di varchi mentali che a velocità supersoniche la mia mente riusciva a penetrare distruggendo tutte le illusioni che avevano fino ad allora caratterizzato la mia esistenza e permettendomi di anticipare ogni tratto del futuro come risucchiandolo in un vortice temporale. Mi parve di essere onnisciente. Graziato dagli dei, cominciai a convincermi di poter competere con loro e sognai di poter scostare il mondo intero con la forza delle parole. Lo sentivo scricchiolare ogniqualvolta il tuonare dei tasti riprendeva il suo rullare tribale che si diffondeva attraverso le foreste informatiche dell’era ipertecnologica. Tutto tremava intorno. La realtà, come le mie paure, sembrava temermi e sentivo il rancido rilascio del sudore freddo degli dei.
Le accelerazioni improvvise erano quello che mi faceva godere per davvero, al confronto con il lento incedere del tempo nella realtà. Le lunghe file per le prenotazioni degli esami, la flemmatica marcia verso gli autobus, l’apatia dei viaggi e l’attesa nervosa che il mio nome fosse chiamato per alzarmi a contorcere le parole formulando la presentazione orale di una qualsiasi materia inutile. Tutto questo mi logorava fino alla radice e continuavo a chiedermi che cosa c’entrasse con quello che volevo veramente. Ma la realtà purtroppo esisteva e bisognava tenerne conto.
E alla fine arrivò l’estate. La peggiore di quelle che avessi mai vissuto. Non che ci fosse un motivo particolare, ma mi stette proprio sul cazzo. C’era tanto lavoro e c’erano tanti esami ed io non riuscivo più a concentrarmi su quello che dovevo scrivere. Ogni giorno perdevo di vista le fruste e faticavo a ritrovarle, ogni volta erano nascoste in un posto più impensabile della volta precedente. Si perdeva un sacco di tempo. Accendevo il computer, montavo una canzone, ma sentivo che non andava bene. Aprivo il file del libro e mi veniva in mente che metà del testo principale per l’esame che avrei dovuto dare pochi giorni dopo non l’avevo ancora neppure letta. Poi riuscivo ad escludere tutto, a prepararmi a far viaggiare da sole le dita sui tasti e mi chiamavano al lavoro. Prendevo il borsone e cominciavo a mandare a memoria le frasi che la mente aveva ormai preso a stillare, agitando le mani sotto la bocca per cercare di non farne cadere neppure una. Più si voleva alzare l’angolo della visuale al di sopra della realtà e più bisognava avere il vuoto attorno per vedere più chiaramente possibile. E le cose non scivolavano più al meglio attorno a me e invece cominciavano a crearmi grosse difficoltà.
Abbandonai così 5 – Il seme di una rivoluzione per il momento e mi dedicai alla mia nonvita di studente e cameriere, struttura senza la quale sembrava impossibile sorreggere la sovrastruttura dell’impianto letterario.
- Non possono considerarmi un malato? – mi chiedevo – Uno incapace di vivere, ma capace solo a sognare queste strane cose da scrivere? Non possono darmi una pensione e smetterla di mettermi in posti in cui non c’entro niente? – allungavo le mani disperate verso la ragazza che amavo troppo assai. Il suo viso appariva costernato. Mi diceva – Vieni qui – e riprendeva il sorriso e io abbandonavo la testa tra le sue mani. Prendeva ad accarezzarmi i capelli – Un giorno tutti capiranno che sei uno scrittore e tutti questi problemi non ci saranno più -. – Ma tu devi aiutarmi – sussurravo. – Ti aiuterò – prometteva. Le volevo bene. In 5 lei c’era di nuovo. Questa volta era una cantante death metal lesbica che si innamorava di un pazzo separato dalla moglie e in preda a continue allucinazioni.
Sospesa quindi la stesura di 5 per quell’estate, cominciai a tenere un diario. Un posto in cui poter scrivere poche pagine alla volta tra un esame e una giornata di lavoro e in cui potermi riversare con tutta la sincerità di cui ero capace. Vi narravo le apatiche vicende giornaliere e la stranezza del passaggio alla disillusione della maturità dopo aver creduto per anni che la realtà non mi avrebbe mai abbattuto. Lo tenni per tutta l’estate e anche oltre. Aveva uno stile così contorto che decisi di archiviarlo come un testo a tutto gli effetti. Come il mio quarto libro. Era sperimentale, mejfico, maieutico, allucinato. Lo chiamai Diario di un’estate qui. E poi definitivamente Un’estate qui.
Grazie a quel piccolo testo di appena quaranta pagine A4, 5 divenne cronologicamente il mio quinto libro. L’avevo iniziato prima del diario, ma lo finii molto dopo, stancamente, perché aveva esaurito ogni mia capacità d’inventiva. Quando diventavano troppo difficili, le cose cominciavano ad infastidirmi. Prendevo ad odiare il testo, la letteratura, me che avevo deciso di scriverlo e tutto il mondo. E non c’erano cazzi.
Dopo l’ultima, definitiva, correzione, il testo consisteva in un malloppo di cinquecentocinquanta pagine A5 a cui fu applicata la copertina elaborata da un mio amico chitarrista appassionato di cinema e grafica. Rappresentava una bocca da cui fuoriusciva un fascio di luce ed era così bella che adattai una parte del testo per poterla tenere. Ero contentissimo della nuova frontiera raggiunta per via delle mie ultime fatiche letterarie, ma capii che, come per L’opera, anche questo nuovo testo presentava insormontabili difficoltà per un’eventuale presentazione ad una casa editrice. Prima di tutto il numero di pagine. E poi la distanza incommensurabile che lo differenziava da qualsiasi romanzo esistente. Non si accostava neanche per sbaglio ad alcun genere o ad alcun altro testo di cui avessi mai sentito parlare. Era fuori da qualsiasi canone letterario. Come quasi tutto il resto.
Ero stanco di tutto questo. Stanco di scrivere montagne di pagine che non avevano futuro e che invece per me avevano rappresentato un presente dal valore inestimabile. Mi rincuoravano le letture accanite che facevamo al computer con la ragazza che amavo troppo assai e i commenti esaltanti dello scrittore piccolo piccolo. Mi incoronava come il più visionario degli scrittori, vedeva attraverso le mie retine quello che i miei occhi vedevano attraverso le retine del terzo occhio e ne rimaneva estasiato quanto estasiato ne rimanevo io. Ma nessuno di noi riusciva a immaginare una soluzione per diffondere il testo in qualsiasi modo. Ci pensammo per poco tempo e poi non ci pensammo più. Mi misi seduto sul bordo del tempo a contemplare tutto quello che fino ad allora era stato. Giungevano nuove stagioni e si sorreggevano su un grandioso passato.

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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte11

Questo amore comportava: fedeltà eterna, ciò vuol dire che non avrei mai potuto annusare le tette di un’altra donna, mai sfiorare la passera di un’altra donna, mai essere felice delle attenzioni a sfondo sessuale di un’altra donna e ammettere, con tutti, anche parlando di una spruzza sesso da tutte le taglie che invece che piacermi, mi faceva schifo. Comportava attenzione nei comportamenti: niente eccessi che potessero turbarla, niente comportamenti schizofrenici dinanzi ai suoi genitori, zero allusioni al sesso non edulcorate fino allo schifo davanti ad amici, amiche e parenti, niente polemiche sui ridotti orari per vederci né intrusioni sulla decisione dai parte dei suoi genitori che non poteva andare in moto. Comportava attenzione nello scrivere perché poi lei avrebbe letto: mai più un testo per un’altra donna, attenzione a non offenderla, dedicare buona parte degli scritti alla nostra storia, almeno sul piano della poesia. Per fortuna l’ultima parte mi veniva bene perché era un diretto derivato dell’amore.
Il problema era che ci avevo messo un anno per convincermi che stare da solo era la cosa migliore e tutto era andato per il meglio. In Una di quelle notti avevo scritto anche di lei. Le avevo dato il ruolo di una ragazza di quattordici anni che veniva stuprata da un vecchio ubriaco e poi uccisa a coltellate. Questo era molto interessante, ma adesso forse avrei dovuto cambiare la storia. Era un gran bordello, ma la mia vita era fatta così ed io non avevo il cuore di buttare via una cosa così bella come lei. La prima volta ero stato io a lasciarla, ma due giorni dopo lei non aveva più voluto saperne di tornare insieme. Avevo ormai decretato che fosse meglio così. E invece era successo ancora. Questa volta c’erano di mezzo il sesso e la verginità. Cose serie.
Scambiare una ragazza innamorata per una puttana era una svista non da poco, ma tipica di me. Di solito mi era capitato il contrario. Ma, dal momento che ero innamorato anch’io, per quanto mi fossi allenato al cinismo, decisi che da lei avrei preso tutto: sesso, amore, tenerezza, litigate, figli, case, macchine e complessi di inferiorità. Mi premeva il sesso.
Per questo, negli anni a venire, passavo le mattinate al lavoro a pensare al suo corpo profumato che mi aveva alla fine offerto completamente. E io tutto l’avevo preso. La sua carne era davvero ottima, sapevo già che ci si poteva passare una vita intera.
Per lei avevo scritto le mie migliori poesie. Lo facevo da anni ormai, da quando ci eravamo incontrati la prima volta, quando eravamo stati insieme, quando ci eravamo lasciati e quando eravamo tornati insieme. A leggerle tutte di seguito, in sequenza cronologica, si sarebbe potuta leggere una vera e propria storia, degna della Vita Nova di Dante. Lei era la mia musa, più angelica di Beatrice e più mistica perché afflitta da un desiderio sessuale a impulsi. A provocarlo ero io e questa era vera poesia. Leggeva le mie cose come se ne avesse fame, piangeva, si arrabbiava se la tenevo all’oscuro di una nuova pagina, come se fosse roba sua. Mi faceva impazzire.
Per lei valeva la pena di essere un poeta, c’erano i giusti tomenti finché non mi faceva abbeverare alla sua fonte. Le mie depressioni abitudinarie erano tutte sfasate dalla sua presenza, bastava che mi concentrassi sulla sua bellezza e capivo che se avevo avuto lei, avrei potuto avere tutto, dalla vita. La vita mi voleva bene finché c’era il suo corpo chinato in avanti e pronto all’amore dinanzi al mio, a provarmelo. Ed io inneggiavo nei versi all’ebbrezza che mi provocava. C’era da innamorarsi al solo leggere.
Ma i lettori di Liberodiscrivere non l’avevano mai vista e non potevano capire. Decretai che quel sito non forse il posto per me. O forse lo era perché nel frattempo che scrivevo ancora non avevo trovato un degno sito con cui sostituirlo. Tutto questo finché il curatore del network non mi mandò una mail su cui scriveva che lo stato del sito cambiava e che stava per diventare a pagamento. Costava poco. Ma io non avevo neanche quello, da investire. Mi diedi tempo un mese per pubblicarci ancora e poi avrei levato le tende.
I commenti negativi tornarono. - Questa non è poesia, poesia, oesia, esia, sia, ia, ia -. Decisi che qualcosa non andava o che qualcosa dovevo fare. Non c'era verso, o meglio c'era, ma non era considerato poesia. Il torto non lo facevano a me più che alla ragazza che amavo troppo assai, degna del miglior poeta di tutti i tempi. Che ero io, per forza di cose, visto che coincidevano il fatto che l’amavo, il fatto che mi amava e il fatto che scrivevo per lei.
Una sera del gennaio letterario più triste che avessi mai vissuto, scrissi una cazzata veloce veloce. Si chiamava Radio Ga Ga dedicata a Freddy Mercury. Più tardi scrissi un altro testo. Più tardi ancora un terzo. La mia non era poesia. Me lo dicevano fin dalle scuole medie. Che scrivevo a fare?
Il giorno dopo scrissi un testo. La mattina. La sera altri tre. Cazzate veloci veloci. Ma non erano poesie. Presi un foglio, ci feci le lettere dell'alfabeto cerchiate, lo girai e tristemente, con una mano sotto il mento, lo bucherellai cinque volte pensando che dovevo smetterla con quelle stronzate e trovarmi un interesse vero. O quantomeno un lavoro a tempo pieno.
Girai il foglio. Le lettere che avevo bucato componevano la parola Mejfy. Nell'ordine. Che razza di interesse poteva essere mai quello, certo che di un lavoro con quel nome non avevo mai sentito parlare?
Se la lista della spesa la si può chiamare anche elenco e un racconto potrebbe anche essere definito novella, se una poesia si distingue in ballate, canzoni e sonetti, magari le mie cazzate potevo rinominarle Mejfy. Definirle direttamente cazzate avrebbe un po' scoraggiato i lettori. E in quel modo non sarebbero state poesie, così nessuno si sarebbe più preso l'impegno di mettermene al corrente. Sarebbero state cazzate camuffate. Mejfy. Forse le lettere dell'alfabeto inglese potevo anche evitare di metterle.
Pubblicai i miei testi su un sito appena scoperto. Si chiamava Neteditor, pullulava di letture e commenti, era il primo nel motore di ricerca. Da qui uscivano i veri scrittori. Non c'erano dubbi.
I testi erano piccoli, scoordinati, parlavano di temi poco profondi ed erano basati solo su sensazioni, emozioni zero. Lo stile praticamente non esisteva, la punteggiatura messa a cazzo, parlavano di avvenimenti quotidiani, spesso troppo personali per essere capiti. Non c'era molto da capire. Forse niente.
I commenti furono pochi ma unanimi: i testi erano particolari e si facevano leggere bene anche perché erano scritti di getto quindi particolarmente fluidi, senza correzioni. Con errori grammaticali a volte. Una cosa strana.
Decisi di anticipare i futuri commenti negativi spiegando che queste non erano poesie, prima che se ne accorgesse qualcuno, ma non potevo farlo pubblicando una definizione tra i testi: sarebbe stata in homepage per uno o due giorni soli. Mi serviva una cosa permanente. Per la prima volta decisi di scoprire che cosa significava quella scritta in piccolo che appariva su molti siti che metteva insieme le lettere f o r u m. Mi sembrava c'entrasse qualcosa con quello che cercavo. Ci entrai. Sembrava una cosa permanente, c'erano messaggi datati, parecchio vecchi.
Entrai nella sezione che riguardava le categorie letterarie, mi sfregai le mani, intitolai l'argomento Mejfy e mi misi a scrivere un sacco di cazzate che cercavano di definire il genere. Ma il genere era indefinito anche se alla fine quello che scrissi rispecchiava bene lo stato confusionale in cui annaspavo. Andai a cenare e non me ne preoccupai più, sicuro che una cosa con un nome come f o r u m non dovesse essere particolarmente visitata.
La sera tardi mi rimisi a scrivere. Scrivevo senza interruzioni, Mejfy a raffica. Ascoltavo la musica e scrivevo. E si facevano le quattro di mattina. Andai a vedere se i miei testi avevano riscosso il successo che meritavano. Niente. Neanche un commento. Pensai di vedere se magari qualcuno aveva letto il mio argomento nel f o r u m. L'avevano letto. E commentato. Pensai che forse avrei iniziato a scrivere solo nei f o r u m. Il primo commento diceva così – Mi piace il modo in cui l'hai definito. Lo metto tra i generi.
Adesso bisognava decodificare il messaggio.
Lessi gli altri commenti. Tutti riguardavano i generi e la gente si era un po' incazzata per il commento che non avevo ancora capito. Decisi che per capire gli altri avrei dovuto capire il primo.
Allora: chi l'aveva scritto era uno che gestiva il sito, il commento arrivava quindi dalla redazione. Inserire Mejfy tra i generi. Mmm. Forse i generi letterari. Non poteva essere. Andai a pubblicare una cosa appena scritta e feci scorrere il cursore tra i generi. Mejfy non c'era. Tanto ormai l'avevo quasi pubblicata, scelsi la categoria.
Mejfy.
Era lì.
Tra le categorie del primo sito nel motore di ricerca, quello da dove uscivano gli scrittori veri. Mi guardai attorno, raccolsi il foglio con le lettere dell'alfabeto. Lo girai. Mejfy. Sì, l'avevo inventato proprio io, non mi stavo sbagliando.
Io pensavo che sarei diventato uno scrittore. Non volevo diventare altro. Vabbe', a dodici anni volevo diventare calciatore ma non era un vero e proprio amore. Pensavo - Concentrati sullo scrivere, tira fuori il meglio - ma in realtà la mia situazione letteraria era molto squilibrata. Tiravo fuori il meglio. E subito dopo il peggio. Scrivevo un sacco di stronzate, insomma. E pensavo che prima o poi me le avrebbero pubblicate, che un giorno mi sarei occupato solo di scrivere: avrei avuto una stanzetta con scrivania, macchina da scrivere, finestra sul cortile, sigarette da montare e fumare e avrei scritto tutto il giorno quasi tutti i giorni. Cosa? Non lo so. Ah, e anche McCallan da bere naturalmente. 18.
Potevo vivere di questo per sempre. Era quello che mi piaceva per davvero. Invece mi trovavo a cercare di difendermi da degli assassini di sogni senza McCallan su un maledetto sito letterario che non ripagava le mie buone intenzioni di illuminare il mondo con il genere letterario più particolare che si fosse mai potuto concepire. Le Mejfy. Una vera rivelazione. Dopo quella di Cristo. Nei giorni successivi all'inserimento tra i generi, alcuni sposarono la mia causa sul forum, ma si dissociarono da me. Pur tenendosi il termine. Alcuni non sposarono né causa, né me. Alcuni accusarono sia la causa sia me. Quelli erano i più tremendi. Uno era il loro paladino. Aveva la fissa per le kappa. Le metteva dovunque. Io quella fase l'avevo superata a quindici anni, quando avevo scoperto la beat generation. Si chiedeva come mai non si capisse che il mio genere era una cazzata. Me lo chiedevo anch'io. Eppure mi ero messo d'impegno a stendere la mia definizione.
Di letterario c'era ben poco. Nel tutto, voglio dire. Soprattutto in me. Mi chiedevo dove stavo andando. Se stessi andando per davvero da qualche parte. Mi chiedevo se non fosse ora di smetterla. Di scrivere, intendo. Un talento vero si sarebbe visto da lontano. Io mi ero dato già quattro anni. Quasi quanto un buon corso di laurea. Avevo ottenuto di perdere il contatto con Ladisa, il concorso con Baldini&Castoldi, i vari concorsi a cui partecipavo con poesie del cazzo (e vincevano sempre poesie ancora più del cazzo al che pensavo che forse le mie non erano ancora abbastanza del cazzo) e commenti completamente discordi sui vari siti che avevo frequentato. Un talento vero nel frattempo si sarebbe visto. Beh, sì... ma hai sempre la stupida speranza che il mondo non sia ancora pronto. È una possibilità.
Mi fermai un attimo a pensare e mi dissi che forse internet non era il posto giusto dove pubblicare le proprie cose perché chi frequentava i siti letterari non erano i lettori (io credevo che esistessero) ma gli scrittori stessi e quindi i giudizi erano tutti condizionati dalla volontà di emergere più che quella, semplice, di leggere. E quegli scrittori erano lì da prima di me. Si erano accaniti per tanto tempo solo per ricavarsi il loro piccolo angolo di anonimato che li rendeva comunque felici come se ormai fossero la nuova avanguardia letteraria. Quel mondo era di altri ed era altamente autoreferenziale. Non accettava le novità. Neanche quelle brutte.
Mi intristii tutto d'un colpo. Chiesi al curatore del sito di eliminare mejfy dai generi, cancellai il mio profilo e mi relegai nel silenzio. Il genere rimase attivo ancora per diversi mesi. Qualcuno lo usò per parecchio, lo esportò negli altri siti. La gente si incuriosiva, gli chiedeva che genere fosse e ogni volta la definizione cambiava. Nessuno si ricordava più da dove era nata ed io ero scomparso dal sito più ben fatto che avessi mai visto: Neteditor. Il primo sito sui motori di ricerca. Quello da cui uscivano i veri scrittori. E io infatti ero uscito.

*

Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte10


L’idea della sperimentazione mi tenne impegnato alla ricerca di nuovi stili inesplorati e di un perfezionamento delle capacità visionarie più che di una tecnica di scrittura. Abbandonato il tentativo di un qualsiasi schema sia in prosa che in versi, fui sempre più convinto che l’ispirazione fosse lo spirito guida da seguire e che prepararsi a coglierla fosse più importante che prepararsi a coglierla al meglio. Sembravano d’intralcio lo studio approfondito della grammatica e l’espansione del mio misero vocabolario al seguire la corrente mistica che mi investiva di volta in volta e mi presentava i personaggi e le situazioni in cui finivo per immergermi dimenticando completamente la realtà. Lo studio e il lavoro passavano velocemente come fossero compiti stupidi da portare a termine con il minimo impegno, dando di me stesso giusto la presenza e il minimo di applicazione, al punto che nei primi anni di università e di lavoro non riuscii a stringere alcun rapporto né a conquistarmi almeno le simpatie di qualcuno. Apparivo senza lasciare traccia e fuggendo via appena possibile per dedicarmi alle mie cose e al mio amore: la ragazza che amavo troppo assai.
Della realtà, oltre all’eco delle amicizie dell’adolescenza, alla mia famiglia e a pochi interessi come i fumetti, il calcio e i videogame, lei era l’unica cosa per cui valesse la pena di avere una vita sociale. Di uscire da casa, per dire. Intere mattinate al lavoro le passavo a pensare al suo corpo, nudo, su una brandina, profumato dai suoi quindici anni, mentre il sottofondo di Fly Away di Lenny Kravitz rimbalzava da un orecchio all’altro facendomi trasalire.
La mia bambina io l’avevo perduta, anni prima, quando eravamo piccoli e stavamo insieme per la prima volta. A me sembrava che non fosse innamorata di me, mi pareva troppo bella per esserlo ed ero convinto di averle piazzato in qualche modo una fregatura perché io non mi sentivo per niente bello come lei. Però stavamo insieme. Era alta, aveva i capelli castani lunghi e lisci e ogni suo gesto era elegante. Nessuno riusciva a capacitarsi di come potesse essersi messa con me, ma per primo non me ne capacitavo io. Per questo, per troppa grazia ricevuta, non la toccai mai neppure con un dito. Ci baciavamo solamente e me lo facevo bastare. Una volta mentre eravamo di fronte, da dentro la sua maglia sentii un suo seno che premeva contro il mio petto. Johnny si risvegliò e appena lei fu andata via, io lo picchiai severamente. Lei non era per me, eravamo fidanzati, ma non si sapeva come mai, non mi sembrava convinta e io non volevo essere inopportuno. Neppure nei miei pensieri. Johnny capì e non chiese mai che lei entrasse nelle fantasie erotiche per le masturbazioni selvagge.
Feci bene a non oltraggiarla perché cinque mesi dopo ci lasciammo e io, da brava persona, la riconsegnai al mondo intatta per chi avesse voluto lei. Non so se capì che bel regalo fosse. Ripresi le mie vecchie strade e una nuova convinzione. Avevo solo sedici anni, ma il cielo sgombro sul mio futuro: non avrei mai più voluto una donna. Una mia, intendo, una ragazza a cui dover comprare regali nel giorno del compleanno, a cui dover dire frasi dolci o con cui dover scegliere che vestito mettere per una festa. Non volevo una persona che si riversasse in pieno nella mia vita, che potesse un giorno prendersi il lusso di pensare di farmi ragionare, ma allo stesso tempo capivo di non meritare una bella ragazza con cui avere una storia pulita. Preferivo e mi si addicevano soltanto le puttane, brutte, porche, vogliose di cose immediate e selvagge, disattente al profumo del loro corpo e avare di sentimenti, avide di morsi e schiaffi e di cose perverse, di ubriacarci insieme e di vomitare negli angoli oscuri di fetide case malsane. La mia idea di amore corrispondeva più o meno a questo. Ma una parte della mia mente era sempre stata troppo cosciente e troppo onesta per permettermi di godere della mia depravazione e così, nell’anno in cui stetti lontano dalla mia ragazza, non riuscii a combinare molto, pur non mancando le occasioni. Un senso di purezza di fondo permaneva nella mia anima e non riuscivo a sacrificarlo per mettere finalmente piede nel lato perverso della vita. Mi lasciavo andare, ma mai completamente. Avevo il bisogno di staccare gli ormeggi, ma avevo paura di perdere qualcosa di irrimediabilmente importante. Rimasi vergine controvoglia e mi bestemmiai in tutte le lingue che conoscevo, per questo.
In soccorso venne, come spesso, nella mia vita, la penna, o meglio, la tastiera di un computer. Essa diede sfogo a tutte la mia voglia di perversione nella stesura di Una di quelle notti, mio primo libro. Fu forse il senso di libertà che respiravo rileggendo quelle pagine che mi convinse che potevo ancora aspettare a cercare la libertà estrema anche nella vita. Fu come un placebo. Ripresi la mia vita con una calma ascetica che non avevo mai avuto, frutto del nevrotico ossessionarmi con la smania di un rapporto completo, momentaneamente soddisfatto dalla stesura di un intero romanzo.
Mi ritrovai riverso sui divani della casa in cui usavamo ritrovarci con i vecchi amici, quelli della comitiva che io, lo scrittore piccolo piccolo, lo scienziato, l’amico dall’aria vagamente giapponese e il ragazzo rosso problematico avevamo lasciato quando io e la ragazza che amavo troppo assai avevamo litigato. Come tutti, c’era anche lei ed era inverno. E nonostante fosse inverno lei era sempre bella e vestiva con gonne corte e collant scuri e le sue gambe erano perfette. Qualcuno doveva averla fatta donna nel frattempo. E non ero stato io. Ero sempre distratto e spesso assonnato come si può essere dopo una notte di sesso estremo e prolungato e faticavo a riprendermi. Però ne volevo ancora. Sorridevo. Ne volevo ancora tanto. E le sue gambe erano sempre lì davanti ai miei occhi e lei cominciava a guardarmi e ravviarsi i capelli e dentro casa era sempre tutto offuscato da una luce soffusa. C’era un dualismo: avevo sofferto per lei, ma in fondo non me ne fregava niente. E poi ce n’era un altro: mi stavo innamorando di nuovo di lei, ma in fondo non me ne fregava niente. Qualunque cosa fosse, a me andava bene. Ma visto che era stata fatta donna, adesso non era più pura e io non avrei avuto problemi a usarla. Rientrava nei miei criteri.
La prima volta venne a salutarmi a mi baciò le labbra per sbaglio. Poi per sbaglio, visto che c’era, dischiuse la bocca e mi assaggiò. E poi mi disse – Basta! – allontanandomi, come se avessi fatto tutto io. Io pensai - Bene, è diventata proprio puttana e delle migliori: non sa di esserlo.
La seconda volta tutti i presenti nel locale si misero a gridare in coro che secondo loro avrei dovuto accompagnarla a casa. La accompagnai, non proprio a casa, ma lì vicino e, nel salutarla, ci baciammo ancora. Quel giorno aveva la tuta e sembrava meno puttana. Mi respinse pure. Poi disse – Non voglio tornare con te -. E neanch’io volevo tornare con lei, stavo pensando a qualcosa di diverso dalla prima volta.
La terza volta iniziammo a baciarci su un divano all’inizio della serata e finimmo distesi sullo stesso divano, io sopra e lei sotto. Lei aveva i jeans ed io non mi feci scrupoli. La toccai dappertutto: le tette piccole e morbide, il culo, la farfalla serrata dai jeans e dalle gambe chiuse, le labbra, il collo e vaffanculo, mi rifeci di tutti i mesi del nostro fidanzamento che erano iniziati con il mio primo vero bacio ed erano finiti che quella era stata la mia unica conquista. Quando lei andò via, quella sera, io ero diventato una voce bianca. Ci salutammo. Lei sembrava finalmente felice. Forse la prima volta le era mancato proprio il contatto fisico, ma aveva solo tredici anni, non me l’ero sentita. Appena voltò l’angolo mi strinsi le palle con tutte e due le mani e mi sedetti a terra a dondolare: mi facevano malissimo. Johnny era stato sveglio per più di due ore nello spasimante tentativo di distruggere le mie mutande, i miei jeans, i suoi jeans e le sue mutande. Era tutto bellissimo, così era più facile: niente fidanzamento e tappe bruciate come se il tempo ci avesse dato poco ancora da vivere.
Presto finimmo appartati in uno stanzino buio chiuso da una porta a vetri, per fortuna fumé. Le cose si fecero più intime: le baciai le tette da sotto la maglia. Lei diventava rossa e farfugliava, eccitata e imbarazzata. Sembrava ubriaca, ma era un effetto che le facevano i miei baci e le mie mani e il continuo sfrusciarsi del suo ventre velato dai collant e dalle mutandine contro la mia strumentazione foderata dai jeans. Ogni attimo diventava estremamente erotico, un momento in cui si fermava con le sue labbra a pochi centimetri dalle mie con le braccia lanciate oltre il collo, un ciuffo di capelli che le copriva gli occhi non permettendomi di capire cosa stava guardando. Sembrava proprio la stanza a praticarci questo effetto. Era qualcosa di sconvolgente, capace di destrutturare i miliardi di gigachilometri di spazio di cui era composto l’universo e di portarcelo nel nucleo tra il mio respiro e il suo. I pianeti assumevano la forma del suo culo, le stelle delle mie palle, nebulose coi capezzoli volteggiavano in galassie appena visibili dalla soglia di pelosi e iridescenti buchi neri che trasudavano fragranti perle di umori sconosciuti. Tutto questo senza un solo comprensibile motivo, ma soltanto perché io ero io e lei voleva me, chissà perché.
Una sera, nel rivestirsi timidamente su una sedia, ruppe il silenzio mistico in cui ero immerso.
- Sei vergine? – mi chiese. Pensai che fosse arrivato il momento in cui voleva confessare di aver già fatto l’amore.
- No – le risposi, mentendo perché non volevo essere da meno – E tu? – lo chiesi per non essere scortese.
- Sì, io sono vergine.
Per un attimo i pianeti e le nebulose furono scossi da un momentaneo eccesso del sottofondo universale. Poi ripresero le loro forme erotiche, irradiati da una nuova luce.
La parola chiave non era sesso, ma verginità. Non poteva essere. La sfumatura di significato comportava una scelta che avrebbe condizionato la mia vita quasi irrimediabilmente. Alla sicurezza di un puttanismo a cui poter partecipare per poi riprendere la mia strada, si sostituiva adesso l’incertezza di una verginità che avrebbe certamente richiesto serietà in cambio e la parte onesta della mia mente si mise all’erta per evitarmi qualunque mossa falsa. Per di più, all’uscita della casa, una sera in cui stava per andare via, lei mi aveva chiesto, quasi come fosse un’affermazione e una prerogativa imprescindibile per cui poter avere altri rapporti: - Noi due stiamo insieme? – e io le avevo risposto – Vabbe’.
E infine c’era l’amore che non potevo più tenere in silenzio, relegato in gabbia insieme ai demoni dell’infanzia, tra le cose peggiori che mi fosse mai capitato di incontrare. Non avevo mai trovato le fruste per dominare le paure e le passioni, ma le passioni avevano una conformazione diversa, non ero completamente sicuro che portassero solo problemi come le paure.
Per il momento pensai di concentrarmi solo sul sesso e di mettere da parte l’altra faccia della medaglia, ma la verginità, per quanto succulenta, divenne sempre più ingombrante. Era bella, ma arcigna, devota quando aveva desiderio e aggressiva quando non ne aveva e cercavi di stimolarla. Io mi innamorai di questo. Di qualcosa che si faceva desiderare ma anche odiare. Di qualcosa a cui potevi pensare per tutta una giornata, rincorrendo l’etereo ricordo di un profumo particolare, ma che poi non era detto che ti fosse concessa. Mi innamorai di una cosa strana e per questo non mi concessi di amarla in modo normale, ma di amarla troppo assai.

*

Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte 9

Cadevo dal pullman appena arrivati alla stazione di Barletta per dirigermi verso la coincidenza, osservando finalmente allontanarsi quelle strane forme di vita. Mi prendevo il posto più solitario che ci fosse, ideale se era vuoto tutto il vagone, e correvo col treno fino a Bari, fissando lo sguardo fuori dal finestrino per scorgere il mare che di tanto in tanto si mostrava con l’immortale istinto selvaggio a dispetto delle nostre morenti vite.
Appena respirata l’aria di Bari la sensazione di un non prima annunciato prolasso anale prendeva a deformarmi il corpo con una depravazione mai vista. Scendevo i tre gradini del treno entrando in un paradosso esistenziale inestricabile: allungare il passo alla ricerca di un cesso più degno di quelli del treno avrebbe significato fare il gioco della peristalsi, ma passeggiare con moderazione con un parto imminente tra le gambe non era in alcun modo possibile. Sceglievo sempre di correre verso un cesso. A volte i disonorevoli crampi mi stringevano lo stomaco in maniera atroce. Sudavo freddo, vedevo la città tenermi gli occhi addosso e mi perdevo nella mia disperazione. Facce, capelli al vento, ombrelli portati non si sa mai, biglietti del treno per strada, mendicanti e cerca sigarette, tutto lo scenario attorno si diluiva in un vortice opprimente che mi intimava a mantenere il contegno, ma il corpo mi suggeriva con un sussurro rauco di rompere gli argini e abbassarmi i pantaloni senza alcun ritegno. Mi piegavo su me stesso agli angoli dei palazzi. Stringevo il culo, così si dice, strizzando gli occhi. Poi passava, ma dal petto in giù tutto brontolava.
Riprendevo il passo fingendo serietà. Mi veniva da ridere, ma non c’era niente per cui farlo. Le distanze erano sempre insuperabili, ossessive, che decidessi di tirare dritto verso l’Ateneo o che scegliessi di fare tappa nel paradiso dei culi al McDonald. E poi divoravo le scale, pregavo che non ci fosse nessuno in attesa e irrompevo nelle piccole stanze con la certezza che avrei dato il giusto spessore ad un cesso di città.
Ecco, ecco, cosa siamo. Non le aziende, né gli Atenei e nemmeno le cattedrali saranno i miei templi. Questo è il mio altare e questa la sacra funzione, i cessi di tutto il mondo raccolgono ogni mia vocazione!
Ogni mattina tutte queste sofferenze per ficcarmi in una classe quanto quella di un liceo in compagnia di altre duecento persone. Adesso andavo all'università. Lettere moderne per la precisione.
Prima ora di lezione: latino, aula cinque. C’era gente davanti alla porta, gente spalmata sui muri come carta da parati, gente accampata sotto la cattedra. Tutti fingevano di essere estremamente interessati a come Cicerone pronunciasse la C. Io avevo sonno. Il professore se ne stava con una mano nell’altra poggiate sulla cattedra, felice del suo sapere e dell’orda di ignoranti prostrata ai suoi piedi. Ricamava elogi al latino, si beava dei dettagli di pronuncia e specificava che anche se era un corso di lettere moderne era imprescindibile la conoscenza della sua materia. Ognuno voleva la sua importanza. Avevo scelto quel corso proprio perché prevedeva un solo esame di latino. Non è che lo odiassi o lo reputassi inutile. Non mi andava di studiarlo e, della vita, mi piaceva troppo la possibilità che si potesse scegliere.
Finita la lezione, verso le nove meno dieci, avrei dovuto vagare per l’università o per Bari fino a mezzogiorno in cerca di qualcosa da fare, in attesa della seconda ora di lezione. Cominciavo ad entrare e uscire dall’Università. Fumavo, andavo a controllare se lo stronzo era andato giù. Fumavo, andavo alla stazione cercando un treno per tornare a casa, fumavo, tornavo all’università. Fumavo, facevo colazione per la seconda volta, fumavo, arrivavano le undici e un quarto e raggiungevo l’aula dove ci sarebbe stata la seconda lezione di italiano o inglese. Finì che cominciavo a tornare a casa direttamente alle nove, dopo la prima ora di lezione, andandomene contro il flusso di gente che era appena arrivata dalla stazione. E sul treno scrivevo fantastiche poesie sul taccuino su cui avrei dovuto prendere appunti. Costruivo dei piccoli rifugi di carta e lì mi rintanavo, aspettando che il mondo imparasse a comprendermi o decidesse almeno di lasciarmi perdere.
Cercavo ancora le fruste degli dei. E credevo che in un posto come l’università le avrei trovate. E di esserci, c’erano, ma servivano al altri scopi. Non ad ammaestrare mostri mentali, ma a schiaffeggiare qualsiasi idea altrui, ad impartire la perfezione matematica del verbo. Le fruste erano rivolte contro di me. Avrei potuto aspettare il momento buono per sottrarle e usarle ai miei scopi, ma a quell’epoca mi sembrò che ci volessero troppi anni. Così cambiai definitivamente corso di studi. Scelsi il più semplice, il meno impegnativo e forse anche il meno interessante: scienze dell’educazione. Bella roba.
Decretai, in quei tempi, che nessun editore avrebbe più visto il mio nome steso su un manoscritto sulla sua scrivania. Mi concentrai sullo scrivere. - Concentrati, concentrati - mi dicevo. Non guardavo mai al rigo appena scritto, ma pensavo al successivo. Quando scrivevo. Quando non scrivevo, mi soffermavo spesso ad inseguire i mondi immaginari che si svelavano agli occhi della mia mente e saltavo da un pianeta a un altro cercando di vedere quanta più roba possibile. Gli abissi tra i pianeti non mi facevano paura. Credevo che ci non sarei mai caduto. E così accadde per anni.
Ogni qualvolta la vita mi stancava, come nei tristi giorni universitari, ricorrevo alle mie pagine, alle cose scritte nel passato, anche in quello più remoto, i testi originali delle poesie e dei racconti e le prime versioni stampate dei romanzi. Col tempo gli zaini che li contenevano erano diventati due. Fuggivo a leggere le mie pagine per ricordare a me stesso cosa ero. Ne avevo bisogno continuamente perché avevo il terrore di dimenticarlo. La stessa cosa facevo nel contesto letterario: passavo dalla poesia alla prosa ogni volta che qualcosa di scritto mi deludeva.
- Sono un poeta – mi dicevo, finché le poesie lette e rilette non si consumavano – No, no, sono uno scrittore – e correvo a rifugiarmi tra i romanzi e i racconti. Alle volte abbandonavo la poesia per tessere gli scenari delle mie storie e quando cominciavano a sembrarmi stupidi, mi facevo più effimero e raffinato andando a ricamare versi.
- Nessuno mi può capire – pensavo – Nemmeno io.
In quel primo periodo universitario scrissi una serie di testi in versi che facevano meno schifo del solito. Avendo ormai bandito gli editori e non avendo che pochi lettori tra i miei amici, tra cui la ragazza che amavo troppo assai, compresi che dovevo cercare delle nuove strade per diffondere il mio disarticolato verbo. Mi lanciai su internet, lì si trovava la risposta a qualunque domanda. Cominciai a chiedere. Ma le risposte arrivarono molto lentamente. La mia connessione a 56k non era delle più veloci.
Un minimo di coerenza. Presentarsi come un poeta. Rivoluzionario. Anzi no. Più facile sarebbe stato colpire con frasi ad effetto stese in struggenti poesie d'amore. Mmm. Sembrava avessi un enorme rotolo di carta bianca su cui poter scrivere esattamente quello che volevo, messo in bella vista per tutti gli utenti internettiani che sarebbero passati da LetterArea, il primo sito che trovai e che mi sembrava ben fatto. Sì, però un minimo di coerenza, non come al solito. Decisi semplicemente di pubblicare le ultime cose che avevo scritto. Erano tremendamente ben fatte, riguardavano il mio primo periodo universitario, la riluttanza all'essere erudito da qualche borioso professore mummificato, la voglia di riprendere le vie delle mie terrazze solitarie, dei miei campi aperti. Bene bene. Pubblicai il tutto e stetti a guardare, ma non succedeva niente. Mi annoiai nell'attesa, sbadigliai. Andai a cenare.
Nei giorni successivi arrivò il primo commento. Era positivo. Era dello stesso curatore del sito. Mi piacque, decisi di pubblicare ancora. Pubblicai ancora, ma la poesia non era particolarmente seguita. Decisi di scrivere un racconto, in alternativa avevo solo romanzi, ma di romanzi non volevo più sentire parlare. E poi erano troppo lunghi per essere seguiti in rete. Scrissi il racconto in un pomeriggio, lo inviai. Si chiamava La passeggiata e non era il massimo, però poteva andare. Il giorno seguente fioccarono i commenti. Due, tre, quattro. Mi fregai le mani e andai a leggerli, ma c'era qualcosa che non andava: erano negativi. Mi dissi - Fermo, fermo, rileggi bene, magari oggi sei un po' dislessico -. Lessi ancora. Erano sempre negativi. Mi guardai attorno. Andai a cercare tutti i personaggi che mi avevano commentato e lessi la loro roba. Faceva un po' cacare. Glielo feci notare.
Pubblicai ancora pensando - Adesso li ho sistemati - ma sembrava non ci fosse altra gente a parte quei quattro ammazzasogni. Tornarono alla carica e mi affossarono di botte letterarie. Pensai se pubblicare ancora, nel frattempo non avevo niente di nuovo, scelsi tra la roba vecchia. La cosa cominciò ad infastidirmi: stavolta zero commenti. Decisi che se tutto doveva essere così patetico, allora sarebbe stato meglio non pubblicare e così dopo tre testi abbandonai il sito, pensai che tanto ce n'erano altri e andai a cercarmeli.
Finii su Liberodiscrivere, ripubblicai gli stessi testi per vedere se qui qualcuno ne capisse di più, di poesia e racconti, ma dopo il primo commento positivo, ripresero a tartassarmi nuovamente. Mi accusavano di non avere stile, di non seguire la metrica, di non impegnarmi ad incastrare rime, di essere volgare eccetera eccetera. Il commento positivo fu - Mi spiace, ma devo dirtelo: questa per me non è poesia -. La positività stava nel fatto che gli dispiaceva.
Mi alterai alquanto e andai a trovare anche questi altri personaggi, lessi la loro roba. Faceva cacare persino gli stitici. Glielo feci notare. E si permettevano di fare tanto i sofisticati con la roba altrui? Come funzionava?
Il giorno dopo nella mia casella di posta c'era un messaggio. Anonimo. Di un ragazzo che aveva letto una mia poesia che si chiamava Serenità del non capirsi. Era una lunga lettera in cui diceva che ero riuscito a rendere perfettamente quello che lui aveva sempre provato. Mi ringraziava per la poesia. L'aveva chiamata proprio così. Mi incitava a continuare a scrivere. Più che il commento mi piacque il fatto che il messaggio era stato spedito alla mia casella di posta, il che rese tutto più intimo tra me e lui, tra me e il primo lettore sconosciuto che mi aveva compreso. Fui così contento che decisi che Serenità del non capirsi fosse la mia più bella poesia e che io non volevo più essere uno scrittore, ma un poeta. E gli altri non potevano capire.

*

Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte 8

La mia visione mi folgorava ad intermittenza. La mente era sezionata dalle chirurgiche lame del tempo che cadevano, impietose delle mie proteste, nelle mattinate invernali in cui gli accenni di un vero risveglio si presentavano solo quando i primi steli dei salici mi sfioravano i capelli. Fino ad allora non ricordavo dov’ero stato, in quali sconosciuti luoghi dell’inconscio avevo riposato. Poi apparivo, lungo il viale dagli alberi magri che scendeva verso la fermata del pullman, come un silenzioso punto in movimento che percorreva uno scenario vuoto e gelido, tentando di proteggere il viso dalla corrosività dell’aria glaciale della notte non ancora terminata.
Le prime forme di vita erano visibili nei pressi della fontana vicino alla fermata. Io le guardavo da lontano e già mi venivano le paranoie: saltavo di forza giù dal letto nei momenti più teneri del sonno per ritrovarmi ad aspettare insieme ai tristissimi uomini-azienda il pullman sostitutivo del treno che aveva il colore grigio scuro tipico delle gite, con una gigantesca scritta ciclamino stampata sulle fiancate.
Il popolo della fermata era composto di umani con giacche, maglioni e pantaloni a coste dai colori che ispiravano tentazioni suicide che si abbinavano con elegante mestizia ai loro volti, gente da una vita in attesa della pensione, impiegati che ogni mattina prendevano questo pullman e saltavano sul treno coincidenza per Bari appena giunti a Barletta. Tutti i giorni della settimana. Sempre alla stessa ora. Tutto rievocava una sensazione di squallidi corridoi dai colori acidi, bambini decerebrati e cimiteri posti oltre un fiume. Mi riportava alla mia infanzia, a quando, da piccolo, di notte, portavo la mia mente in bilico sulle voragini dell’inconscio e la costringevo a guardare in basso mentre urlava dal terrore.
Seduto con la schiena premuta contro la spalliera del letto e le mani schiacciate sulla bocca per non urlare, ripercorrevo tutte le immagini più spaventose che avevo raccolto nei miei primi anni di vita e a forza di immaginare teste rotolanti sui muri e improvvise apparizioni di donne ossute sghignazzanti nel buio della notte, venute a torturarmi, finiva che cominciavo a vederle per davvero. Questa era la mia perversione.
Mia madre e mio padre non sapevano più come fare. La loro ossessione era diventata la mia voce illanguidita dal pianto che nelle impensabili ore del riposo filtrava l’oscurità fino alla loro camera.
- Mamma… ho paura…
Ogni volta sentivo un fruscio di lenzuola infastidito e con la santa pazienza mia madre si alzava, con gli occhi pieni di sonno e veniva da me.
- E di che cosa hai paura? – ogni notte sempre la stessa domanda. Delle teste rotolanti, diglielo.
- Non lo so.
Sapevo che c’era qualcosa che incombeva su di un indifeso bambino che dormiva, qualcosa di terribilmente spaventoso che approfittava del buio per affacciarsi alla mia mente per tentare di mangiarla. Pensavo di essere pazzo. Era la donna ossuta, non sapevo perché mi odiasse, ma continuava a torturarmi, erano le teste rotolanti e il corpo volante dell’uomo senza braccia e senza gambe col cappello a cilindro. Ogni volta iniziava tutto quando le pareti cominciavano a rilasciare sangue che si riversava verso il battiscopa. L’entrata del tunnel era così conformata. Poi seguivano il resto delle visite. Era troppo complicato per spiegarlo a mia madre.
- Non è possibile che non sai di che cosa hai paura.
- Neh… quel film che ho visto – cominciavo a piangere.
- Ma quello non esiste, è solo un film. Se tu la smetti di immaginare…
- Non ci riesco… Posso dormire di là stanotte?
Mia madre aveva troppo sonno per continuare a discutere. Alle volte si metteva vicino a me per un po’, finché non mi addormentavo. Mi accarezzava i capelli. Io smettevo di avere paura, ma sapevo che prima o poi se ne sarebbe andata e la paura tornava. Altre volte si innervosiva fino a digrignare i denti. Poi alla fine mi faceva andare di là. La parte dura era stare a discutere con mio padre, ma durava poco, finché non si girava dall’altra parte, disinteressandosi del resto, ma sempre con indignazione. A me non importava: per un’altra notte i pazzi visitatori si sarebbero dovuti accontentare di mia sorella che restava sola nella nostra camera.
Di tutte le cose incoraggianti che mia madre cercò di dirmi in quelle notti, una divenne il mio motivetto rassicurante. Era una cosa semplice da ricordare e a volte aveva la sua efficacia e faceva più o meno così:
- Pensa alle cose belle.
Le cose belle, io non sapevo di preciso cosa fossero, ma nella mia fantasia rappresentavano un luogo a cui si accedeva attraverso tortuosi percorsi immaginativi. Ci provai ogni notte, da quando lei me le presentò, ma la volta in cui le raggiunsi davvero non fu né di notte e né come esorcismo contro le mie paure. Fu nell’accecante bagliore solare dell’estate in cui cominciai a scrivere. Era l’estate degli otto anni e la fantasia patinava ogni angolo della realtà accendendola di sensazioni e cancellando qualunque preoccupazione la mia giovane vita potesse darmi. Guardavo il mondo estasiato dalla sua bellezza e non riuscivo a capacitarmi di come la notte si trasformasse in quella cosa spaventosa che non mi permetteva di prendere sonno. Le cose belle erano arrivate ed io per non perderle e per trattenerle oltre il tramonto, decisi di scriverle, su un quadernetto delle elementari, raffigurandole con un disegno accanto.
Ma servivo, come diceva Hemingway, un padrone di giorno ed un altro di notte. Le visite nella mia cameretta continuarono e, anzi, si incrementarono delle nuove influenze macabre che film, racconti o pubblicità portarono al popolo notturno. Contro il buio non avevo alcun potere. L’unica minuscola rassicurazione era data dalla coperta invisibile che Gesù mi stendeva addosso quasi tutte le sere. Ma a volte se ne dimenticava e in quei casi mi toccava strisciare sul pavimento fino alla camera dei miei genitori per poi cogliere il momento opportuno per infiltrarmi sotto le coperte.
Pensare alle cose belle non bastava. Sapere che esistevano, da qualche parte, non poteva salvarmi dai miei tormenti. Avevo bisogno di raggiungerle e di farne il mio riparo e successivamente di trovare il modo di portarle sempre con me, di poterle evocare a comando. Mi creai degli alter ego e cominciai a cambiare la realtà in tutti i modi possibili. L’immaginazione aveva un’efficacia enorme, ma aveva bisogno dei suoi strumenti. Chiesi come regalo per quell’anno una macchina da scrivere, sicuro che non l’avrei avuta perché costava troppo. E invece a un certo punto, non ricordo bene quando, arrivò, verso i nove anni.
Per combattere la paura iniziai ad attaccarla scrivendo. Pensavo: scrivere mi salverà. E col passare del tempo le cose migliorarono. Sconfissi progressivamente tutti i miei visitatori. La più dura a morire fu la donna ossuta e spesso le pareti ripresero a grondare sangue. Ma avevo le mie cose belle a cui pensare e dovevo pensarci per forza perché dovevo scriverne.
La fantasia poteva spingermi oltre un abisso d’orrore o ergermi verso le mastodontiche bellezze concettuali che la vita offriva. Mostri e cose belle avevano la stessa matrice. Le prime forme di scrittura rappresentarono una solida gabbia, ma, di tutte queste fantasie, non riuscivo ad avere il controllo totale. Mi mossi nella vita alla ricerca delle fruste più adeguate per non soccombere schiacciato dai miei stessi mostri.
Ritrovarmi a vent’anni a viaggiare da solo con gli uomini azienda era come affrontare i miei incubi dell’infanzia. Loro erano i nuovi visitatori. Adesso andavano in giro di giorno ed ero io a raggiungerli. La fermata era la loro ed io me ne servivo, deridendoli di tutte le torture di un tempo. Sorridevano come se avessero ormai smesso da tempo di pensare. Erano contenti del loro tempo che avevano dato in affitto perenne, erano contenti delle loro vite che si erano consumate lentamente tra quattro mura nei grigi inverni a fare chissà cosa nell'esasperante alienazione di far arricchire qualcuno più furbo o più fortunato di loro. Ed io cavalcavo la strada con loro, sul pullman che avrei voluto bruciasse come in un rogo per tutto il tragitto.
Col passare dei giorni mi scoprii ad essere sempre più attento ai loro discorsi. Alle volte mi ritrovavo con un pugno sotto il mento e il gomito appoggiato sullo schienale davanti finché qualcosa nella mia mente non mi ammoniva:
- Che fai?
- Io... io... non lo so. Anzi sì, ma è incredibile: li sto studiando – gli esperti la definivano etologia umana. Perché mi comportavo da etologo?
Provai a darmi una risposta: gli uomini-azienda lavoravano a un centinaio di chilometri lontano da casa, erano grigi e categorici e non sapevano fare le battute. Tutto il loro mondo ruotava intorno a pochi, piccoli assi che per loro dovevano rappresentare risultati enormi di complicatissimi calcoli geometrici. La famiglia. Il lavoro. Gli hobbies. Erano mai stati bambini? Irrimediabilmente non ne avevano più alcun tratto. Profondevano banalità, era la loro teoria di vita e nella banalità marcivano perdendo quasi perfino le ultime sembianze umane.
Non avevano nulla di bello, neppure l’umiltà con cui stavano seduti o si voltavano a parlare tra di loro nel pullman. Perché non erano neppure rassegnati. Erano appagati. La cosa di cui discutevano con maggiore veemenza era una fantozziana gita aziendale per cui non stavano più nella pelle e tutti quanti avrebbero desiderato come regalo per il loro trecentocinquantesimo compleanno gli occhiali a raggi X per scoprire finalmente cosa si celava sotto le vesti dell’unica donna-azienda.
Io non li disprezzavo. Era gente perduta nelle sue fissazioni, non poteva essere liberata. E fisicamente non li temevo, non rappresentavano minacce di atroci sofferenze, come gli antichi visitatori notturni. Ma iniettavano una sottile paura tutta psicologica che non avevo mai provato prima di allora. Sembravano i portatori di un virus mentale che poteva infettare chiunque avesse abbassato la guardia. I compiti aziendali, l’organizzarsi per la puntualità, l’annullamento di qualsiasi divagazione estetica, l’ordine con cui erano sistemate le loro borsette da lavoro, mi apparvero come sintomi di una grave malattia incurabile. E io non volevo prenderla. Non avevo ingabbiato le paure dell’infanzia per diventare un uomo-azienda. Questo era certo. La vita aveva un retroscena più epico che questi uomini non dovevano aver colto. I miei occhi puntavano a quel retroscena.

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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte 7

Anche lo scienziato fu colto, nei suoi anni, dal male della scrittura. Più che altro scriveva poesie con acute enfasi drammatiche, a volte aveva tentato di abbozzare racconti, ma l’ispirazione lo coglieva a periodi e tutta d’un colpo. A lui non gliene fregava niente. Viveva così, la scrittura lo interessava in maniera incredibile per un periodo e poi finiva l’interesse. Ero certo che non aveva mai conservato i suoi manoscritti.
Io e questi ragazzi passammo insieme la fine dell’infanzia e l’intera adolescenza. Come si fa con i veri amici. Avevamo sempre dei progetti, ma insieme quasi non si riusciva ad organizzare una giornata al mare. Ognuno era anarchico a modo suo, ma tutti eravamo talmente anarchici che neppure tra noi anarchici riuscivamo a combinare qualcosa di concreto. Le situazioni in cui ci trovavamo erano sempre stupide, cadevano verso il non-sense. Una volta passammo tutto il tempo a ridere del fatto che mi piaceva una canzone di Sergio Caputo. Cioè loro ridevano e a me si scartavetravano le palle perché non capivo che cosa ci fosse di male in Sergio Caputo. Ma loro si divertivano troppo: Flamingo, flamingo! Io mettevo il muso e loro si stendevano sulle panchine, tenendosi le pance.
L’ideale artistico era una pura astrazione che mi sconvolgeva la mente. Credevo che loro avessero la mia stessa malattia. Continuavo a tirarlo fuori prevedendo l’eternità per tutti, pensando che fossimo un’avanguardia letteraria di poeti e scrittori adolescenti, esaltato dall’ideale della strada e dalle eccitanti depravazioni che potevano nascere a batterla. Avevo una meta confusa che mi inebriava. Sognavo di visitare con i miei amici letterati i posti più malfamati della terra e coglierne l’eterna poesia, di scolpire il ventre delle puttane sul vergine marmo del tempo, di ondeggiare ubriaco delirando visionari versi trafitti dai conati. Sognavo di osare, di sfidare il mondo e di trasformarmi in una notte di lacrime. Ma non riuscivo a farli partecipi di questa visione. Attraverso la mia insana ispirazione io volevo vivere e godere della vita, ma mi sembrava che loro preferissero starsene solo a guardare. Non capivo il perché. A me le esperienze non bastavano mai, invece loro una sola se la facevano durare per mesi. Non avevo mai sospettato che non fossero le persone giuste per inquadrare il mondo in una prospettiva che avremmo potuto consegnare ai posteri. Come avevano fatto i poeti maledetti e quelli della beat generation prima di noi.
Iniziai a sospettare di aver preso il più grande abbaglio della mia vita nel periodo in cui dovevamo scegliere l’università in cui avremmo proseguito gli studi. Ci stavamo informando sulla Sapienza. A Roma c’erano tutti i corsi che potevano interessarci, era una città internazionale, si poteva avere qualsiasi genere di esperienza e sembrava il posto ideale per chi avesse fame di vita e di poesia come credevo che ne avessimo noi. E come ne avevo io.
Eravamo seduti, nel buio di una strada che dava su una terrazza pubblica, sui larghi gradini che compensavano la differenza d’altezza tra due livelli stradali.
- Beh, allora? – chiesi, accendendo una sigaretta. Grazie al periodo al liceo avevamo capito finalmente che non era vero che la scuola non serviva a niente. Serviva a incontrare i veri amici.
- Mmm… - mugugnò lo scrittore piccolo piccolo – io penso che andrò a Milano a studiare ingegneria aerospaziale – a volte si comportava da futurista, ma quella volta avevamo davvero pensato che stesse scherzando. Il fatto è che lui scherzava raramente.
- Scusa, ma perché a Milano? – chiesi. Aveva già tirato fuori l’idea di quell’assurdo corso e avevamo controllato sul sito della Sapienza – C’è anche a Roma.
- No. A Roma non c’è quel corso.
- C’è. Abbiamo visto sul sito.
- Non c’è – alzò un dito. Scherzava raramente, ma le cazzate, quando le diceva, le diceva con convinzione – E comunque è meglio a Milano.
- Ma perché dovrebbe essere…
- Lo sai che poi ci mettiamo a fare casino, perdiamo tempo, restiamo indietro con gli esami – attaccò. Il problema non era Roma o Milano. Il problema era il casino. Aveva scelto la via della reclusione cosmica. Accettammo la sua decisione.
- Io invece non credo di voler continuare gli studi. Non penso di essere portato – il rosso problematico aveva sempre un problema quando dovevamo fare qualcosa. Anche lui, come lo scrittore piccolo piccolo, aveva iniziato a dare segni di cedimento diversi giorni prima, prendendo a piazzare in mezzo ai discorsi questo genere di frasi. Era un suo atteggiamento tipico, ma solitamente si deprimeva su altre questioni, su cose più importanti, che sulla scuola. L’amico dall’aria vagamente giapponese si guardò attorno. Capì che toccava a lui. Non gli sembrava vero. Aveva creduto forse di essere l’unico a tirarsi fuori dal nostro progetto. Lui lo faceva puntualmente. Era così pigro che sulle prime preferiva addirittura dire sì, per toglierci dalle palle.
- Mio padre ha detto che è meglio se studio a Bari così può seguirmi meglio – fu quello che parlò con più fermezza. E la scelta non l’aveva neanche fatta lui – Ha detto che mi conviene iscrivermi a biologia. Al liceo andavo bene a biologia e chimica.
Terminai la mia sigaretta. Pensai di replicare qualcosa. Poi richiusi la bocca. Poi pensai che qualcosa dovevo dirla. Non mi sembrava giusto aver avuto dei progetti insieme e poi vederli morire così, senza neppure dire una parola. Ma non sapevo cosa dire. Poi qualcosa mi venne, ma non mi sembrò convincente.
- A Roma c’è il lavoro, ci sono delle possibilità. Potremmo mantenerci da soli – guardavo l’amico dall’aria vagamente giapponese. Non mi sembrava possibile che pur di non doversi inventare qualcosa e darsi da fare, fossero disposti a rinnegare la fantastica anteprima della vita che era stata l’adolescenza. Mi misi in piedi – E pure voi, che cazzo? Posso insegnarvi a fare i camerieri, il lavoro si trova. Ne troviamo uno ciascuno, studiamo, sondiamo la vita vera e vediamo di continuare…
E vediamo di continuare che cosa?
Seduti con le teste chinate a fumare davanti ai miei occhi, guardando ognuno in una direzione diversa, non mi sembravano proprio le persone con cui avevo condiviso grandi momenti. Tutti i miei pensieri furono scavalcati di colpo da un'unica rivelatrice serie di domande: che cosa volevo, io, da loro? Che cosa gli stavo chiedendo? E perché avevo pensato che sarebbero stati quel tanto incoscienti da abbandonare i patetici legami che li trattenevano ai nostri apatici futuri, per vivere una vera avventura? Avevamo visioni diverse. Spesso lo dimenticavo. Le cose migliori non si potevano fare insieme. Ma a volte continuavo a credere che fosse possibile.
L’amico dall’aria vagamente giapponese pensò che ci ero rimasto male. Eravamo tutti d’accordo su Roma, prima che ne parlassimo coi nostri genitori. Io, i miei, non avevo neanche dovuto convincerli e non potevano neppure darmi molto.
- Lo sai che ci volevo venire – disse. Poi si succhiò l’ultimo tiro della sigaretta, stringendo gli occhi – ma non posso - scosse lentamente la testa, senza dire più niente. Io portai la mia tra le mani. Mi rimisi a sedere.
- Che cazzo vi devo dire? – già, non sapevo proprio che dire. E neppure davvero cosa fare. Ma in quel momento capii che il primo glorioso atto della nostra vita insieme, messo in scena dall’adolescenza, non era stato solo il primo, ma tutto quello che sarebbe restato. Era tutto molto triste. Nessuno si sentiva abbastanza importante da capire che non stava rovinando soltanto la sua vita, ma anche la mia. O forse non gliene fregava molto. Ma non stava a me neppure dirlo.
- Fai quello che ti senti – mi dissi – ubriacati se vuoi farlo, suicidati, fatti le tue stupide esperienze se sono così importanti, ma fallo con te stesso. Non coinvolgere mai più nessun altro. Questa è la fine che faranno sempre le tue aspettative. Ti sembra una fine degna? A me non sembra.
Fu in questo modo, per queste vicende e con questi sentimenti che nacque, nella primavera prima dell’università, L’opera. Lì fu canzonato l’ideale artistico e rovesciata la visione mistica della strada che, da fonte di sublime saggezza intrisa a follia, divenne scenario di allestimenti demenziali per le più scellerate avventure di cinque stupidi. Accanto alla mia rivincita sui matematici del verbo, L’opera chiarì finalmente che cosa era stata la mia adolescenza: il periodo in cui avevo creduto a portata di mano sogni inaccessibili che, da un lato, potevano sembrare pura poesia, ma, a ben guardare, non erano altro che i deliri di menti incapaci.
In quell’anno in cui l’avevo steso, non avevo fatto altro che perdere tempo con un libro che nessuno avrebbe potuto definire interessante e che non avrei mai potuto osare proporre per una pubblicazione. Lo misi da parte con tutti i riguardi che si hanno con le cose preziose ma inutili e iniziai a spingermi oltre. Perso o non perso quel tempo, non c’era alcun problema perché tanto, considerando tutte le indecisioni su cui cominciava a prendere forma la mia nuova vita, che mi portarono a cambiare tre corsi di studi in tre mesi, non avevo avuto nient’altro di meglio da fare.

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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte 6

La mia base operativa per lanciare segnali verso il mondo era uno stanzino minuscolo in cui era posizionato solamente un computer con il suo mobiletto, due o tre mensole per i cd e la sedia per mettersi di fronte al monitor. Le ginocchia andavano incastrate al meglio contro un ripiano che reggeva i fili necessari per il funzionamento della macchina.
Lo stanzino era mutato negli anni. Quando ero più piccolo, ai tempi della macchina da scrivere, era un vero e proprio ripostiglio contenente due scaffali pieni di roba incellofanata e riposta dentro i cartoni. C’era lo spazio a malapena per entrarci e, per aprire la finestra dagli infissi rossi, bisognava spingere in dentro un cartone con tutte le proprie forze. Dal momento che era la stanza meno frequentata della casa, decisi che sarebbe diventata la mia.
Quando la conquistai, per prima cosa scoprii il modo per aprire la finestra. Poi ci posizionai di fianco uno sgabello e disegnai con un pennarello rosso una serie di pulsanti sul cartone di fronte. Conteneva una batteria di pentole mai utilizzate. E infine lo bucai con il jack di un gran paio di cuffie rotte con microfono annesso che mio padre mi aveva regalato. Lo stanzino divenne la mia stazione radio ed io ci passavo i pomeriggi pensando che le cazzate che dicevo potesse ascoltarle tutto il mondo. Era facile. Ogni volta che mi serviva un nuovo canale, lo disegnavo col pennarello rosso e diventava immediatamente operativo. A volte gli ascoltatori mi chiamavano in diretta lamentando di non prendere al meglio il segnale e di non sentire bene la radio. Io fingevo di girare alcune manopole. Adesso sentivano bene.
In quella stanza avevo letto il mio primo libro: Il mago di Oz. Mi sedevo a terra con la schiena appoggiata alla porta senza permettere intrusioni. Ero praticamente in una botte di ferro. Ogni tanto mia madre spingeva la porta e mi faceva scivolare col culo sul pavimento chiudendomi nell'angolo tra il legno e il muro. Mi guardava, mi chiedeva che cosa stessi facendo, si faceva passare un oggetto dallo scaffale e andava via scuotendo la testa.
In un secondo momento la vecchia radio fu smantellata per fare posto al computer. E io tornai accanto alla finestra rossa, seduto sullo stesso sgabello, a scrivere la trama di Una di quelle notti, seguendo uno schema a diagramma di flusso che avevo steso per ricordarmi come proseguire la storia, e, nello stesso stanzino, seguii tediosamente il vagheggiare sfinito dei ricordi che mi avevano permesso di comporre sbadigliando il mio capolavoro di non stile: Schizzando nel vento.
Nel nuovo testo che presi la fissa di scrivere, diedi una spaventosa svolta: abbandonai le storie metafisiche e qualsiasi forma di stile e, con la trovata geniale di far scrivere il libro direttamente a cinque amici analfabeti come fosse un loro diario, regredii la mia scrittura ai tempi dell’infanzia e stesi una bozza contenente un miliardo di errori grammaticali. Decisi che era perfetta. Nessuno aveva mai scritto niente del genere. Io non volevo scrivere cose banali. Le cose coincidevano. E mi presi la rivincita su tutti i professori che avevano corretto i miei temi di italiano e su tutti i tratti rossi che le correzioni avevano comportato. Parti fuori traccia, ammonizioni del genere: e la punteggiatura?!?, refusi, errori di sintassi, sviste su lettere grandi, consecutio temporum e tutto il resto, non avevano alcun effetto sul mio testo. E io me la ridevo e in aggiunta alla beffa che mi facevo della matematica del verbo, intitolai il mio testo: L’opera. Dentro c’eravamo io e i miei amici: lo scrittore piccolo piccolo, il ragazzo rosso problematico, l’amico dall’aria vagamente giapponese e lo scienziato.
Lo scrittore piccolo piccolo l’avevo conosciuto a scuola durante il primo anno di liceo. Frequentava la mia stessa classe, era figlio di una buona famiglia, ma si presentava sempre in maniera dimessa. Di tutti noi fu forse l’unico ad avere per tutti i cinque anni lo stesso, bruttissimo e sottilissimo zaino. Era una persona eccezionale: timida, impacciata, follemente logica e astrattamente pratica. Nonostante il modo farfugliante e nasale in cui si esprimeva a voce e la presenza non proprio energica del fisico, il primo anno divenne rappresentante di classe e si conquistò il ruolo di nostro leader esecutivo. Verso la metà dell’anno scoprii che scriveva anche. Scriveva cose piccole piccole come lui, bozze di storie, mezze pagine di fenomenali idee che non sviluppava mai, con uno stile composto di ascensioni verso la perfezione assoluta e cadute rovinose per mezzo dei più rudimentali errori di scrittura. Lo amavo.
Il ragazzo rosso problematico invece lo conoscevo già fin dalla scuola media. Il secondo anno, finendo seduti vicino per caso, iniziammo a parlare di storie horror. Per farmi bello dissi che leggevo Dylan Dog da una vita e lui affermò la stessa cosa. Ma né io né lui l’avevamo mai letto e ci inventammo un sacco di cazzate. Per dar credito alle nostre bugie, ci venne la stessa idea di comprarlo e leggerlo per davvero. Io non ci dormii una notte per la paura. La sfida si protrasse albo dopo albo fino a che non cominciammo ad allargarla alla letteratura e alla poesia. E alla fine passò dalle cose lette alle cose scritte. Io scrivevo le mie cazzate su un quaderno ad anelli con la copertina bordata di rosso e lui le stendeva su una agenda dalla copertina verde scuro. Se ricordo bene. Se non era verde scuro la copertina, era verde l’inchiostro della penna con cui le scriveva. I suoi testi erano eccezionali. Divenne il mio modello letterario e il mio poeta preferito. E la mia fortuna era che ce l’avevo vivo, accanto a me, non come Edgar Lee Masters che era già morto senza avvisarmi.
L’amico dall’aria vagamente giapponese sedette accanto a me nei cinque anni di liceo. Era il tipo più pigro che avessi mai conosciuto. Pesava circa un quintale e aveva elaborato tutte le teorie più raffinate per poter compiere il maggior numero di cose con il minimo degli sforzi. Di tutti noi fu l’unico ad essere talmente pigro da non provare mai neppure a stendere una riga scritta. Aveva un diario, ma spesso non ci scriveva neanche i compiti. Non gli andava. Preferiva ricordarseli a memoria. Non avrebbe mai scritto niente nella sua vita, se non fosse stato strettamente necessario, come nel caso dei temi, in cui sprecava il minor numero possibile di parole diluite in una calligrafia strascicata così tanto che nello spazio in cui lui scriveva ‘ed’ un altro qualsiasi mortale avrebbe potuto inserire la parola precipitevolissimevolmente. Nonostante la pigrizia e la mole, riuscii a stanarlo da casa nei primi anni del liceo e con lui feci le mie prime uscite serali in villa nei giorni settimanali, passate a parlare della distruzione della cultura indiana da parte degli Europei, di comunismo, dell’inesistenza di dio, di problematiche scolastiche e della fica.
Lo scienziato infine lo conoscevo dalla scuola elementare. Insieme facemmo anche la scuola media e iniziammo il liceo, finché, il terzo anno, lui non fu bocciato e le nostre carriere scolastiche si separarono. Il giorno in cui lo conobbi mi apparve come un bambino abbastanza strano e alto, apparentemente intelligente. Mi venne incontro chiedendomi se volessi entrare nella sua banda. Mi ispirava fiducia, gli dissi di sì. Alla ricreazione cinque o sei bambini si alzarono minacciosi dai loro banchi e si diressero verso di noi. Osservai il mio nuovo amico andare loro incontro e lo seguii. Man mano che procedevo, i componenti della banda avversaria salivano di numero. Due arrivarono da un lato, due da un altro a rinfoltire il già massiccio dispiegamento di forze sul campo. Mi venne un sospetto.
 Scusa, ma nella nostra banda quanti siamo?
 Siamo tu e io.
Osservò in avanti come non ci fosse nulla di cui preoccuparsi. Ma io, non so perché, mi preoccupavo lo stesso.

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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte 5

Vedi vedi vedi i grandi Scrittori. Loro sono dei. Vedi quelli che hanno avuto successo, quelli che hanno scosso l'opinione pubblica facendo convergere milioni e milioni di consensi/dissensi/critiche ed elogi sui propri testi. Vedi quelli che hanno fatto parlare di sé. Vedi quello che dicono, lascia stare quello che sono stati. Vedi come lo dicono. Vedi? Lo fanno ssssenza alcun dubbio in modo mmmmolto diverso da te. Qualunque cosa dicano o, meglio, scrivano. È così perché sennò non sarebbero definiti Scrittori. Tu invece, che cosa avresti dello Scrittore?
Fermo di fronte alla vetrina di una libreria nel centro commerciale dove eravamo, me ne stavo a dirmi queste terribili cose mentre osservavo le copertine dei libri in versione cartonata che quell'anno si erano aggiudicati il posto in prima fila. Dei grandi Scrittori di successo. E io non c'ero. Qualcuno si era dimenticato di far pubblicare i miei testi.
Avevo diciannove anni e stavo scrivendo il mio terzo libro. Di quelli grossi, voglio dire. La vetrina esponeva cinque libri con copertine bianche e lucide, splendide immagini sotto i grandi titoli a caratteri dorati con tanto di svolazzi di lettere. C'era il solito testo della saga sull'Egitto largo quanto un mattone, il solito giallo con le strisciate di sangue e un titolo di una banalità sconcertante, un’imitazione malriuscita del Libro Cuore che prometteva buonismo a profusione e altre cose simili.
Ognuno degli Scrittori aveva la sua fissa, per modo di dire. Composta dalle sue paranoie, da uno stile rigido e poco incline all'evoluzione, da una sequenza di personaggi squisitamente non interessanti e dal senso dell'ironia pari a zero. Tutto questo era stato definito da alcune grandi menti: genere letterario. Una cosa che io non conoscevo. Mi guardai indietro cercando nella mia storia qualcosa che potesse rappresentarsi come una mia caratteristica: una passione particolare per un certo tipo di storie oppure per una specifica civiltà del passato o del presente, un qualche oggetto di cui non avrei saputo fare a meno, una preferenza sul cibo o almeno un colore che mi piacesse di più degli altri. Non c'era niente. Nessuna passione era riuscita a coinvolgermi per più di qualche anno. Le mie costanti erano il cambiamento, l'evoluzione, il progredire e lo sperimentare. Roba che non faceva un genere e con cui non si poteva neppure stendere un piccolo racconto.
Ripensai a Ladisa e a quello che mi aveva detto nella sua stanza - Qui vedo scritto cazzo.
Adesso cominciavo a vederlo scritto anch'io.
Gli Scrittori avevano qualcosa che io non avevo e quel qualcosa era la capacità di interessare un pubblico. Di fare in modo che un lettore si aspettasse qualcosa dai loro scritti. E riuscivano anche ad appagare questi desideri della gente. Come? Non lo sapevo.
Tutti e cinque i testi dinanzi ai miei occhi sarebbero stati dimenticati da lì a qualche anno perché erano dei libri di merda in grado solo di stimolare una momentanea curiosità, perché rappresentavano la moda del momento. Ma sghignazzavano in vetta alle classifiche come se in quei mesi fossero ciò che di più interessante la letteratura fosse stata in grado di partorire dopo i lunghi travagli mentali degli autori. Qualcuno ci stava prendendo per il culo. Come facevano gli editori a non rendersene conto? E se lo sapevano, perché avevano accettato di produrre libri che non sarebbero rimasti alla storia e che sarebbero stati presto dimenticati?
Le vetrine di tutti i negozi di libri erano ormai deprimenti. Per trovare qualcosa di interessante bisognava sfossare un fantasy horror di Lovecraft, Howard o Hodgson o riuscire a beccare una porno opera di Milo Manara. Oppure un libro di poesie dell’ottocento. Sui lunghi banconi dei centri commerciali erano riversate centinaia di copie del bestseller del momento e decine di ridicoli testi di personaggi famosi che non si era mai sentito che scrivessero. Comici che non facevano ridere neppure dal vivo, vip sfornati da pochi mesi dai programmi televisivi che raccontavano se amavano o meno lo stecchino nelle braciole, ex conduttori ormai scomparsi dallo schermo che venivano inoltre invitati nei programmi, annunciati da un – È da poco uscito ed è disponibile nelle migliori librerie il suo terzo libro.
Terzo libro? La conduttrice del più fesso programma a premi della storia della televisione? E cosa mai aveva avuto da scrivere, in questi tre libri? Naturalmente era esposto anche dietro la vetrina di fronte alla quale ero. Era il terzo libro. Ormai, come scrittrice, l'ex conduttrice era affermata. Si sarebbero soffermati nel dubbio su come definirla nella sua biografia, quando sarebbe crepata.
Entrai e raccolsi il volume, lo aprii e scoprii con grande incredulità che le righe erano state così tirate da riuscire a stemperarle per uno spessore di pagine di un centimetro. E quindi - Essere una mamma non è stato facile per me. Dover conciliare il lavoro con la passione per i miei figli è stato un grande sacrificio. Sono sempre stata una donna forte e combattiva. Ma la famiglia è la cosa a cui tengo di più.
Cazzo, lo sforzo letterario!
Andai alla quarta di copertina e lessi - Una donna di successo racconta la sua fragilità e l'intimità della sua vita privata -, commento della più venduta testata giornalistica del Paese. Uno scoop.
Anni di letteratura mi si cancellavano nella testa leggendo quelle righe diluite fino a presentare caratteri cubitali. Sembravano volermi dire – HAI CAPITO?
Sì, sì, avevo capito. Gettai il libro al suo posto.
Proseguii all'interno del labirinto di scaffali e banconi osservando i tristi testi che non sapevano come meglio posizionarsi per destare un minimo di interesse. A parte la zona dorata dei bestseller, come nella ripartizione economica del pianeta, gli altri banconi sembravano rappresentare la restante fetta del panorama umano: il terzo mondo.
Si affacciavano a chiedere pietà i libri ultrabuonisti delle piccole case editrici con copertine che stimolavano grande compassione e con tentativi di frasi ad effetto come slogan che radevano al suolo ogni curiosità letteraria. Alcune contenevano persino errori grammaticali che neppure io avrei fatto. Passai oltre. Su un grande scaffale in legno, decine di titoli promettevano importanti risposte sul futuro, su come diventare manager, su come programmare il proprio successo, su come farsi regalare un macchinone e un attico con poche fellatio ben direzionate. Andai avanti.
Ma la letteratura dov'era finita? Dopo lunghi esami e diverse simulazioni molto ben elaborate, tanto da quasi convincermi che non ci fosse più, la trovai. Era disposta su un grande bancone in cui da Verga a Edgar Allan Poe, passando per Svevo e Lewis Carroll, tutto veniva svenduto per la modica cifra di poche migliaia di lire. Trovai un testo di Melville che costava meno di tutti. Meno del libro del comico che non faceva ridere, meno del libro del vip diventato famoso in pochi mesi per le sue cazzate in televisione, meno del libro della ex conduttrice che aveva riscoperto a settant'anni l'istinto materno, meno del testo buonista sulle tragedie famigliari di una tristezza unica e meno del manuale su come fare pompini nelle aziende. Si chiamava Moby Dick. Che cazzo era uscito fuori dalla mente di quell’uomo! Comprai quello.

*

Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte 4

Il problema dunque era che io non ero Bukowski e questa non era l'America, ma a me andava bene lo stesso. Avevo le mie strade assolate che finivano chissà dove, qualsiasi posto faceva parte del mondo e la magia esisteva dovunque. Io ero l’esteta. Dovevo coglierla e stenderla con mani gentili su fogli di carta. Ero nato per questo. Il problema non era la sensibilità, ma la gentilezza. Non mi sentivo gentile. A volte lo ero controvoglia. Spesso mi facevo pena per questo e finivo per prendermi per il culo e per ridermi addosso.
Riuscii a riprendere dopo un anno e mezzo il secondo libro. Si chiamava Schizzando nel vento. Era un tentativo di razos. Non mi ero impegnato molto, anche se avevo cercato di fare il bravo. I risultati sembrarono esserci quando rilessi per la prima volta il testo dall’inizio fino al punto in cui l’avevo lasciato. Era una storia. Una specie di storia d’amore. Il mio estremo tentativo di celebrare i complessi adolescenziali di un innamorato. Un po’ come I dolori del giovane Werther, ma mi era mancata la spinta al suicidio.
Con noia estrema, ricollegai tutte le pagine con quelle da poco vergate e mi rilessi il testo dall'inizio alla fine. Come secondo libro mi parve buono e non mi sembrò che ci fosse persino nulla da modificare, come spesso succede a chi è convinto di essere un grande scrittore in quanto tale. Andai ad ubriacarmi e dimenticai tutto dopo aver cercato di parlare della cosa ai miei amici e dopo aver ricavato una scarsità di interesse e una voglia di sviare senza eguali. Soltanto uno, lo scrittore piccolo piccolo, decise di leggerlo e mi garantì che sarebbe potuto tranquillamente divenire un bestseller. Era fissato con il continuo successo di Stephen King. Per lui scrivere significava avere metodo: svegliarsi puntuali tutte le mattine e piazzarsi alla scrivania con la macchina da scrivere posta di fronte ad una finestra che dava su un cortile ordinato e stendere righe per tre ore la mattina e per tre ore il pomeriggio. Lui sognava di poter scrivere così. Nell’inconscio dovevo sognarlo anch’io, che scrivere potesse essere una cosa ordinata, fatta per elaborare un prodotto da poter vendere. La cosa così si faceva semplice e a suo modo accettabile. Invece io impazzivo con le parole, mi arrotolavo nella consecutio, cazzeggiavo con i condizionali e sbagliavo le scene con un ché di drammatico. Avrei voluto studiare, ma mi sembrava di non avere tempo per quello. Per di più mi annoiava e così apprendevo quello che potevo e non mi curavo della forma. La forma mi ingentiliva e io mi sentivo stupido. La questione era irrisolvibile. Tanto valeva lasciarla tale.
Quando decisi che le acque sembrassero buone per navigare sul natante del secondo libro, lo lanciai in mare.
Bari, Ladisa editore, toccata e fuga, contatto avvenuto per mezzo di un professore d'italiano della ragazza che amavo troppo assai. Mi presentai lì come mi vestivo tutti i giorni: con le scarpe rotte. Fummo accolti in una piccola stanza in cui c'erano libri gettati dappertutto, manoscritti, fogli svolazzanti, un ventilatore spento e pile di libri ancora. A terra, sulle scrivanie, sul davanzale dell'unica finestra dalle serrande di legno verdi con la vernice crepata dal sole. Al centro della stanza, l’uomo dagli occhiali da lettura scivolati fin sulla punta del naso mi osservava, con in mano l'ennesimo libro. Parlava e leggeva, leggeva e parlava. Non aveva tempo per staccarsi dalla lettura. Era un quasi vecchio.
Pensai: questo è il mio editore, quest'uomo è colui che crederà in me, che leggerà il mio testo e che annuirà per tutto il tempo, innamorandosi di quelle parole. Tirai fuori il manoscritto. Mi chiese se fosse una storia autobiografica ma non mi lasciò il tempo per rispondere. Mi strappò il manoscritto di mano e prese a leggerlo voracemente, cercando di assimilare l’intero testo in un lasso di tempo improponibile, scorrendo come un raggio laser gli occhi sulle parole, sulle righe, sulle pagine. Pareva che volesse valutarlo in quello stesso istante. Annuiva per tutto il tempo, diceva - Sì, sì -, nel frattempo parlava di tante cose, ma io guardavo i suoi occhi. Era il mio editore.
A un certo punto si fermò. Staccò gli occhi dal libro e mi fulminò e poi fulminò il libro e poi di nuovo me. Io fulminai la ragazza che amavo troppo assai che fulminò il professore che rifulminò lui.
- Qui vedo scritto... - si aggiustò gli occhiali da lettura, si allontanò dal testo – 'cazzo'.
Interessante, pensai: vedeva scritto cazzo.
Scrollò il capo in maniera abbastanza grave. Disse qualcosa del genere – Vabbe’, adesso vediamo – e farfugliamenti vari. Gettò il manoscritto a caso su una delle infinite pile di libri. Riprese a parlare, ma non si capiva con chi. Io spensi il cervello, tutto divenne nero, soltanto un piccolo cazzettino si ingigantiva lentamente contornato da un buio impenetrabile. L’uomo al centro della stanza ci allungò un piccolo libro, l’ultimo che aveva pubblicato la casa editrice. Qualcuno lo raccolse. Prese a parlarne, ma non riuscivo ad interessarmi.
Andammo via nella Uno del professore. I suoi capelli svolazzavano lungo la tangenziale a duemila corsie percorsa da centinaia di auto che ci superavano da ogni lato. Ogni tanto lo guardavo con la coda dell’occhio e poi, dallo specchietto retrovisore, coglievo il viso felice della ragazza che amavo troppo assai. Aveva fatto qualcosa per me e me ne aveva reso grazia con grande umiltà e partecipazione. Nei loro occhi colti di sfuggita io cercavo soltanto la risposta ad una furiosa domanda che non smetteva di riproporsi alla mente: ma chi cazzo era quello?
Presi a sfogliare il testo che ci era stato regalato. Era la storia di una ragazza albanese con difficoltà ad integrarsi in una cittadina del sud Italia. Io avevo difficoltà a trattenere i conati nel leggerlo. O era il libro o era che il professore si sbilanciava troppo nelle curve. Sentivo distanze innominabili stendersi tra quello che avevo scritto io e quello che Ladisa editore reputava degno di pubblicazione. Gettai il libro da una parte e me ne stetti in silenzio per tutto il resto del viaggio.
Mesi dopo, il quasi vecchio mi richiamò dicendo che il testo andava completamente rivisto. Mi colse male: non ne avevo voglia. Non mi andava di perdere il mio tempo, la cosa di questi esperti di letteratura mi sembrava tutta una gran cazzata, preferivo di gran lunga starmene a girovagare sulla mia moto, immerso nel sole del sud. Pensai: mmm e decisi di non pensarci più.
Tempo dopo il professore mi mandò a chiedere se avessi cominciato a correggere il testo. Gli dissi che non sarei mai arrivato ai livelli della storia della ragazza albanese e che quindi non valeva la pena. Mi beccai tutte le sue sacrosante bestemmie, ma la realtà era che Ladisa non avrebbe scommesso un centesimo sul mio testo, soltanto cercava forse di onorare l'amicizia che aveva con il professore prestandomi attenzione e il mio silenzio non fece che toglierlo dall'imbarazzo. Certamente si fece grasse risate a sapere di essersi liberato di me e del mio manoscritto e tornò ai suoi testi seri concernenti impegnatissimi casi sociali. Dove non vedeva scritto cazzo, per intenderci.
Neanche un anno dopo, esplose la moda della allucinante finta poesia delle storie d'amore tra ragazzi. Patimenti adolescenziali, scritte sui muri, finta ribellione al mondo degli adulti e cazzate del genere. Per un periodo maturai l'insano sospetto che, chissà con quale trucchetto telepatico, qualcuno di quegli stronzi doveva avermi fregato l'idea perché alcune scene dei testi di cui sentivo parlare erano quasi identiche a quelle del mio. Poi mi diedi pace. Gli stronzi avevano fatto il boom e i soldi ed io continuavo a girovagare sulla mia moto nel torrido sole del sud. Non avevo bisogno di nient’altro.


*

Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte 3

Continuavano ad intervistarmi


Il futuro da scrittore incoerente, questa era la cosa certa di un'intera adolescenza. O il passato da scrittore adolescente. Incoerente. Significati che si logoravano nei mesi, negli anni. Ero partito dal dirompente credere di non credere a niente e quello era stato buono per il primo libro, ma poi?
È possibile, mi chiedevo, uno scrittore che alla fine non ha nulla proprio da dire al mondo e che può discorrere con una tastiera per ore ed ore senza in realtà sapere dove voglia arrivare con le proprie righe? Che genere di poetica può essere mai questa?
Boh, mi rispondevo, che cazzo ne so? Non rientrava nelle mie facoltà, farmi le domande e darmi le risposte. Troppi compiti. Fatemi le domande, pensavo, e vi darò le risposte, non posso fare tutto io. Ma le domande non le faceva nessuno.
 Lei che genere di autore si definisce?
 Io non lo so.
 I suoi libri quale messaggio vogliono diffondere?
 I miei libri no. Non lo so.
 Lo vuole il premio Nobel per la letteratura?
 I premi no, grazie. Sono molto contrario a tutto.
Mi facevo le interviste mentali e poi le cancellavo di colpo, sentendomi stupido.
 Ma, scusi, perché scrive?
Ah, basta, che cazzo! Però, in qualità di pensatore molto educato, mi veniva da rispondere lo stesso.
- Perché scrivo? Certe volte credo che sia solamente un vuoto narcisismo, il tentativo di creare una specie di mondo protetto tra te e te in cui puoi vendicarti di tutte le strane cose che subisci nella vita ed a cui non sai opporti. Sono un deficiente costellato di deficienze che crede di poter deficientemente sopperire alle proprie deficienze di uomo con le proprie deficienze di scrittore – e nel video dell'intervista mi accendevo una sigaretta.
Prendevo a camminare più veloce, cercando di seminare i miei avvilenti pensieri.
- Abbiamo saputo che in questa fase del suo percorso artistico si occuperà di completare il suo secondo testo, quello su un amore adolescenziale.
Niente. Le stupide domande erano tremende, ma non c'era modo di liberarsene. Neanche dare stupide risposte poteva avere effetto.
 Ma voi queste informazioni dove le prendete?
Ritornavo al secondo testo. Lo leggevo. Pensavo: è una buona storia. È scritta bene. Deve valere qualcosa. Ma davvero mi saltavano i nervi ogni volta che ne rileggessi parte, nel vano tentativo di proseguire. Mi chiedevo spesso come avevo potuto anche solo vagamente pensare, solo due secondi prima, che è una buona storia, è scritta bene, deve valere qualcosa.
C’era un problema che non ero mai riuscito ad affrontare. A dire la verità i problemi erano diversi, ma uno era quello su cui si potevano perdere le nottate: io, questa cosa dello scrittore, davvero non la volevo. Dovreste credermi. L’essere logorroici nello scrivere trasborda nell’essere logorroici quando si parla. È una cosa di cui non ti liberi. Riuscire ad essere sintetico con le parole non mi soddisfaceva mai. C’era sempre un modo migliore in cui le cose avrebbero potuto essere dette e su quello si incartava il mio cervello nei giovani anni. A me alla fine che me ne fregava? Tutti parlavano a cazzo, inventare storie era una cosa inutile e stare a convincere gli altri a leggerle, o almeno a sentirle, era davvero deprimente.
Però spesso mi tiravano fuori il fatto che queste cose fossero delle qualità. Io sospiravo e andavo avanti. Tutti questi spaccamenti di palle sono delle qualità, cercavo di convincermi. E mi dedicavo a quelle assurdità. Bevevo una birra da sessantasei centilitri e mi veniva l’ispirazione. Mettevo su la musica e scrivevo. A che cosa serviva? Non lo sapevamo né io, né le pagine e neppure chi credeva che ci fossero delle qualità.
- Le nostre informazioni sono strettamente riservate. Ci parli del libro e del suo lavoro di scrittore.
- Voglio tutto, bella – l’intervistatrice era sempre femmina. Mi piaceva l’idea, infondevo gran fascino – La realtà non mi basta. Questo è un tavolo? Non mi basta? Questa è una sigaretta? Non mi basta. Ne voglio un’altra subito dopo. Scriverne è un palliativo degno dell’originale. È fantastico. Quando scrivi sei dio che martella la mente degli uomini per punirli ed educarli. Devono comportarsi bene e tu lo sai che devono farlo. Se scrivi lo faranno. Non possono fare altrimenti. E tu devi inchinarti docilmente.
L’intervistatrice sembrava non capire. Ma io volevo zittirla per sempre.
- Il vero scrittore è in realtà un anarchico di natura. È inutile fingere. Ha un rapporto diretto con l’immortalità. Ha rinnegato gli dei, è come il diavolo, ha sbirciato da fessure da cui era meglio stare lontani e come un bambino dispettoso porta il mondo a conoscenza di quello che ha visto. Siete liberi di credergli o meno. Tanto lui ha visto e per questo possiede l’essenza. Ma è così stupido che non sa che farsene. Per questo la mostra a chiunque.




*

Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte 2

Una di quelle notti


Io mi sentivo il più grande scrittore vivente. Ma gli addetti ai lavori non potevano saperlo.
Il mondo dell'editoria, Jack London lo definiva il meccanismo. Diceva che era inaccessibile, qualunque scritto di qualunque livello gli si mandasse contro per scalfirlo. Ciò che poteva indebolirlo era la tenacia, costante, nel tempo. Colpire sempre nello stesso punto, ad oltranza. La tenacia non era per me. Io mi scocciavo come niente. Al primo sentore che le cose potessero farsi difficili, mi affascinava troppo l’idea di rinunciare. Non sapevo come avessero fatto tutti quegli uomini un tempo ad avere la pazienza di progettare enormi edifici e portare avanti fino in fondo il loro compito. Per me era una cosa da pazzi. Vivere doveva essere una cosa molto più semplice, ma nessuno lo sapeva.
Non lo sapeva neppure la Baldini&Castoldi che aveva da poco pubblicato il bestseller Jack Frusciante è uscito dal gruppo di uno scrittore di ventuno anni definendolo uno scrittore giovanissimo. Io avevo sedici anni e avevo steso una storia migliore della sua. Ma faceva per davvero schifo il modo in cui era scritta. Io ero l’enfant prodige, ma potevo, a una svista, passare per un semplice poppante. Esprimevo concetti geniali con un idioma incomprensibile che sembrava non voler dire nulla. Ci voleva un’enorme pazienza con me. Ma non ce l’avevo neanch’io. Inviai loro il mio primo testo. Finii nelle spire di un intellettualissimo concorso letterario senza neanche accorgermene. Pensavo che la giovane età mi avesse reso l’inaspettata grazia.
La vita andava così, ma io non me ne curavo. L’ossessione della pubblicazione era ancora agli albori, i giri immensi che andavano praticati prima di essere presi almeno in falsa considerazione non potevo conoscerli. Per questo non mi accanivo. Per Una di quelle notti avevo contattato quella sola casa editrice. L’insindacabile giudizio sulle mie capacità l’avevo affidato a lei, convinto che mi avrebbe riconosciuto per quello che sentivo di essere. Il contatto con questa gente fu un vero caso. Il giorno che chiamai la Mondadori e mi dissero che non accettavano nuove proposte, pensai che in Italia non fosse più possibile pubblicare libri. Scesi da casa e decisi di farmi una passeggiata per rimuginarci su e vedere il da farsi. Finii fermo a pensare davanti a un'edicola e, sovrappensiero, colsi il nuovo capolavoro di Brizzi. A lui la sua storia di amore adolescenziale l'avevano pubblicata. Entrai nell'edicola e raccolsi il libro. Andai dritto all'ultima pagina: Baldini&Castoldi, via Crocefisso 21, Milano.
Mi fiondai a casa a chiamare il centralino.
- Pronto? Volevo il numero della Baldini&Castoldi. Sì, è una casa editrice – cominciai a vergognarmi come se potessero vedermi attraverso il filo. Attesi in linea e mi fornirono il numero. Balbettai un saluto e chiamai la casa editrice con la stessa segretezza di quando si sta commettendo un reato.
- Pronto? Sì, no, è che ho scritto un libro e volevo farlo vedere... se era possibile.
- Per il concorso Linus?
- Come? Ma è la Baldini? - avevo già avuto problemi con un paio di Mondadori prima di beccare quello giusto.
- Sì, sì. Lei come si chiama?
Comunicai il mio nome.
- Data di nascita?
Comunicai la data bisbigliando. Al terzo – Come? - decisi di alzare un po' la voce, fino a farla diventare almeno percettibile.
- Ah, sei giovanissimo – te ne sei accorta, eh? Come minimo sei laureata – Come si chiama il libro?
Il titolo era un problema. Aspettai fino all'ultimo secondo nella speranza che mi venisse in mente un'idea in extremis. Non mi venne niente.
- Una di quelle notti – brontolai.
- Allora lo inserisco nel concorso Linus – io di Linus ne conoscevo due, ma mi sembrò di intuire che non si riferisse a loro. Pensai - Guarda, se sei bella, puoi comodamente inserirlo dove vuoi – e le dissi ok soffermandomi a pensare se non fossi risultato stupido ad usare l'anglicismo. Fu così che entrai nel labirinto del concorso.
A quell'epoca conoscevo solo la Mondadori, la Fabbri editore, la DeAgostini e qualche altra casa editrice che sentivo nominare in Tv e credevo che queste fossero case editrici e che lavorassero per proposte che venivano valutate. Non sapevo che quelle erano case editrici da edicola, pubblicavano solo bestseller o testi classici e collezioni per adornare le librerie esposte ai visitatori. Le vere sfide letterarie si svolgevano da qualche altra parte, ma non potevo sapere dove. Le grandi case editrici intervenivano a cose fatte, mettevano il marchio, invadevano le librerie e incassavano a colpo sicuro. Oriana Fallaci poteva alzarsi la mattina, scrivere una cazzata come distribuire rimasugli di merda sulla carta igienica e tornare alla sua catalessi. Intorno a lei tutto si sarebbe mosso al meglio per rimarcare la sua investitura di grande scrittrice. Tutti erano felici così. E per me non c’era neanche la possibilità di accennare a quello che avevo scritto.
Nei mesi successivi all'invio del libro cominciai a convincermi che il mio sogno di esplodere nel cielo letterario stesse per farsi reale. Non come quando a dodici anni ero convinto che sarei diventato un calciatore. Una grande casa editrice aveva il mio libro. Era fatta. Adesso dovevo solo scrivere, scrivere, scrivere. Calcolando i sei mesi che sarebbero passati, mi venne la convinzione che a giugno di quell'anno il testo sarebbe stato pubblicato, conquistando il posto nella storia che avevo sempre sognato. Un mio amico, anche lui scrittore, un tipo piccolo piccolo, in fatto di pubblicazioni ne sapeva parecchio. Mi aveva raccontato che quando le case editrici scoprivano uno scrittore, mandavano degli uomini in giacca, cravatta e occhiali da sole a prelevarlo dovunque fosse, per portarlo nei loro uffici segreti a firmare un contratto e a revisionare con loro il testo prima di pubblicarlo. Lui diceva che non venisse avvisata neppure la famiglia.
Io mi sentivo pronto a scomparire. Scomparire era la mia vocazione. Presi a scrutare la porta della nostra classe ogni volta che qualcosa andava storto durante la giornata a scuola e quando qualcuno di inaspettato bussava, in coincidenza con i miei malumori, speravo sempre che fossero gli uomini con gli occhiali da sole che venissero a prendermi. I mesi passavano senza che si facessero vedere, ma forse non riuscivano a scovarmi. Cominciai allora a soffermarmi sulla cassetta della posta ogni giorno al rientro da scuola. La guardavo e sì, ma non c'era niente. Eppure il mio indirizzo ce l'avevano, era proprio necessario cogliermi di sorpresa quando potevano semplicemente comunicarmi che il libro era piaciuto?
La verità era così chiara da apparire assolutamente inaccettabile e più assurda dei racconti del mio amico: si erano fatti delle risate antologiche a leggere il modo osceno in cui Una di quelle notti era steso. Quando li chiamai mi sembrò che dall'altra parte della cornetta la ragazza continuasse a soffocare le risa. Magari il testo faceva così ridere che l'avevano fatto leggere a tutti nella redazione. Doveva essere diventato il fesso nel villaggio dei libri. Mi dissero che era stato scartato. Ma almeno sembrava avessero avuto lo stomaco di leggerlo per intero.

*

Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte 1

Se mi fossi finalmente deciso a vivere come Bukowski, tutto sarebbe stato più semplice. Niente sbattimenti, vino, donne e porcherie varie. Ma non tutti hanno il coraggio di armarsi nella vita solo della semplicità e io ero io e questo era un gran problema.
Il 999 fu un anno astratto. Iniziava la fine millennio e sembrava la fine e l’inizio di tutto: il liceo si rigirava lentamente nel torpore dei suoi ultimi anni, la ragazza che amavo troppo assai era ormai persa per sempre, Una di quelle notti, il primo libro, che avevo iniziato a scrivere a sedici anni, era steso troppo a cazzo, ma srotolava la storia più bella di cui avessi mai sentito parlare. Avevo una moto timida che irrompeva lungo le strade col grigio muso a punta in cerca di percorsi sacri da divorare, ma che, dinanzi alle statali che portavano chissàddove, misticamente tracciate sotto un sole esotico, abbassava la cresta dei suoi cinquanta di cilindrata e tremava per l’inafferrabilità del futuro, un gruppo di amici che giurarono che non si sarebbero mai lasciati corrompere dall’avidità del mondo e un ideale di conoscenza che si smistava in una miriade di affluenti che smaterializzavano qualunque significato di cultura.
Se avessi deciso di vivere come Bukowski, non mi sarei mai dato pena. Avrei mangiato e dormito con calma. A volte non avrei mangiato affatto. Avrei guardato tutto con noia, senza impazzire alla ricerca di un significato. Non avrei mai preso una decisione, tranne quella, appunto, di vivere nella libertà estrema. Tutto quello che avevo scritto riusciva a malapena a riempire uno zaino, ma io mi sentivo come se avessi steso almeno quanto lui.
Il 999 lo ricordo come fosse un unico lungo pomeriggio di fine estate, imprigionato in un involucro di calore assurdo che aumentava fino all’inverosimile. Sembrava che avrebbe fatto tremendamente caldo per sempre. Che non se ne potesse uscire. E che io mi stessi arrendendo lentamente alle malie di Morfeo, progressivamente vinto da un sonno letargico attraverso il quale avrei potuto finalmente dichiarare: ‘Ne parliamo domani, quando sarò sveglio’. E, nel lento dormiveglia in cui mi immergevo, ansimavo: ‘Morfeo, che oscuro vai, non rivelarmi più al domani’.
Negli ultimi strascichi della veglia completai Una di quelle notti, nel 999, nell'anno del gran casino. Ormai assuefatto alle prime tempestose raffiche di sbadigli annichilenti, mi trascinai nella stesura del secondo libro, Schizzando nel vento, nel 999, nell’anno del gran casino. Sotto i rampicanti morti che non avevano ancora sconfitto l’inverno baciai ancora la ragazza che amavo troppo assai, nel 999, nell'anno del gran casino. E nell’anno del gran casino feci l’amore per la prima volta con lei e fu un gran casino.
Agonizzavo alla tastiera di un computer cercando di capire quello che andavo scrivendo mentre riempivo fogli elettronici a raffica con il loop del canto delle cicale ripetuto fino allo sconforto e gocce enormi di sudore che mi inzuppavano le sopracciglia. Io scrivevo a torso nudo e non dicevo niente. Ascoltavo. Pensavo: scrivere mi porterà da qualche parte. Ma dove? Non lo so.
C'era tutta una serie di ricordi, sfumati come fossero materia di sogni. Mi grattavo un chiappa e ascoltavo questi sogni. Erano un libro ma io non riuscivo a trovarne il nesso. Mi sembravano ricordi che venivano un po' a fatti loro, non avevano niente di unitario. Ma non potevo fare a meno di stenderli. Continuavo a schizzare le dannate pagine e schizzavo dentro di loro per scoprire dove stessi andando. Pensavo: scrivere mi porterà da qualche parte. Non andavo da nessuna parte. Ma forse ci andavo perché stavo scrivendo.

*

Un’estate qui capitolo I

Scrissi, da qualche parte: Un buon Cobain è sempre meglio di tutto quello che circola oggi per il mondo. Infilai la cassetta nello stereo, sdraiato nella mia Panda grigia, nel torrido pomeriggio di inizio estate, senza pensare alla scuola, senza pensare alla vita, dimenticando le ingiustizie sociali appena filtrate dalla voce penetrante del leggendario Jack Folla. Pensai: ‘In questo pomeriggio non esistiamo nient’altro che io e il tempo’. Io nel tempo. Dove finirò quando gli archivi saranno completi, quale sarà la fetta di tempo su cui dovrai cliccare per trovarmi? Ed in quali campi della vita e chi sarà questo Stefano morto di sonno in un pomeriggio estivo che adesso abbassa lo schienale del sedile dell’auto, si sfila una scarpa, pianta un piede sul parabrezza e alza il volume dello stereo, ascoltando il Cobain sempre meglio di tutta la merda che circola oggi per il mondo? Quell’estate ero all’estremo di tutto e fu davvero il periodo dell’apologia dell’ozio. Continuavo a vagare tra un letto (morbide fresche lenzuola in cui non riuscivo più neanche a trovare posizioni comode e ci restavo e ci restavo fino a che non avevo esercitato pose da contorsionista per raggiungere fette ancora fresche dello spazio concessomi), una sedia, un pavimento ed uno stereo: lo accendevo, mettevo su un disco e mi aveva già stancato, lasciavo andare la radio e Cobain restava sempre meglio di tutto. Cercavo di organizzare lo sciame caotico delle idee che non smettevano di ossessionarmi. Pensavo che avessero tutto il potenziale per rendermi un grande pensatore. Cominciavo a fare ordine tra i concetti, cercavo di risalirne alla fonte, seguivo piccoli spiragli di fievoli luci, ma in conclusione primeggiava la mia suprema pigrizia e finiva che, presto, tragicamente, tornavo ad incartarmi e non avevo la forza di affrontare nemmeno uno di quegli intricatissimi labirinti mentali. Cosicché, vinto dalla noia, decidevo di rimandare, come sempre, ad un indefinito momento futuro, l’inizio della costruzione di un me stesso migliore. Non avevo un lavoro, l’Università mi aveva riempito le palle e la testa di falsi ideali pseudo-socialisti e spinto la mia indole anarchica all’idiosincrasia sistematica. Già il calcio e la mia presunta fede si erano rivelati fallaci anni prima, quando, nella stessa giornata in cui l’Italia usciva fuori dai mondiali del 1998 giocati in Francia, un bambino di appena due anni moriva nell’impietosa grazia di un dio assente o impotente e quindi tutto il mondo di passioni calcistiche e urla rivolte alla televisione e a quei ventidue coglioni che si ammazzavano rincorrendo un pallone, era crollato in un colpo ed ero rimasto fermo, nella mattina di luglio, a contemplare il mondo in una sorta di giardino chiedendomi: ‘Dio, dove andrò se non c’è via di scampo?’ Pensai di stendere un manuale di filosofia per razionalizzare le mie confuse teorie ed in verità continuavo a dirmi ‘Lo scriverò, lo scriverò’, ma poi non cominciavo mai. Le maledette idee erano sfuggenti o forse ero io che non mi mettevo d’impegno a catturarle. O peggio ancora, non ne ero capace. Immaginavo gli illustri filosofi morti, i signori Kant, Hegel, Fichte, Schopenhauer, Nietzsche, che ancora perseveravano nelle loro speculazioni e organizzavano perfino, nell’oltretomba, incontri tra di loro disquisendo animatamente sulle più elevate vette del pensiero umano. Mi rendevo conto che con essi, io, non avevo nulla in comune. Nulla di tedesco e del carattere tedesco che tanto aveva dato alla filosofia, al punto che mi convinsi che nessuno avrebbe mai accettato il mio trattato come filosofico già solo per il fatto che, accidentalmente, non ero nato in Germania. Mi stavo perdendo nelle mani di quegli slanci e delle maledette repentine rassegnazioni, la cui conseguente frustrazione riuscivo a sopraffare solo col drammatico e spudorato stupro della mia essenza. A forza di violentarla l’avevo destrutturata del tutto e adesso fluttuava come un insieme di quadratini senza connessioni in un luogo indefinito della mia coscienza. Mi passai le mani nei capelli, inorridii al pensiero di non essere più al sicuro neppure all’interno della mia mente. Dio, dove andrò se davvero non c’è via di scampo? Avevo un paio di pantaloncini corti ed una maglietta a fiori e questa era la realtà ed io l’avevo sempre conosciuta, quindi avrei dovuto comprenderla. Era reale il mio corpo nascosto da quegli indumenti nell’afa di inizio estate e reale tutto quello che i miei occhi potevano vedere, spostandosi come microcamere sul mondo. Allora perché, a parte me stesso in alcuni momenti, continuavo a credere irreale tutto il resto? La realtà proponeva feedback molto poco soddisfacenti, o meglio, reagiva alle mie interazioni in maniera decisamente caotica anche quando orchestravo al meglio le parole che, per il resto del tempo, vagavano impazzite all’interno della mia testa e così mi accontentavo di non fare niente, stando seduto nella mia macchina e cocendomi nell’immenso volume dell’impatto solare, valutando quale livello di resistenza la mia pelle potesse raggiungere e se prima o poi mi sarei squagliato come un gelato o se piuttosto sarebbero stati prima i miei pensieri ad evaporare finalmente. Il caldo era di quelli così opprimenti da pareggiare ogni cosa: bene e male, vita e morte, amore e odio. Tutto ciò che era stato agli antipodi nella concezione di Eraclito, tendeva a sciogliersi ed a fondersi al punto che cominciavo a comprendere perché ogni cosa fosse così strettamente legata al suo opposto. Poi fumavo una sigaretta e mi sentivo poco coerente. Pensavo di darmi all’onanismo ma mi sentivo mancare le forze. Forse avrei riempito di parolacce la prima persona ignara passante per la strada. Poi le avrei detto ‘Ehi, fottuta presuntuosa presenza che diventerà un fantasma appena il tempo l’avrà stesa, vieni qui! Lo sai che velleità significa credere di aver vissuto? Tu che cosa fai? Ho il senso della vita sulla punta della lingua della mente, ma non riesco a pronunciarlo e tu te ne vai girando, incosciente di tutto, sotto questo sole disintegratore?’. L’avrei presa per capelli e avrei urlato ‘Sveglia!’. O le avrei urlato ‘Svegliami!’. Ma quando la prima figura, tremula nel filtro dell’afa, al seguito del suo cane al pascolo, apparve da lontano, aprii la bocca, inspirai e tutto ciò che avevo da inveirle contro si deformò in uno stanco rantolo. Le mosche giocavano a sfidare la mia paralisi compiendo arcuati voli intorno alle labbra, una quasi mi entrò in bocca ed il ribrezzo mi fece finalmente sussultare. Ebbi la forza di mettere mano al cambio, mano alle chiavi e mani al volante. Accesi la macchina che friggeva nell’aria da forno e mi avviai osservando come l’asfalto si stendesse a rattoppi davanti ai miei occhi. Presi a percorrere la strada cercando di salvarmi, conducendomi in un luogo più fresco, più vivibile. Non so se riuscii a trovarlo, ma se accadde, non ebbi voglia di fermarmi. Che cosa avrei potuto fare in quel luogo, io, immerso nella solitudine? Nonostante tutto, ad un certo punto frenai, spensi la macchina e ne discesi, deciso ad affrontare l’inferno di fuoco. Andai a sdraiarmi a pancia in su oltre il ciglio della strada. Pensai che avevo sete, ma trovare dell’acqua in quel momento contravveniva all’unico progetto che mi parve degno di considerazione: stare fermo senza fare niente, cercando di azzerare ogni pensiero. Tentare di capire era quello che mi faceva più male, ma non riuscivo a desistere, come se sperassi di trovare qualcosa di grande in quel maledetto cercare. E invece non c’era nulla, alla fine sarebbe stato meglio non fare niente, non essere da nessuna parte e di nessuna idea. L’unica soddisfazione, forse, era quella di poter dire a me stesso ‘Non ci ho capito un cazzo’, l’unica gioia che non poteva essermi tolta. ‘Tanto nessuno pensa per davvero, nessuno fa niente e quindi perché dovrei fare qualcosa io?’. Ecco che mi giustificavo senza averci compreso nulla per primo, non era giusto, ma è la folle vita che tenta sempre di ammaliarci con la sua complessità ed alla fine il bello sta proprio, sì, forse, nel fatto di poter dire ‘Non ci ho capito un cazzo!’. Riflettei sul fatto che della vita noi siamo schiavi e succubi, lo siamo anche parlando a noi stessi, padrona di tutto è la mente, regina delle azioni, giuste o sbagliate che siano, e non possiamo neanche liberarcene perché senza di lei non saremmo nemmeno schiavi, non saremmo e basta. Con che coscienza possiamo parlare della libertà? L’universo è un nulla in cui positivo e negativo si equivalgono, ammesso che noi possiamo dirci il lato positivo di qualcosa di negativo, non è forse come se non fossimo ed in definitiva non siamo? E ci incazziamo se quei ventidue coglioni in mutande giocano una partita inutile! E ci mettiamo a piangere se le nostre aspettative non si realizzano, speriamo nel futuro e critichiamo il passato, cerchiamo di credere in dio, ci facciamo belli, rassodiamo il seno, ma alla fine siamo tutti proiettati verso il nulla senza volerlo ammettere perché a questo punto niente poi varrebbe niente; quel che è certo è che abbiamo bisogno di credere in qualcosa altrimenti vivere non avrebbe senso. Forse vivere non ha senso. Però non mi va neanche di morire, quindi se ne parla un’altra volta. Dopotutto non sono riuscito ancora a scegliere tra bene e male, se scegliere è ciò che per davvero un uomo è destinato a fare. Ho bisogno di grande libertà, come la libertà di quando sei al bagno, nessuno che possa assalirti improvvisamente e tu puoi fare tutto quello che vuoi, nudo o vestito male, non sussiste il problema della morale e non c’è bisogno di giustificare niente. Ho bisogno della libertà, non cerco la bellezza ideale, leggo i libri a metà partendo dal centro e poi, quando sono esausto, mi torturo con un’altra lettura e non è la sensazione di fare qualcosa, ma una mia pazzia, solo mia, ho il diritto di essere folle e di meritarmi lo stesso un pezzo di pane per vivere. Poi faccio crollare tutto. È meglio stare fermi per non rischiare di farsi male, non per paura, ma per il fastidio che può dare e certo è meglio non avere fastidi perché sono alquanto noiosi e la noia è infernale, ma l’inferno è tutto da affrontare e per farlo ci vuole grande energia e quindi sopraggiunge la stanchezza, la volontà di trovare un nuovo letto o un qualunque giaciglio in cui riposare, come la mia macchina. Accendo la radio, vado via, ne esco, mi sdraio ai bordi della strada e mi sento urlare: ‘Oh, guarda, quello è ai bordi della strada, dio, forse significherà qualche cosa!’ Essere lucidi alla fine serve a poco, perché cammini e cammini senza arrivare da nessuna parte e ciò che esiste di più bello, sono quelle emozioni piene di vento e confusione, quelle che non riesci a definire, che non hai impacchettato, inafferrabili. Beh, credo che le strade siano sempre affascinanti, alla fine, credo che… no, sbagliavo, certo, ho solo creduto di credere. Tutto rischia l’abbandono e niente e nessuno è pronto ad affrontarlo, perché è così impalpabile quel sottile interesse che ci mantiene fermi sul confine, che basta un nulla per arrivare alla conclusiva concezione che forse la mobilità nella vita è ciò che più ci riempie lo stomaco. Anche se dinamismo può significare violenza e quindi si ritorna a legare i propri ormeggi. Mia è una terra fantastica su cui approdare, è un’imprevista e prolungata e delicata fine per le mie membra e per la mia anima esposta ai venti come una bandiera, Mia sa accarezzarla e non restarne inorridita né avvinghiata, ha mani che accendono scintille per l’aria e mi sembra di poter dire che mi lascerei rotolare ai suoi piedi e glieli accarezzerei per poi tornare a guardare il cielo sentendomi vivo. E sentendola accanto. Sentendomi vivo. Mi rialzai, mi ficcai nella mia auto e lentamente mi avviai. Pensai di scrivere un racconto o ascoltare un po’ di musica. Mentre tornavo a casa con il finestrino aperto e l’orizzonte a sinistra, mi venne di nuovo sete e mi dissi: ‘Non preoccuparti che troverai qualcosa da vivere e non è detto che sarà una grossa stronzata e basta. Certo che però… passare un’estate qui… chissà poi che significato avrà…’

*

Skizzando nel vento 13 (Botta di coraggio)

13
Botta di coraggio
(Solo perché non le sono di fronte)



FEBBRAIO DEL PARLARSI SINCERAMENTE

Uno di quei pomeriggi in cui attorno a te sembra crearsi il vuoto più assoluto e ti pare più che di vivere, di volteggiare in questo vuoto come fossi un astronauta in jeans a petto nudo inesperto che non sa come si fa a scendere finalmente a terra e rimetterci i piedi sopra e tu lo desideri più di ogni altra cosa, perché in mezzo a quel vuoto, ti sembra lentamente di entrare a farne parte anche tu e ti sembra la cosa più triste del mondo e, visto che tutti quanti ce l’abbiamo dentro quel po’ di masochismo necessario per rovinarci a poco a poco la vita, ad un certo punto ti rendi conto che effettivamente forse è meglio chiudere gli occhi e lasciarti volteggiare, se alla fine dei conti non hai un cazzo da perdere e se poi nel dolore esiste un conforto che nient’altro può darti. E poi quel vuoto finalmente ti ingloba dentro se e ti inonda di un liquido denso che sembra quello in cui sei avvolto nel ventre di tua madre e tu, inzuppato fino alla radice dei capelli, smetti infine di respirare e ti senti morire poco alla volta e sorridi perché sai che ormai è finita e non ci saranno più libri da studiare per non avere il terrore delle interrogazioni, non ci saranno più canzoni che ti roderanno l’anima pur di farsi generare, non ci saranno più Sarah Moretti con i loro occhi dolci e con i sorrisi che ancora non hai capito, che ancora non hai ben inteso e non sei riuscito a penetrare per leggerli dall’interno, se ispirati dall’amore o piuttosto ingenui riflessi al tuo modo di essere e tutto questo ti fa sentire vivo perché sai che dopo il vuoto non ci sarà più nulla e perché finalmente avrai il riposo che meriti e tutto sarà spento come un faro quando arriva l’alba.
Non ci saranno più giornate che non sai se sia meglio averle vissute o piuttosto cancellarle dalla memoria perché ti gettano nei più profondi dubbi dell’amore e della vita, quelle giornate che alla fine, quando sei nel tuo letto, le ripercorri passo passo per trovarci un indizio che ti metta al sicuro, quell’indizio che non c’è mai perché altrimenti sarebbe troppo facile e così ti diventa tutto, all’opposto, troppo complicato e ti senti di dire ‘Ma chi cazzo se ne strafrega se quella mi vuole o no, tanto io adesso ci ho qualcosa in cui lei non c’entra, ci ho il mio vuoto personale e tutto mi va alla grande, perché quaddentro non c’è il rischio di cadere e farsi male’.
Sapevo comunque che mi sarei fatto male quando il vuoto scoppiò come un palloncino trafitto da un ago e mi liberò rilanciandomi sulla mia poltrona dove, con un libro sulle gambe, tornai a rivedere il mondo con i suoi veri colori.
Voltai il libro e ci feci un segno, prima di richiuderlo e di sbatterlo sul letto, per poi poggiarmi le mani sulle tempie ed iniziare a fare funzionare il cervello.
Ciò che più mi ossessionava era il fatto che la fanciulla non mi avesse ancora capito e questo era abbastanza grave perché portava a due situazioni piuttosto compromettenti: una era quella che lei avesse capito perfettamente cosa volevo farle intendere entrambe le volte che le avevo parlato ed aveva cercato di evitarmi perché non se ne fregava proprio un bip di me; l’altra era che la tipa non avesse capito perché io non ero riuscito a spiegarmi bene con lei e ciò era ancora più grave perché non avrei mai avuto il coraggio di andare oltre la linea che avevo tracciato e quindi ero abbastanza perso.
"Ma quale cazzo è il tuo problema, amico?" mi voltai, appena davanti alla porta chiusa come se da lì fosse potuto entrare, c'era uno che pareva esatto uguale a Kurt Cobain che veniva verso di me, una delle sue solite camicie a quadri addosso, aperta su una maglia nera, i capelli biondi che sfumavano in castano sulle punte, gli occhi dipinti di nero.
"E tu chi cazzo saresti?" dissi con la voce che si affievolì perché ero stato tutto il pomeriggio in silenzio. Mi sistemai meglio, riformulai la domanda.
"Il mio nome è Kurt, sono venuto a capire che cosa ti dice il cervello, amico" quello credeva di essere davvero Kurt Cobain.
"Kurt Cobain è morto ed io non credo di essere un tuo amico" vidi di farlo ragionare mentre alzavo le chiappe dalla mia poltrona per sistemarmi i jeans, prima di rimettercele "Chi è che ti ha fatto entrare... non sarai" affinai lo sguardo "Corona, che cosa ci fai truccato come un cerebroleso?"
"Io non sono vivo, sono soltanto una proiezione della tua mente, la proiezione di Kurt Cobain" si mise in faccia un'espressione da psicolabile ed allargò le braccia. In effetti non sembrava proprio Corona.
"E che cosa vorrebbe la proiezione di Kurt Cobain, da me?" aggrottai le sopracciglia, cercando di comprendere.
"Voglio capire qual è il tuo problema, se quella tipa, insomma, quella che ti ha fatto scrivere i pezzi, non vuole dartela, vero?" mi strizzò gli occhi col viso che si nascose dietro i lunghi capelli, dopo un movimento brusco.
"E dovrei stare a parlarne con te?" la cosa mi lasciava molto perplesso.
"Sono la cosa migliore che il tuo cervello è riuscito a fare, che cosa vuoi?" molto bene.
"Beh, non è una questione di dare o non dare..." ci pensai "piuttosto è una faccenda di recepire e non recepire. Il fatto è che lei, io credo che non recepisca"
Lui sembrò rimuginarci sopra come fosse una questione di importanza estrema anche per lui. Mi piaceva che Kurt si interessasse a queste mie cose molto personali.
"E tu che cosa hai fatto, gliel'hai espresso a chiare lettere o hai fatto il timido deficiente povero Cristo che si vergogna di parlare con una ragazza?" seconda possibilità.
"Sei sicuro di essere una proiezione della mia mente?" a volte sembrava davvero reale, oh "E poi credo che se lo fossi, dovresti saperlo, quello che ho fatto"
"Già, già..." disse come se ci fosse arrivato lui stesso "Allora ti dico subito che cosa hai sbagliato: quella lì" mi prese per una spalla, indicandomi la porta con l’altra mano, come se Sarah fosse lì dietro. Io non riuscivo a vederla ma se ci fosse stata anche lei, come proiezione, non sarebbe stato male "sta facendo un gioco sporco, amico, quella è completamente cotta, ma vuole capire fino in fondo se lo sei tu, quella è... è una psicopatica" girò le dita intorno alla sua stessa testa "ti farà diventare pazzo e tu lo stai diventando ad una velocità assurda"
"Tu dici?" osservai il pavimento, cercai di ragionare "E perché dovrebbe?"
"Perché? Perché ha i ragni nel cervello, ascolta i Depeche Mode. Sai chi sono i Depeche Mode?" non capivo cosa c'entrasse.
"Certo che lo so, se lo sai tu"
"Giusto!" alzò un indice, il vero pazzo sembrava lui, o meglio io che me l'ero autoproiettato "Depeche Mode, musica elettronica, niente chitarre, strumenti quasi zero, musica elettronica" parlava come mi stesse svelando una congiura che avevo avuto sotto gli occhi da sempre e non ero mai riuscito a scorgere. Mi venne l'orrore dei Depeche Mode.
"Che cosa dovrei fare, Kurt?" gli chiesi allora.
"Non devi avere più riserve, devi dirle le cose come stanno, devi smetterla di giocare con doppi sensi e storie inventate appositamente per cercare di coinvolgerla..." prese fiato "devi gridarle in faccia tutto quello che provi" urlò improvvisamente facendomi ritrarre, prima di tirare un calcio contro la scrivania alle sue spalle. Per fortuna era soltanto una proiezione.
"Ma io non ce la faccio, è più forte di me, ho paura che possa restarci male, che possa..."
"Negarti anche quel poco che adesso ti dà, un'illusione, una parvenza d'amore" aveva centrato il punto, dopotutto era la mia stessa mente a fornirgli le parole ed i significati, erano cose che avevo sempre saputo ma non avevo mai rivelato a me stesso. Kurt era la verità che conoscevo e mi occultavo, rifuggendola per timore di una sofferenza ancora più grande di quella che provavo "Riesci ad accontentarti di questo?"
"Non lo so" ci pensai "non credo che ci potrebbe essere nient'altro per me"
"E come fai a saperlo se non ti lanci in questa cosa con tutto te stesso" e dicendo questo improvvisò un volo verso il piccolo lampadario della mia stanza, aggrappandocisi e prendendo a dondolare. 'Guarda questo demente' pensai.
"Ci devo pensare, Kurt, non è una cosa facile" gli promisi, comunque.
"Semplicissima!" disse invece lui "Una cosa sola" continuò staccando una mano dal lampadario e puntandomi un indice contro "Non farle capire che sai che è pazza, assecondala o potrebbe finire male" si era convinto, ormai.
"Forse farò come dici, lascia che io ci pensi" conclusi poggiando le mani a terra per alzarmi dalla poltrona.
"E comunque il pezzo che hai scritto davanti alle mie foto faceva schifo al cazzo" ammise, fuori dalla portata del mio sguardo.
"Sì, parli tu... kiss kiss Molly's lips" alzai la testa per dirglielo, ma Kurt era scomparso.
Dovevo essere proprio disperato se, per l'angoscia che provavo, avevo iniziato a crearmi gli amici immaginari. Forse mi accadde perché non avevo mai avuto un amico con cui confidarmi ed in quel momento ne avevo davvero bisogno.

Passai mezz’ora del resto del pomeriggio a pensare a ciò che potessi fare per completare almeno per una volta ciò che avevo ormai cominciato, visto che non avevo mai portato a termine nessuno degli obiettivi che mi ero prefissi e mi dissi che se c’era qualcosa per cui valeva la pena di cambiare la mia tradizione, questa era proprio la ‘storia’ con Sarah.
Ripensai a quello che mi aveva detto la mia proiezione, ma quello che mi convinse a fare come aveva detto fu il fatto che in fondo, a farmi male, sarei sempre potuto tornare nel mio vuoto a cullarmi in mezzo a tutte le mie sconfitte, non solo in campo d’amore, aggiungendo in più quella.
Al massimo avrei fatto l’ultima figura di merda di quel maledetto anno, ma non poteva accadermi nulla proprio e per una volta mi sentii protetto dal mio passato e da me stesso, fu una sensazione abbastanza gradevole e primordiale ma lo stesso sorrisi chiudendo gli occhi e me la gustai prima di rimettermi a leggere il libro che avevo abbandonato.


*

Skizzando nel vento 12 (Rimpianto per il presente)

12
Rimpianto per il presente
(Primi contatti effettivi)



FEBBRAIO DEL CAMBIAMENTO

Erano ormai due settimane che eravamo seduti accanto e la storia da allora non era cambiata di molto.
Corona aveva smesso di fare casino dal suo sei in condotta e si limitava ad intagliare il suo banco con disegni degni di un’artista; a quanto pareva da un po’ si era messo pure a studiare quel poco che bastava perché non facesse scena muta ad ogni interrogazione.
Cristiani urlava solo di tanto in tanto ed aveva spiegato ai professori che non ce la faceva a non urlare mai, così gli era concesso due o tre volte all’ora di fare strada alle sue fantasie vocali e tutta la scuola sapeva di questo ed ogni volta che si sentiva un urlo che tagliava tutti i corridoi dell’edificio se ne conosceva la provenienza.
Quelli del loggione facevano solamente qualche battuta ogni tanto e la procedura era sempre quella: uno (di solito Mangino) faceva la battuta, un altro da un’altra parte dell’aula lo appoggiava (di solito Nagliero), il terzo (di solito Fortunato) riconosceva che erano due imbecilli, uno rideva schiattando sulla sediolina (di solito Tarantino) un altro si alzava e andava a tirargli i morsi sulla spalla (di solito Coviello) ed uno (di solito Ieva) da un altro punto ancora dell’aula, si girava indietro e schiaffeggiava un altro (di solito Morra) in quel momento di sottile libertà concessa.
Tutti si ricomponevano appena la classe aveva smesso di ridere e mi facevano ridere pure a me del loro volersi così bene.
Io, per quanto potevo, avevo smesso di fare qualsiasi cosa che potesse portarmi al centro dell'attenzione, anche se mi rimaneva addosso l’alone di casinista, come era rimasto a tutti quanti noi e così ogni tanto, quando uscivo fuori di testa, chiedevo di andare al bagno e lì spegnevo il mio vizio di folleggiare, lavandomi la faccia.
I rapporti con Sarah non erano migliorati di molto, ogni tanto mi concedeva un dolce sorriso in cambio di una mia cazzata o di qualcosa che avevo detto, a volte, quando la sfottevo, si metteva pure a ridere apertamente e riuscivo anche ad estorcerle una battuta innocentissima detta a bassa voce.
Avevo deciso di cambiare comportamento, certo, ma visto che non avevo ancora scelto come sarei dovuto essere, ero andato avanti per tentativi, avevo già scartato il serio perché così non mi cagava proprio, avevo scartato il modesto perché così non mi prendeva neanche minimamente in considerazione, avevo scartato il disperato perché così più che innamorarsi, iniziava a compiatirmi ed ora ero approdato ad uno stadio del mio comportamente che avevo definito simpatico-non-volgare.
Avevo scoperto da un paio di giorni che questo era l’ideale tra i tipi che avevo provato fino ad ora ed avevo visto quanto era affascinata anche da alcune mie entrate alla Einstein in cui rispondevo a domande a cui nessuno sapeva rispondere ed avevo riscontrato in lei un interesse ancora maggiore nei miei confronti quando citavo qualche personaggio o avvenimento che lei non conosceva, come se quelli fossero discorsi da cui si sentiva esclusa ed in cui voleva entrare pur passando dalla porta Gabriele Barra.

Quella mattina cavalcavo ancora sull’onda del simpatico-non-volgare e me ne venni a scuola deciso a parlarle seriamente per la prima volta da quando eravamo seduti accanto.
Lei si era messa in faccia la sua solita maschera da ‘sono indifferente se non cominci tu’ ed io cominciai mentre il professore di italiano ci spiegava che il fulmine è un pezzo di ferro di dieci centimetri che rimbalza da un punto all’altro della casa quando entra dal camino.
Avevo notato, stavo per dimenticarlo, che adesso qualche volta mi ascoltava anche se le chiedevo qualcosa durante le spiegazioni, era ancora in via sperimentale, il nostro amore, no?
“Posso farti una domanda personale?” le chiesi all’improvviso osservandola girarsi verso di me aggrottando le sopracciglia e con piccole chiazze rosse sulle gote che andavano espandendosi.
“Dipende” rispose non più sicura come la ricordavo solo due settimane prima, forse col simpatico-non-volgare l’avevo finalmente suggestionata un tantino.
“Sei... sì, voglio dire... fidanzata, tu?” ecco, gliel’avevo detto ed adesso il dubbio che ci avevo me lo sarei tolto col monosillabo di risposta che mi avrebbe dato.
“Sì, sono fidanzata” immaginai che mi dicesse ed il mio cuore che si raggelava in un secondo, la mia pressione che si abbassava vertiginosamente, svenimento, conati di vomito, minzione e defecazione tutto contemporaneamente, brividi di freddo e linee di febbre grosse quanto pilastri di cemento portanti in un condominio.
“No, non sono fidanzata” e uccellini e campi in fiore e campane a festa e musica in piazza, bambini che giocano con le bici, sorrisi giganteschi a denti bianchi e Dio esiste ed è pure un pezzo di pane d’Altamura tanto è buono e tutto il resto così fantastico e celestiale e paradisiaco e luci tricolori verdi bianche e rosse e l’Italia aveva vinto i mondiali e tutto ciò mi dava un’energia tipo pila alcalina Duracel e mi sembravo il pupazzo della pubblicità che non si ferma più neanche con le cannonate.
“A te che te ne importa?” questo non lo avevo calcolato e per la prima volta da quando la conoscevo mi aveva preso alla sprovvista e adesso non ero più tanto sicuro di poter continuare sulla scia del simpatico-non-volgare e cambiai rotta imbarcandomi sullo sta-attenta-piccola-o-ti-farai-male.
“Non mi piace che tu mi risponda così” dissi agitandole un dito davanti agli occhi.
“Non è a te che deve piacere” ecco qua, due a zero infilato nel sacco mentre si voltava mirando con gli occhi un punto indecifrabile della lavagna di fronte a noi. Si era calata ancora la sua maschera sulla faccia come una colata di cemento a presa rapida.
Mi rituffo nel simpatico-non-volgare per recuperare lo svantaggio.
“Potevi venire col vestito di tua nonna allora e così sicuro non mi saresti mai piaciuta” piccolo sorriso da parte di lei, tentativo di smorzarlo, non ci riesce, non ci riesce, sono un grande.
Riprendo fiducia, due ad uno e mo pareggio di sicuro.
“No, non sono fidanzata” mi fa prima che io apra bocca e ci avete presente tutto quello che ho scritto prima delle campane, festa e musica in piazza e cose così? Minimo sarà stato bello il doppio.
Chino la testa con gli occhi chiusi e le mani congiunte un paio di volte e sussurro che veramente quel Dio che adesso esiste, comincia a volermi un bene (perdonatamela vi prego) della... Madonna.
“Ecco” fa lei alzando lo sguardo al cielo e forse ci crede anche lei “adesso è partito”
“Sì” le dico senza rendermene conto “per il tuo cuore” e così mi do una violentissima zappata sui piedi da troncarmeli di netto da solo, mi serro le labbra con una mano e sto a vedere la sua reazione: fa finta di non aver sentito ma lo so che l’ha sentita e credo pure le sia piaciuta perché diventa rossa, sorride e si volta dall’altra parte.
Tutto ciò è veramente fantastico, oh.
“Posso” le chiedo ancora “farti una domanda ancora più personale?”
E’ ancora semi-sconvolta da ciò che le ho detto, ma fa segno di sì con la testa: non fa più la difficile come poco prima, ok, è cotta lo so, è cotta e adesso basta allungare una mano perché se ne venga con me dalla mia parte. Non ci vuole niente, devo solo farglielo capire, basta un accenno, una piccola frase, una domanda tipo: se io te lo chiedessi, ti scopere... mmm sposeresti con me?
“Che misura di reggiseno porti?” come cazzo mi è uscita questa mo? avevo aperto la bocca con il ‘se te lo chiedessi’ già sulla lingua e mi è uscito questo sgorbio di domanda, eppure i patti erano diversi e non ci siamo e... col mio cervello ho uno strano rapporto, alle volte.
“Ma... sei proprio un animale!” infatti.
“No, no volevo chiederti questo eppoi non mi interessa che misura porti, tanto al massimo sarà una prima, però...” mi sa che mi sto inguaiando di più.
Rimane a bocca aperta tutta sconvolta e angosciata, cerco di sorriderle, ma mi risponde con uno schiaffo che risuona per tutta la classe rimbalzando sui muri e finendo alle orecchie del professore. Il palmo della sua mano destra e la mia guancia sinistra ormai ci hanno anche rapporti sessuali, tanto si conoscono bene.
“Che succede laggiù?” chiede il professore.
Io non so che rispondergli, lei, incazzata com’è, non ci pensa neanche, così risponde Tarantino che hanno messo al mio fianco da quando cambiarono i posti ed è il più calmo di quelli dell’ex loggione.
“Niente professò, ho chiuso troppo forte il libro” grazie, grazie ti voglio bene, mi hai salvato da una figura di merda abbastanza compromettente.
“Non è vero!” fa Sarah e lo sapevo, Giuda, che non poteva andarmi liscia per una volta, tutte, si devono venire a sapere, perché non mi sto zitto zitto come fossi muto e... chissà, magari le piace il tipo parlo-poco-ma-bene.
“Barra mi ha dato fastidio e gli ho mollato uno schiaffo” risata generale e ridete ridete rimbambiti che non capite un cazzo, annuisco con la testa e mando giù anche questa.
“Barra,” mi fa il professore “non ti abbiamo messo lì per dare fastidio a Sarah Moretti, il nostro scopo era di farti smettere completamente”
“Non...” ammetto “non lo faccio più. Giuro!” con una mano sul petto e la testa chinata. Vaffanculo. Cazzo. Mi da fastidio scusarmi, oh.

Altro giro, altra corsa, altra stronzata ai danni della pupa. Ci ho un’idea folgorante che me la sono sognata stanotte e non posso sbagliare stavolta.
“Allora” dico a Sarah qualche giorno dopo il nostro piccolo primo approccio, in una mattina piovosa che dà di febbraio ed infatti lo è ancora “C’è questa tipa qua, di cui mi sono innamorato, ma vedi, non so come dirglielo o farglielo capire”
“E grande, piccola, com’é?” mi chiede tutta curiosa di ascoltare una mia confessione.
“Ha la mia stessa età ed è veramente bellina, va in prima B”
“Le hai mai parlato?” stavo per dire ‘certo, proprio adesso’, ma scuoto la testa e deglutisco prima di ricominciare.
“Sì, qualche volta, ma non credo che abbia capito che io... insomma... vabbé dàì, non me lo far dire che mi vergogno”
“E perché lo stai chiedendo a me come devi fare per dirglielo?” buona questa, nel sogno non c’era, mi tocca improvvisare.
“Perché tu... sì, beh, sei una ragazza. Come ti piacerebbe che uno... te lo facesse capire?” credo sia ok come risposta.
“Ci sono diciassette ragazze in questa classe, perché proprio a me?” adesso comincia ad essere un po’ troppo imprevedibile.
“Adesso sto parlando con te e tu mi stai vicino nel banco, non farmi incazzare e rispondimi” credo che anche questa sia buona, come risposta.
“Non lo so... dovresti dirglielo chiaramente”
“Non ho il coraggio”
“Potresti scriverle una lettera”
“Non so che scriverle”
“Potresti darle un regalo”
“Non ho i soldi”
“Potresti mandare qualcuno a dirglielo”
“Non ho chi mandare o forse sì, ci mando Corona”
“Lasciamo perdere!” riprende a pensare con una mano sotto il mento, potrei mandare lei a dirglielo effettivamente, ma è a lei che deve dirlo, speriamo che non mi chieda di andare lei.
“Posso andarci io” e che cazzo ce le ho tutte io le sfighe di questo pianeta di merda, mi viene l’angoscia a volte, Madonna Santa.
“Non puoi andarci perché... è una pessima idea mandare qualcuno a parlarle, soprattutto se ci mando una ragazza” che risposta di merda.
“Hai ragione” mi sta prendendo per fesso o mi sto prendendo per fesso da solo? “beh, allora non so che dirti!” continua, aprendo il libro di fisica ed inziando a ricorpiarci sopra gli appunti scritti su di un foglietto mezzo sgualcito che il professor Rana (di fisica per l’appunto) non smetteva mai di dettarci, indomito.
Vorrei dirle grazie lo stesso, ma mi ricordo che quel discorso doveva farle capire qualcosa.
“No, aspetta” le dico “tu devi aiutarmi perché sennò non so a chi chiederglielo, sono veramente disperato” ed è la verità, questa non lo capisce neanche se glielo dico esplicitamente, cioé, si può sempre provare... ma con la faccia da deficiente che mi ritrovo, non mi crederebbe mai.
“Non c’è nessun altro modo perché tu possa farle capire di esserti innamorato di lei se non fai una di queste cose che ti ho detto, come posso esserti d’aiuto più di così?” e mica ha torto, la ragazza, forse dovevo farglielo capire quando mi ha chiesto ‘Com’è?’ e devo aver perso un’occasione irripetibile.
E adesso che le dico? Non è che si può girare più di così attorno al discorso, ad un certo punto bisogna che lei lo capisca pure, sennò può continuare pure per tutta la giornata e stiamo sempre lì.
“E’ vero” le dico sconsolato per davvero “ma il fatto è che lei è così dolce, così semplice e così bella ed io non voglio rovinare tutto questo” adesso le parlo sinceramente come se realmente io mi stia confidando e non me ne rendo neanche conto “io sono così... a fatti miei insomma, tu mi vedi fare casini dappertutto e non sono buono a nulla. Non riuscirei mai a chiederle di mettersi con uno che sarebbe la sua vergogna per i corridoi di questa scuola, eppoi lei è anche così diversa da me, è tutta una cosa diversa proprio, voglio dire, certamente non sono il tipo per lei e magari questa mi manda affanculo al primo colpo e poi non potrei sopportare di vederla ancora. Non voglio che lei debba vergognarsi di vedermi in giro pensando che io l’abbia disturbata chiedendoglielo. Vabbé... tanto a te che te ne frega di tutte queste cose, poi?”
“No, continua, ti sto ascoltando” ed era vero, perché adesso la lezione era cominciata da un bel po e lei se ne stava con una mano sotto il mento poggiata al suo banco ad ascoltarmi.
Le sorrisi con il cuore che mi gridava di gridarglielo e di rizzarle i capelli con tutto il mio fiato e di spezzarle pure i denti con la potenza delle corde vocali, magari cantandoglielo come fossi un tenore e facendola volare fuori dalla finestra come un aquilone, ma parlai quasi sussurrando.
“Mi piacerebbe che fosse facile dirle che mi sono innamorato di lei e che lei mi capisse, ma non potrebbe capire, magari penserebbe che voglio solo farmela, ma più che altro penso che mi riderebbe in faccia e penserebbe che la gente come me non è capace di amare ed in fondo forse è vero ed è meglio non dirle nulla e farmi male da solo a vederla vivere la sua vita senza darle noie”
“Addirittura farti male da solo!” mi fece incredula.
“Conosco già il numero delle notti che non dormirò, bella, e ti giuro che non sono poche” le dissi “so già quante volte piangerò e quante volte avrò voglia di non essere mai esistito o almeno non essermi mai innamorato di lei. Già mi viene a volte; è dura essere innamorati, lo sai?!”
Forse le sto dicendo troppo adesso, deve aver capito qualcosa e forse siamo a cavallo.
“Potresti invitarla fuori!” fa poi con l’espressione dell’idea perfetta e forse lo è pure, ma rimane il fatto che questa qui non ha capito proprio un cazzo.

Fine febbraio danzata sui calendari a ritmo di stronzate volteggianti come ballerine sudamericane abbronzate e dai capelli lunghi, belle stronzate, sì, ma pur sempre stronzate e basta.
Non ho concluso proprio niente con la fanciulla e la mia chitarra ormai mi chiama da un po’ e non sa nulla del mio tradimento con una elettrica ed un po’ ancora adesso ho quel rimorso dentro di me, ma se lei fosse venuta con me lì dov’ero andato, non ci sarebbe stato nessun paragone con nessun altro strumento musicale del globo.
Adesso si cerca più che altro di raccogliere tutte le emozioni sul centro di convergenza Sarah Moretti e di dedurne qualcosa di serio, piuttosto che due o tre dialoghi sgangherati come mai si erano visti prima.
Effettivamente da una prospettiva prettamente individuale, la mia storia con Sarah Moretti va bene.
Se sono io ad immaginarmela incastonata fra le corde della mia ispirazione (ok, sono un poeta).


Rimpianto per il presente

Incipit con arpeggio
(Grande conoscitore del latino, questo qui)
Si estende come un cielo spiegato sulla mia vita,
di panno in seta grigio eterno,
questo canto di solitudine
e questa malinconia che cresce ancora.

Strofa 1
Me ne andrò nella notte chiara per il bosco della mia vita,
in cerca di una lanterna o di una stella fra i rami,
con due cose sole nel cuore,
il nero della solitudine
e il bianco della libertà.

Strofa 2
Mendicante del buio con le mani screpolate
dal gelo della solitudine...vivrò,
sotto il tempo che incalza passeggerò,
contando le stelle, amori falliti nel mio cielo,
e quante ne cadranno, volta per volta.

Ritornello
E un giorno rimpiangerai il tempo in cui
fra i banchi di scuola
un deficiente sempre sorridente
cercava di fartelo capire e non ci riusciva,
non era facile dopotutto, se poi la timidezza
è la timidezza.

Ponte 1
Ma un giorno rimpiangerai
gli stupidi commenti di uno stupido come me, su di te,
quanto amore nascondevo dietro di essi,
quante parole ti gridavano quegl'improvvisi silenzi,
avevi le orecchie tappate dal latino e dalla matematica,
e non sapevi che l'amore non è come il latino o la matematica,
in cui tutto è calcolato, previsto,
innamorarsi a volte è di quelli
che ti guardano negli occhi
e sanno restare in silenzio

Ritornello
E un giorno rimpiangerai il tempo in cui
fra i banchi di scuola
un deficiente sempre sorridente
cercava di fartelo capire e non ci riusciva,
non era facile dopotutto, se poi la timidezza
è la timidezza.

Ponte 2
Non te l'ho mai detto per questo,
ma quante volte ti ho guardata negli occhi,
in silenzio, mi chiedo anch'io a cosa pensassi,
forse già capivo che avrei rimpianto questo stupido presente,
e allora cercavo di gustarmelo,
di assaporare ogni punto del tuo viso,
non sapevo che ne sarebbe partita una semiretta
principio primo della matematica:
solitudine eterna che inizia da te
e si proietta nell'infinito.

Ritornello
E un giorno rimpiangerai il tempo in cui
fra i banchi di scuola
un deficiente sempre sorridente
cercava di fartelo capire e non ci riusciva,
non era facile dopo tutto, se poi la timidezza...

*

Skizzando nel vento 11 (Balia)

11
Balia
(E se fossi troppo grande per amarti?)



FEBBRAIO DELL’INFANZIA RIAVUTA

Mi venne già il secondo giorno dopo che eravamo vicini.
Quel giorno avevo una barba da fare invidia ad un barbone.
Fu solo un attimo, le cadde la penna dal banco e lei si chinò per raccoglierla, i suoi capelli legati caddero da un lato, sulla sua spalla, e scoprirono la sua nuca.
Stavo ascoltando la lezione di storia dell’arte (una delle rarissime volte) e mi distrassi proprio in quell’attimo con nella mente ancora i bronzi di Riace e la loro posizione chiastica e mi immaginavo un grande coglione greco con la sua tunica bianca ed i suoi sandali come i Greci del cartone Pollon che stava scolpendo la versione originale ricopiata poi in bronzo. Me lo immaginavo che ad un certo punto si girava verso di me con un paio di occhiali da sole ed un paio di cuffie alle orecchie e diceva “Se non ti piace, che cazzo mi guardi a fare?”
Quando mi voltai verso di lei, il greco mi stava ancora facendo segno con il medio della destra alzato e fu il suo collo a chiamarmi, ne sono sicuro, perché i miei occhi si fissarono su di lui ed improvvisamente i bronzi di Riace ed il coglione greco si cancellarono dalla mente per far spazio a lei che non riusciva a prendere la penna e che poi l’agganciava con due dita e risaliva su.
In quel collo lessi l’istante esatto in cui la goccia di pioggia si dissolve su una foglia, la luce soffusa del crepuscolo che abbraccia un orizzonte, il cinguettio del passero nel silenzio del pomeriggio estivo. Rividi il coglione greco che adesso l’ammirava anche lui e gli dissi nella mia mente “Potevi scegliere lei come soggetto, deficiente” e lui annuiva incantato con lo scalpello in una mano ed il martello nell’altra e la bocca spalancata.
Ne dedussi che la storia era stata una colossale stronzata perché non dovevano esserci state ragazze come lei nell’antichità.
Si rialzò portando alle mie narici un profumo di miele e fragola e mango e quante cose buone ci sono sulla faccia della Terra tutte insieme ed ero convinto che quel profumo fosse nato dal suo semplice chinarsi così innocentemente per raccogliere una penna, piuttosto che da una bottiglietta testata in duecentomila laboratori sparsi per la Francia.
Mi guardò per un attimo incuriosita ed io me ne stavo ad osservarla ancora, con la testa inclinata da un lato e completamente in balia del suo profumo incantatore; scossi il capo ed arrossii improvvisamente.
Lei inarcò le sopracciglia come per chiedermi perché la guardassi, mi venne d’istinto risponderle.
“No, è che...” gesticolai vistosamente “stavo sentendo il tuo profumo...” dovevo avere la faccia romantica eppoi forse ero stato troppo dolce, bisognava rimediare “...credo di averlo già sentito da qualche parte, non so...” abbastanza evasivo ok, ma sarebbe stato meglio precisare che “... non pensare che io te l’abbia detto per... insomma” no, no, così mi sarei rovinato da solo, impacciato di merda “...e come... come si chiama?” mi salvai in calcio d’angolo e cercai di riprendere fiato per affrontare la prossima sessione.
“Coolwater!” mi rispose raffreddando improvvisamente lo sguardo e tornando ad osservare il professore.
Non smisi di guardarla, per quanto mi vergognassi come se fossi nudo in mezzo alla strada con un migliaio di persone a deridermi, quindi decisi di aggiungere al mio sguardo qualche altra parola, così, tanto per non sembrare più stonato del solito.
“Ha un buon sapore... cioè, voglio dire” scossi la testa “non è una cosa che si mangia” provai a ridere ma lei aveva lo sguardo fisso in avanti “volevo dire che ha un buon odore... cioè... profuma” rimasi addubbiato dalle mie stesse parole, avrei voluto darmi tanti pugni in faccia da solo. Certo che profuma, animale, è un profumo!
“Voglio dire” sorrisi “tutti i profumi profumano... però ci sono quelli che... insomma... hanno un profumo di mer... cioè che non è buono, invece questo è così...” il coglione greco faceva di no con la testa, le braccia lungo i fianchi.
“Vuoi smetterla?” mi interruppe a bassa voce “Per colpa tua non sto capendo nulla. Pensi solo alle bambinate, tu” era così sicura quando parlava con me che mi resi conto di essere effettivamente un bambino nei suoi confronti, perché io la sicurezza e la decisione ce l’avevo solo nel praticare cazzate. Il greco si compiacque del fatto che lei preferisse ascoltare la lezione che riguardava la sua opera d’arte.
“Ah già!” abbassai la testa tornando a voltarmi e poi mi abbassai tutto proprio, affondando il più possibile sotto il banco.
Vidi ancora il tizio greco che adesso rideva piegandosi in due con le braccia incrociate sullo stomaco come se non ce la facesse più. Puntò lo scalpello verso di me senza smettere di ridere.
“Sei proprio un bambino coglione, amico, non sai nemmeno parlare con una ragazza, eppure quella barba ti da un aspetto da grande. Fammi tornare al mio lavoro, va’” e tornò ad occuparsi delle statue ancora in fase di lavorazione con un’ultima botta di risa mentre già colpiva lo scalpello col martello.
Mi grattai la barba e ricordai di averla, forse era per quella che oggi era così scontrosa con me.
Mi venne in mente il secondo giorno, stavo dicendo, e se la ricordo ancora bene, faceva più o meno così, con il cambio leggermente stonato.


Balia

Strofa 1
Collo di latte,
alza ancora per favore i tuoi capelli
e lascia libera la nuca da inutili colletti
che io possa baciarla con labbra inconsistenti.

Ritornello 1
Sono solamente un bimbo con la barba
che ha bisogno del tuo collo su cui lasci scivolare
semplici granelli di cristallo
che vanno a rotolarti sulla pelle
...

Strofa 2
Vorrei essere te.
Vorrei essere la ragazzina dai capelli castani
che pare così sicura di tutto ciò che fa
e che, con due occhi che riflettono dolcezza,
mi parla senza alcuna esitazione.

Ritornello 2
E invece sono un bimbo con la barba solamente
che ha timore di sembrarti troppo grande
per bere il latte dal tuo collo che non avrebbe poi
motivo di essere bevuto.
Se fossi troppo grande per amarti.
...

Finale
No, che non lo sono, troppo grande,
non avrei bisogno del tuo latte, signorina,
non avrei bisogno dei tuoi capelli
che la cioccolata invidia per dolcezza
e non avrei bisogno delle guance
che come rosee pesche non cadono
dal tuo ramo, signorina, dal tuo ramo.
...

Ritorno alla strofa 1
Lascia libera, ti prego, la tua nuca
vabbé, sono troppo grande, l’ho capito
però lascia che la guardi un’altra volta
e che possa baciarla con labbra inconsistenti.

Senza che ancora ci fossimo parlati una volta sola, già avevo capito che quello che da un piccolo desiderio stava diventando lentamente il mio sogno, non si sarebbe mai realizzato neanche nella mia immaginazione e mai avrei pensato a come sarebbe stato stare con lei, perché avevo la sensazione che non mi avrebbe mai dato la possibilità neanche di fare questo.
Stracciai il testo della canzone che mi sembrava pure bellina alzandomi dal mio sgabello e mettendomi steso sul mio divano a pancia in giù, con i pugni sotto il mento per tenere la testa alzata, a guardare alla televisione un cartone animato di serie B.
Un bimbo con la barba solamente.

*

Skizzando nel vento 10: Genio maledetto

10
Genio maledetto
(Barra Gabriele, classe ottantuno, signore!)



GENNAIO E FEBBRAIO DEL MITO

Stavo mangiando un cornetto alla crema caldissimo, con nessun pensiero particolare nella mente, spensierato come un ragazzino di quindici anni da compiere fra non molto, innamorato di una ragazza, che si dirige nella sua classe alla fine della ricreazione. Ed era proprio ciò che effettivamente ero.
Non lo vidi arrivare e mi accorsi che era lui solo quando sentii la sua mano stringersi sul cornetto e crema calda inondarmi il viso, pensando già a come sarebbe stato appiccicoso il mio tentativo di togliermela via.
“Bastardo!” dissi sporgendomi in avanti per non sporcarmi i vestiti con la crema che era scesa giù per il mio viso e adesso ristagnava sul mio mento formando dense gocce che sembravano di muco, in una mano tenevo il cornetto, l’altra era semiaperta ed impotente.
Quelli dell’ultima fila erano tutti lì e ridevano piegandosi in due e descrivendomi come un lattante che aveva appena vomitato, non capivo che cazzo avevano da ridere, mi sentivo imbarazzato in una maniera animale e già prospettavo che fossi in dovere di lavare presto l’onta subita da Luigi Corona che adesso se ne stava un po’ distante da me per avere il tempo di fuggire nel caso io...
...con un salto fui vicino a lui, ma quello mi prevenne, si voltò ed iniziò a correre con le gambe che si alzavano verso l’esterno e con i lunghi capelli biondi che gli si stavano slegando dal codino in cui li teneva legati.
Lo inseguii per tutto il corridoio evitando un paio di professori tra le urla dei miei compagni di classe che incitavano ridendo ancora, saltai una ragazzina intera seduta per terra proprio sotto la finestra, feci volare il registro ad un altro che usciva proprio allora da una terza e mandai all’aria una seconda ragazzina che non vidi affatto.
A due metri dalla mia classe mi lanciai a tuffo come un giocatore di rugby e lo agganciai con le braccia attorno alla vita e lui, ridendo, cadde in avanti proteggendosi il volto con le mani. A terra riuscì a girarsi a pancia in su ed io gli stetti proprio sopra.
Rideva ancora.
Rideva e rideva e basta, coi capelli davanti agli occhi e con i suoi denti bianchi e con le orecchie piene di orecchini brillanti a cerchio. Rimasi fermo per un attimo a guardarlo e mi venne una rabbia che era la stessa che avevo provato il giorno che fui sospeso, quando c’era nell’aria quella atmosfera tesa come una corda nel tiro alla fune e lui se la rideva mentre venivo mandato a casa per due settimane.
Che grande faccia da coglione che aveva, Corona!
“Adesso te la mangi tutta, ‘sta crema qua” dissi e con le dita della mano destra mi ripulii alla meno peggio il viso eppoi gli spalmai quello schifo su tutta la faccia che assunse un’espressione ripugnante.
Lo guardai di nuovo ed ancora non aveva smesso di ridere, nessuno aveva ancora smesso di ridere e adesso ci erano attorno a cerchio, li guardai, c’erano anche Sarah Moretti e le altre ragazze tra loro; guardai di nuovo Corona che adesso si ravviava i capelli lasciando intravedere lo schizzo che gli avevo fatto in faccia che gli andava dal naso all’orecchio sinistro, rideva con gli occhi chiusi e mi parve un bambino che fugge, ridendo, l’ira dei genitori e così mi spense, anche io iniziai ad avviarmi prima sorridendo, poi con piccole esplosioni di risa e alla fine ridendo apertamente, mi chinai su di lui abbracciandolo e poggiando il mio mento sulla sua spalla.
“Hai proprio una faccia di cazzo” gli sussurrai ancora ridendo in un orecchio.
Due minuti dopo eravamo in piedi ai lati della cattedra, con la faccia ancora sporca di crema a spiegare al supplente che avrebbe sostituito storia in quell’ora, che stavamo solo scherzando e che non c’è niente di male a scherzare ogni tanto e che non poteva metterci quella nota che voleva perché in fondo non avevamo fatto male a nessuno e non eravamo stati indisciplinati ma semplicemente un po’... come dire... teste di cazzo innocue.
Non era d’accordo con noi e ci mandò a posto tutti quanti riempiendo la sezione delle note di quella giornata e noi lo stesso risultammo pienamente soddisfatti delle nostre risate, pur beccandoci una nota collettiva.
Sedemmo ai nostri posti tranquilli come se non fosse successo niente ed in verità per noi era proprio così, con tutte le note che avevamo già collezionato, una in più non avrebbe cambiato di molto il nostro stato di condotta.
Tra la fine delle vacanze natalizie e quel giorno di fine gennaio io personalmente avevo beccato sette note di cui l’ormai leggendaria: ‘Barra canta in classe alla fine delle lezioni e Corona fa il coro e finge di suonare la chitarra’ in collaborazione con Luigi che ne aveva già una bella scorta dall’inizio dell’anno. Cristiani si era preso la nota che più comprometteva la sanità mentale dei componenti della classe e più o meno diceva che ‘ha degli strani attacchi durante le lezioni in cui lancia urla forsennate all’indirizzo dei compagni e fa strani gesti’.
Quelli dell’ultima fila avevano invece solo note collettive ed erano pure loro una bella banda di menomati, ogni tanto si prendevano a pugni e litigavano ad alta voce per una cazzata qualsiasi, Fortunato metteva sempre pace con un testa contro testa fra i due di turno e loro si prendevano lo stesso la nota alzandosi a fare casino con il professore malcapitato.
Tutti i professori ci confidavano volta per volta che avrebbero tanto desiderato abbandonare la classe al suo destino e parecchie ore le perdemmo a fare casino mentre i professori ci guardavano semplicemente esausti della situazione e stanchi di fare il cattivo sangue tutte le volte che mettessero piede in classe.
L’idea quella volta fu (tanto per cambiare) di dare il più fastidio possibile al supplente e così mi alzai per andare a sfottere quelli dell’ultima fila e da lì, inginocchiandomi e nascondendomi dietro le spalle di alcuni di loro iniziai a gridare versi senza senso mentre a Cristiani si drizzarono le antenne e risate sparse per la classe venivano sommesse sul nascere.
“Ma che succede?” urlò il professore dalla sua cattedra alzando la testa dall’agenda su cui aveva gli occhi.
“Sono stato io,” mi alzai dall’ultima fila “‘sta faccia di fesso mi ha schiacciato il piede e mi sono fatto male, scusate” conclusi facendo segno verso Mangino.
“Torna a sederti al tuo posto” mi ammonì lui, guardandomi di traverso da sopra al paio d’occhiali grigi posti sulla punta del naso.
“Va bene” dissi avviandomi verso il mio banco con un sorrisetto sulle labbra.
“Come ti chiami, ragazzo?” mi chiese adesso lui.
“Barra Gabriele, classe ottantuno, signore!” facendomi spazio tra le sedie e riprendendomi il mio posto mentre quello continuò a fissarmi un po’.
“Il famoso Gabriele Barra, quello che è stato sospeso all’inizio dell’anno” affermò convinto con una piccola sfumatura di domanda.
“Sì, signore, me ne vergogno un po’ perché sostanzialmente sono timido” e diventai rosso mentre i miei compagni ridevano come se quel giorno ce l’avessi io la rotella che dava il via a tutte le risate.
“Da quello che hai fatto per meritarti la sospensione non si direbbe” affermò ancora.
“Perché?” chiesi “Si è venuto a sapere in giro?”
Ancora risate.
“Una cosa così grave viene a sapersi presto. Tu cosa ne dici?” animò con la mano la sua domanda ponendosi un dito sulle labbra.
“Dico” e qui mi staccai quel sorriso da idiota dalla bocca “che io non ho fatto niente, questo sputa, lui si incazza e poi mi sospende” ed agitai le mani in aria simulando due o tre tic.
“Hai sputato in testa al professore perché ti aveva rimproverato. Sputare contro una persona è l’offesa peggiore che uno possa avere intenzione di fare, lo sai? Sono i sociologi e gli psicologi a spiegarlo”
“Quello è stato dopo, professore. Dopo la sospensione ho sputato contro la finestra e mi hanno dato una settimana. Visto che c’ero, ho sputato in testa al professore e me ne sono aggiudicata un’altra”
“E ti sembra una cosa normale da fare?” me lo chiese quasi fosse un’affermazione.
“A me tante cose non mi sembrano normali. Ma non me ne lamento” spiegai.
“E sai che tutti i tuoi temi di italiano girano tra tutti i professori appena dopo i compiti in classe?” la rivelazione mi fece aggrottare le sopracciglia ed inclinare leggermente il capo da una parte.
“I miei temi… d’italiano?” chiesi.
“I tuoi temi di italiano, se tu sei Gabriele Barra, quello che è stato sospeso all’inizio dell’anno”
“Classe ottantuno, signore” ripetei con saluto militare annesso, stavolta.
“Fra i docenti si pensa che siano i migliori dell’istituto, davvero eccezionali. Da parte mia posso dirti che quello su quanto possa essere importante una frase non detta mi ha impressionato parecchio” mi guardò con ammirazione, cambiò posizione, mettendosi più comodo, sembrava che avesse trovato qualcuno a cui attaccarsi per passare il tempo.
“Beh…” che palle, parlare di questo genere di cazzate davanti a tutti. Ho sempre odiato che qualcuno mi mettesse al centro dell’attenzione in questo modo “a volte il professore li legge in classe”
“Tutte le volte…” rettificò Catalano alzando un sopracciglio con leggero disprezzo. Era sempre fottutamente competitivo con me, a quanto avevo notato.
“A me non sembrano così eccezionali…” Sarah Moretti fingeva di colorare il suo diario, distrattamente. Lei parlava per invidia del pene.
“Invece sono belli” annuì Del Monte, il che mi riempì d’orgoglio. E da lì iniziò una diatriba enorme che Coviello seppe interrompere con la voce soffusa che faceva ogni volta che dovesse parlare in pubblico.
“I temi di Gabriele sembrano delle vere pagine di un libro, non è vero che non sono eccezionalì” si muoveva a destra e a sinistra per dissimulare l’imbarazzo, il che invece lo evidenziava.
Tarantino annuiva, Pastore confermava, Nagliero che di solito si faceva i cazzi suoi ammise che “Quello sa scrivere e basta” ed a sdrammatizzare la situazione ci pensò Corona che mi abbracciò la vita smuovendomi fortemente a destra e sinistra annuncio che il suo amico sarebbe diventato uno scrittore con la stessa gioia che se avessimo vinto una cifra assurda al totocalcio.
“Quindi ho il piacere ed il dispiacere di conoscerti, Gabriele” riprese il professore pensandoci su e cambiando di nuovo posizione “ma il fatto che stiamo parlando mi servirà quantomeno a farti la domanda che faccio sempre agli alunni, fra quelli che mi è capitato di avere che si comportano come te e che hanno delle straordinarie doti nascoste: perché l’energia che sprecate per fare le vostre stupidaggini, non la utilizzate invece per costruire qualcosa di positivo?”
“Non lo so” continuavo a tastarmi l’orecchino in cerca di un appiglio.
“Uno che si comportava come te e che è stato un grandissimo poeta era Rimbaud. Ma Rimbaud ha scritto forse le pagine più belle della poesia francese dell’ottocento, lui era considerato un genio maledetto” un genio maledetto. Io di Rimbaud conoscevo soltanto il Battello Ebbro che stava sulla nostra antologia.
“Ma io non voglio diventare uno scrittore, mi basta essere un povero buffone di strada, a volte mi piace fare ridere, a volte… sputo sulle cose” nuove risa scoppiarono all’interno della classe.
“Professò, io gli ho insegnato a sputare” Corona voleva ritagliarsi la sua fetta, dal mio momento di gloria.
“Ma tu hai buone qualità, perché vuoi sprecarle facendo il buffone di strada?”
“Non sono sprecate. Posso andare al bagno?” indicai la porta.
“Sono sprecate se nel tuo tempo libero non le valorizzi esercitandoti e disciplinandole”
“Io cerco di disciplinarle, ma non voglio essere uno scrittore e sono incontinente, mi faccia andare in bagno”
“Ma non necessariamente uno che sa scrivere deve diventare uno scrittore. Potresti per esempio diventare un ottimo insegnante o magari se sei tanto bravo a parlare e scrivere come si evince dai tuoi temi, potresti essere un ottimo avvocato”
“Sono lavori che non mi interessano. Posso uscire, adesso?”
“Un lavoro prima o poi dovrai farlo, nella vita”
“Attore comico? La prego, non ce la faccio più, voglio andare in bagno”
“Perché non ci pensi seriamente al tuo futuro?”
“Perché il futuro importante è il presente secondo me, per esempio in questo istante dovrei andare al bagno”
“Invece bisogna costruirselo da adesso un ottimo futuro”
“Se lo dice lei” così mi alzai e mi diressi verso il basso della classe e lì mi girai di spalle al professore
Con una mano mi grattai la nuca, mentre con l’altra lentamente abbassai la cerniera dei miei jeans e sentii tutti gli sguardi della classe proprio addosso. Mi voltai verso Fortunato che era quello più vicino a me, forse aveva capito ciò che stavo per fare, perché mi fece segno di no con la testa, che era meglio lasciare perdere e non impuntarsi, gli sorrisi per dirgli che tanto ormai non me ne fregava più niente proprio e così, voltandomi nuovamente, scaricai tutti i liquidi che avevo nei reni ed in quel momento sentii il vero peso e valore del grande futuro che mi stavo costruendo.
“Aspetta che vengo anch’io, Gabrié” disse Corona che in tutto quel tempo era stato ad intagliarsi il banco di nuovi disegni.
Un grande silenzio proprio, e poi risate a raffica, dopo un attimo di titubanza, prima che la classe iniziasse ad evacuare nel senso che quasi tutti scapparono fuori, mentre alcuni vennero a pisciare accanto a me.
Tra quelli che andarono via ci fu anche il professore che forse intuì che con le teste di cazzo come me, non era proprio il caso di darsi tanta pena.
Dieci minuti dopo i bidelli si incazzarono come iene per quello che avevamo combinato, rifiutandosi di pulire. Promisi loro che avremmo dato una mano e mi giustificai dicendo che il professore non mi aveva lasciato uscire e io non ce l’avevo fatta più ed era la sacrosanta verità.
Nonostante tutto mi beccai la seconda sospensione per due settimane, ma questa volta Corona e Nagliero furono sospesi con me. E fu sospeso anche Catalano che, tra le altre cose, non voleva mancare di essere competitivo anche in una sfida a chi piscia più a lungo.
E con quell’altra cazzata fui separato ancora da Sarah Moretti che presto, visto che si era spesso fermata alle apparenze, mi ripromisi che avrebbe finalmente visto il Rimbaud che c’era in me.

Al ritorno dalla sospensione, la scuola rotolò avanti per altri due mesi in cui si cristallizzò il mito della nostra classe come più indisciplinata di tutta Italia.
Si creò una moda in quei mesi, la moda del simpatizzare con noi come fossimo gli studenti da imitare, tutti iniziarono a copiare il nostro modo di vestire ed il nostro modo di fare, senza che a noi ce ne importasse più di tanto, c’era chi copiava quelli dell’ultima fila (che venne denominata il Loggione) per il modo trasandato di vestire, chi copiava Corona per il modo di portare i capelli e le basette, chi prese a copiare Cristiani per le sue magliette fosforescenti e ci fu un vistoso incremento di lobi bucati da orecchini a cerchio, jeans larghi e sbiaditi e camicie mezze sbottonate a volte esatte uguali a quelle che portavo io. Sembrava che la scuola si fosse rispecchiata dentro noi e avesse trovato la sua stessa anima nella nostra e a noi questo cambiamento ci sfiorò solamente perché continuavamo a fare quello che dovevamo e volevamo come e quando ci pareva, solo e semplicemente c’era in più il fatto che gli studenti degli anni superiori iniziarono a rispettarci, iniziarono a credere che fossimo veramente dei figli di puttana. Ci attribuivano delle qualità ideologiche che in realtà non avevamo, ci credevano dei ribelli, ci credevano dissidenti, ma in realtà eravamo soltanto teste vuote sbattute contro la scorza del mondo. A scalfirsi era lei, mentre le nostre teste vuote non ne subivano conseguenze.
In quel periodo diventammo il referente preferito di tutti: i ragazzi ed i professori mi osannavano perché avevo matematicamente portato la squadra della scuola nelle provinciali con quattro gol di cui due decisivi in soli quaranta minuti giocati, il ché mi aveva garantito finalmente il posto in squadra da titolare, i comunisti, con la loro voglia di rivoluzione, si identificavano nelle nostre proteste contro i professori, i professori stessi crearono un rapporto confidenziale con noi per quella inconscia simpatia che si prova sempre per gli studenti più indisciplinati, i miei temi vennero pubblicati nel giornale della scuola, Catalano riuscì soltanto a pareggiare con le sue poesie, Tarantino e Marcantonio si alternavano nel disegnare vignette satiriche scritte da Coviello che, insieme a Fortunato, fu inserito nella squadra dell’atletica vincendo i cento metri e la staffetta a quattro mentre Fortunato vinse il lancio del peso il secondo, Pastore divenne presidente del cineforum e poi capo redattore del giornale stesso, Morra organizzò il concerto di Carnevale ed a Corona fu affidato il compito di disegnare un grande murales con l’intestazione della scuola sul muro di fronte del corridoio delle assemblee di istituto. Tutti ottenemmo riconoscimenti e chiunque in generale ci si affezionò perché in giro per i corridoi, nei bagni, nel cortile, montavamo improvvisamente spettacoli di una comicità unica e in quel grandioso periodo riuscimmo ad infondere vita nel logorante tempio della cultura che la scuola voleva rappresentare, riuscimmo a rendere ogni giornata divertente ed interessante per chi avesse un minimo di intelligenza e di apertura mentale.
Ci odiavano e ostacolavano solamente, fra tutte, tre categorie di persone: i professori della nostra classe, i nostri compagni figli di papà ed il preside. Di una di queste tre categorie purtroppo faceva parte Sarah Moretti e quello me la allontanò come nientaltro credo, non ci pensai immediatamente perché sembrava che non ci fosse contro nessuno in quei mesi, sembrava veramente che nulla sarebbe stato più impossibile per noi, i nostri nomi e le cose che facevamo, anche le cazzate più grosse, erano nella bocca di tutti, professori e alunni e ad un certo punto cominciammo ad essere coscienti di questo stato di grazia che ci aveva avvolti.
Ragazze più grandi ci guardavano affascinate dal grande mistero dell’essere considerati popolari senza avere il merito di essere belli o ricchi. Catalano si fidanzò con una del terzo anno, Corona era assediato dalle ragazzine del primo e del secondo, quelle delle classi in cui era stato gli anni precedenti si affacciarono spesso a salutarlo, come rimpiangendo di non averlo più con loro, Coviello ricevette un mazzo di fiori da una ammiratrice anonima, Tarantino veniva pedinato tutte le mattine da una che sembrava una ballerina spagnola, Pastore fu visto a baciarsi con una piccola piccola e brutta come lui.
Di tutte le cazzate che fioccavano ogni giorno, quello veramente storiche furono due: Cristiani che si calava da una finestra con una corda fatta di bretelle di zaino preparata da me e Corona e Coviello salito dal davanti sulla cappotta dell’auto di una professoressa che stava arrivando.
Tutto questo alla fine iniziò ad avere il suo peso sulle mie spalle ed essere sempre monitorato da chiunque e sapere che in ogni momento tutti si aspettavano da te qualcosa di grande, ad ogni passo che mettessi nel corridoio o ad ogni entrata che facevi nella scuola, non era poi la cosa migliore che potesse capitarmi, proprio a me che volevo mischiarmi nella folla e catturare la mia ispirazione estratta direttamente dalla fonte Sarah senza dare nell’occhio. Per esaltarmi scrivendo una canzone che avrei cantato solo a me stesso centinaia di volte.

Tutta la nostra popolarità ci si rivoltò contro alla fine del primo quadrimestre e ci fece aprire gli occhi di fronte alle tre grandi inimicizie che ci eravamo creati.
La prima la scoprimmo nell’assemblea di classe di febbraio, quando il più importante punto all’ordine del giorno fu il casino durante le ore di lezione e tutto il resto della classe ci puntò il dito contro e ci mandò alla pena capitale accusandoci nome per nome di disturbare le lezioni e di aver dato una pessima reputazione all’intera classe e non solo a noi stessi e poi anche delle note che avevamo collezionato mese per mese.
Per tutta quell’assemblea Sarah Moretti mi guardò come fossi un assassino, proprio a me che sembravo la vera scintilla del cambiamento di tutta la classe e proprio per il fatto che ero stato la vera scintilla della classe.
“Ma non ti dà fastidio il fatto che per colpa tua il preside ci abbia additato come la classe più deludente dell’intero istituto? Io a scuola ci vengo per studiare, non per vedere come voi fate gli stupidi e per essere discriminata da tutto il resto dell’istituto” affermò lei intervenendo nel corso dell’assemblea in occasione della quale mi ero unito ai miei compagni del Loggione sedendomi fra di loro con Corona e Cristiani come in una bella rimpatriata. Era alquanto alterata, forse perché l’avevo un po’ trascurata, in quel periodo.
Mi alzai.
“Non è colpa mia se questa è una classe di merda” risposi semplicemente scaricandomi la colpa come fosse polvere sulle mie mani e tornai a sedermi.
“Sì, è vero, rimbambita, povera scema, non capiscono un cazzo questi qua” la sommersero con il coro i ragazzi fra cui ero seduto. Erano proprio dei ragazzi d’oro quando ci si mettevano, eh.
“Vi ringrazio” dissi come se fossimo in un’importante assemblea parlamentare.
“Invece è colpa sua, è stato sospeso due volte, ha sputato in testa al professore d’inglese, non si sta un attimo fermo, è lui che provoca gli altri” Altamura si aggiunse alla contestazione di Sarah.
“E i rimbambiti siete voi che sapete solo aggredire” commentò Marisi, incrociando le sue grosse braccia sul petto.
“E io a mia madre che gli devo dire?” anche Di Bitonto che non aveva mai un cazzo da dire, volle esprimere la sua opinione.
“Quel… maiale ha fatto... i suoi… bisogni vicino al muro” Sarah Moretti indicò il fondo dell’aula “Ma vi rendete conto almeno della gravità di questo?”
Nessuno seppe rispondere adesso, ci fu solo la risata di Cristiani che accese tutte le altre nostre. Di Monte scuoteva la testa in segno di dissenso, Pastore era fermo immobile come un capo indiano, nella differenza di posizione che esprimevano i loro volti si identificava la frattura che aveva diviso l’intera classe.
“E se la ridono!” disse solo Sarah Moretti stringendosi la testa tra le mani, ormai del tutto scoraggiata “Mi sembrano dei dementi, questi qua” effettivamente lo eravamo.

La seconda inimicizia che ci eravamo creati la scoprimmo, anzi, più che altro avemmo ulteriore conferma della sua esistenza, quando il preside beccò Corona che stava scrivendo sul muro del bagno, ci aveva proprio una fissa per l’arte grafica, lui. Ce lo portò in classe per un orecchio mentre quello bestemmiava in sette lingue diverse di lasciarlo andare.
Ci guardò con una luce di stizza negli occhi quando stava per uscire, poi gli ordinò di stare zitto e, fermandosi per un attimo sulla porta, gli puntò un dito contro.
“Hai trovato i tuoi giusti compagni in questa classe, ma io so come sistemarvi a tutti e poi quest’anno te ne vai, se vieni bocciato ancora e giuro che neanche se inizierai a studiare da adesso giorno e notte lascerò che tu passi l’anno. E qualcun altro ti seguirà così vediamo di organizzarci per fare diventare innocua questa classe entro l’anno prossimo” lui non era di quelli che sapevano prenderla con ironia.

La terza inimicizia la scoprimmo come detto alla fine del primo quadrimestre, quando su ben dodici pagelle il voto segnato a nero che riguardava la condotta fu il sette. C’eravamo tirati dietro anche qualche innocente e fu finalmente confermato che eravamo la classe più indisciplinata d’Italia. Sulla mia il sette non c’era fortunatamente, la mia pagella aveva per voto della condotta un bel sei dalle curve tonde tonde; a far compagnia a quel sei solo soletto, venne quello di Corona.
Praticamente perfetto per un primo anno da primato, visto che l’unico sei sia per me sia per Corona fu quello. Per quanto riguarda la mia pagella, tutti i miei voti superavano abbondantemente il sette, dato che da un po’ avevo anche recuperato a matematica, mentre quella di Corona ce li aveva tutti al di sotto del sei, gli altri voti.
“Guarda qua, quest’anno sono salito pure in condotta” mi disse sorridendo della sua pagella e tirò fiori uno splendido coltello intarsiato con cui prese ad intagliare il banco.
“Bello, quel coltello” gli dissi.
“Ti piace?” voltò la testa verso di me “Se vuoi posso procurartene uno uguale”
“Lascia stare, va a finire che ci ammazzo qualcuno, schizzato come sono” mi piantai una mano sotto il mento, annoiato.

Quel giorno stesso di metà febbraio ci scambiarono di posto. A tutti senza pietà neanche per chi non aveva mai fatto niente e, per quanto fosse difficile, si cercò di fare in modo che non esistessero più due sette in condotta vicini di banco, per non parlare di me e Corona che saremmo stato posizionati uno ad un angolo e l’altro all’angolo opposto della classe.
Presenti alla destrutturazione e ristrutturazione della classe di quella mattina furono tutti i nostri genitori o almeno quelli che avevano potuto essere presenti. C’era mio padre che era tanto deluso che nelle ultime due settimane di sospensione non mi aveva praticamente cagato se non per mandarmi a fare in culo ogni qualvolta gli capitassi tra i piedi. E c’era la madre di Sarah Moretti che, con espressione arcigna ci aveva spiegato che chi aveva usato l’aula come urinatoio non aveva nulla di diverso da quei ragazzi che a quell’epoca avevano lanciato massi dal cavalcavia. Dunque ero anche un assassino.
Mentre il professore cercava il posto adatto a me e continuava a farmi spostare zaino e tutto prima a destra e poi a sinistra, mio padre non smetteva di consigliarlo in perfetto vernacolo facendo ridere chiunque e accattivandosi le simpatie dei miei compagni di baldorie, col risultato che mi piantai le mani in faccia della vergogna e ripagai quella che lui doveva aver provato e stare ancora provando per me.
Io, che di tutto il casino ero stato il fautore, con la storia di Rimbaud e del genio maledetto, tradii i miei amici che protestarono di non voler cambiare posto ammettendo che smetterla era la cosa migliore e facendoli tornare alla ragione. La leggenda era ormai terminata e poi veramente non ce la facevo più a sentirmi richiamare ad ogni stronzata che facessi, fosse anche solo pulirmi il naso e non ce la facevo più a subire lo sguardo indignato di mio padre del quale non sembrava più che fossi neppure lo sputo.
Così anche gli altri si decisero a farsi cambiare di posto, dopo che, di buona volontà, fui il primo a prendere posto, nell’aula vuota al nuovo banco che mi fu assegnato: tanto dopo tutti i giri che mi avevano fatto fare, mi avevano rimesso al posto di prima.
Tu vai lì, tu spostati qui, tu fuori dalla finestra, tu sopra la lavagna e un mescolamento totale da far paura, mi vidi i miei amici andare a finire negli angoli più bui della classe, nascosti dietro facce da mummie sgobbone che avrebbero scatenato una polemica di quelle asprerrime (se si potesse dire) appena avessero aperto bocca.
Il banco accanto al mio era rimasto ancora vuoto, mentre me ne stavo con la testa fra le mani ed una emicrania allucinante ad osservare il pavimento dove quattro mesi prima Corona aveva artisticamente elaborato i suoi vomitini a chiazze. Mi svuotai da ogni pensiero, cancellai tutte le voci attorno a me, pensai che non avevo scritto neanche una canzone in tutto quel tempo ed avevo solo cazzeggiato in compagnia di questi futuri nullafacenti, vidi la mia vita andare a rotoli e pensai che forse il mondo non mi sarebbe mai più piaciuto come mi era piaciuto in quei due mesi perché nell’unico periodo in cui ero stato felice, non avevo costruito nulla di buono ed avevo anche distrutto la mia più bella storia d’amore e ispirazione, nonché forse l’unica.
Poi, quando tutto si era ormai profondamente tinto di nero (si posssono immaginare la mia gambe che tremano leggermente ed il cuore che ha un sussulto, io che, nell’incertezza di aver capito bene, volto la testa da una parte, la osservo avvicinarsi, sbuffando, ma è come se finga, come se in realtà sia contenta, come se sperasse che quello che lei aveva voluto si avverasse per davvero, ma casualmente, così da non compromettersi) la presidentessa Sarah Moretti, quella dai fouson fucsia che quel giorno, tra l’altro, indossava per l’ora di educazione fisica ormai saltata, abbandonò lo zaino dietro lo schienale della sedia che era stata di Corona e adagiò i suoi morbidi glutei sul fondo della stessa. Quel giorno seppi per davvero che, se la fortuna baciava gli audaci, io dovevo esserlo stato all’ennesima potenza.

Molto tempo dopo, forse a metà del secondo quadrimestre, ce ne saremmo stati buttati nel cortile della scuola, Corona e Tarantino (ex-ultima fila o loggione) a fumare, Cristiani a togliersi la cacca dal naso, Coviello (ex-ultima fila o loggione) a cercare di convincere Mangino (ex-ultima fila o loggione) a fare l’imitazione del professore di inglese, Fortunato (ex-ultima fila o loggione) a prendere in braccio Pastore (ex-ultima fila o loggione almeno moralmente) e fargli fare le capriole, Nagliero (ex-ultima fila o loggione) a sfottere la mamma di Morra (ex-ultima fila o loggione) che tra parentesi era una bravissima e bellissima donna e Ieva (ex-ultima fila o loggione) a parlarci a tutti quanti delle sue avventure dell’anno precedente ed io sdraiato per terra a pensare a Sarah Moretti così vicina nel campo di pallavolo e così lontana per ciò che sarebbe successo.
Un tipo di quarto allora se ne sarebbe venuto per fumare anche lui una sigaretta ed avrebbe detto come fosse un segreto di stato:
“Io lo so che voi state solo cercando di far calmare le acque per poi riprendere a fare più casino di prima. Tutti lo sanno nella scuola e stanno aspettando di... per modo di dire... rivedervi all’azione”
Noi ci saremmo guardati tutti in faccia pensando ‘che cazzo vuole questo?’ e lo avremmo mandato affanculo con una tranquillità da indiano buddhista.
Ma ci saremmo resi conto comunque che quelli erano stati i mesi più grandi per noi, all’interno della scuola e forse i mesi più grandi della scuola stessa, eravamo stati capaci di riaccendere l’entusiasmo di tutto un istituto e smontargli di dosso quel vestito di tedio che indossava da sempre. E se ci avevano spenti piuttosto presto erano stati loro a volerlo e loro ci stavano andando da sotto, senza più nessuna guida all’interno del Liceo, senza più nessuno stimolo ed in fondo in fondo anche se sapevamo che non avremmo più fatto casino neanche col pensiero, ognuno di noi si aspettava dall’altro che, come aveva detto quel ragazzo di quarto, avesse la forza e la volontà di riaccendere la fiamma che ci aveva animati un tempo e naturalmente, anche se nessuno lo diceva, le più grandi aspettative gli altri le avevano su di me.
Ma il ‘genio maledetto’ come mi aveva definito in un giorno di gennaio quel professore, aveva perso l’interesse per qualunque genere di leggendarietà perché aveva altro a cui dedicarsi, e qualcosa a cui Rimbaud non avrebbe mai pensato, visto che informandomi, scoprii che era stato omosessuale.
Avevo da pensare a come intessere una storia d’amore con Sarah Moretti e per fare ciò avevo bisogno di ricostruirmi un’immagine che a lei non dico piacesse, ma quanto meno potesse andare bene.

*

Skizzando nel vento 9: Ballata del ritorno

9
Ballata del ritorno
(Via da casa in un posto che non so dov’è)



DICEMBRE DELLA LONTANANZA

C’era quest’aria da ‘oh che bello! oggi è Natale, ma non è che ce ne freghi poi così tanto, a noi’.
Le case avevano i balconi agghindati e gli abeti erano pieni di palline colorate gialle verdi azzurre rosse e bianche e c’era pure la neve che a Natale è la cosa più bella, senza dubbio e c’erano persino i bambini che si tiravano le palle di neve e i pupazzi bianchi con la carota al posto del naso e gli occhi-due bottoni azzurri con la sciarpa al collo e persino i guanti per mani.
C’era pure la gente che camminava da un posto all’altro con pacchi regalo grandi, piccoli, invisibili e c’erano anche i neri che camminavano per le strade bagnate spalate la mattina presto, con le loro carrozzelle piene di accendini e di cassette a contrabbando e tutto il resto che doveva far loro un freddo cane, abituati al caldo della loro terra.
C’era tutto questo nel paese che i miei avevano scelto (partiti il pomeriggio del ventitre ed arrivati lì durante la notte, avevamo dormito ed avevamo visitato un po’ il posto, la mattina del ventiquattro) per passare il Natale da un’amica di mia madre che un tempo era stata nostra vicina di casa e che divenne prestissimo e rimase la migliore fra le amiche di mia madre.
C’era tutto questo, dicevo, però era troppo classico, patetico e persino banale, persino ipocrita, persino brutto e malinconico più che dolce come voleva sembrare, ma purtroppo me l’avevano assegnato e dovevo tenermelo, almeno per fare felice mia madre che era così contenta di essere uscita via dalla solita routine per una volta e di dover passare finalmente un Natale come voleva lei e cose così.
Scesi dalla branda che avevo preso per letto in quella settimana e spalancai lentamente la porta a soffietto dietro la quale ero stato rinchiuso per una mattinata intera, visto che la notte prima l’avevo passata a giocare a carte e fare auguri e a mangiare panettone e bere spumante e tanti auguri e tanti auguri e tanti auguri e non avevo capito ancora perché a Natale si facessero gli auguri e non era tanto logico secondo me ed era per menti malate, comunque vabbé, si può dire che era stata una notte divertente, almeno per gli ultimi cinque minuti, quando tutti gli amici e parenti della coppia che ci ospitava se ne erano andati a finire la festa chissaddove e chissà con chi.
Mi diressi verso la cucina con gli occhi gonfi dal sonno e le labbra screpolate dal freddo, le gambe indolenzite, lo stomaco pieno zeppo di roba da mangiare di solo cinque o sei ore prima.
Un sole accecante stuprò i miei occhi ancora vergini del sonno e quando le mie pupille decisero di trovare un buon accordo con la luce, scrutai mia madre e la sua amica che sedevano al tavolo e si prendevano un caffé fumante in due tazzone giganti, tenute strette con entrambe le mani. Chiesi per una tazza di latte e mi toccò anche riscaldarmelo da solo, cazzo di ospitalità del cazzo proprio.
Decisi di tornarmene nello stanzino assegnato a mandare giù il latte che faceva pure schifo e non fu per niente consolatorio per il fatto di essere giunto in un posto che non mi piaceva affatto, senza nemmeno lo spunto per qualche idea su come riscattare la penosa giornata precedente passata a guardare la Tv, dopo aver girato in lungo e in largo per quel paesino di merda.
Abbandonai la tazza a metà sul comodino e mi vestii con molta calma, meditando qualcosa di buono, con una sincera voglia di non finire mai, che la giornata fosse già interamente passata, appena messe le scarpe.
Una secca delusione mi catturò quando il più lentamente possibile arrivai ad allacciarmi le stringhe delle scarpe e dovetti uscire con le mani nei capelli preso dal panico in quella specie di ripostiglio finto-adatto per passarci le notti.
Bagno occupato da una voce femminile da figlia della padrona di casa che mi rispose gentilmente di attendere prego quando bussai; meglio, c’era più tempo da perdere, molto di più, così tanto che fra poco sarebbe stata sera, osservai le lancette del mio orologio che segnavano le undici (cazzo), questa era una congiura, per forza, per forza, non c’era altra spiegazione, sarebbe dovuto essere sera fra un po’, Giuda, sì, al massimo fra un quarto d’ora appena.
Mi voltai lentamente in cerca di un appiglio morale e beccai la faccia di un Cristo che mi osservava con gli occhi che si chiudevano e si riaprivano. Perfetto: se mi faceva l’occhiolino lui, non poteva che essere tutto a posto e non doveva esserci tanto da preoccuparsi, ma stava bene lui, oggi era il suo compleanno e tutto il mondo se n’era ricordato e la maxi-festa l’avevano preparata per lui, che voleva di più?
Qualche centimetro più a destra riscoprii la differenza tra me e Cristo nel mio volto riflesso in uno specchio nel corridoio dove ero, la mia faccia spaventata da far paura, proprio un circolo vizioso: più la guardavo spaventata e più mi prendeva il terrore e la mia espressione si incupiva.
Provai a sorridere, a fare la faccia seria, a fare il triste, il mito, il sicuro di sé, gli occhi dolci, la faccia di quello che non capisce, la faccia del latin lover, nemmeno una di queste mi riuscì perfettamente, c’era sempre quello sfondo di panico per il futuro imminente che non mi lasciava perdere proprio.
Alla fine mi fissai dritto negli occhi e mi avvicinai lentamente allo specchio “Questa è una bella giornata” pensai senza staccare i miei occhi dai miei occhi “questo è un bel posto, questa è bella gente, è un bel periodo dell’anno e... massì, sei bello pure tu, ok? Perciò adesso ascoltami, chiudi gli occhi e non pensare a nulla, a nulla, e quando li avrai riaperti questa sarà una bella giornata, una bella giornata, capito? sarà una bella giornata, chiudi gli occhi!!! Questa è una bella giornata, quando lo dico io, quando lo dico io, quando...”
“Ma... che cosa stai facendo? Ti guardi allo specchio con gli occhi chiusi” e a te che te ne frega? non l’hai mai visto uno più fesso di me? e allora non rompere.
“Cazzo!!!” è il momento di fare la faccia da genio incompreso, adesso “Hai appena interrotto la mia esercitazione di autoipnosi, potevi stare zitta e guardare e basta”
“Ma non si fa col pendolo l’autoipnosi?” che cosa vuoi capirne tu di autoipnosi che non sapevi neanche che esistesse finché non te l’ho detto io.
“Dove lo vado a prendere il pendolo io?” già, neanche fossi uno psicologo professionista.
“Ce n’è uno bello grosso nel soggiorno” spirito di merda, proprio.
“Se non te ne vai in questo istante, ti ipnotizzo” adesso l’ho intimorita di sicuro, guarda come si spaventa, guardala!
“Ma guarda questo che faccia convinta che ha, devi essere un po’ fuori, té” e sarai dentro tu, sarai, che sono due giorni che ci hai addosso ‘sta maglia dei Nirvana che sicuramente te la sarai tenuta su da almeno tre settimane. E magari non esci finché non è asciutta, come se fosse l’unica maglia che hai.
Bagno conquistato, porta del bagno richiusa alle spalle, sapone liquido neutro Ph 5.5, schizzo sulle mani, passaggio sotto l’acqua, il tutto lanciato in faccia e gira gira, sugli zigomi, sulle gote, in fronte, sul naso, sul collo, sul petto e ci laverei persino i piedi pur di perdere più tempo possibile, ma dopo una mezzora nel bagno, la porta inizia ad essere presa a calci da mio padre che non ha per niente il senso del non essere in casa propria e del non poter fare esattamente quello che vuole e preferisce fare figure di merda pur di rompermi.
Quando esco vuole strangolarmi, ma fuggo via e nella mia fuga riesco pure a beccare la custodia dei miei occhiali da vista che non metto quasi mai ed il mio portafogli che (strano) non è vuoto come al solito.

Fuori dalla porta, il mondo aveva colori diversi, aveva temperatura e odori diversi, aveva persino una diversa consistenza. Inforcai i miei occhiali e le linee sfumate che vedevo in lontananza diventarono improvvisamente definite e tutto ciò era meraviglioso perché adesso capivo tutto e non era come il giorno prima che senza occhiali non vedevo e non capivo un cazzo, adesso riuscivo persino a leggere le insegne dei negozi e quel cane che stava cagando proprio sul marciapiede di fronte con la sua padrona che gli andava dietro con ‘sta palettina marrone, che grande cazzata, ma era bello lo stesso perché potevo vederlo.
Eccezionale, questo paese è veramente eccezionale oggi, non c’è niente da fare e c’è questo sole caraibico legato al freddo siberiano e non ci si spiega come mai a Natale da queste parti ci sia questo sole ok, ma non ci importa più di tanto, ce l’abbiamo e teniamocelo e viviamocelo, tanto ci abbiamo pure la neve che non si è ancora sciolta e va bene così.
Certo che con gli occhiali è tutta un’altra cosa, o forse mi sbaglio, forse... sta a vedere che l’autoipnosi ha funzionato per davvero!
Mi infilai il portafogli nella tasca anteriore dei jeans e mi sistemai il giubbotto che avevo addosso e così presi la via per una passeggiata antologico-gigantesca per il paese e per le sue vie che non avevano ancora buttato via totalmente la loro ipocrisia, ma che erano un po’ più schiette quella mattina.
Alla fine del giro avevo percorso una ventina di chilometri e avevo rivisto una ventina di volte le stesse due farmacie, due supermercati, due tabacchini, due edicole, due chiese, duecento banche che sembrava la Svizzera. C’erano un po’ di ragazzi in giro, un po’ di ragazze, piuttosto brutte direi, un po’ di persone che passeggiavano e certamente conoscevano a memoria ogni centimetro della strada che percorrevano ma non si stancavano mai di ripercorrerla e ripercorrerla, un po’ di amiche sedute ai tavolini di un bar ed un po’ di bambini impacchettati in giubbotti, cappelli, sciarpe guanti e tutto quello che ci stava sotto.
Mi fermai alla ventunesima volta che rifeci il paese, decisi di spingermi più in periferia e così mi ficcai in una stradina secondaria e la percorsi con un tanto di curiosità lecitamente espressa osservando a destra e sinistra gli enormi palazzi che le facevano da muri, studiando le sue ombre, il suo unico bidone dell’immondizia. Alla fine della stradina mi ritrovai in un gigantesco viale che non pensavo il paese potesse contenere, su cui si affacciavano villette piccole, grandi, larghe e piatte, a due piani, con le ringhiere verde acqua, azzurre e gialle e rosse e sembrava proprio primavera e non c’era neve per niente perché era stata spalata presto e se ne stava tutta ammucchiata ai bordi del viale, sotto i marciapiedi.
Iniziai a percorrerlo come se non avessi mai visto un viale alberato ed in realtà uno così bello non l’avevo mai visto, per davvero, con tutti quei rampicanti non proprio verdi data la temperatura, ma tutti gli alberi, i cortili, le ringhiere, il sole, tutto era perfetto perché quello fosse il più bel viale alberato che avessi mai visto e chissà perché in quel preciso momento mi venne in mente Sarah Moretti e le sue belle cose da ragazzina in conflitto con se stessa, con il suo passato di bambina e col futuro da donna che l’aspettava, forse perché eravamo ancora a dicembre, ma lì mi sembrava veramente una mezza primavera e la stessa identica sensazione avevo di Sarah: forse ancora una bambina, ma per me già una donna a pieni meriti.
Ripensai in un attimo alle sue labbra e provai, chiudendo per un istante i miei occhi ad associarle al cielo azzurro vivo di quella mattina, il risultato fu così inebriante che quando un vento gelido mi sollevò i capelli colpendomi in viso, mi parve persino caldo e piacevole, avvolgendomi completamente e sfuggendo tra gli spazi vuoti del mio giubbino.
Riaprii gli occhi e lo osservai spingere alcune foglie, sorridendo mi chiesi anche perché fosse andato via così in fretta, ma poi tornai a pensare alle sue mani delicate, quelle che avevo notato il giorno dell’assemblea mentre stringevano timide il suo quaderno di poesie, quelle mani candide che chissà cosa avevano fatto fino ad allora, chissà quali dolci movimenti avevano compiuto al risveglio, chiuse a pugno mentre spingevano col dorso sulle palpebre ancora indolenzite dal sonno, o magari più semplicemente, più ingenuamente, come mi sembrava adatto per lei, impegnate a preparare un pacco regalo per qualche amica, magari avvinghiate ad un paio di forbici per arricciare il fiocco appena sopra il nodo.
Voltai la mia mano destra verso il dorso e me la misi di fronte, guardandola, le unghie lunghe ed anche un po’ luride, tagli su tagli, più piccoli, più grandi, anche due cicatrici, un po’ di peli sulle dita, scure come il resto della mia pelle, piene di vene che sembravano scolpite a rilievo sulla carne e di ossa spigolose, senza contare che avevo entrambi i mignoli spezzati da quando avevo poco più di sei anni e non mi ero mai fatto visitare da nessun medico perché lo ritenevo superfluo ed invece le ossa chissà come cazzo si erano riattaccate, visto che non riuscivo più a muoverli bene ed erano un po’ storti verso l’esterno.
Voltai la mano dall’altra parte e qui non era tanto meglio. Quelli più evidenti erano i calli sui polpastrelli che si stavano riformando da quando avevo ripreso a suonare la chitarra, erano delle cose bianche di pelle screpolata che facevano veramente senso e che all’inizio facevano un male bestia proprio. Poi c’erano i calli alla base della dita che erano un po’ più grandi ed erano anch’essi bianchi, ma contornati di un rosso quasi mestruale e livido. Infine c’era una cicatrice abbastanza evidente sul monte di Venere che sembrava quasi un buco e quella era una spina di rosa su cui ero caduto due o tre anni prima e che si era ficcata nella carne e la pelle ci era ricresciuta da sopra ed in controluce ogni tanto si vedeva ancora la spina ben custodita sottopelle e felice di esistere e di potermi rompere ancora dopo tutto quel tempo.
Nessun paragone assolutamente con le manine piccole e bianche di Sarah, con le sue unghie ben tagliate, con le sue dita sottili ed i palmi puliti e segnati lievemente dalle linee che le veggenti dicono di saper interpretare, la linea della vita, dell’amore, del lavoro e cazzate così.
Nessun paragone certo, però comunque lasciai ricadere la mia mano sul fianco e la girai col palmo verso l’esterno, ripresi a camminare per il viale e che ci crediate o no, da allora una delle due mani di Sarah strinse improvvisamente la mia, con le dita intrecciate e col suo palmo morbido sul mio duro, e così me ne andai con lei mano nella mano che lei ci fosse veramente o meno, e fu quel dubbio che la fece forse diventare la più lunga passeggiata della mia vita.
Bella davvero.

Pomeriggio palloso in casa di altri e già in casa mia non sapevo che cazzo fare quando non avevo voglia di suonare la pianola e la chitarra, figuriamoci qui che non c’era proprio niente da fare, tranne rompersi davanti alla Tv oppure farsi una bella dormita di quelle lunghissime sperando in un non-risveglio abbastanza glorioso date le circostanze.
Giravo come un ossesso per cercare davvero qualcosa che mi facesse perder tempo prima di impazzire del tutto in quella angosciosissima attesa di qualcosa che non si muoveva ad accadere, qualunque cosa fosse, qualunque emozione potesse darmi, di qualunque natura fosse.

Non ho voglia di leggere, nemmeno di dormire perché se mi addormento adesso, poi mi risveglio con un sonno peggiore di questo ed è tutta una catena che è meglio spezzarla dal principio anche se a volte è difficile, anche se sembra persino impossibile.
Riprendo a girare per le stanze cercando almeno un solo oggetto che possa attirare la mia curiosità e che mi faccia fermare ad osservarlo per una mezzora, ma in questa casa tutto è scontato, tutto è talmente logico da perdere assolutamente il suo fascino persino sulla mia fervida curiosità.
A volte, a volte mi sembrava di non poter essere appagato da niente proprio, a volte mi sembrava che tutto fosse inutile e che persino la vita stessa che siamo costretti a vivere fosse poco importante e nemmeno la mia chitarra quelle volte poteva farci qualcosa o metterci una pezza, forse adesso come adesso nemmeno Sarah Moretti avrebbe potuto fare qualcosa per aiutarmi a passare degnamente quel pomeriggio perché ormai ero entrato nel giro perverso della tristezza spasmodica, come mi piaceva chiamarla confidenzialmente, credo che neanche il possibile creatore dell’universo avrebbe potuto fornirmi la medicina necessaria per superare l’ostacolo e così dovevo tenermela e sperare che quella volta durasse poco, pochissimo e che magari fosse già passata, sì, proprio adesso mentre osservavo sforzando di incuriosirmi, i raffinati oggetti di argento e cristallo e chissà quale altro materiale elegante e nuziale che la padrona di casa teneva sparsi per la casa come soprammobili, ma non c’era niente che catturasse la mia attenzione.
Tutto puzzava di sala ricevimento e feste grandiose in cui lo sfarzo si spreca, abiti da sposa, tendaggi inverosimili, sedie lussuose e tovaglie ricamate e centrini e posate d’argento e auguri a tutta forza e lacrime e riso e matrimoni pallosissimi e cose così e tutto, tutto sapeva di roba da mangiare da ristorante, di crostini e primi piatti al risotto ed antipasti e mise in place con ventisette bicchieri a persona e trentacinque forchette e sette coltelli e tovaglioli piegati a forma di barchetta o cravatta che avrebbero dovuto sembrare simpatici ma non riuscivano a dare sensazioni diverse dalla nausea per le ore di lavoro e di preparativi che ci stavano dietro.
Scossi violentemente la testa e mi concentrai invece sulla porta della stanzetta di Vittoria (la figlia della padrona di casa) e lì immaginai invece qualcosa di vagamente interessante tipo una camera classica da adolescente piena di oggetti graziosi da ragazza e magari di qualcosa che potesse stuzzicare la mia curiosità.
A pensarci bene, in un pomeriggio come quello sarebbe stato anche lecito rischiare di essere sgamato a perquisire una stanza non tua e perciò mi sentii di avere tutto il diritto di ficcarmi làddentro e spiegare che mi stavo rompendo eccessivamente per le mie capacità e visto che non c’era un cane che si preoccupasse non dico di farmi divertire, ma almeno di avviarmi a ciò, avevo sentito il bisogno di fare di testa mia. Fu grazie a questo contorto ragionamento che mi portai verso la camera ancora più tranquillo.
Posai lentamente la mano sulla maniglia e la girai verso il basso bloccando d’improvviso la mia immaginazione e lasciando spazio a ciò che mi era di fronte adesso, appena dietro quella porta spalancata.
Forse... forse non era proprio come avrei voluto trovarla, quella stanza e soprattutto non poteva in alcun modo essere la stanza di una persona sana di mente perché non c’era niente e ribadisco niente per davvero che fosse un millimetro distante dal nome di Kurt Cobain e della sua band.
Il muro non era un muro, ma un album di poster (ne saranno stati almeno trecento) che ritraevano 1: Cobain in maglietta bianca con i capelli biondi e scompigliati che guardava nell’obiettivo della macchina che aveva scattato la foto; 2: Cobain in maglietta nera con i capelli biondi e scompigliati che guardava nell’obiettivo della macchina che aveva scattato la foto; 3: Cobain in camicia di jeans con i capelli biondi e scompigliati che guardava nell’obiettivo della macchina che aveva scattato la foto; 4: Cobain (forse è meglio spostare un po’ le parole per non essere ripetitivi ripetitivi ripetitivi ripetitivi...) che guardava nell’obiettivo in macchina gialla che scattava i capelli biondi e scompigliati con la foto in maglietta; 5: Cobain in macchina che guardava i capelli biondi che aveva scattato la foto della maglietta azzurro sfumato nell’obiettivo. Ok, stavo letteralmente impazzendo.
Rimango in apnea per una ventina di secondi, col fiato sospeso rischiando veramente di non trovare una foto che sia leggermente diversa dalle altre, finché la becco, è lei, lo so che è lei e non può sfuggirmi, in quella foto Cobain in maglietta bianca con i capelli (attenzione attenzione!!!) ROSA e scompigliati che guardava nell’obiettivo della macchina che aveva scattato la foto.
Misi un passo all’indietro e decisi di fuggire verso i mari del Sud ma rimansi bloccato sulla soglia da Vittoria.
“Ciao” le sorrisi.
“Che cosa ci fai nella mia camera senza il mio permesso?” mi chiese contrariata.
“Beh, sai com’è... non avevo mai visto Kurt Cobain in maglietta azzurro sfumato e allora mi sono detto, sicuramente starà meglio di quando ha la maglia bianca e così ho pensato che valeva la pena di rischiare per venire a vederlo” stavo già pensando che avrei dovuto immaginare quel che avrei trovato per davvero, è solo che uno ci vuole sbattere la testa contro le cose, prima di capire che non ce n’era bisogno.
“Non fare questa stupida ironia su di lui, tu non sarai mai neanche un pelo di KURT COBAIN” si riempì la bocca con queste parole.
“Non voglio essere neanche una sua cellula se è per questo” le risposi di colpo, quasi ferito nell’orgoglio.
“Kurt Cobain non è stato solo un grandissimo cantante, ma ha anche una vita alle spalle che è una leggenda, lui è nato...” e qui attaccò con una serie di informazioni tipo biografia dell’autore, farcita con qualche parolaccia e qualche aneddoto un po’ da far ribrezzo, staccai la spina quando arrivò all’età di sei anni.
Chissà, mi venne da pensare, se anche Sarah Moretti ce l’aveva un mito per cui si strappava i capelli come le ragazzine ai concerti dei Take That, chissà se ce l’aveva uno che la affascinava come nessuna altra persona sulla terra, chissà se sognava ascoltando le sue canzoni e si lasciava andare sotto le note dolci o violente che fossero e sotto il timbro rassicurante della sua voce, chissà se Sarah Moretti ce l’aveva una persona così nei suoi pensieri da ragazzina per bene.
“... poi ha conosciuto quella troia che gli ha rovinato la vita, se non fosse stato per lei, lo sai che lui adesso sarebbe ancora tra noi?”
Chissà dov’era lei in questo preciso momento, me la immaginavo proprio adesso con le cuffie alle orecchie a tutto volume ad ascoltare la stessa voce che le faceva percepire aria di leggenda con un solo mormorio, me la immaginavo in ginocchio sul suo letto, con le gambe sotto il sedere stretto nei jeans e con i piedi scalzi e con una maglietta di lana addosso mentre si premeva le cuffie sulle orecchie per capire meglio una parola straniera difficile da tradurre; adesso... adesso invece (Chiusi gli occhi e li riaprii in fretta) stava cambiando traccia e stava ascoltando la canzone più romantica del disco eppoi avrebbe finalmente sognato ed i sogni di una ragazza come lei dovevano essere di un valore inestimabile, chissà se avevo, se avrei mai fatto parte, anche di uno solo di quei sogni.
“...finché non è stato ammazzato o, come dicono i più, non si è suicidato...”
“Togliendoci l’ulteriore supplizio di incidere un altro solo disco. Ringraziamo il Padre Nostro per le pene che ci infligge e che poi Lui stesso riconosce che siano eccessive per la nostra portata”
“Eh no!” fece lei, prendendomi per una manica della maglietta e tirandomi verso l’interno della sua camera “Allora adesso vieni con me e ti ascolti le migliori canzoni dei Nirvana e poi vediamo se sei ancora dello stesso parere”
Aveva uno stereo nascosto in un angolo della stanza e da quello tirò fuori la custodia di un cd che aveva una copertina azzurra che raffigurava un bambino nudo immerso completamente nell’acqua che seguiva un mazzo di soldi infilato in un amo da pesca.
Il titolo del disco era Nevermind, cioè ‘non importa’. Era quello che le dissi quando affermò che avrei dovuto sentire con le mie orecchie che cosa fossero i Nirvana.
Con uno spintone Vittoria mi mise a sedere sul suo letto, poi senza lasciarmi il tempo di ribellarmi, infilò il cd e prenotò i nostri successivi cinque minuti nell’ascolto della terza canzone.
Se si fosse fermata a quel punto, forse le avrei detto ‘ok, va bene, il tuo amico ha fatto buona musica ed è stato veramente in gamba’ per una questione di quieto vivere, ma ciò non avvenne perché la ragazza era decisa e non si sarebbe accontentata di uno stupido compromesso.

Dopo le prime due ore di ascolto ininterrotto dei Nirvana, le mie orecchie avevano completamente perso tutta la sensibilità di cui disponevano prima, il cervello si era svuotato e continuavo a sentire un assordante casino da post-discoteca anche quando lo stereo fu spento e la ragazza iniziò a parlarmi, alzando gli occhi verso il soffitto, sorridendo. Poi indicò la custodia del cd, indicò lo stereo, indicò le foto che aveva appese ed io non seppi fare altro che lasciarmi andare completamente con la schiena sul materasso e mettermi le mani sulle tempie per cercare di fermare una maledetta vena che mi pulsava come fosse una batteria.
Vidi la tipa alzarsi e andare a frugare dietro il suo armadio, la vidi ravviarsi i capelli dietro le orecchie e raccogliere per il manico una fantastica chitarra elettrica nera, i miei occhi brillarono, come improvvisamente resuscitati. La vidi collegarla ad un alimentatore e poi portarsela sul letto su cui mi stavo rimettendo a sedere, poi disse qualcosa che sembrò stappare i miei timpani dalla sensibilità zero.
“...la so suonare con la chitarra” e attaccò con la riff di Come as you are, la canzone che avevamo ascoltato per prima e più volte di tutte.
Toccò le corde staccando di parecchio da una nota all’altra, troppo meccanica e legnosa, il suono vibrò parecchio e sembrò metallico e quasi atono, riconobbi la riff pompando con le sinapsi come mai prima d’allora, dopo una decina di secondi era ancora lì, a metà che cercava di trovare la nota successiva, finché dopo ancora un po’ spalancò le labbra e lasciò affiorare le vene sul suo collo, gridando mezza stonata “Come... as you are”
“Che ne pensi?”
“Che è una grande cagata!”
“Ancora più demente di prima, oh”
“Così si suona la chitarra?” le chiesi guardandola negli occhi.
“Ma parli proprio tu che la chitarra non sai nemmeno che strumento è, io almeno ci sto avendo un approccio”
“Se questo è un approccio! E comunque, bella… io la suono la chitarra”
“Tu, con quella faccia da pesce lesso che hai” questo mi aveva offeso e così decisi che l’avrei umiliata.
“Se me la rifai una sola volta ti faccio ascoltare la tua riff come non la saprebbe suonare neanche l’eroe che l’ha scritta” e questo credo che offese lei.
“E va bene, animale, ti voglio dare corda” e attaccò per la seconda volta, alla stessa maniera di prima, staccando i suoni e bloccando tutta la possibile armonia della canzone come solo pochi sanno fare, davvero, a volte la gente vuole imitare l’arte e non fa altro che storpiarla senza rendersene conto e storpiare la vita anche.
Quelli che nella vita vera copiano frasi romantiche dai film d’amore per dedicarle alla propria ragazza, quelli che prendono le frasi dalle canzoni per costruire una lettera che non sarebbero capaci di scrivere, quelli non fanno altro che accartocciare alla stessa maniera l’arte e la vita ed abbandonarle in un cestino da ufficio. Bisogna sapersi adattare, alla vita e all’arte, per questo non avevo mai suonato nessuna canzone di cantautori o gruppi famosi, non mi sarebbe servito a nulla. Almeno per questo mi ritenevo un mezzo artista, no?
Finì di nuovo con la sua voce gracchiante “Come... as you are” e stavolta avevo seguito le sue dita come un pedinatore professionista e lei era andata così lenta che avevo avuto tutto il tempo per ripassare ogni volta aggiungendo una nota in più appena suonata.
Mi feci passare la chitarra e decisi prima di provarla. Me la misi sulle gambe, provai l’accordo in sol e riuscii ad estorcerle un suono veramente fantastico, morbido, tenero, veramente diverso dal suono classico, diciamo che aveva un suono meno pulito e più distorto, ma in complesso, forse anche leggermente più dolce perché più fluido; continuai a passare le dita sopra tutte le corde provando anche qualche altro accordo, finché la ragazza non cercò di spezzare il mio primo contatto con quella chitarra.
“Seeee, mica si suona così Come as you are...”
Girai ancora un po’ sulla tastiera per trovare qualcosa d’altro come il Mi minore, poi chiusi gli occhi e quello fu il mio preavviso, premetti il polpastrello del medio sul tasto che lei aveva premuto per primo ed attaccai con la riff facendo muovere tutte le dita e non una alla volta come aveva fatto lei e schiacciando i tasti perfettamente al centro, tra una barra e l’altra, il risultato fu che proseguii con la riff iniziando a cantare, senza gridare né stonare come aveva fatto lei, non c’era niente di cui esaltarsi, dopo tutto, e proseguii fino al ritornello mugolando solamente quando non ricordavo una frase.
Alla fine le rimisi la chitarra sulle gambe e mi alzai per andarmene, ma lei mi fermò per un braccio e non smise neanche per un secondo di guardarmi dritto negli occhi con la bocca spalancata.
“Aspetta” mi disse immobile come le rocce di Dover “ tu... io... cioè... voglio dire” sfarfallò con le ciglia e si ravviò i capelli stando seduta mezza gobba e qui sembrò risvegliarsi “ho sempre sognato di incontrare Kurt Cobain, cioè è il mio sogno e adesso... insomma... sembrava che fosse... qui” disse indicando con le mani il pavimento, i suoi occhi sembrava stessero per piangere.
“Me la rifai un’altra volta?” chiese poi con gli occhi ancora più languidi e decisi di accontentarla.
“Ma solo un’altra volta però, non mi piace mostrare in giro quello che so fare”
“Ok” accettò lei.

Un centinaio di volte l’avrò rifatta quella maledetta riff e tutte le riff possibili di tutte le altre canzoni e di qualcuna anche qualche accordo e me ne fece anche imparare le parole e voleva persino che imitassi la voce di Cobain e mancava solo che mi chiedesse di tingermi i capelli di biondo e poi le avrei spaccato la chitarra dietro la schiena e sarei stato contento per il resto dei miei giorni.
Le insegnai pure a suonarla meglio la chitarra, cioè gliela misi in braccio e le dissi che doveva stare più attenta agli stacchi, che doveva usare tutte le dita per suonare e che doveva premere meglio al centro dei tasti ed infine doveva lasciar vibrare la corda e non spezzare il suo suono a metà, eppoi prendere il giusto tempo per ogni nota, non dare più spazio ad una rispetto ad un’altra che poteva anche offendersi, oh.
Quando la provò la terza volta andava già molto meglio di prima, un po’ di esercizio e senza il mio aiuto, se lo sarebbe portato lei nella sua stanza, Kurt Cobain.
Erano le otto quando dichiarò finalmente che non stava più nella pelle e non vedeva l’ora di incontrare i suoi amici per dire loro che aveva imparato a suonare finalmente quella benedetta riff ed anche altre e che aveva conosciuto uno che suonava proprio come il loro mito, mi pregò di uscire con lei ma le spiegai che non ci tenevo particolarmente a farmi tartassare di domande stupide quando poi non ci voleva niente a suonare quelle quattro stronzate.
Se ne andò saltellando gaia come un uccellino di primavera baciandomi la guancia e ringraziandomi prima di scomparire dietro la porta di ingresso, decisi di andare a mangiare e di ficcarmi immediatamente sotto le coperte, non avrei voluto ripetere l’angosciosa nottata precedente, avrei detto a tutti di essere molto stanco e li avrei salutati con tanto di auguri e divertitevi e non rompete i coglioni.
Mi tuffai in cucina deciso a mandare giù una bella cenetta e poi andare a letto, magari dopo aver ascoltato un po’ di musica buona dal walkman che mi ero portato dietro e che avevo comprato qualche anno prima raggranellando i soldi per mesi e mesi dalle paghette settimanali.
Mi feci preparare qualcosa direttamente per me dalla padrona di casa.
“Non vuoi aspettare che arrivino i nostri amici per mangiare con noi?” mi chiese tutta premurosa, la ringraziai e le dissi che non era necessario ché avevo un sonno cane e non mi sentivo neanche tanto bene.
Finii di mangiare giusto quando i famosi amici arrivarono ed iniziarono a fare un mucchio di casino abbracciando tutti ed affermando che faceva veramente freddo fuori e che qui invece c’era un bel calduccio e che non vedevano l’ora di iniziare a spendere i loro soldini investendoli in stupidi giochi di comitiva vedi mercante in fiera e cazzate così. Mi ritirai immediatamente nel mio stanzino salutando tutti, belli e brutti ed anche due ragazzine che potevano avere la mia stessa età e con cui avevo preso un po’ di confidenza la sera prima, visto che eravamo gli unici ragazzi della compagnia. Mi piaceva pensare che fossero tornare per me.
“Se devi dormire è meglio se chiudi la porta del corridoio” mi disse mia madre e fu lei stessa a chiudermela alle spalle quando mi infilai làddentro immaginando solo le mie coperte calde ed il mio pigiama marrone a pallini bianchi.
Misi la mano sulla maniglia della porta a soffietto quando mi catturò sul serio la penombra della cameretta Cobain che invadeva il corridoio penetrandolo dalla porta socchiusa. Mi soffermai un attimo a pensare all’armadio ed alla chitarra elettrica nera lucente che ci stava appoggiata sola soletta, senza nessuno che l’avrebbe accarezzata per quella notte.
Deviai la mia attenzione dalle coperte e dal pigiama al viso di Kurt Cobain che ritrovai pieno di chiaroscuri quando accesi la luce della camera, mi sembrava più sereno di prima adesso, mi sembrava più sensibile ed i suoi occhi mi parvero fessure in ogni foto che rilessi.
Le sue labbra parevano dire “Entra e accomodati, amico, parlami di te, visto che di me ti ha parlato qualcun altro, visto che in un pomeriggio solo hai conosciuto tutta la mia vita e la mia arte e la mia musica, se ti sono almeno un po’ simpatico, lascia che lo pensi anch’io di te e parlami”
Mi richiusi la porta alle spalle quando Kurt sembrò tornare muto e impassibile dalle sue foto, mi diressi verso l’armadio, poi afferrai la chitarra dal manico e la collegai al piccolo alimentatore ed all’amplificatore, come avevo visto fare alla ragazza poco tempo prima, infine mi accomodai sul letto sotto il suggerimento di Kurt e me la misi sulle cosce per passarci insieme un’intera notte, ma non con lei sola, perché c’era Sarah Moretti con me eppoi c’era anche quel viale alberato che avevo visto quella mattina e quella grande primavera che mi era apparsa fuori stagione, peccato per il freddo e le poche foglie sugli alberi. Tutto questo mi misi sulle cosce, non solo quella chitarra e le mie dita erano piene della musica dei Nirvana e la mia mente pure e quello che ne uscì fu tutto questo messo insieme, mescolato nei primi accordi piuttosto semplici e classici Do e Re maggiore, arpeggio leggero e la canzone si liberò da sola dalle mie labbra e, giuro su tutto ciò che ho mai avuto nella vita di importante, come io avevo cantato le sue canzoni, tutte le trecento foto di Kurt Cobain sembrarono prima ammutolirsi all’ascolto e poi accompagnarmi in un canto che si diffondeva per tutta la stanza e tutto questo divenne un magico concerto da non dimenticare mai. Anche se il testo della mia era troppo stupido (lo riconosco) per il mito che lui era stato ed era ancora. E fu in quel momento che capii che non sarei stato veramente mai un pelo di Cobain e questo mi rese ugualmente contento per lui e per me e per il mio amore e la mia pseudo-arte.


Ballata del ritorno

Strofa 1
Camminando per le vie di un paese sconosciuto
nelle strade della mente io ti ho vista
per quello che so amare
sei stata reale
e poi un giorno forse, sarai stata soltanto un rumore

Ritornello
Tu, quando invece tornerò, non fare, voglio dire,
finta, amore, finta di non capire
il tempo corre du un filo d’argento
e un giorno cancellerà me dalla tua e te dalla mia
fotografia

Strofa 2
Io che avrei bisogno solamente, lungo la strada
di fermarmi ogni tanto e in segreto osservarti
almeno parlare, restare
ferma immobile
come assorta anche solo a guardarti le unghie

Ritornello
Tu, quando invece tornerò, non fare, voglio dire,
finta, amore, finta di non capire
il tempo corre su un filo d’argento
e un giorno cancellerà me dalla tua e te dalla mia
fotografia

Strofa 3
Le emozioni percorrono i chilometri, l’amore
saprà attraversare i decenni
saranno un porto le tue bianche mani,
da cui partire per ritornare
un’altra volta a te, forse domani.

Ritornello
Tu, quando invece tornerò, non fare, voglio dire,
finta, amore, finta di non capire
il tempo corre su un filo d’argento
e un giorno cancellerà me dalla tua e te dalla mia
fotografia
me dalla tua e te dalla mia


fotografia

Il mio amore era una battaglia contro il tempo, per strappare al tempo la promessa che avrebbe saputo aver memoria di noi, di quello che fummo, granelli di polvere nel vento che neanche il vento, alle volte, è stato capace di separare.

*

Skizzando nel vento 8 (A quelli che suonano)

8
A quelli che suonano
(Era una poesia d’amore, cosa puoi capirne?)



DICEMBRE DA SCHIFO

Un ventidue dicembre come tutti gli altri, di quelli pseudo-morali, pseudo-sentiti veramente, pseudo-cisonotantibambiniche
muoionodifame, visto che eravamo quasi al grande giorno.
Per il nostro Liceo, oltre ad essere questo, quel giorno sarebbe stato un ventidue dicembre musicale con una cover band che rifaceva i classici dei Doors, dei Guns e gruppi storici, almeno per quello che si diceva in giro.
Stavano montando gli strumenti nel corridoio dove avevano sede le nostre assemblee di istituto, visto che non avevamo una specie di aula magna o cose così, ma se è per questo, il nostro Liceo non aveva neanche una palestra.
C’era un tipo che conoscevo di vista e che stava provando un po’ di colpi su una batteria, un altro regolava il microfono perché non fosse troppo alto e superasse la musica, perché non fosse troppo basso e venisse soffocato dalla musica.
La scuola era piena di attrezzatura tecnologica da un casino di soldi, chitarre elettriche da spaccarti le orecchie, una pianola che era almeno tre volte la mia Yamaha, piena di pulsanti verde acqua e arancione e di rotelle e di levette piccole piccole, amplificatori, casse Bose e altro materiale simile.
Uno striscione appeso sotto il soffitto diceva: “Music is my life” che per una cover band di merda che non avrebbe mai prodotto niente di proprio, questo slogan da lobotomizzati calzava proprio a pennello.
Quella dei gruppi che pretendevano di definirsi artistici soltanto perché erano in grado di riprodurre alla meno peggio i pezzi dei gruppi più famosi, era la faccia della medaglia che odiavo della musica. Batteristi improvvisati, chitarristi e bassisti che imbracciavano uno strumento soltanto perché li faceva apparire più belli alle ragazze, mi davano il voltastomaco. Non erano altro che replicanti, non avrebbero mai tirato fuori dalle loro corde un pezzo scritto di proprio pugno, non avevano passione per la musica, ma soltanto erano attratti dal ruolo che avrebbero interpretato dinanzi ai deficienti loro coetanei che li avrebbero ammirati per quanto sapevano emulare le grandi star. Con le loro chitarre fighe dai suoni distorti e amplificatori da un sacco di soldi, potevano togliersi qualsiasi sfizio volessero, ma non avevano nulla a che fare con la musica. Avevano dalla loro però il fatto di non essere dei frustrati, ottenevano il massimo che potevano dal saper strimpellare qualcosa, ottenevano visibilità, sarebbero semplicemente rimasti visibili a vita, ma quello non gliel’avrebbe mai tolto nessuno.
C’erano quelli come me invece che la loro passione se la dovevano tenere per sé, perché non sarebbero andati molto avanti, a dire “Music is my life” suonando semplicemente una chitarra classica, c’erano quelli come me dei quali neppure si sapeva che sapessero suonare uno strumento, che non seguivano la moda del momento e cercavano di mettersi con tutta l’anima ad imbrigliare la propria indole per cavalcarla in territori sconosciuti.
Nel mio paese, all’epoca, esistevano due generi musicali che avevano fatto ideologia e che si erano spacciati per vera e propria cultura fra i giovani: il metal ed il rap.
Il metallaro ed il rapper li riconoscevi ad occhio nudo, già dal modo di vestire, dal modo di atteggiarsi. Se eri a conoscenza delle caratteristiche principali dei due generi, potevi addirittura sondare la mente della gente normale ed intuire, preventivamente, se qualcuno che conoscevi stava per diventare un rapper o un metallaro o se inconsciamente aveva un indole metal o rap repressa.
Potevi scorgere il cambiamento, il susseguirsi delle fasi di trasformazione: il metallaro cominciava ad indossare indumenti sempre più scuri, tendenti al nero lucido, preferibilmente di pelle; il rapper ogni giorno indossava jeans sempre più larghi e scaduti, maglie che erano il doppio della sua taglia, a volte un cappello con visiera gli si appiccicava in fronte e cominciava a sovrastarlo in ogni passo della sua esistenza, mentre il metallaro prendeva a coltivare un pizzetto e tendeva sempre più a dimenticare di tagliarsi i capelli. Alla fine la trasformazione era completa e la persona che avevi conosciuto fino ad allora non esisteva più, prendeva a parlare in un modo completamente diverso, con un gergo specifico e si dilungava su prolissi discorsi che riguardavano i gruppi ed i pezzi, mentre il rapper passava la maggiorparte del suo tempo a rimandare a ruota ed a memoria le frasi dei suoi più celebri beniamini. Potevi trovargliene tranci scritti dovunque, ma soprattutto sullo zaino.
I ragazzi che montavano gli strumenti a scuola quel giorno erano sulla strada del metal, a giudicare da come erano vestiti, ma si vedeva che non erano proprio convinti, stando anche ai gruppi che avevano scelto per riproporli a scuola.

Fuori il mondo era congelato-immobile dai tre gradi del ventidue dicembre meno natalizio che avessi mai vissuto, non c’era neve, non c’erano luci appese ai balconi, non c’erano alberi di Natale nei giardini delle villette; per uno come me andava bene così, io amavo l’estate e non ero propriamente un cattolico.
Tornai in classe dopo il mio giro di perlustrazione da matricola curiosa di quelle che per i veterani non sono più novità.
C’era Corona che si stava incazzando con Fortunato, Marialucia Del Monte che si teneva stretta stretta ad Antonella Cavallo ripetendo che faceva un freddo, Pastore che girava per tutta la classe cercando di riportare l’ordine.
Stavano tutti aspettando che l’assemblea cominciasse finalmente, era logico essere curiosi di vedere suonare della musica all’interno di una scuola, era logico chiedersi se avremmo potuto cantare e saltare come ai concerti, era logico persino pretendere di fumare nella scuola senza dover allontanarsi nel cortile. Girava un’aria da “per oggi la scuola è solo nostra e nessuno deve vietarci nulla”.
Ma come al solito, io non la sentivo mia, non mi sentivo al posto giusto, come un intruso, lontano da tutti gli altri che, a gruppetti, chiacchieravano di quello che avrebbero fatto durante quelle vacanze e c’era chi andava a sciare e chi invece andava a trovare i suoi parenti che stavano da qualche parte lontano di qui ed a me non me ne fregava niente di questi discorsi e avrei voluto essere il più lontano possibile da quel periodo dell’anno che era veramente brutto e che neanche il pensiero dei pezzi che avevo scritto per Sarah Moretti poteva salvare.
Lei se ne stava seduta sola soletta all’angolo della classe, sfogliando un quaderno dalla copertina azzurra e gialla. Mi avvicinai e glielo trassi via dalle mani.
“Cosa leggi?” chiesi quando già avevo di fronte la pagina che poco prima era stata sotto i suoi occhi.
“Dài qua, stupido!” mise le mani sul quaderno cercando di riprenderlo, riuscii a leggere solo poche righe di quello che era scritto, qualcosa tipo... non saprei, erano dei versi, come, come fosse stata una poesia, una specie di canzone, no?
“Ehi aspetta, voglio solo...” non finii neanche di parlare che diede uno strattone al quaderno tirandomi in avanti sul banco.
Non so perché, ma ero veramente curioso di leggere quello che era scritto su quel quaderno, così, d’istinto tirai ancora dalla mia parte e finalmente levò le mani da lì sopra.

Quando...

Quando ti vedo i miei occhi si illuminano, oh mia stella
il mio cuore batte solo per te,
vorrei starti accanto per tutta l’eternità.
Luce dei miei occhi, acqua nel deserto,
dimmi che starai con me per l’eternità anche tu.

Non avevo lo stomaco per andare avanti, così gettai il quaderno sul banco ed iniziai a ridere senza riuscire a controllarmi, senza poter governare i miei movimenti, il suono che sfuggiva dalle mie labbra.
Lei si fece rossa di colpo, in un mezzo secondo fece sparire il quaderno dalla circolazione, mentre qualcuno che non aveva un cazzo da fare come tutti, ritenne opportuno avvicinarsi a noi.
“Era una poesia d’amore, che cosa puoi capirne?” abbozzò un sorriso, ma si vedeva che era fortemente in imbarazzo.
“E l’hai scritta tu?” le chiesi, senza riuscire a smettere completamente di ridere.
“Può darsi…” cominciò a guardarsi attorno, si era avvicinato persino Corona, la cosa stava degenerando.
“Che cosa succede qui?” irruppe come fosse una guardia carceraria addetta al mantenimento dell’ordine, mi prese la testa sotto un braccio, iniziò a malmenarmi per scherzo “Che cosa devo fargli?” chiese a lei.
“Perdono!” alzai le mani in segno di resa, immediatamente. Quando Corona ci si metteva, anche per scherzo era capace di farti veramente male “Ho avuto l’ardire di scrutare tra le pagine segrete della nobildonna dinanzi agli occhi di vossignoria!” cercai un elaborato linguaggio poetico, ma Sarah Moretti non la prese bene.
“Come cazzo parla?” Luigi non aveva le facoltà suffiente per poter intuire l’intento sarcastico di quel che avevo detto, nel frattempo non smetteva di tenermi piegato nella presa del suo braccio. Cominciai a ridere a crepapelle senza riuscire a trattenermi, tanto che mi vennero le lacrime agli occhi, mentre supplicavo Corona di lasciarmi, che non ce la facevo più.
Il fatto era che, boh, non lo so, certe volte uno crede di essere un grande artista e invece poi… invece poi è uno come tutti gli altri e quello che forse (anzi certamente) mi faceva più ridere era il fatto che anch’io mi ero sentito un grande artista qualche volta e probabilmente anch’io ero uno come tutti gli altri. Per questo ridevo, perché in quel momento non me ne fregava niente di esserlo o meno, un artista, perché quello che mi piaceva fare era solo suonare, bella musica o musica da far vomitare, non m’importava, era giusto soltanto suonare.
Probabilmente, a quelle quattro cazzate che aveva scritto sul suo quaderno dalla copertina gialla e azzurra, lei era particolarmente legata e poteva anche essere che inconsciamente si rendesse conto che fossero di una banalità sconcertante, ma forse si era lasciata il beneficio del dubbio che potessero esprimere qualcosa, magari proprio quello che lei aveva sentito mentre le aveva scritte.
Scoprirle, da parte mia, era stato un po’ come guardare sotto la sua gonna, lei si era ritrovata nuda, disarmata, non aveva potuto fare altro che coprirsi.
Quando Corona fu attratto dal solitario Pastore che si era deciso a fermarsi dal tentativo di mantenere l’ordine e corse da lui a riempirlo di schiaffi in testa, mi stirai le braccia ed il collo.
“Posso... posso leggere qualcos’altro di quello che hai scritto?” chiesi a lei con curiosità, ma senza riuscire a smettere di ridere.
La sua espressione divenne in parte adirata e risentita, in parte impotente nei miei confronti. Piantai dinanzi a me le mie mani e decisi di spiegarle che volevo veramente leggere quello che aveva scritto, non per prenderla in giro, ma per curiosità e stavo quasi per scusarmi per essere stato poco delicato con lei.
“Sei... sei proprio un bambino!” fu la sua unica affermazione, prima che il palmo della sua mano colpisse per la seconda volta nella mia vita, la mia guancia sinistra. Rimasi fermo stupito con entrambe le mani aperte nel tentativo interrotto di spiegarmi e la bocca già pronta a parlare, lo sguardo fisso sulla sedia da cui lei era appena scappata via.
Le ero sembrato il solito indelicato, logico. Dovevo capire subito che l’avrei offesa in quella maniera e fingere di apprezzarla, la sua poesia, invece di riderci su, magari dovevo anche chiederle qualcosa su di essa, su come le fosse venuto in mente di scriverla, era così che funzionavano quegli esseri semplici chiamati ragazze, magari avrei dovuto persino dirle che io invece scrivevo canzoni... sì, magari persino sposarla e finirla lì.
Andai a cercarla fuori.
“Ehi senti, io...” se ne stava appoggiata ad una delle finestre del corridoio con una cerchia di amiche intorno.
Imbarazzo, sangue che schizzava sotto la mia pelle per imporporarmi il viso, rimorso istantaneo, cazzo, a volte sono proprio un coglione, tutte le volte che non sono un semplice deficiente.
“Perché stai piangendo?” le chiese distrattamente Coviello, il ragazzo dai capelli rossi, passando per il corridoio.
“Non sto piangendo!” si voltò verso di lui e in parte era vero, visto che i suoi occhi erano solo venati di sangue.
Capii che oramai era andata: espugnare il cerchio delle amiche, quando si chiudono a riccio nella stramaledetta solidarietà femminile, è praticamente un suicidio.
Mi dissi che questa musa non faceva più al caso mio, mi dissi che era una instabile, capace di farmi lievitare fino al più alto strato umano e di lanciarmi sotto cumuli di immondizia facendomi sentire tremendamente male. Questa non era una gran cosa, una musa, voglio dire, non dovrebbe comportarsi così, dopotutto mi aveva già schiaffeggiato due volte senza preavviso, davanti a tutta la classe, ero stato l’unico a subire questo tipo di trattamento strettamente riservato.
O forse, a pensarci bene, io non ero in grado di amarla, io non ero profondamente in grado di amare in generale.
Amare? E in quale passo delle leggi umane era scritto che quando uno scrive due canzoni per una ragazza, vuol dire che ne è innamorato?
Ed allora perché, adesso che tutti erano rientrati in classe, mi ero lentamente avvicinato alla finestra, sentendomi svuotato di tutto, in un colpo solo nel momento esatto in cui lei mi era passata di fianco con ostentata indifferenza ed avevo piantato il mio mento su un pugno, pensando che, come ricordo di lei per i quindici giorni delle vacanze natalizie avrei avuto uno schiaffo invece che qualche frase, qualche gesto con cui avrei preferito navigare nella mia stupida illusione che lei potesse, in qualche modo, volermi bene?

La nostra classe venne chiamata verso le nove e mezza.
Salimmo il più garbatamente che potemmo: Corona che litigava di nuovo con Fortunato per le scale, che minacciava di buttarlo giù e di fare un buco bello grosso a giudicare la sua stazza, Tarantino, l’altro gigante, che parlava ad alta voce con Morra di musica, di Vasco Rossi, Litfiba, Prozac + e qualcosa di straniero che non conoscevo, quelli dell’ultima fila che riempivano di schiaffi la nuca di Cristiani e se la ridevano quando quello si vendicava su uno solo di loro, Pastore che cercava di ammonirci beccandosi solo qualche “va a cagare” incurante della sua alta carica di rappresentante di classe.
Tutte le sedie nel grande corridoio del primo piano, quello più grosso della scuola. Tutte le sedie vuote, disordinate, gente che andava avanti e indietro a spostarle, a sistemarle, a prenderne altre, ad ordinarle in file da dieci ciascuna.
Per quanto tempo quella platea se ne sarebbe stata così composta ed ordinata come quelle persone che stavano sistemando tutto dovevano evidentemente aver pensato che se ne stesse?
Prendemmo posto dietro cercando di nasconderci per fare il più casino possibile senza essere sgamati da nessuno, aspettammo che le altre classi ci raggiungessero e poi iniziammo ad affibbiare anche a quell’assemblea di istituto il nostro classico bordello da osteria fatto di grida, versi, parolacce e giù di lì, distinti naturalmente da tutto il resto della scuola che se ne stava più o meno composta.
L’ondata musicale ci investì con una With or without degli U2 e pensai che non si potesse cominciare meglio, visto che appena l’adrenalina iniziò a pompare, Corona cominciò ad approntare il suo spettacolo, trascinando chiunque sulla propria sedia e invitando a creare un coro stonato di quelli mai visti.
Ci vollero due o tre canzoni perché qualcuno iniziasse ad imitare la nostra classe e precisamente fu quando la cover band attaccò con Losing my religion dei R.E.M. Suonavano per davvero come il cazzo, ma per quella che era la platea davanti alla quale si esibivano, andavano più che bene.
Andarono avanti con New year’s day e Sunday bloody Sunday degli U2, Shining happy people dei R.E.M. e dunque passarono a qualcosa di più moderno come Zombie dei Cranberries e Live forever degli Oasis.
Alla fine si decisero a tirare fuori i cavalli di battaglia: si fecero mezzora di Doors e mezzora di Guns & Roses e per tutto il tempo la nostra classe aveva generato un casino inarrivabile ed io me n’ero stato con il mento piantato nelle mani ed i gomiti puntati sulle cosce ad ascoltare il fluire della musica senza togliermi dalla mente l’idea che io non ero in grado di esistere. Non come si dovrebbe, io non avevo capito i sottili meccanismi della vita, non ne ero al corrente, non mi ero aggiornato, ero rimasto un bambino, esattamente come Sarah mi aveva definito. Non ero cresciuto mai, tutto qui.
Quando cercai di stirarmi e mi guardai attorno, mi resi conto che ero rimasto l’unico ancora seduto alla sua sedia, l’unico a non cantare, l’unico a non partecipare in nessun modo alla festa che si stava svolgendo. A me le feste mi erano sempre state sui nervi, ma questa aveva avuto i suoi buoni motivi per andare male.
Ripresi la mia posizione guardando in avanti tra i corpi dei ragazzi che ballavano e piantai i miei occhi dritto sulla chitarra elettrica del gruppo. Cazzo, io una cosa così me la sognavo!
“A cosa stai pensando?” la voce, quasi un sussurro nel tumulto generale, mi colse completamente alla sprovvista, scossi la testa, mi voltai. Sarah Moretti, dopo aver ravviato i suoi capelli dietro un orecchio aveva accavallato le gambe e se ne stava a guardarmi.
“Io…? A quelli che suonano” le dissi.
“Ah!” si voltò ad osservarli anche lei, anche se io adesso non li guardavo più, rapito dalla sua bellezza.
Il vocalist della band presentò l’ultimo pezzo che avrebbero suonato. Era Knokin’ on the Heaven’s Door di Bob Dylan nella versione dei Guns.
Ripresi a guardare in avanti anch’io, ma la mia concentrazione era terminata, adesso c’era lei accanto a me, tutti i miei pensieri cominciarono a fare casino nella testa, a correre avanti ed indietro come dovendo allestire la scenografia di una commedia in pochissimo tempo. Calai le sopracciglia sugli occhi e mi guardai il petto quando il mio cuore cominciò a battere a velocità allucinante, mi chiesi cosa stesse accadendo, nel momento in cui il chitarrista della band sembrava aver accusato un malessere. Gli venne portato un bicchiere d’acqua e zucchero, ma, tastandosi continuamente la testa ornata di una bandana, disse che non ce la faceva a proseguire.
“E… e tu?” cercai di chiederle.
Il suo mento si spostò ancora nella mia direzione, mi osservò negli occhi, sulle labbra, poi, immediatamente dopo, ancora negli occhi.
“A quelli che suonano!” come se fosse scontato, come volesse farmi intendere che non era quello a cui stavo pensando neanch’io quando lei me lo aveva chiesto.
Non so dire perché, ma mi sentii felice come di qualcosa che non avevo neppure inteso, come se mi fosse bastata quella sua rivelazione perché finalmente il ricordo di lei che avrei conservato durante l’assenza da scuola per le festività natalizie fosse stato salvato.
Senza sorridere, senza sciogliermi, senza darmene una ragione, simulando indifferenza in un modo assolutamente non credibile, le dissi “Scusa un attimo” e mi alzai, passando sopra le sue gambe per raggiungere il corridoio.
Raccolsi da terra la chitarra elettrica poggiata sull’amplificatore, la imbracciai e senza avere il coraggio di guardare davanti a me l’intera scuola che già si preparava ad andare via, attaccai con i quattro accordi di Knockin’ nella versione che ricordavo di aver sentito io, un paio di volte: quella di Dylan.
Dopo due o tre giri, la batteria attaccò, sentii nelle casse il respiro del cantante che si era avvicinato al microfono, la voce si stese sulle note, il pezzo iniziò ed a condurlo c’ero io e non riuscivo a spiegarlo neppure a me stesso.
Questo finché non mi ritornò alla mente quello che era appena successo e che mi aveva portato a mettermi, quasi fossi un pazzo, in quella ridicola condizione. Chissà che cazzo ci facevo io, che non ero capace neanche di suonare davanti a mia sorella senza imbarazzarmi, dinanzi a tutta la scuola ed alla mia musa a suonare una chitarra elettrica che non avevo mai provato ed una canzone che non avevo mai suonato.
Non ci capii più niente, persi il ritmo, poi direttamente il giro di accordi, cominciai a non spiegarmi come ero riuscito a farli girare bene per le prime cinque o sei volte, mi dissi che dopotutto era un pezzo semplice, che potevo farcela, ma non ci furono cazzi.
Iniziai ad improvvisare qualche accordo per ritrovare i due da ripetere ogni volta e i due finali da alternare ad ogni strofa per cercare di rimediare al mio errore, ma le dita finirono per incepparsi, il cervello girava a vuoto, il sangue prese a schizzarmi in viso provocandomi brividi caldi. Cercai con gli occhi le mie dita sulle corde, ma non c’erano più, disperatamente imposi loro di tornarci, ma ormai avevo smesso di suonare e guardavo impotente tutti i volti che si contraevano per la rabbia e la noia, gli accendini che qualcuno aveva acceso e che adesso si spegnevano.
Abbandonai la chitarra al suo padrone e me ne andai con le mani nelle tasche, senza pensare più a niente facendomi girare nella mente soltanto la frase che quasi sorridendo, Sarah Moretti mi aveva detto, volendomi far intendere qualcosa che non capivo.
Si era avvicinata, mi aveva guardato negli occhi chiedendomi a cosa pensassi (perché?) e poi quando le avevo dato la mia risposta e riformulato la domanda, aveva sorriso, spostando lo sguardo in avanti.
‘A quelli che suonano’ aveva detto.
Ed io avevo suonato.

*

Skizzando nel vento 7: Sarah dovunque

7
Sarah dovunque
(Ormai sta diventando una fissa)



DICEMBRE DELLA COTTA COMPLETA

Canotta bianca sulle spalle mezze scoperte, mi ritrovo buttato nel mio letto ad una piazza e mezzo che sarebbe un divano che diventa letto su cui dormo e che sta nel soggiorno perché non ci ho mai avuto una stanza personale, io.
Una luce pallida colpisce il mio lenzuolo entrando dalle feritoie della tapparella, sento un leggero brivido di freddo che mi percorre la schiena, mi rimetto sotto le coperte, giù, giù, finché non è di nuovo tutto buio e posso rannicchiarmi evitando di pensare ancora per un po’, aspettando, prima di connettere finalmente qualcosa e rapito dalla dolce confusione del dormiveglia.
Dolce?
Se ci penso bene, questa è la prima volta, da quando ero bambino, che mi ritrovo tranquillo nel mio letto, che non mi sono risvegliato in una pozzanghera di panico sapendo di dover affrontare una nuova giornata e dover tornare a scuola e dover rivedere le solite facce che conosco-non conosco, dover donare i soliti sorrisi gratuiti ad ogni minima sciocchezza, dover affrontare nuove situazioni compromettenti e nuovi argomenti noiosi.
Stamattina invece è diverso, stamattina ho un pensiero tutto d’oro che, benché la giornata non sia delle migliori, almeno a giudicare dalla luce che ha investito la mia stanza sul mondo, mi dà quella dolce sensazione estiva di sole e campi verdi che ho sognato un casino di notti, ma che ho sempre dimenticato al risveglio.
Lancio all’aria le mie coperte e mi precipito giù dal letto, signore e signori, il mio pensiero tutto d’oro ha un nome e si chiama Sarah Moretti, una ragazza preziosa, cari miei, mi sta facendo tornare bambino e quindi crescere alla velocità della luce.
Di là. Un bicchiere di latte ci vuole al mattino, no?
E allora versiamocelo giù per la gola, chissà se Sarah beve latte al risveglio, certo con la faccia pulita che ha, sembra che ne beva molto, anzi, secondo me lei ci bagna anche i biscotti, nel latte, lei ha una colazione completa, tipo quelle degli americani abbondanti di marmellata all’albicocca o alla ciliegia, uova, fette biscottate, spremute di arancia e magari una bella mela verde per completare il tutto. Sì, dev’essere senz’altro così, altrimenti non sarebbe così dolce.
Ma che cazzo sto pensando?
No, no, no, il patto diciamo che non era proprio stato formulato in questi termini, il patto era: musa-ispirazione-canzoni passaggi molto elementari, niente film, niente romanticherie e niente del genere, non mi sono mai innamorato fino ad ora e non comincerò proprio con una stupida...
...ma che stupida, però!
Vabbé, sarà anche una bella stupida, sì, può darsi, ma rimane il fatto che lei non m’interessa, no, davvero, è così, voglio dire... io non ho amici e non ne ho mai avuti, non ho ragazze e non ne ho mai avute, non ho persone care e cose così e non mi interessa avere nessun rapporto con la gente che mi sta attorno, quella che ha relazioni dirette o indirette con me, quella che ha rapporti che non conosco e che mi riguardano, ma che non mi interessano. Io quando sono nato, sono nato da solo e da solo voglio restarmene, perché non esiste nessuna cosa che possa interessarmi, davvero, voglio solo suonare la mia chitarra ogni tanto e continuare a dormire in un divano-letto da una piazza e mezzo, il resto non mi importa. Che volete farci? Sono fatto così.
Però una ragazza mi serviva, per ispirarmi, per questo non posso disprezzare Sarah, ma non voglio neanche innamorarmene, allora perché ci sto pensando ancora mentre mia madre mi sta chiamando da una mezzora ed io non rispondo perché sono tutto preso dai miei pensieri di come sarebbe bello stare insieme a lei, provare a mettersi con una per una volta, assaggiare quelle piccole sensazioni che possono essere anche semplicemente passeggiare mano nella mano o stare zitti al telefono senza sapere cosa dirsi e credendo di aver già detto tutto quello che si poteva dire con il timore di dire cose toppo grandi-troppo piccole e poi potersene pentire presto? Però poi mi chiedo perché io sia affascinato da queste piccole cose come un alieno che arriva sulla Terra ed è meravigliato pure dalle più piccole stronzate.
Io voglio starmene da fuori a quelle che sono le relazioni di tutta la gente, voglio semplicemente osservare la vita dei piccoli umani e starmene per conto mio a cantare, nel mio paradiso privato, quello che io chiamo l’olimpo degli artisti che poi sarebbe il mondo delle emozioni, solo che ogni tanto devo scendere nel mondo reale e ficcarmi in mezzo agli altri, devo fare anche questo per ispirarmi un po’. Ma non posso certamente innamorarmi di una ragazza, no, non andrei da nessuna parte così, mi si pongono dinanzi orizzonti ben più ampi, certo.
Però oh, non riesco a togliermi ‘sto maledetto pensiero dalla testa, altro che tutto d’oro, sta iniziando a diventare un boccone duro da mandare giù, il fatto è che... non lo so, lei mi sembra... voglio dire che non è facile non innamorarsene, perché mi dà queste sensazioni nostalgiche di vecchi campi aperti sotto un cielo azzurro eppoi ha questi occhi da bambina e questi movimenti appena appena infantili che me la fanno immaginare piccola vivace a prendere a calci un pallone come un maschio tutta sporca in viso eppoi me la fanno immaginare seduta ad una sediolina con un ginocchio sbucciato a piangere mentre sua madre le medica la ferita, me la fanno immaginare un po’ più grande con le sue prime emozioni da adolescente innamorata solo di un viso di ragazzetto... ecco cos’è che odio di lei... e che amo... mi fa venire certi pensieri da coglione, banali e deficienti da tipo per bene, io non voglio essere un tipo per bene, voglio essere uno che non si capisce cos’è, voglio eliminare ad uno ad uno tutti i miei pensieri dalla testa per percorrere la mia strada senza preoccupazioni, per questo odio il fatto che io pensi a lei, eppure ci penso. Dio, sta diventando un’ossessione e non deve esserlo, altrimenti mi fotto l’ispirazione e addio a tutto il tempo che ho aspettato per trovare una ragazza così.
Eppoi comunque, ammesso e non concesso che io mi stia innamorando di lei, rimane il fatto che non ho nessuna possibilità con una ragazza così. Voglio dire che forse, sì, sarebbe anche bello, a pensarci, però è solo un’illusione che non vale la pena di inseguire, ce ne sono tante come lei, nella vita, basta solo riconoscerle...
“Che vuoi, ma’?” chiedo risvegliandomi dal lungo momento di apnea mentale da innamorato che si sta lentamente giocando il cervello.
“Vuoi abbassare quella televisione, sono le sei e mezza del mattino”
Chi ha acceso la televisione? E che ci sta a fare così alta? E perché sta sul canale dei cartoni animati quando mio fratello non è nei paraggi?
... dio! sto diventando scemo tutto d’un botto, dio, ma come è mai possibile, voglio dire, eppure ero un ragazzo normale con problemi personali normalissimi fino a qualche giorno fa, eppure… no, dovrei farmi curare per davvero perché questa forma di distrazione può portarmi per davvero dei grossi, grossi guai di integrazione con il mondo reale. Quello sotto i miei occhi, per esempio: come ho fatto a non accorgermi a-s-s-o-l-u-t-a-m-en-t-e che quella del cartone è pari pari fotocopiata a Sarah Moretti?





*

Skizzando nel vento 6: Saranno state queste stelle

6
Saranno state queste stelle oscene
(Io sono morto ma non c’è nulla di cui preoccuparsi)



DICEMBRE DEI PRIMI SOGNI

Pedala, pedala, non smettere di pedalare, devi fare presto per favore.
Va bene, pedalo, pedalo e non mi fermo.
Le luci della città mi sembravano riflettori che mi inseguivano alla velocità di sessanta chilometri orari mentre andavo avanti a slalom tra la gente, con la mia bici d’oro tutta striata di acqua e fanghiglia.
Faceva un freddo bestia, come d’altronde doveva essere all’inizio di dicembre quando maglie dolcevita, giacconi, sciarpe e guanti di lana erano ormai stati sfossati dagli armadi.
Ancora due o tre slalom e sarei stato all’incrocio giusto.
La gente era fuori alle undici di sera con quel freddo assurdo, le macchine con i vetri bagnati ancora dall’ultima pioggia del pomeriggio, le insegne addobbate manco fosse Natale... ah già, c’eravamo quasi.
Allo Scorpion davano un film di quelli pallosi che giustamente in tutto il resto dell’Italia era uscito più o meno tre mesi prima e qui arrivava quando oramai gli attori erano già diventati icone di altri film successivi. Aspettare che un film arrivasse allo Scorpion era snervante, ti passava la voglia, ma tanto non ci andavo mai al cinema e tra parentesi non avrei avuto neanche i soldi per mezzo biglietto di seconda mano.
Schizzavo sulla strada bagnata come uno sciatore professionista che non deve preoccuparsi di sbagliare le curve perché tanto non finirà mai di faccia nella neve, in realtà non ero bravo come uno sciatore professionista, però dovevo necessariamente schizzare perché c’era mia nonna che stava male e non c’era nessuno che potesse darle retta, visto che i miei erano fuori paese a fare chissà cosa e non erano ancora tornati e mio nonno mi aveva chiamato un paio di minuti prima a casa e mi aveva detto di fare presto e sembrava che volesse piangere al telefono e ci mancava poco che avrei pianto anch’io che non sapevo neanche che cosa fosse capitato, a mia nonna.
Comunque quello era l’incrocio giusto, l’ho detto, bastava svoltare e poi sarebbe stata tutta discesa e non ci avrei neppure provato, a frenare, sarei arrivato dritto schiantato nella casa dei miei nonni spaccando la mia bici e fottendomi qualche arto, ma non avrei rallentato perché l’importante era fare presto e basta e vedevo già l’inizio della curva che si avvicinava ad una velocità animale, proprio lì, poco prima dell’insegna dello Smeraldo salaricevimentiviaCorsica e tutte le altre belle cose.
Un po’ di acqua saltata in aria quando inforcai la curva mi schizzò sul viso, sentii la ruota slittare leggermente, ma poi traslò di nuovo nella giusta traiettoria girando peggio di un ventilatore al massimo della potenza. Ridiedi potenza ai polpacci, accelerai ulteriormente la corsa col vento che mi spalancava le palpebre, avrei saltato gli incroci come un falco, operando un teletrasporto se fosse stato possibile, non mi sarei fermato per niente al mondo…
...una sgommata di quelle mai viste, quelle da filmare e vederle in Tv e poi rivederle e rivederle chiedendosi come fosse possibile, quale fosse il punto preciso in cui il miracolo dell’impatto evitato si fosse avverato, ma quando invocai il secondo miracolo, quello che disintegrasse il taglio del marciapiedi che scivolava a velocità folle sotto la mia ruota, mi resi conto di chiedere troppo.
Schiacciai il freno anteriore con tutte le mie forze, la ruota slittò verso destra togliendomi la bici dalla presa delle mani, il mio corpo prese quota e saettò dritto davanti, in un volo di una decina di metri, prima che il mio avambraccio atterrasse sul lucido del marciapiedi, scivolando ancora oltre e portando il mio busto a torcersi, fino ad accartocciarmi con le spalle contro il gradino di un portone. Quando, tratto un sospiro enorme, riaprii gli occhi, cercai di realizzare senza panico quello che mi era accaduto: ‘Io sono morto’ mi dissi ‘ma non c’è nulla di cui preoccuparsi’.
Mi rimisi in piedi lentamente, i jeans luridi e strappati sul ginocchio, il giubbotto completamente bagnato con l’avambraccio consumato. Tranne il ginocchio grattugiato, non mi sembrava che avessi qualcosa di rotto, anche se alla schiena pure avevo preso una bella botta.
Che paura, oh! ma guarda se questa rimbambita doveva tagliarmi la strada senza alcuna cura, avevo rischiato di spappolarmi contro il portone per non investirla, le avevo salvato la vita mettendo a rischio la mia, adesso come minimo se aveva buon senso me la doveva dare.
“Ma che cazzo...” le dissi avanzando verso di lei, nonostante la figura di merda e la gente tutto intorno che mi chiedeva se stessi bene “ce la guardi la strada ogni tanto, prima di attraversarla?” buttai lì cambiando direzione di colpo, quando un brivido mi aveva attraversato riportandomi alla mente che avevo avuto una bici, soltanto pochi attimi prima.
La raggiunsi, la ruota anteriore ancora girava. La ispezionai con le mani sui fianchi, si stava creando la calca tutto attorno, il lato che potevo guardare era a posto, ci girai attorno, la voltai dall’altro lato e vaffanculo, lo sapevo! Mi tirai un pugno su una coscia: la parte destra della forcella d’avanti e della staffa di dietro si erano quasi completamente sverniciate, le ruote sembravano sane, provai i freni senza rialzarla, mi inginocchiai a valutare la catena, le corone…
Mi tastai la schiena, rilasciando la bici in quella posizione da ci-è-mancato-poco-rialzami-per-favore, mi voltai ancora verso la ragazza, senza alzarmi.
“E tu allora? E’ quello il modo di fare una curva... mi hai fatto prendere un colpo, demente!” aveva pure il coraggio di replicare, questa povera deficiente.
“Vaffanculo, troia!” vomitai di getto.
Controllai per un attimo ancora la bici, cazzo, a parte i graffi non s’era fatta niente! l’agguantai per il telaio, rimettendomi in piedi e la lanciai da una parte, violentemente. Mi voltai stizzito verso la ragazza, caricai una serie di parolacce da far spaventare un regista porno, stavo per vomitarne la prima ondata, puntai un dito in direzione e sgonfiai pari pari il petto nel preciso istante in cui il suo viso fu abbastanza vicino da essere riconoscibile, le mie gambe cominciarono a tremare per la paura repressa, i muscoli del mio volto persero tutta la loro tensione come fosse acqua che scivola da un vetro.
Mi passai una mano sulla testa, chiudendo un attimo gli occhi.
“Oh, no, non puoi essere stata tu a farmi questo” ammisi, sconsolato, indicando la bici, nella sua nuova espressione da figlio-di-puttana-che-cazzo-te-la-prendi-con-me-adesso. Le avevo detto pure vaffanculo troia “Scusa, io… non ti avevo riconosciuta” quasi abbassai la testa, mi veniva da piangere per lo sconforto.
“Neanche io pensavo fossi tu. Che ci fai a quest’ora in bici?” ok, almeno non si era incazzata.
“Vado a fare un servizio urgente... Ti... ti sei fatta male?” cazzo di domanda.
“Barra, non ci siamo neanche sfiorati” ecco, appunto “Tu invece” quasi urlò e i suoi occhi mutarono espressione di colpo, forse ricordando il volo che avevo fatto, si piantò le dita di tutt’e due le mani sulla bocca “hai fatto un volo pazzesco, fammi vedere!”
Mi squadrò dalla testa ai piedi, avvicinandosi e soffermandosi sul ginocchio sanguinante.
“Ti fa male?” avvicinò un dito per valutare la ferita.
“No!” cazzo, quanto bruciava adesso che me ne rendevo conto, ritrassi la gamba.
“Devi mettere un po’ di ghiaccio” disse un tipo chiuso in un cappotto. Mi voltai verso di lui.
“Hai sbattuto la testa? Hai sbattuto la schiena, sì, ti ho visto, hai sbattuto la schiena, lasciati guardare” cercò di alzarmi la maglia in fretta.
“Sto bene” mi voltai per non lasciarmi toccare, ma tornò alla carica.
“Ti sei fatto male la schiena, ti ho visto, hai sbattuto contro quel gradino” indicò il gradino, agitata come se la cosa stesse ancora accadendo o come se fosse stata più grave, adesso che aveva scoperto che ero stato io a subire quella brutta caduta. Riuscì a dribblarmi, alzando la mia maglia “C’è un livido enorme qui, è impossibile che non ti faccia male” vederla preoccupata per me mi metteva in un dolce imbarazzo, ma le sue dita fredde sulla mia schiena furono troppo.
“Devi mettere un po’ di ghiaccio” mi voltai ancora verso il tipo chiuso nel cappotto.
“Ti ho detto che non mi fa male niente, sto bene” sorrisi, per rassicurarla. Anche lei però.
“E… il braccio, hai il giubbotto consumato” aveva notato perfettamente tutto, se non fosse che spogliarmi a centro strada in pieno dicembre era da masochisti, le avrei fatto ispezionare qualunque parte del mio corpo “Guarda, c’è un livido anche qui” disse, quasi stupita.
“Devi mettere un po’…”
“Ho capito, ma dove lo trovo un po’ di ghiaccio a centro strada?” il tipo chiuso nel cappotto girò i tacchi, ormai era rimasto l’unico a preoccuparsi di noi.
E quello che successe dopo, me lo ricordo ancora come se fosse successo pochi minuti fa.
Lei che tenta di sopprimere una risatina, ma non ci riesce, mentre inconsciamente mi ha accarezzato il braccio, adesso me lo tiene per il polso. Com’è bella quando sorride, vorrei vederla sempre così, un giorno forse glielo dirò.
“Quando ridi mi piaci, lo sai?” non così presto, stupido, speriamo non abbia frainteso.
“Grazie. Non sapevo fossi capace di dire qualcosa di dolce, ogni tanto” vabbé, non ha frainteso.
“Beh, sai com’è, avresti dovuto aspettartelo da me, sopratutto se poi...” meglio non continuare.
“Se poi?” ho detto meglio non continuare, sei sorda forse?
“Se... niente se, io non ho detto nessun se, dev’essere stato qualcuno che passava di qui” mi concede un altro piccolo sorriso, quasi quasi lascio perdere mia nonna e tutto il resto e l’accompagno a casa e poi le chiedo se mi fa vedere la sua collezione di monete antiche.
“Posso accompagnarti a casa e salire a vedere la tua collezione di monete antiche?” adesso mi manda a fare in culo.
“Ma io non ce l’ho una collezione di monete antiche” impossibile.
“Io sì, ce l’ho una collezione di monete antiche” bugiardo “vuoi venire a vederle a casa tua?”
“Senti, adesso non capisco più niente” continua a sorridere mentre parla, mi viene voglia di baciarla.
Mi avvicino velocemente, le poso una mano sulla guancia per tirarci via i capelli e le do un bacio sulla stessa guancia così veloce che quasi non sento il contatto della mie labbra contro la sua pelle.
La osservo un attimo, non se l’aspettava, logico, divento mezzo rosso, lei tutta rossa, inizio ad allontanarmi camminando all’indietro, la saluto con la mano, poi mi volto e risalgo sulla mia bici. Prima mi andarmene la osservo mentre gira la strada, pensierosa.
Forse per quel bacio?
Ma no, eppoi non mi piace neanche, Sarah Moretti.

La bici si impennò leggermente in avanti, quando schiacciai entrambi i freni per finire la mia corsa all’impazzata proprio sotto i tre gradini della casa dei miei nonni.
Cavalletto difettoso di merda, lasciai perdere la bici a terra e mi infilai in casa quasi spaccando la porta, se ci fosse stato qualcuno dietro, si sarebbe preso una bella botta.
Fumo dappertutto nella stanza, puzza di legno bruciato e odore tipico di una casa da anziani molto anziani e soprattutto ostinatamente soli, luce da l’importante-è-che-c’è, mia nonna sdraiata, pallida, quasi in coma sul suo lettone posto ad un angolo della grande stanza che poi era tutta la casa, mio nonno accanto al letto seduto su una sedia di legno, le teneva la mano. Sembrava essere al capezzale di sua moglie morente e sembrava esserci vicino anche lui, alla morte, a giudicare dalle palpebre calanti.
Rimossi immediatamente quell’immagine, per non farmi prendere dal panico, dovevo stare tranquillo, tranquillo, tranquillo, tranquillo, tranquillo...
“Che cazzo è successo?” mi sfondai quasi il cranio con una manata tra i capelli, osservando il fumo e iniziando a realizzare qualcosa, inconsciamente.
“Mi fa male la testa, mi fa male la testa, mi fa male la testa” vabbé, doveva essersi incantata, meglio chiedere al nonno.
“Com’è successo, così all’improvviso?” chiesi guardandolo dritto negli occhi.
“Gabrié, sono tornato alle nove dal bar e l’ho trovata che un altro poco e sveniva, gli ho chiesto ‘che c’è?’ e mi ha detto che gli faceva male la testa e mo ho chiamato a casa tua che non sapevo proprio cosa dovevo fare che non si regge neanche in piedi, che ti devo dire?” mi sapeva tanto che neanche lui ci stesse col cervello perché iniziò ad inclinarsi verso destra, lentamente, ma che cos’era, un’epidemia?
Tossii, guardai mia nonna, guardai il fumo che continuava ad uscire dalla maledetta stufa a legna, ma non la spegnevano mai?
“Da quant’è che la tenete accesa ’sta stufa qua?”
“Neh, da quando me ne sono andato” grazie per la precisione. “E quand’è che te ne sei andato?” chiesi ancora.
“Che potevano essere le cinque” rispose.
Mi venne un lampo di genio.
“Ommadonna, ma che cazzo s’è otturata la canna fumaria? Oddìo oddìo oddìo...” continuavo a dire mentre correvo a spalancare le porte della casa, poi mi avvicinai alla stufa, la aprii, ci guardai dentro e c’era un casino di legna che stava ancora bruciando.
Nella fretta di sistemare la faccenda, mi tirai su le maniche, ficcai la mano dentro la stufa e acchiappai un pezzo di legno bello grosso, poi lo lanciai fuori dalla porta e continuai così, tra una bestemmia e un urlo per il dolore, chissenefregava, per poco non ci restavano secchi, i due. Osservai le mie braccia annerite dalla fuliggine fino al gomito continuare quasi da sole a ficcarsi nella stufa e mi sembrava di non potermi fermare neanche se la carne delle mani mi si fosse sciolta, perché non avevo niente nella mente, solo quella stufa e quanto fumo aveva fatto, così mi ritrovai a bestemmiare ancora cinque minuti dopo aver gettato fuori l’ultimo pezzo di legno, girando come un ossesso per la casa e tenendomi le mani strette tra loro.
Non sapevo qual era quella che bruciava di più.
Mi lasciai andare su una sedia, mezzo nero di carbone e con le mani ancora fumanti, adesso che ero un po’ più lucido, mi resi conto che sarebbe bastato riempire un secchio d’acqua e lanciarlo nella stufa. Ma a volte sono proprio deficiente.

Le accarezzai la fronte e le diedi un bacio sulla guancia, anche se aveva già gli occhi chiusi e probabilmente non se ne era nemmeno accorta.
Io a mia nonna le volevo bene per davvero. Sarà perché era la madre di mia madre e dovevo volerle bene per forza, sarà perché mi faceva tanta tenerezza pensare che mezzo secolo e qualche decennio prima o giù di lì, aveva avuto più o meno la mia età e forse era anche carina e avrebbe potuto ispirarmi un po’ di musica, o sarà perché ricordavo ancora quando, da piccolo, mi teneva in braccio tutta la giornata e non smetteva di baciarmi perché ero l’unico nipote che abitava nel suo stesso paese, dato che tutti i miei zii stavano a Milano, a Napoli, a Firenze, uno persino a Monaco, in Germania.
Mi diede una tranquillità incredibile vederla finalmente riposare dopo un’altra mezz’ora di lamenti per il mal di testa e per il freddo che penetrava dalla porta aperta per permettere a tutto il fumo di uscire.
Telefonai a casa per vedere se mia madre fosse tornata “Ma’, c’è la nonna che si sente male e... no, niente di grave, però per questa notte io sto qui e... come? Sì, le fa male la testa... devi... no, devi solo dirmi dove stanno le medicine e che medicine... ah, sì, le gocce... ma dove... ehi, aspetta, quante devo dargliene... ti ho detto che non è niente di grave, volevo solo dirti che per questa notte sto qui... sì, nel cassetto del comodino... no, niente di grave ma quante gliene devo dare?... ho capito sì... Cristo! ti ho detto niente di grave, ti vuoi calmare o devo incazzarmi anch’io?... vabbé, sto calmo ciao, ci si vede domani, sì non preoccuparti più, buona notte”
Non ci credevo ancora che tutto si fosse risolto in un niente, la nonna smise d’improvviso di lamentarsi, l’aria era tornata respirabile e fresca, vabbé, facciamo fredda che forse è più corretto e il nonno si era cambiato e si era infilato sotto le coperte.
Per quella notte niente stufa, però almeno eravamo vivi, no?
Le baciai un’altra volta la guancia prima di spegnere la luce e mettermi a sedere al centro della stanza, al buio, per avere tutto sotto controllo.
Adesso mi sentivo veramente bene, avevo richiuso le porte della casa, avevo sistemato il fatto senza coinvolgere nessuno e, anche se le mani mi facevano ancora male ed anche se mi bruciava il ginocchio e cominciava a dolermi la schiena e persino l’avambraccio, non potevo dire di non essere ugualmente in uno stato di pace interiore da Nirvana. Il mio dolore aveva salvato la vita o quantomeno aveva evitato sofferenza a tre persone. Due molto importanti per me, l’altra…
Sarah.
Ci ripensai un attimo. Forse era per il fatto che l’avevo vista che adesso mi sentivo bene. Doveva essere per quella piccola certezza che se mi avesse visto mentre velocemente rischiavo di farmi un male atroce per liberare la casa dal fumo, sprezzante del dolore della legna bollente e poi quando serenamente baciavo le guance di mia nonna, avrebbe certamente cambiato idea su di me. E doveva essere anche perché sapevo che non avrebbe mai cambiato idea su di me, perché tanto non avrei mai avuto l’opportunità di dimostrarle che non ero soltanto uno stupido ignorante che voleva divertirsi il più possibile alle spalle dei più deboli. Lei non l’avrebbe mai saputo ma io lo sapevo, lei non mi avrebbe mai conosciuto e avrebbe creduto quello che voleva, di me.
Naaa.... facevo proprio dei pensieri da fesso quando ero solo, al buio.
Il fatto è che mi era passato per la testa come un lampo, che forse lei potesse ispirarmi ancora, che avrei potuto anche provare a comporre di nuovo qualcosa senza pretendere chissacché, soltanto pensando alle sue labbra quando avevano sorriso e poi riso e... e... a cosa volevo pensare se sì e no avevamo parlato due o tre volte?
Troppo distanti, troppo diversi, lei così amante dell’ordine e del rispetto delle regole, io così strafottente di tutto quanto tranne che della mia pianola, del mio pseudo-talento in fatto di musica. Non avevo mai preso niente sul serio, come pretendevo di essere preso sul serio proprio da lei, allora?
Sì, ma qui non si trattava di essere preso sul serio da nessuno, qui si trattava di comporre ed era l’unica cosa che mi importasse: a prendermi sul serio avrei dovuto pensarci io e basta, quindi che me ne fregava, ci avrei provato lo stesso a scrivere qualcosa senza pretese, no?

Rientrai in casa silenziosamente, cercando di fare il minor rumore possibile, convinto che bastasse tenermi la chitarra addosso come fosse un indumento, mi tirai dentro la bicicletta, calcolando gli spazi.
Richiusi la porta e, con i passi contati, mi avvicinai alla scala che portava sul terrazzo. Mi ci arrampicai e salii poggiandomi sul minor numero di pioli che scricchiolavano come fossero vivi e sofferenti. Mi tirai su quando ero arrivato all’ultimo, poi mi tirai via anche la chitarra e mi ritrovai di fronte alla porta del terrazzo.
La spalancai, contai centomila stelle di una notte decembrina e passai attraverso l’uscio prima di richiudermi la porta alle spalle.
Da qui vedevo la casa che avevo appena lasciato, quella appena fuori città dove tenevo la mia chitarra e dove avevo riverniciato la bici. Ci ero andato a quell’ora assurda della notte per prendere la chitarra, rischiando di essere sparato dal guardiano notturno, se mi avesse visto. Dalla casa di mia nonna c’era poca strada da fare per raggiungerla e, anche se avrei preferito avere lì la mia pianola, mi sarei dovuto accontentare di fallire l’ennesimo tentativo di domare la mia chitarra.
L’unica sedia che i miei nonni tenevano lassù, divenne la mia quando divaricai le gambe per trovare la posizione più comoda che mi permettesse di tenermi in braccio la cassa armonica.
Nel sedermi, sfiorai due corde con le dita e ne partì un suono echeggiante nel freddo della notte. Pensai che ero proprio un coglione, a starmene su una terrazza esposta al venticello già invernale di una notte di dicembre, quando a dieci chilometri più a nord aveva nevicato per tutto il tempo che lì aveva piovuto.
Io, per di più, con la mia chitarra, ci avevo litigato già da un po’, perché ci avevo provato tante di quelle volte a comporre qualcosa che solo ripensandoci, avevo speso forse più tempo a suonare, anzi, a tentare di suonare, che a dormire la notte.
Io con la mia chitarra ci avevo litigato perché non ero mai stato un tipo fatto per lei, come se fosse troppo, come dire? distante, per me, esattamente come... come Sarah ecco!
Sembrava piuttosto lontana migliaia di chilometri dall’essere uno strumento umano o terrestre. Sembrava essere lo strumento degli angeli caduto dal cielo proprio nella mia vita, fra le mie braccia, trovata da mio nonno come fosse un pezzo di meteora e affidata alle mani di questo povero bambino umano che non sarebbe stato assolutamente in grado di suonarla. Mai.
E quella notte invece, sul finire dell’autunno del mio quindicesimo anno di vita, mi era tornata tra le braccia per cause di forza maggiore e già sapevo a cosa sarei andato incontro, ma lo stesso decisi che potevo darmi una nuova opportunità perché mi aveva preso qualcosa per davvero, proprio al centro del petto, quasi una sensazione nuova di quelle che non avevo mai provato nella vita, di quelle che vengono una volta sola e mi dissi che una notte come quella, con quello che sentivo, non doveva andare sprecata.
Chiusi gli occhi al primo vento di ispirazione e mi lasciai trasportare, cominciando ad inseguirla, in tiepide acque di quelle dolci dolci che sembrano cullarti e farti dimenticare tutto quello che ti sta attorno. Mi strinsi più forte alla mia chitarra, brillò nei miei occhi più vivida la mia scintillante illuminazione, immergendosi nella galassia di sensazioni di una fredda notte stellata che arrivava da lontano, come animata da note di un altro pianeta che non potevano non essere amate con l’anima nuda, anche se uno poi è diverso da quando aveva dodici anni ed era più piccolo e perciò era giusto che fosse un mezzo fesso innamorato, anche se poi in fondo me ne sarei vergognato a raccontarlo in giro, che quella notte era per me l’equivalente delle notti immense del Battello Ebbro di Rimbaud, una di quelle notti in cui dormire sarebbe stato come essere morti da sempre.
Forme che si ingrandivano e rimpicciolivano ad una velocità supersonica apparvero alla mente, senza scatti, così, fluide e continue, ma comunque indefinibili, comunque semplicemente percettibili nel buio della mia visione, comunque intangibili e lontane come quella musica che da lontano mi stava ispirando.
Sorrisi senza aprire gli occhi, sorrisi di quelle strane forme e della mia mente che non riusciva a bloccarle in un’immagine fissa, che non riusciva a catturarle nella loro giusta grandezza ed ogni volta mancava il momento opportuno lasciando che tornassero ad ingrandirsi e ad assottigliarsi magrissime, con un ritmo diverso ognuna dall’altra, finché divenne impossibile bloccarle e rimasi lì ad osservarle, come un bambino incantato dai fuori d’artificio, dondolando nelle mie sensazioni e senza innervosirmi del fatto che nessuna fosse definita, ma gustandomi l’incertezza delle mie forme e delle mie emozioni, prendendola come un fase di transizione della stessa ispirazione che, volteggiando, si stava ancora realizzando.
Lentamente tornarono a svanire tutte le ombre nella mia mente, tornarono a depositarsi nel mio inconscio, come se avessero capito che quella non era la loro volta, che ci sarebbe stato tempo da dedicare ad ognuna di esse, ma che ora potevo occuparmi di una sola, quella che abbandonarono solitaria nel buio, a cambiare dimensione sempre meno velocemente e definendosi sempre più, mi parvero due labbra all’inizio, due labbra di ragazza, ma quando finalmente l’immagine mi fu di fronte, immobile e delineata, scoprii che non erano solo due labbra, ma era un intero sorriso, il sorriso che volevo vedere, cornice di denti bianchi e di una morbida lingua, sotto le due labbra increspate e contrastanti, per il loro colore, col buio della gola.
Le dita si mossero piano sulle corde della mia chitarra, mi facevano ancora male i polpastrelli, ma non contava più quello, perché finalmente la musica lontana che avevo ascoltato, sgattaiolò fuori dalle stesse corde riempiendomi di quelle labbra e di tutte le sensazioni che mi avevano provocato.
Stavo già scrivendo quella che era la mia prima canzone vera su chitarra e la stavo scrivendo per la ragazza che col suo sorriso e con i suoi fousons fucsia che erano perfettamente in tinta con le sue labbra, era stata capace di trovarmi, nel guscio in cui me ne stavo racchiuso e cominciai a sospettare che forse sarebbe stata la ragazza che cercavo da quando avevo iniziato a suonare anche se (lo giuro) non me ne ero reso conto fino a quel momento.


SARANNO STATE QUESTE STELLE OSCENE

Strofa 1
Lasciamo stare, dàì, stanotte
è un’altra cosa e poi domani forse
avrò dimenticato i miei pensieri
e farai parte di un assurdo ieri.

Strofa 2
E’ che non lo so cosa mi ha preso,
innamorarmi di un sorriso, posso?
Saranno state queste stelle oscene
per quanto sono belle da quassù.

Ritornello
Cosa vuol dire allora se da un po’
sorridi senza alcun motivo, a volte?
Mi fa sentire stupido, (ci credi?)
però, anche un po’ forse... mi piace
se dici che anche tu ogni tanto poi
ami fermarti un attimo a pensarci [x2]

Strofa 3
Non sto cercando di rivelarti qualcosa, no,
non cerco di svelarlo a me neppure.
Fosse per me, starei, stanne sicura,
lontano come credo che tu voglia,
ma sorridi...

Strofa 4
...diciamo quel che mi concedo è: forse
m’inebetisce il tuo sorriso e credi
che un gioco non sia fatto per far male
per me quel gioco ha un senso, adesso che
se è un gioco io non voglio più giocare.

Ritornello
Cosa vuol dire allora se da un po’
sorridi senza alcun motivo, a volte?
Mi fa sentire stupido, (ci credi?)
però, anche un po’ forse... mi piace
se dici che anche tu ogni tanto poi
ami fermarti un attimo a pensarci [x2]

... silenzio... una mano battuta sulla cassa della chitarra...
...ancora silenzio... il mio sorriso nel buio come fosse consapevolezza.
Una canzone.
Questa sì, senza più dubbi.
Mi accarezzai la testa, improvvisamente mi resi conto del freddo che premeva tutto intorno, ero stato tutto il tempo da solo di fronte alla notte, vicino al cielo come mi sembrava di non essere stato mai.
Mi alzai, abbracciando la chitarra, raggiunsi la porta, mi voltai ad osservare la sedia al centro della terrazza e mi sembrava di vedermi ancora, seduto a vivere la più bella notte della mia vita.
Soltanto adesso che l’avevo varcata da soglia a soglia, decretai “è giusto e sacro che io vada a dormire”

*

Skizzando nel vento, 5: Sopra un giaciglio di rose

5
Sopra un giaciglio di rose
(Anche la bellezza dell’inverno sa generare amore)



NOVEMBRE DELLA CERTEZZA

Alcune nobili menti avevano deciso che, al mio rientro dalla sospensione, avrei recuperato le interrogazioni che non avevo potuto dare nel frattempo e più semplice sarebbe stato invece affidarmi un quattro politico per ogni materia. Non c’era proprio modo di evitare questo genere di figure di merda, eccezionalmente significative quando si trattava di interrogazioni di matematica e fisica.
Per quanto non fosse una soluzione congeniale per essere valutato, dovetti sottostare senza alcun preavviso ad una serie assurda di interrogazioni a mitragliatrice. A volte in una giornata ne avevo fatte due, io che il pomeriggio prima non ero riuscito a prepararne mezza.
Questo d’italiano aveva invece maturato la decisione di valutarmi in un’interrogazione più equa, limitando la portata del programma da preparare e dandomi qualche giorno in più rispetto agli altri.
Quella mattina me ne stavo con il libro di letteratura italiana sulle gambe a ripetere quello che già sapevo di Meriggiare pallido e assorto di Eugenio Montale. Quello che già sapevo dalla scuola elementare, dalla scuola media e dall’ultima ripetizione del giorno prima, mentre il professore percorreva con un dito e con lo sguardo l’elenco degli alunni presenti per affiancarmi un secondo interrogato. Quando il nome che pronunciò fu quello di Sarah Moretti, mi guardai attorno per capire se avessi sentito bene: possibile che fosse una delle ultime a dover essere ancora interrogata? Da quel che avevo capito ascoltandola parlare dietro di me, si era offerta volontaria a quasi tutte le materie.
La osservai mettersi comoda davanti ai miei occhi col suo libro stretto al seno ed i capelli raccolti dietro le spalle mentre muovevo le labbra in fretta per ripetere a velocità allucinante tutti i concetti che avrei cercato di esprimere, a tempo debito. Cazzo quanto erano poche le cose che ricordavo! Eppure mi era sembrato di possedere nel palmo della mano vita, morte e miracoli di Montale.
Qualcosa fuori dalla finestra colse il mio sguardo, un passero posatosi in quel momento sul ramo di un albero, mosse il suo capo, sembrò osservarmi, oltre il vetro. La luminosa intensità del sole faceva brillare tutti i più vivi colori dell’autunno e si rifletteva sul piumaggio dell’uccello. Il mondo poteva essere un posto chiaro, a volte, poteva essere un posto luminoso e dai colori accesi.
Poi l’uccello si spostò, venne più vicino, sopra un cespuglio di rose, si soffermò su un rametto che prese a dondolare. Rivolse ancora a me il suo sguardo, mentre la testa ciondolava, stava guardando me e non c’era nessun dubbio.
Improvvisamente tutti i pensieri abbandonarono la mia mente e quando il passero se ne volò via e la scena che avevo osservato perse d’interesse, tutto fu più chiaro dentro di me, tutto s’intinse della fredda luce che proveniva dal fuori, schiarendosi.
Avevo di fronte a me Sarah Moretti, il suo viso chiaro adesso che riportavo su di lei i miei occhi, era diverso, più definiti i suoi lineamenti e più nitidi i colori che indossava, come se l’illuminazione ricevuta dal freddo quadro osservato fuori dalla finestra avesse infuso nel mio sguardo nuove capacità percettive.
Fu in quel momento, quella mattina di novembre, che per la prima volta la vidi bella e restai confuso come se lo stessi scoprendo proprio allora, come se, più che averlo realizzato col passare dei giorni, l’avessi intuito tutto d’un colpo, quasi per caso.
Cambiai posizione senza smettere di osservarla, mentre il professore formulava le prime domande, mentre lei elaborava le prime risposte. Mi chiesi come avevo fatto a non accorgermi della sua bellezza fino a quel momento, da che cosa ero stato così tanto preso se non ero riuscito a fermarmi un istante nella contemplazione di quel viso che (continuavo a rimanerne esterrefatto) non si poteva che definire bello.
Parlava con garbo, le sue labbra rincorrevano le parole velocemente, iniziai a percepire il suo profumo nell’aria, profumo di qualcosa di buono, profumo di qualcosa di estivo, anzi, di qualcosa di fresco nel caldo torrido dell’estate, gesticolava con le mani, le dita sottili e brune, la pelle liscia, per aiutarsi ad esprimere concetti e idee, si sistemava meglio sulla sedia, si fermava per tossire un attimo e poi ripartiva, più spedita, rinforzando le sue teorie, sembrava quasi presa dal suo commento, sembrava emozionata e il fatto di vederla emozionata, non so per quale assurda ragione al mondo, emozionò anche me. Potevo sentirlo perfettamente, spostai una mano al petto, corrugai la fronte, riportando lo sguardo fuori dalla finestra, cercando di cogliere ancora la cornice precisa dell’immagine che mi aveva cambiato, per scoprire, per studiare cosa mi fosse successo e per quali ragioni fosse accaduto.
“Ma, ascolta, Barra, questa è stata considerata la poesia più bella e famosa di Eugenio Montale, perché, secondo te?... ... Barra... ... Barra!”
Barra non c’era più, scomparso, immerso nella tenera crema di parole montata da Sarah e adesso nel suo viso tranquillo, rilassato, nello sguardo da cui filtrava la preoccupazione di aver potuto commettere qualche possibile errore, Barra cercò di divincolarsi per riprendere l’interrogazione, Barra scosse la testa senza staccare gli occhi dal volto di Sarah e Barra iniziò a parlare con gli occhi pieni del volto di Sarah, senza emergere completamente da quello stato di non piena lucidità.
“Comprende in sé il significato di tutta la poetica dell’autore, perché esprime il senso che Montale ha attribuito all’esistenza ed al suo inutile cercare di scavalcare un muro. Montale aveva visto qualcosa, ma quel qualcosa era oltre il muro e se anche avesse tentato di scavalcarlo, avrebbe trovato il dolore ad aspettarlo in cima” io avevo visto qualcosa e tra me e lei non c’era nessun muro, o meglio sì, c’era stato un vetro, ma adesso qual qualcosa aveva invaso il corpo della ragazza dinanzi ai miei occhi.
Io avevo avuto un’ispirazione, fuori dalla finestra. Il mio sguardo l’aveva seguita entrare all’interno dell’aula come fosse un flusso d’aria, il flusso era stato assorbito dal volto di Sarah Moretti. L’ispirazione adesso era dentro di lei, in lei risiedeva, era uscita dal nulla del mio inconscio ed io l’avevo catturata, ma non ero riuscito a portarla alla coscienza, lei mi era sfuggita, si era rintanata in Sarah ed io avrei dovuto aspettare che facesse di nuovo capolino, prima di farla mia.
“Quindi Montale è un pessimista?” Sarah, dopo aver tentennato, si propose per fornire una risposta.
Non le toglievo gli occhi di dosso, attendevo che l’ispirazione riemergesse dal folto dei suoi capelli, dal candore delle sue guance, o fuori dalle stesse labbra, confusa tra le parole, non mi sarebbe scappata un’altra volta, sapevo precisamente dov’era, racchiusa nella bellezza di quel giovane volto che sembrava stesse parlando a me, quando diceva:
“Montale ha una visione della vita pessimista, ma secondo me, a rendere il muro così difficile da scavalcare, non è il muro stesso. Cioè, non è insito nel muro, cioè insita, la difficoltà di superarlo, ma proprio nella visione pessimista di Montale”
La bellezza, l’ispirazione, non erano state nella scena che avevo visto. La mia visione le aveva attribuite al passero, al volto di Sarah, ero io che le avevo infuse lì dove i miei occhi avevano guardato. L’ispirazione era stata nei miei occhi, da loro era emersa, aveva tentato di rimanere impressa nella foto fuori dalla finestra, ma non v’era riuscita. Aveva cercato un altro soggetto ed aveva trovato un nido proprio dentro la ragazza.
Mi grattai una tempia, mi chiesi ‘E quindi?’ ma nessuna voce mi spiegò quale sarebbe stato il da farsi.

La Yamaha era immobile sul piedistallo, i suoi tasti bianchi e neri mi chiamavano gridando come non mai, dicevano “Non fare lo stupido, dài, lo sai che hai bisogno di noi, allora fallo adesso, lascia perdere quello stupido libro di matematica e mettiti a lavorare su di noi, posa le tue candide mani sulla nostra plastica ed estorcici le più belle note con cui puoi plasmare quell’ispirazione, metti il cuore proprio qui, accanto a noi e vediamo cosa succederà”
Così lanciai da una parte il libro di matematica e mi fiondai sullo sgabello tenendo le ginocchia sotto il piano ed allargando le braccia con le mani sospese sui tasti.
Aspettai un po’, prima di cominciare, cercai di rievocare la situazione che mi aveva ispirato, ricordai Sarah Moretti, ricordai quanto fosse stato dolce il tono della sua voce, i movimenti delle sue mani, l’emozione che le leggevo negli occhi durante l’interrogazione e senza neppure accorgermene, stavo già suonando.

SOPRA UN GIACIGLIO DI ROSE

Stretta nell’abbraccio caldo di un maglione,
sorridi, dal tuo angolo di mondo e ti appartieni.
Ed io non so che dire, farei solo confusione
se ti dicessi quello che ho sentito, lascia stare.

Non era nei miei piani, forse non lo crederai
di certo non sospetti ancora niente tra di noi
cercavo la mia musa in questo mare di persone
e adesso che ci sei forse è già meglio rinunciare.

Tu certo non lo sai cos’è l’amore,
sei solo di te stessa, per favore
fa finta che non sia successo niente a questo cuore
dimentica, dimentica, i miei sguardi e le parole,
cancella questa traccia, questo giovane dolore,
rilascia al nulla, presto! la mia ispirazione

Adesso il mondo è zitto e ferme son le cose
colpevoli di avere dato un senso nel parlare
alle mie orecchie, al cuore, fredde eran le rose
ti stenderei tra quelle ad osservarti riposare.

Tu non parlare neanche, ma continua a soffermarti
su quello che credevi certo fino a stamattina
non prendermi sul serio se non smetto di guardarti
un po’ di tempo aggiusterà le cose, ragazzina.


Tu certo non lo sai cos’è l’amore,
sei solo di te stessa, per favore
fa finta che non sia successo niente a questo cuore
dimentica, dimentica, i miei sguardi e le parole,
cancella questa traccia, questo giovane dolore,
rilascia al nulla, presto! la mia ispirazione.
Ritornerò a curarla solo,
come ho fatto in tutte
le mie ore.

Una canzone.
No, soltanto un testo su quattro note di merda.
Però bello.
Sì, magari qualche frase, qualche nota, adesso non è che potevo stare a chiedere chissaccheccosa al mio talento, era già tanto che, dopo tanto tempo, questo amorfo tentativo di comporre fosse arrivato a fine. Ed in più avrei potuto modificarla, sistemarla meglio, insomma, l’avevo scritta in dieci minuti. Magari un quarto d’ora. O forse un intero pomeriggio?
Ci pensai, nel frattempo mi sdraiai sul letto, chiusi i miei occhi.
L’immagine di Sarah si stagliò nel buio della mia mente. Lei non c’entrava niente con il mio amore, l’avevo soltanto vista bella, quella mattina, ma era stata la mia ispirazione a donarle bellezza, erano stati i miei occhi a volere che fosse così, erano la prima cosa che avevano visto dopo l’idillio fuori dalla finestra.
Però chi l’avrebbe pensato mai? Mi venne da ridere a pensare che faccia avrebbe fatto, se avesse saputo che, senza che provassimo niente l’uno per l’altro, le avevo dedicato una canzone. Immaginai le sue labbra spalancarsi in una O di meraviglia ed i suoi occhi ingigantirsi per la sorpresa.
“Oh mio dio” avrebbe detto “possono succedere queste cose?”
Nel frattempo che ci riflettevo su, il materasso mi parve più morbido. Sorrisi, per come mi sentivo, quella non era più la mia stanza e quello non era il mio letto, io avevo imbrigliato la mia ispirazione ed ora rilassavo le mie membra in vetta ad una serenità suprema, disteso
sopra un giaciglio di rose.


*

Skizzando nel vento Cap 4: assemblea di classe

4
Assemblea di classe
(Forse non è tutto perso, la speranza mi sorride dai suoi quattordici anni)



OTTOBRE DELL’INIZIO DI TUTTO

L’astuccio volò per tutta l’aula per un bel quarto d’ora, mentre Pastore, il suo proprietario, lo inseguiva tentando di riafferrarlo contraendo il viso in una smorfia quasi di disperazione: nell’astuccio c’era una calcolatrice scientifica, tre pennini ed un compasso Fabercaster e altra roba di un certo valore.
Adesso percorreva volteggiando l’intera stanza in diagonale e stava per cadere a pochi passi da me, proprio sullo spigolo di un banco. Non mi mossi, osservando il ragazzino mezzo sudato che spalancava gli occhi e la bocca dal terrore correndomi incontro.
All’ultimo momento mossi la sinistra sulla traiettoria dell’astuccio, afferrandone un angolo con due dita.
“Mi vuoi lanciare ‘sto cazzo di borsellino?” mi fece Corona dall’altra parte dell’aula, eravamo in due a lanciarcelo, così, per divertirci un poco dato che era mezz’ora che aspettavamo che cominciasse quella maledetta assemblea.
“Aspetta, oh, non vedi che l’ho appena preso?” Pastore era proprio di fronte a me, già alzava in aria le sue braccia tentando di riprendersi ciò che era suo, ma non ci sarebbe riuscito: era alto quasi la mia metà. Lo dribblai per un po’ fingendo di lanciare un paio di volte l’astuccio, poi osservai i suoi piedi: erano nella giusta posizione.
Schiacciai con il mio sinistro la sua scarpa destra, poi con una spintarella lo vidi sbilanciarsi roteando all’indietro le braccia e mandando fuori dalle labbra un “oh” così stupito che in quel momento quasi mi dispiacque di averlo fatto, ma ormai era tardi perché potessi riacciuffarlo per la maglia. Cadde rovinosamente di chiappe a terra.
“Allora, la vogliamo cominciare o no, quest’assemblea?” erano finalmente tornati i due che erano stati scelti come presidente e segretario delle votazioni. Immediatamente tutti presero posto in maniera ordinata, ognuno seduto compostamente al suo banco, i due che si occupavano dello spoglio si misero dietro la cattedra e il presidente, anzi, la presidentessa visto che era una ragazza, si sedette di fronte al resto della classe mentre il segretario stava in piedi vicino alla lavagna.
Gli unici che stavano ancora fuori posto come due rimbambiti, eravamo io e Corona, per non contare Pastore che stava a terra con una scarpa ancora sotto il mio piede.
“Barra!” la voce della presidentessa, acuta, rivolta a me “Lascia immediatamente andare Pastore e siediti, questo vale anche per te” indicò poi Corona.
La ignorai e lanciai l’astuccio verso il mio compagno che lo prese in due tempi, mentre Cosimo Pastore se ne stava sotto di me con la testa voltata verso Corona ed ebbe un sussulto quando al primo colpo quello se lo fece scivolare dalla mano, un respiro di sollievo quando riuscì a riprenderlo.
Plateale piroetta di Corona, contrazione del viso quasi stesse compiendo un lodevole gesto atletico rilanciando l’astuccio, codino che gli ballava dietro le spalle, piccolo applauso da parte mia e tuffo a destra per riprendere l’oggetto lanciato.
Mi piegai sulle ginocchia facendo un inchino e mi rialzai in fretta per tirarlo nuovamente quando, inaspettato, uno schiaffo mi raggiunse su una guancia.
Mi smarrii per un attimo e mi vidi sottratto l’affare dalle mani mentre cercavo ancora di capire cosa stesse succedendo, la mia mente tentò di elaborare in fretta la cosa, ma riuscii a collegare tutto soltanto quando, voltando la testa, vidi la presidentessa che restituiva a Pastore il suo astuccio a righe nere su uno sfondo bianco e con la cerniera rossa.
“Sei proprio un deficiente” mi apostrofò poi, quando il piccoletto si mise seduto al suo posto riponendo il borsellino nello zaino “Hai già la barba in faccia, ma ti comporti come un bambino di cinque anni con quell’altro menomato mentale del tuo amico”
Divenni immediatamente rosso senza sapere cosa rispondere ad una ragazzina di quattordici anni o giù di lì che mi rimproverava di essermi comportato come un fesso, anche se quello che più mi provocava vergogna era il fatto che avesse perfettamente ragione.
“Io volevo solo scherzare un po’!” cercai di giustificarmi mantenendomi la guancia che la ragazza mi aveva colpito.
“Bel tipo di scherzi, questi che fanno divertire solo te e il tuo amico” e vabbé, la figura di merda era già impacchettata, non avrei potuto far più niente per evitarla ormai, anzi, non volevo fare niente per evitarla, perché a pensarci, potevo ancora recuperare, è solo che non avevo voglia di rispondere a quella lì che non conoscevo nemmeno e che avevo visto sì e no per un mese seduta nel banco dietro il mio, con cui avevo avuto a che fare una sola volta, mi pare, quando le avevo bagnato tutti i libri al ritorno dell’ora di educazione fisica, sì, quella volta che… il giorno in cui ero stato sospeso, insomma.
Non ricordavo neanche come si chiamasse.
“Sarah!” urlò il segretario, Mesaroli, uno dagli occhi azzurri che sembrava il tipico protagonista dei film per ragazzi americani “Vieni, dài, iniziamo questa assemblea che sennò poi cosa diciamo al Preside?”
Mi morsi un labbro osservandola con la rabbia che prendeva a salirmi per il fatto di dover lasciare incompleta la nostra lezione di comportamento con tutte le cazzate annesse.
Lei sculettò fino alla cattedra dentro un paio di fousons fucsia con ai lati della cosce due strisce bianche, poi si voltò mentre mi sedevo al mio posto.
Corona se ne tornò al banco fischiettando indifferente, sapeva che nessuno gli avrebbe detto nulla, non gli dicevano mai nulla perché era più grande, perché era un bastardo e perché sapeva sempre e comunque come mettere a posto chiunque, mentre io stavo ancora acquisendo le sue arti magiche di condizionamento psicologico. Stavo già immaginando il modo con cui mi avrebbe educato una volta sedutosi accanto a me: “Sei un coglione perché non sai neanche rispondere ad una stupida che vuole fare la maestrina e che non ha capito proprio un cazzo della vita” e cose così, invece, anche lui rosso in viso, osservò la lavagna, si mise un dito in bocca, si voltò verso di me e iniziò a ridere sotto i baffi come se avesse compreso di aver fatto anche lui la figura dello scemo.
Risi con lui e poi iniziammo ad ascoltare la presidentessa dai fousons fucsia.
“Allora, sapete che ci servono due membri del gruppo che ci rappresentino all’interno del consiglio di classe e che gestiscano le nostre assemblee ed i rapporti con i professori, con il Preside e con gli alunni delle altre classi. Bene, oggi voteremo questi due rappresentanti, vi saranno distribuite delle schede su cui esprimere il vostro voto e poi ci sarà lo spoglio che designerà i due rappresentanti. Io mi occuperò di questa che è considerata la prima assemblea di classe, il segretario stilerà invece una relazione su quello che è avvenuto durante l’assemblea, Sabrina Altamura si occuperà dello spoglio ed Antonella Cavallaro scriverà alla lavagna i nomi dei candidati con i relativi voti. Tutto chiaro?” come no?! avevo capito tutto fino a che non si era cominciato a parlare di membri, praticamente non ci avevo capito niente.
“Ma prima di tutto bisogna che i candidati si presentino alla cattedra e ci espongano in breve il loro programma” disse infine, tanto per complicare ulteriormente la faccenda.
Comunque sembrava che in parecchi avessero capito quello che la presidentessa avesse detto, visto che in cinque si alzarono e si diressero verso la cattedra.
Ripropongo nei minimi particolari ‘l’esposizione del programma’ di ognuno dei candidati:

- Orion Di Giglio:
(Forse leggermente storto quella mattina)
“Io... voglio diventare rappresentante di istituto...” e tutti lo correggemmo la prima volta “Di classe!”. “...eh! mi sono imbrogliato. Beh, stavo a dire che voglio diventare rappresentante di istituto perché...” e tutti lo correggemmo la seconda volta “Di classe!”. “Beh, vabbé, voglio diventare rappresentante perché... io vi prometto che... cioè... che io siccome lo so come si fa perché mio padre lavora nella scuola e allora io so fare il rappresentante di istituto” Forse non sembrava, ma il discorso era concluso, gli risparmiammo persino l’ultima correzione perché davvero rimanemmo sbalorditi dalle profonde motivazioni che lo avevano spinto alla candidatura.

- Antonluca Marcantonio:
(Così veloce da capirci solo la parola sciopero più volte ripetuta)
“Io, ragà... cioè se voi volete fare sempre sciopero, votate ammé che io già non mi va di fare niente neanche ammé e voglio fare sempre sciopero perché lo sciopero è un nostro diritto? e allora facciamo sempre sciopero”
Questo era abbastanza affascinante, come programma.

- Cosimo Pastore:
(Il nostro eroe)
“Allora, in questa classe siamo molti, particolarmente tanti ed è difficile da gestire, però io penso che per me non è difficile perché basta che voi mi dite che cosa devo fare e io sono uno calmo e lo posso fare perché così non stiamo sempre a fare lite con i professori”
Applaudii per un quarto d’ora a questo discorso, nonostante la presidentessa mi lanciasse occhiate da cavarmi il cervello dal naso e dopo un po’ si unirono a me cinque o sei ragazzi dell’ultima fila.

- Marialucia Del Monte:
(La nostra eroina)
“Io non lo so come si fa la rappresentante oh, né, ragà... però penso che è un’esperienza che bisogna provare oh, né, ragà... perché mi sembra una bella idea oh, né, ragà... che uno di noi ci rappresenti davanti ai professori e oh, né, ragà... mi piacerebbe farlo” e con quest’ultima frase soffusamente compromettente, tanto che tutti quanti strabuzzammo gli occhi, pensando a cosa le sarebbe piaciuto fare, Marialucia lasciò il posto all’ultimo candidato.

- Morra Eugenio:
(Rosso come una mela rossa, non stava fermo un attimo, tanto che mi fece saltare i nervi a vederlo parlare)
“Allò ragà cioè... no, che, cioè, io, no, che, cioè... sostatbocciato, no, che, cioè, io, l’hofattopurl’altravolta, no, che, cioè, cioè, cè (è un cioè sincopato) cè (pure questo) elosofare, cioè, cé”
Ok. Cominciai a pensare che magari avrei votato lui.

Dopo un’altra mezza dimostrazione della capacità oratorie di Sarah Moretti (ecco come si chiamava la tipa dai fousons fucsia), un ragazzo di cui non ricordavo il nome iniziò a distribuire questi bigliettini qua, no? su cui praticamente dovevamo scrivere il nome del candidato che avremmo voluto votare.
Furono scritti alla lavagna i nomi dei cinque candidati e poi iniziammo a votare, ognuno per proprio conto, o quasi.
“Tu per chi voti?” chiesi a Corona, incerto nell’esprimere la mia preferenza. Avrei votato Pastore alla cieca, ma tutti sembrava stessero spremendosi le meningi come se la cosa fosse seria per davvero. Mi venne il dubbio.
“Non saprei” disse grattandosi la tempia e mordendo la penna che gli era stata naturalmente prestata dato che lui non portava mai nulla a scuola.
Lo guardai, mi guardò, guardammo i personaggi in piedi alla lavagna mentre anche loro votavano come noi comuni mortali, finché i nostri occhi non si fermarono sul viso piccolo piccolo dell’omino che avevamo preso in giro fino a pochi minuti prima. Tornammo a guardarci in viso, annuimmo e finalmente votammo. Pastore era il personaggio giusto, per far valere i nostri diritti.
Alzai la testa dopo aver espresso il mio voto e vidi i ragazzi dell’ultima fila che si consultavano per decidere chi votare, allora intervenni attirando l’attenzione di uno di loro, Giuseppe Mangino mi pareva si chiamasse.
“Non sappiamo chi votare” sussurrò per non farsi beccare dalla presidentessa.
Feci segno verso Pastore con la testa e quello mi fece intendere di aver capito strizzandomi l’occhio. Lo vidi proporre il nome agli altri sette e contai sette consensi.
Voltai nuovamente la testa verso la lavagna, compiaciuto della pubblicità che avevo fatto al nostro candidato e mi trovai di fronte un addome piatto di ragazza, in mezzo a due fianchi dalle curve rotonde che convergevano all’interno, proprio fra le gambe di...
“Quando ti ho detto che sei un deficiente, mi sbagliavo. Devi essere almeno trenta volte tanto. Ma insomma, che devo fare io per farti capire che questa è un’assemblea di classe e che un’assemblea di classe è una cosa seria e che non puoi stare a fare quello che ti pare e dare fastidio? E come devo dirti che il voto è una cosa personale e non puoi dire agli altri chi votare? Spiegamelo tu, come devo fare con te?” sgamato un’altra volta dalla presidentessa.
“Va bene” mi alzai in piedi per vedere come era il suo viso visto per la prima volta da vicino.
Beh, insomma, un po’ bruttina, però aveva due labbra, Cristo “Le prometto di non importunare più nessuno degli elettori, signora presidentessa, interiorizzerò il mio voto occultandolo a chiunque altro ed eviterò di farne propaganda o anche solo di enfatizzare una occhiata in particolare” ok.
Non credo dovesse ritenermi particolarmente dotato di capacità comunicative, stando almeno all’espressione sbigottita che la mia frase pronunciata tutta d’un fiato aveva prodotto sul suo viso. Progressivamente la sua smorfia passò dall’incredulità alla vera e propria stizza per l’incapacità a sentenziare una replica alla mia affermazione. Quando rifeci indietro la sedia per riprendere posto mi resi conto che mi stava ancora osservando. Incrociai le mani sotto il mento, la guardai ancora e le sue labbra, in contrasto con le sopracciglia ancora calate sugli occhi che avevano le tonalità calde di un guscio di nocciola, erano mosse ad un sorriso.
Mi stava sorridendo. Inaspettatamente.
E a pensarci bene non era bruttina, no, il fatto è che non l’avevo mai vista sorridere, sinceramente, non è che volevo ritrattare solo perché sembrava un po’ meno ostile adesso, però, cioè era... posso dire carina? sì, beh, carina, ma giusto un po’ e... soltanto adesso, mentre mi sorrideva, soltanto adesso, lo giuro, dopo sarebbe tornata bruttina, ok?
“Lo spero” aggiunse semplicemente tornando dietro la cattedra.

Quando tutti avevamo espresso il nostro voto, ci fu spiegato come piegare i bigliettini ‘in modo che il nome sia occultato dalla seconda metà del foglio’, (bastava dire di piegarli in due) poi quello che li aveva distribuiti rifece il giro della classe per raccoglierli, li portò alla cattedra e li ripose in una scatola di cartone
Sabrina Altamura, designata ‘spogliatrice’ dei voti si apprestava ad aprire la scatola e ad estrarre il primo bigliettino su cui era impresso il voto che avrebbe aperto la gara tra i cinque candidati.
La sua faccia sembrava soddisfatta, intesi già che su quella scheda non doveva esserci il nome del nostro uomo.
“Marialucia Del Monte!” spuntò fuori dalle sue labbra, seguito da un’ovazione femminile da ‘viva le donne al potere, Lady Diana, Elisabetta prima’ e cazzate così.
Primo voto fottuto, e gli altri?
Dovemmo aspettare che Del Monte avesse raggiunto già il quinto voto e che gli altri avessero almeno due voti ciascuno, prima di vedere il nome che volevamo conquistare una crocetta sulla lavagna.
Si continuò così fino agli ultimi dieci voti. Del Monte già volava alto, Morra aveva tre voti, Di Giglio quattro, Marcantonio due ed il nostro virtuale rappresentante solo quell’unico voto che pensavo fosse il mio, perso tra tanti Del Monte. Quel deficiente non doveva essersi votato neppure da solo. Bella prova di autostima.
Ma gli ultimi dieci voti ci riscattarono pienamente, nove di questi erano per Pastore e, volendo proporre una piccola descrizione del casino che facevamo ogni volta che Altamura pescava un bigliettino col nome che volevamo ascoltare, basti dire che: allegati alle urla corali che inneggiavano al nostro eroe, ci furono lanci di quaderni a destra e manca, lanci di penne, sputi sui muri, fischi da schiattare le orecchie con tutta la roba che avevano dentro, parabole di libri che finivano per schiantarsi sulla lavagna, cestino lanciato all’aria e pioggia di immondizia sulle teste pure e candide delle nostre ragazze, sedia distrutta contro la cattedra e scissa nelle sue due componenti primordiali (ferro/legno), schiaffi su qualche nuca rossa già schiaffeggiata da cinque o sei prima di me, un banco che sfiorò il soffitto lanciato da Corona, il rischio che quel banco finisse sulla testa di una che ci stava seduta davanti a quel banco che invece finì a terra su uno dei suoi spigoli che si gonfiò come un ginocchio fracassato, attaccapanni distrutto.
Totale: Pastore fu eletto rappresentante a pari merito con Del Monte, gli altri dieci voti che avanzavano erano quasi ben distribuiti tra gli altri tre tipi, la presidentessa stanca di urlarmi dietro si rassegnò lasciandosi andare sulla sedia dietro la cattedra, accalorata tanto che le si imporporarono le guance, con i capelli scompigliati che sembravano un covone rotolante da mezzogiorno con due soggetti con cappelli da cowboy che si sfidano a duello.
Quando la campanella squillò per rispedirci a casa, mi avvicinai a lei cercando una riappacificazione, mentre Pastore veniva lanciato in aria e ringraziato con una serie di schiaffi dietro la nuca, era davvero la sua giornata, mi dispiaceva avergli rotto le palle con la storia dell’astuccio, promisi di non farlo più.
“Ehi bella, che ti prende? E’ festa, su, mettiti un bel vestitino elegante questa sera, che ti porto a mangiare qualcosa. Ti va?”
“Come no?” rispose ravviandosi i capelli e chiudendo gli occhi, stanca e scocciata.
“Dài, non fare così, lo so io qual è il tuo problema” sembravo uno psicologo da strada, ma davvero l’avevo centrato il problema.
“E quale sarebbe, vediamo?” mi chiese più per mandarmi a cagare il più in fretta possibile che per il fatto che mi stesse prendendo sul serio ed io le dissi:
“Tu prendi le cose troppo seriamente” puntandole un dito sul naso che sembrava illuminato da un led rosso.
Osservò il mio dito storcendo gli occhi e non le diedi il tempo di rispondere, perché sapevo che non mi avrebbe risposto come una a cui stai dicendo una verità che riconosce come possibile.
“Ridi” le proposi senza successo.
“Non mi va di ridere, non c’è nessun motivo per ridere”
“Ma io so che tu adesso mi guardi in faccia e ridi” perseverai, senza pretendere niente di più di un semplice sorriso che sembrava comunque tanto difficile ottenere.
“Ti ho già detto che...” e spostò gli occhi dal mio dito al mio volto, mi feci cogliere con un’espressione seria, di quelle da convinto sostenitore delle proprie tesi , solo così l’avrei fatta...
“...non voglio ridere, ok?” davvero dura, eh?
“Ti chiedo di farlo una volta sola. Lentamente muoviamo le labbra insieme, e ci ridiamo in faccia, io a te e tu a me, così siamo pari, no?” provai ancora, ma già sapevo a quale tecnica avrei dovuto ricorrere, quella che si usa come ultima speranza, con le ragazze.
“Smettila! Adesso mi stai veramente scocciando”
“Mi piaci” eccola qui, la ‘tecnica’, tanto che dopo un po’ di perplessità, un abbozzo di sorriso si stampò sulle sue labbra “Sì, beh, voglio dire, per come sei, ecco...” bisogna fare il timido però, sennò niente risata finale “così... così diversa da me, che non so fare due più due e tu che invece, beh, sei brava in tutte le materie, da quanto ho potuto vedere”
“Ma se sei mancato negli unici quindici giorni in cui hanno interrogato!” rispose come volevo che rispondesse.
“Ah sì? E’... è vero” dissi spostando lo sguardo in alto, fingendomi imbarazzato.
Tornai a guardarla in viso ed assaporai la scena in cui le sue labbra si distendevano pacatamente. Dài, un po’ di più, sembra quasi un sorriso, forza che ce la fai, non farti pregare che non mi va di inginocchiarmi davanti a questa marea di deficienti, un po’ di più, dài, dài che ci siamo, quel centimetro in più... ok, ok questo è un sorriso, lo prendo per buono, va bene così, ma adesso bisogna strafare.
“Pensandoci bene è come se la scuola media per me non fosse ancora finita, forse hai ragione a dirmi che sono un bambino” e questa era una vera e propria risata, anche se molto simile ad un singhiozzo.

*

Skizzando nel vento, Capitolo 3: L’età dell’oro

3
L'età dell'oro
(U fess ca si)



OTTOBRE DEL NULLA IN ESPANSIONE

Una caldissima mattinata di metà ottobre.
I raggi della ruota si inseguivano senza mai raggiungersi, pezzi di fango indurito schizzavano dappertutto, per la pressione della gomma sull’asfalto, fulmini di un verde acceso si delineavano sullo sfondo nero del telaio.
Il mio viso nell’aria calda si immergeva come si potesse tagliare con un grissino, i miei polpacci spingevano i piedi sui pedali fangosi e la salita si fece impervia, adesso che la imboccavo.
Ma la mia era una mountain bike, adatta proprio a questo genere di cose, a queste salite improvvise, scalai di marcia, spinsi per un altro mezzo giro ed i pedali divennero improvvisamente più leggeri, molto più leggeri, troppo più leggeri: stavo procedendo al contrario o questa era una strada mobile?
Misi lo sguardo sulla catena, fuori dalle corone, fermai la bici cercando di non cadere, ne discesi, la piantai sul cavalletto anche se continuava ad andarsene in discesa. Trovai il giusto equilibrio perché restasse ferma, mi chinai a capire come avrei dovuto ripararla, poi la rimisi a posto, pedalai con una mano alzando la parte posteriore della bici e la catena riprese il suo giro. Le marce della mia bici non erano automatiche, ma manuali, nel senso che dovevi manualmente spostare la catena di corona in corona per cambiarle.
Ripresi posto sulla sella, mi rimisi in viaggio, lentamente per prendere il ritmo, poi sempre più veloce.
Mio padre mi stava aspettando.
Casa in campagna. Casa? Baracca! In un piccolo vitigno di mio nonno, il mio lavoro di quella giornata sarebbe stato dargli una mano a sistemare il casino di zappe e strumenti agricoli all’interno della baracca.
Per ogni giorno della mia vacanza imposta, mio padre mi aveva trovato un fastidioso compito che rinforzasse in me la convinzione che avrei fatto bene ad impegnarmi nello studio ed a non farmi sospendere mai più.
Mi avevano sospeso per quindici giorni. Per uno sputo. Se avessero contato i vomitini di Corona, credo che avrebbe avuto un bel po’ di anni ancora da scontare, fra le mura scolastiche.
Ed io che cerco sempre il lato positivo delle cose e di questa l’avevo scoperto nella libertà di potermi dedicare al mio studio di alternanza tra bianco e nero dei tasti di una pianola, ebbi a ricredermi presto quando scoprii che anche mio padre aveva colto un lato positivo della mia sospensione: mi avrebbe impiegato nello svolgere o nell’aiutarlo a svolgere tutto quello che si era trascinato dietro dall’inizio dell’anno e che, nonostante a volte anche abbastanza urgente, aveva finto di non aver mai il tempo di fare.
Negli otto giorni precedenti alla domenica della baracca avevamo già imbiancato tutte le pareti di casa, ridipinto porte e ringhiere, sistemato gli scaffali cigolanti di ogni ripostiglio e lavato un paio di volte la sua auto. L’auto l’avevo lavata io da solo, a dire il vero.
Adesso trovarmi un impegno si faceva sempre più difficile e così, prima che gli venisse l’idea di impiegarmi la mattina per accudire i miei nonni a casa loro (con mia nonna costretta a letto in quel periodo, tra l’altro), tirò fuori la storia della baracca per rovinarmi l’ennesima giornata.
Gli dissi che l’avrei raggiunto con la mia bici che aveva bisogno di essere sistemata e lavata e per questo quella domenica mattina cercavo di lasciarmi alle spalle la maledetta salita necessaria per proseguire il mio percorso fino in campagna.
Per attaccarmi alla mia tastiera non avevo avuto neppure un secondo di tempo, la sfioravo soltanto ogni volta che ci passavo accanto senza che i suoi tasti producessero alcun suono perché era spenta. Però mi navigava nella testa per tutto il tempo, cercavo di capire come potesse funzionare per davvero, che cosa mi mancasse per diventare un compositore, da dove avrei potuto trarre l’ispirazione per tirarne fuori una musica celestiale. E poi mi assalivano domande assurde del genere che: se avessi composto un pezzo troppo elaborato avrei avuto poi le capacità mentali necessarie per ricordarlo? Pensandoci, per me a cui il linguaggio della musica risultava aspro esatto uguale a quello della matematica, questo sarebbe stato un vero e proprio problema.
Ma tanto un pezzo elaborato non l’avevo ancora scritto, ispirazione zero, la mia musa ancora dormiente e nascosta, niente da dover ricordare e problema risolto.

La casa era appena fuori città, dove i condomini scomparivano per fare spazio al cielo ed al vento, nella campagna aperta. Imboccai per un tratto una Statale, poi voltai in una strada secondaria e da lontano i quattro metri per quattro della baracca emersero dalla folta vegetazione, accanto alla 33 rossa di mio padre parcheggiata di culo.
Arrivai fin dove si poteva con la bici, oltre c’erano i campi con la terra smossa e morbida, non sarei riuscito a pedalare su quel terreno.
Scesi e raccolsi da terra la mountain bike, me la issai su di una spalla e mi diressi verso l’ingresso della casa che quasi cadeva a pezzi, con il muro mezzo distrutto dalla pioggia e con la porta di legno marcio che non chiedeva altro che di essere sostituita.
Mi fermai davanti alla porta osservando all’interno mio padre armeggiare con una serie di arnesi, chinato sul massello che costituiva il pavimento.
“Pa’!” gli feci. Si voltò indietro, osservandomi.
“Uagliò, teu la mat-n t’adà jalzé cchiu sub-t!” questo era il suo solito saluto mattutino. Guardai l’orologio e cazzo eppure erano soltanto le nove e mezza: mezzora per arrivare, mezzora per prepararmi, considerato che era domenica non mi sembrava che fosse eccessivamente tardi.
Mi grattai il naso senza dire niente, avrei voluto chiedergli da dove iniziare, ma l’avrei fatto incazzare ancora di più. Certo che se me ne stavo zitto e fermo si sarebbe incazzato lo stesso.
“Che cosa c’è da fare?” provai a chiedere.
“Aspì, ca ddu ste nu cas-n d la Madonn” tirò indietro una cassa di ferro per gli attrezzi da lavoro. Aveva detto di aspettare che c’era un casino della Madonna.
Mi avvicinai alla cassetta, me la trascinai fuori. Mio padre aveva il vizio di agire per telepatia quando dovevi aiutarlo a fare qualsiasi genere di lavoro. Lui non ti diceva quello che dovevi fare, tu dovevi saperlo e basta, collegandoti alla sua mente. E dovevi saperlo anche abbastanza in fretta, se non volevi farlo spazientire.
Chiamò in causa un paio di Cristi e Madonne, erano i suoi interlocutori preferiti e gli si rivolgeva in qualunque momento della giornata, per varie categorie di conforto spirituale.
Cercai di collegarmi velocemente al flusso dei suoi pensieri, cercai di capire quale logica stesse usando nel togliere di mezzo gli oggetti, quale ordine seguisse, ma mi limitai più che altro a portare la roba che lui tirava fuori il più lontano possibile dalla sua orbita, poi in un momento in cui sembrava stesse sistemando l’interno di un cartone senza tirarci fuori nulla, me ne uscii a respirare lontano dalla polvere che stava alzando.
Uno stormo di uccelli che erano rimasti al ‘nord’ visto che l’estate aveva prolungato i suoi giorni caldi inoltrandosi fin nel mese di ottobre, si levò in alto dal verde di un albero che con la sua ombra raggiungeva la punta delle mie scarpe. Osservai il loro volo seguendoli finché non divennero così piccoli che a stento i miei occhi li avrebbero differenziati da uno sciame di api. Mi venne da pensare alla primavera e ragionai che se il tempo fosse trascorso al contrario l’autunno sarebbe stato primavera e la primavera autunno.
“Ouh!” mio padre mi stava chiamando, nel suo modo di comunicare ouh era il nome di chiunque gli capitasse a tiro.
“Che è?” gli chiesi.
“Ma inzomm, m’adà dé na men o t’adà sté a ‘ngandé l mosk?” mi agitò una mano contro. Significava: sei qui per aiutarmi o per incantare le mosche?
“Se tu mi dicessi cosa posso fare…” mi giustificai rivolgendo i palmi delle mani al soffitto, entrando nella baracca.
“E ce vvu fej? Azzick a s-stmej chur mob-l ddej” indico un pensile con una mano “Ngul a cchi t’è bb-v ce cazz d burdell ca sté” aggiunse poi.
Aprii lo sportello del mobile che avrei dovuto sistemare. Tutta una serie di attrezzi da lavoro erano buttati a montagna uno sopra l’altro, tirai tutto fuori lentamente e cercai di selezionare le varie categorie di oggetti: cesoie, forbici più corte, una piccola falce, tutti gli strumenti da taglio, insomma, da una parte; guanti, cappelli, stivali, un impermeabile ed altri indumenti da un’altra parte, piegando al meglio ogni cosa e continuai così per tutto il resto. C’erano tubi, candele della vecchia moto di mio nonno che chissà che fine aveva fatto, filo di ferro e tutta un’altra serie di oggetti. Rimisi ogni cosa nel posto che consideravo il migliore.
Una volta finito con il mobile aiutai ancora mio padre ad organizzare gli spazi all’interno della baracca ed il resto della mattinata lo passai ad osservare lui mentre cercava di sistemare la porta di legno della baracca che se n’era scaduta ed a sorreggergliela.
Verso l’ora di pranzo la porta fu riparata e mio padre non faceva che passeggiarle di fronte guardandola e sorridendo.
“A vist ca l’ham s-st-met? Madò ce cazz d call!” invocò l’ennesima Madonna per il caldo, portandosi una mano dietro la nuca e cercando di alzarsi i capelli sudaticci, nella sua camicia a righe azzurre che formavano larghi riquadri bianchi, incrociandosi perpendicolarmente, e dalle maniche arrotolate sugli avambracci. Il suo bracciale d’oro luccicava nel sole alto di mezza giornata.
Mio padre si voltò verso di me.
“Allor…” si diede tempo per pensare inspirando “Ce ja u fatt d la b-c-clett?” mi chiese quale fosse il problema della mia bici.
“Lascia stare, ora me la vedo io a sistemarla” gli comunicai.
“Embé nan adà v-nô a mangé?” mi chiedeva se avrei saltato il pranzo.
“No… mo fammi sistemare prima la bici, poi vengo” decisi.
“E nan t la put s-stmé a cches?” voleva che la sistemassi a casa, ma io preferivo restarmene da solo per un po’, immerso nella quiete della mondo rurale.
“Adesso mi metto con calma e l’aggiusto, poi torno”
“Mbé, fe che cazz vu, jo m’ n’ vac” diceva che si sarebbe finalmente tolto dalle palle. Si avviò verso l’auto, l’aprì, poi si voltò ancora verso me.
“Uagliò, v-t se t mitt a studié nu picc jind’a sti jiurn” respirai con il naso per evitare di sbuffare, continuava a ripetermi che avrei fatto meglio a sfruttare quei giorni per studiare, ma non smetteva di riempirmi le giornate con tutta quella assurda serie di cose inutili da fare.
“Sì, pa’, poi mi metto a studiare”
“Se, u fess ca si, ngul a chi t’è stramurt ‘nderr! E ce stè a p-gghié c fess?” disse che apprezzava molto la mia dedizione, prima di infilarsi nell’auto parlando direttamente con Maria Santissima circa i costumi sessuali nell’Israele degli anni vicini allo zero. Poi finalmente andò via.
Mi grattai la nuca, osservai la bici, cercai di capire da dove avrei dovuto cominciare, cercai di organizzare le idee e nello stesso momento in cui prendevo a realizzare qualcosa, la porta della baracca cominciò ad inclinarsi, finendomi addosso. Non riuscii a tenerla in piedi e così finì proprio davanti all'ingresso. Ero stato per più di un'ora, a tenerla ferma in piedi mentre mio padre operava.
La raccolsi da terra, pensai cosa avrei dovuto farne, poi la lanciai da una parte e mi dedicai nuovamente all'organizzazione del lavoro.
Da qualche parte doveva esserci un tubo rosso per l'acqua, mi pareva di averlo visto tirare fuori da mio padre.
Entrai nella baracca, mi piantai le mani sui fianchi, guardandomi attorno.
Un lato del tubo rosso spuntava da sotto una montagna di buste piene di buchi e legato ad uno spago di ferro tutto arrugginito. Anche per quanto riguarda la riorganizzazione del materiale, mio padre aveva fatto un lavoro eccellente, a quanto pareva.
Quando ebbi sfossato il tubo da sotto l’ultima busta che ancora rotolava sul pavimento, lo raccolsi con una mano facendo attenzione a non prenderlo dalla parte del filo di ferro. Poi me lo portai fuori perché con tutta la polvere che avevo alzato, davvero l’aria era diventata un concentrato di particelle di terra con una bassissima-microscopica percentuale di ossigeno. Continuai a tossire ancora finché l’aria di fuori non mi riempì di nuovo i polmoni dando il cambio alla terra e alla polvere.
Rimasi in piedi e poi seduto sulla porta a cercare di liberare il tubo di plastica flessibile dal ferro arrugginito che lo avvolgeva dipingendo di marrone i bordi delle piccole linee incavate nella gomma e ci riuscii soltanto un quarto d’ora dopo.
Mi presi qualche secondo di riposo, poi cercai di arrotolare il sifone alla meno peggio e me lo caricai su una spalla.
Il lavandino pieno di foglie in decomposizione e di piccoli insetti che nuotavano nella melma che lo riempiva, era messo sul lato destro esterno della casa. Mi ci avvicinai rimettendomi ad ogni passo il tubo sulla spalla, appena muovevo un piede, un estremo se ne scendeva giù per la mia schiena. Alla fine ci rinunciai e decisi di trascinarmelo e basta.
Raccolsi da terra il lato ribelle del sifone e ci ficcai due dita dentro. Poi iniziai ad allargarlo senza alcuna pietà e, quando finalmente la plastica aveva preso la forma delle mie dita, con un colpo deciso, ci ficcai il rubinetto dentro. Lo spinsi più su perché non avesse la felice idea di staccarsi di lì e poi tornai dall’altro lato della casa.
Mi caricai la mountain bike in spalla e la lasciai cadere vicino al lavandino, poi la rimisi ferma in piedi sul cavalletto e me la guardai bene bene, per vedere da dove avrei dovuto cominciare. Decisi di iniziare dall’alto, ragionando sull’influenza della forza di gravità.
Aprii il rubinetto incrostato, mi chinai per prendere il tubo, ma un getto d'acqua improvviso si liberò facendolo ondeggiare così forte da non riuscire a fermarlo. Iniziai a correre verso la bici, il tubo volteggiò ancora nell’aria aprendosi a metà per la pressione del getto d’acqua, la bici, investita dall'ondata, rovinò a terra con il cavalletto mezzo storto, io scivolai nella pozzanghera spuntata all'improvviso e finii dritto sotto la bici, sbattendo la testa al manubrio voltato verso di me.
Mi toccai la fronte pensando così tante parolacce da fare invidia a mio padre, poi mi portai in piedi e, fra le dita che tenevo sugli occhi, vidi il tubo volare letteralmente nell’aria come un serpente incantato. Con un tuffo riuscii a catturarlo, stretto tra le mani. Mi lanciai immediatamente sul rubinetto e lo chiusi il più velocemente possibile bestemmiando mentalmente per la forza che la rotella opponeva alla mia mano.
Con lo sguardo valutai l'entità del danno constatando il vomito che mi ero combinato addosso e la bici non stava assolutamente meglio. Un sorriso di stizza mi si formò sulle labbra, poi divenne una risata isterica, finché mi ritrovai a ridere sguaiatamente, immerso nella campagna completamente deserta tra i cinguettii degli uccelli ed il forte profumo di terra ed erba bagnate: avrei dovuto semplicemente richiudere l'acqua subito, ma un tale colpo di genio non sarebbe stato da me.
Rimisi in piedi la bici, con calma, gocce marroni raggiungevano il terreno cadendo dal telaio e dai raggi delle ruote.
Tornai al lavandino non prima di aver raccolto il tubo in mano, per più della metà della sua lunghezza era ormai inutilizzabile dal momento che l'acqua l'aveva squarciato, così lo piegai verso la parte buona, togliendomi d’intralcio la metà distrutta.
Girai nuovamente la rotella verso destra, delicatamente, delicatamente, finché il giusto getto d’acqua non comparve timidamente fuori dal buco, mi avvicinai alla bicicletta puntando sul manubrio e osservai una cascata di lurida acqua marrone rigettarsi a terra. Buon inizio, ok, ok, si poteva andare avanti senza problemi adesso.

Quando ebbi finito, arrotolai il tubo al mio braccio dopo averlo staccato di forza dal rubinetto: ce l’avevo messo così bene che non voleva più togliersi di lì, poi lo riportai in casa e lo gettai su di uno scaffale tutto arrugginito e pieno di buste che non sapevo neanche cosa contenessero.
Spostai la bici dall’altra parte della baracca perché il sole ci picchiasse su e la facesse asciugare il più in fretta possibile, intanto pensai di impiegare il tempo cercando la carta vetrata che doveva essere nella cassetta degli strumenti di mio padre.
Tornai in casa fischiettando, grattandomi il fango semiasciutto dalle dita, puntai verso il pensile a cui avevo dato ordine nella mattinata, mi sembrava di aver sistemato una busta con della carta vetrata. Ne aprii un paio per scoprire se la carta c’era o no. C’era.
Iniziai a voltarla da tutte le parti per testare la sua qualità e la quantità soprattutto, visto che avrei dovuto passarla sull’intera bicicletta. Decretai che poteva bastare anche per sverniciare un camion, poi richiusi il mobile e mi girai per raggiungere ancora la bici.
Granelli di polvere mi volteggiavano innanzi, rimanendo sospesi nel fiume di luce che penetrava dalla porta sfondata. Mi voltai dall’altra parte annusando lo spazio all’interno della stanza, il mio sguardo fu catturato dai pioli della scala di legno che portava sulla torretta. La chiamavamo così, era un'altra stanza di due metri per due posta sopra la baracca, da questa si accedeva ad una minuscola terrazzina.
Mi resi conto di non aver visto la mia chitarra, nella baracca. Non avendo posto a casa nostra, mio padre l'aveva portata qui, tempo prima, ma in effetti non era da nessuna parte. Seguendo questo pensiero, mi piantai la carta vetrata in una tasca, raggiunsi la scala, salii e mi ritrovai sulla torretta.
Mi ripulii le mani sulle ginocchia dei jeans, osservai l'ambiente attorno: quattro mura su cui se ne stava accatastata un sacco di roba ed una finestrella minuscola.
Distrattamente aprii la finestrella e, nella penombra, un sacco nero per l'immondizia apparve, pieno di polvere, ad un angolo della stanza. Una fitta rete di ragnatele partiva dal nero lucido e si espandeva sul muro grezzo alle sue spalle.
Misi due passi nel buio quasi completo, passai una mano sulle ragnatele che restarono impigliate alle dita. Me ne liberai, tastai l'oggetto all'interno della busta e confermai che doveva essere proprio la mia chitarra, mi guardai attorno, mi resi conto che nessuno poteva vedermi, così ci schiacciai contro una guancia, abbracciando la cassa armonica. Aprii la busta e mi accorsi di aver abbracciato una vecchia stufa elettrica dietro la quale se ne stava un piccolo attaccapanni, mi sentii stupido, mi voltai e scoprii un'altra busta nera.
Questa volta prima di abbracciarla mi accertai che dentro ci fosse la chitarra.
Ok, adesso potevo realmente salutarla.

Il caldo si fece opprimente, così mi sfilai disordinatamente la maglia che indossavo e la gettai da una parte, lasciando che la mia collanina d’oro si adagiasse fuori dal collo della maglia intima bianca, mentre mi accovacciavo sull'uscio della porta. Portai una guancia sulla cassa armonica, prendendo ad accarezzare la prima corda. Rievocai alla mente la scala delle note e roteai la chiavetta per tenderla, feci lo stesso con tutte le altre chiavi, riaccordando la chitarra.
Quando passai le unghie sul ponte, l'effetto d'insieme mi sembrò corretto.
Mi grattai la testa, cercai un accordo con la sinistra, provai ad arpeggiare, chiudendo per un attimo gli occhi. Restai in ascolto, come se il mondo intorno con la sua sola essenza potesse infondermi una qualche ispirazione, ma il mondo non aveva niente da dire o forse io non ero mai stato un grande ascoltatore.
Riaprii gli occhi, battendo con la mano sulla cassa, inspirai, osservandomi attorno e per un solo secondo, dal nulla, apparve qualcosa, come un piccolo, sottile dolore, proprio nel momento in cui ero più distratto, dileguandosi immediatamente prima ancora di prendere forma. Era tornato al nulla.
L'estate che si trascinava ancora, moribonda, il leggero frusciare degli alberi, la vivida tonalità del cielo e la cornice naturale dinanzi al mio sguardo, tutto catturava la mia attenzione, distogliendomi dalla mia ispirazione, come occultandola, negandomi che fosse esistita.
Estate, hai visto la mia ispirazione?
E tu, vivido cielo?
Leggero frusciare degli alberi, tu l'avrai senz'altro scorta?
Oppure tu, cornice naturale che dispieghi le tue membra, sotto il mio sguardo supplichevole?
Nessuno, pure avrei giurato che era stata così chiara a chiunque.
Ma io l'avevo vista, non poteva essere nient'altro, non era riuscita ad ingannarmi, questa volta. Decisi che per confermare la sicurezza di averla vista, l'avrei rincorsa, seguita nel nulla da dove proveniva e dove adesso era tornata a dimorare.
Lentamente richiusi i miei occhi e scrutai nella dimensione interiore, nella mia stessa mente. Un turbine di pensieri si affacciò al mio sguardo, i visi che avevano costellato l'ultima parte della mia esistenza, le sensazioni seguite alla mia separazione dalla scuola a neanche un mese dal suo inizio, la volontà ferma, ma sempre rinviata di dedicare a me stesso quel po’ di tempo che fosse necessario per capire non dico chi, ma almeno che cosa fossi, che forma avessi, su per giù.
Per darmi delle coordinate, la mia mente ricomponeva dentro se stessa quella che chiamiamo realtà e me ne lanciava messaggi visivi così da farmi sentire la mia presenza nel mondo, in quel preciso istante. Questo non mi sarebbe bastato e così, facendomi spazio tra i ricordi, mi affacciai ad un piano più profondo della coscienza. Improvvisamente scomparirono ad una ad una tutte le facce che avevo dovuto sopportare in tutto il periodo che mi aveva separato dalla mia chitarra, andavano via i volti del professore di inglese, del Preside, di Corona, di Pastore, di Fortunato, di Tarantino, di Ieva, di Morra, di Del Monte, di... di Moretti... no, quello aveva voluto un po’ più di tempo per andarsene, mi erano rimasti impressi per qualche secondo i suoi lineamenti al contrario che sembravano sorridere e invece plasmavano un'espressione d'odio, che piano... adesso sfumava anche quell'ultimo viso e c’eravamo di nuovo io e la mia solitudine, io e la mia coscienza, uno di fronte all'altro.
Due occhi emersero allora dal buio, due occhi di una luce livida, fermi dinanzi al baratro dell'incoscienza, proprio ad un passo dalle porte della percezione.
Li osservai, la mia coscienza mi stava osservando, mi intimava di indietreggiare, di non proseguire oltre nella mia ricerca. Tesi di più i miei sensi interiori, di più il mio terzo orecchio, di più il terzo occhio, li spinsi avanti, il mio sguardo fu a pochi centimetri, pochi millimetri dallo sguardo di luce, lo attraversò e dopo il bagliore prodotto dalla sua vicinanza, vidi attraverso me stesso il silenzio che orbitava attorno ad un asse inesistente.
Come fossi in immersione, restai estasiato dalle profondità raggiunte, dalla visione nitida della massa nebbiosa in perpetua mutazione che risiedeva nei miei abissi e che ogni tanto era risalita fuori dalle barriere della coscienza.
Ma fu l'orgasmo di un miliardesimo di secondo: il mio sguardo si allontanò progressivamente dal nulla ad una velocità allucinante, riemerse lo sguardo di luce evanescente, i volti di tutti i miei compagni di classe, labbra, occhi, candore di denti, orecchie, ciuffi di capelli e particolari di oggetti appartenenti ad ognuno di essi.
Tossii come rivoltando me stesso di nuovo verso l'esterno, i miei occhi furono accecati dal bagliore del giorno, la mia fronte oltremodo sudata, le vene rigonfie sulle mani ed il petto ansimante. Mi passai una mano sul viso, sentivo un indolenzimento alla base del cranio, proprio sopra la nuca, mi misi in piedi, andai a sistemare la chitarra da qualche parte, dentro la baracca.
Io avevo visto qualcosa emergere dal nulla. Era una stella, era una fata vibrante fra i rami, era un richiamo e l'avevo seguito. Ma la coscienza mi aveva risucchiato via, trascinandomi fuori dalla mia visione e riportandomi alla realtà del presente. Ma, anche se era durato soltanto per pochi secondi, la parte di mente che ero riuscito a controllare aveva memorizzato ogni deviazione del mio viaggio ed ora io, ne ero sicuro, avrei saputo ripercorrere in discesa la strada che mi avrebbe ricondotto al principio di ogni ispirazione.

Smontavo la bici pezzo per pezzo, giorno per giorno, staccando i bulloni, scartavetrando fino a scottarmi le dita e poi, nel pomeriggio, rimettevo tutto a posto e me ne tornavo a casa su di essa che ogni volta aveva una sezione grigio ferro in più.
Adesso mi mancavano solo la forcella ed il manubrio e quelle erano le due parti più difficili da scartavetrare perché bisognava smontare freni, marce, rifrangenti, ruota di avanti e tutte le belle cose.
Schizzavo nel vento in quella mattina, pedalavo sempre più in fretta, sentendo i muscoli delle gambe che lentamente cedevano quando i miei occhi avvistarono la grande scritta colorata della ferramenta.
Premetti immediatamente entrambi i freni anche se ci volle un po’ prima che la mia bici rispondesse al comando: erano molto lenti e mi ripromisi di metterli a posto dopo averla riverniciata.
Scesi dalla sella e poggiai la bici sul cavalletto (che avevo raddrizzato dalla volta del tubo di plastica), prima di infilarmi nella ferramenta.

Poggiai la lattina a terra e il secchio di vernice sul telaio della bici, provando a salirci: avrei dovuto mantenerlo con un braccio e guidare ad una mano.
Adesso bisognava sistemare la lattina.
Ci pensai un attimo, poi mi infilai la maglia che indossavo nei jeans, ficcandocela per bene e mi portai la lattina al petto, per farla passare dal collo della maglia e tenerla al suo interno. Fu piacevole il contatto dell’alluminio freddo con il mio petto riscaldato dall’ultimo sole pallido di ottobre.
Mi misi in cammino scomodamente e, poco alla volta, mi diressi verso la casa, fermandomi di tanto in tanto a rimettermi la maglia nei jeans o a sistemare meglio il secchio sulla staffa del telaio sverniciato.
Una volta arrivato, mi fiondai alla ricerca di una scatola di cartone in cui mio padre teneva gli attrezzi per la pittura, essendo stato, in passato, anche imbianchino. Lo trovai, le cose che mi servivano di ciò che avevo sotto gli occhi erano un vecchio pennello indurito dal tempo ed un secchio di catalizzatore che avrebbe aiutato la vernice ad asciugarsi più in fretta. Un altro secchio vuoto mi sarebbe servito per dosare i liquidi.
Portai fuori la roba e la posai a terra vicino alla bici, dove avevo già appoggiato la vernice ed il diluente.
Per prima cosa smontai la forcella ed il manubrio, poi liberai i due pezzi dai freni e da tutto il resto ed infine mi misi comodo alla base di un tronco di fico al confine col terreno di mio nonno ed iniziai a passare la carta vetrata sulla forcella.
Mi dotai di una pazienza infinita, procedevo millimetro dopo millimetro, restando in silenzio e cercando di distogliere la mente o di avanzare in modo ragionato nel flusso dei miei pensieri.
Non dovevo avere fretta nella ricerca di una musa ispiratrice. Adesso avevo il liceo, avevo le evoluzioni improbabili del caos neutrale che sarebbe stato il futuro, quello imminente e quello più esteso, avevo il mio tempo ed avevo soltanto quattordici anni. A quattordici anni la maggiorparte della gente è lontana almeno di cinque o sei anni dal capire cosa vorrebbe farsene della propria esistenza, dieci, quindici anni dal riuscire a mettere i primi passi senza l'aiuto di nessuno e chissà quanto tempo dalla possibile realizzazione del suo vero sogno.
Su, giù, roteando col polso seguivo le curve della forcella e raccoglievo nel palmo le staffe che la legavano alla ruota anteriore. Ci misi più o meno tre ore per terminare la forcella. Dopo essermela rigirata tra le mani, valutando il mio operato, passai al manubrio.
Io avevo già scritto dodici pezzi con la pianola, avevo un talento innato e se mi ci mettevo, avrei saputo ricostruire qualunque canzone riproducibile con i suoi tasti, mi dissi che dovevo semplicemente smettere di pensarci, non avere fretta, lasciar fluire il karma, dovevo orientalizzarmi, partecipare al flusso degli eventi senza irrompere in una scena di quotidianità con la mia frenesia di artista col blocco dell'ispirazione e ricordare infine che non avrei dovuto cercare l'arte, ma l'arte mi avrebbe cercato e al momento opportuno, se così doveva essere, mi avrebbe scelto.
Mi avrebbe scelto? Il problema era questo. E se, passando precocemente per le mie spiagge, adesso avesse da percorrere l'intero globo in cerca di altri cuori con cui comunicare prima di tornare al mio? Che cos'avrei fatto io, in tutto questo tempo?
Avrei fatto ciò che avevo sempre fatto e che, a quanto pareva, mi riusciva meglio di ogni altra cosa: aspettare con le mani sotto il mento senza fare assolutamente nulla.
Oh, no, io non avrei saputo aspettare. Avrei cercato in ogni modo di sciogliere il dubbio, avrei chiesto all'esistenza se mi avrebbe considerato un artista per gli anni a venire o se avrei fatto meglio a spaccare in mille pezzi la mia pianola subito, a pestarla sotto i piedi e correre il più lontano possibile da quell'insano sogno.
E in ogni caso non avrei accettato il suo responso, come non lo avevo fatto con i dodici pezzi di merda che componevano la mia discografia. Io sarei stato un cantante o io non sarei stato nient'altro. Io avrei avuto una musa o io non avrei mai più guardato nessuna ragazza, incrociando le braccia e scacciando via chiunque avesse voluto avvicinarmi.

Un'ora dopo anche il manubrio era tornato vergine, grattando sul ferro avevo fatto pulizia anche nel mio animo, non so quale fosse il risultato che avevo raggiunto, ma a giudicare dal manubrio, non doveva essere poi così male.
Lasciai a terra la forcella ed il manubrio e, con le mani sporche di polvere nera e verde, guardai l’orologio prima di decidermi ad iniziare a passare la vernice: non avrei fatto in tempo a verniciare tutta la bici e ad aspettare che il colore si asciugasse, anche col catalizzatore ci sarebbero volute almeno tre ore, stando a quello che mi aveva detto il proprietario della ferramenta. Pensai al da farsi, mi scocciò l'idea di dover attendere un giorno ancora per vedere riverniciata la mia bici. Guardai nuovamente l'orologio e intuii che anche quel giorno avrei saltato il pranzo.
Andai dentro a trovare qualche pezza nel caso mi sporcassi e poi tornai fuori: adesso avevo tutto ciò che mi occorreva davanti a me, mi sarebbe bastato arrotolarmi le maniche della maglia per avere le braccia libere, visto che avevo scordato di portarmi qualcosa che potesse funzionare da camice da lavoro; per quanto riguardava i jeans, non mi importava che si sporcassero perché erano talmente pieni di strappi che ormai rimaneva ben poco da poter sporcare ancora.
Aprii il barattolo della vernice strappando di forza il bordino di plastica che lo sigillava, l’odore della vernice mi colpì in pieno viso infondendomi una tenera ebbrezza.
Versai un terzo della vernice nel secchio vuoto che avevo trovato dentro, poi dosai il catalizzatore ed infine mischiai il tutto con il durissimo pennello con cui avrei dovuto lavorare. Quando tutta la vernice divenne omogenea, ne estrassi il pennello e cercai di ripulirlo e soprattutto di ammorbidirlo bagnandolo nel diluente ed anche se non ottenni grandi risultati, alla fine decisi che le setole erano tornate abbastanza flosce da poter iniziare.
Il primo colpo di pennello lo diedi al telaio, osservando la vernice prendere il posto del colore naturale del ferro, coprendo a strisce la staffa e andando avanti e indietro sotto il comando della mia mano, mi venne istintivo pensare a Karate Kid che riverniciava il cancello della casa del suo maestro.
Continuai per tutto il telaio, rifinendo meglio gli angoli, coprendo le parti grigie che erano rimaste, stando attento a non bagnare troppo né troppo poco il pennello, per non far apparire gocce o far sembrare il colore troppo asciutto e devo dire che l’opera mi riuscì molto bene, anche perché era la prima volta che rifacevo la mia bici, ma non era la prima volta che spennellavo dei pezzi di ferro.
Andai avanti così per tutta la bici, macchiandomi le mani e le braccia di vernice, nonostante tutta la mia attenzione e preoccupazione di passarmi su ogni minima macchia la pezza imbevuta di diluente, ma alla fine mi accorsi di aver fatto un lavoro davvero a posto: sotto i miei occhi luccicava, nel pallido sole di ottobre, un tappeto d'oro distribuito in diverse forme.
Ricostruii mentalmente la bici, me la figurai schizzare per le strade nell'aria ubriacante del mattino, non era proprio il colore ideale, ma fra tutti i ragazzi del mondo, probabilmente, solo io avrei avuto un'intera bici, da capo a piedi, tutta d'oro metallizzato.















*

Skizzando nel vento 2: La triste storia dei vomiti

2
La triste storia dei vomitini a chiazze
(Devo sempre espormi ai rischi come un fesso, io)



OTTOBRE DEL PRIMO CASINO

Sapevo che non avrei capito neanche una cifra, quando avrebbero iniziato a spiegare matematica seriamente, ma nonostante tutto, tenacemente, mi ero messo a studiare e ripetere le stesse cose ogni pomeriggio cercando di farmele entrare di forza nella testa, mentre l’interferenza della sigla di Belle e Sebastien che mio fratello cantava a ripetizione riecheggiava nelle pareti vuote all’interno del cranio rimescolando simboli, numeri e formule.
Eppure lo stesso, alla prima interrogazione, verso metà ottobre, la professoressa Martielli mi aveva colto nella ferma e assurda convinzione di aver capito quella materia per la prima volta nella mia vita. Mi si disegnò sotto la vista una figura di merda celestiale perché d’improvviso tutte le formule che avevo tentato di imparare per tre settimane ininterrottamente, lasciando perdere del tutto persino la mia idea di scriverla, una canzone almeno, mi risultarono inutili quando cifre di espressioni chilometriche mi si pararono davanti agli occhi, increduli che le avesse scritte la mia mano, come traccia dell’esercizio da svolgere.
Abbassai la testa, le dissi che tutto quello che sapevo era che se in pericolo tu sei, Belle salva la tua vita.

Dopo l’interrogazione (praticamente aveva parlato solo la professoressa, invano, provando a farmi uscire qualcosa di bocca) tornai al mio posto in prima fila vicino a Luigi Corona.
Mi ero accorto in quel periodo che Corona non era proprio il criminale che credevo, ma peggio. Si era già preso due note per aver toccato un paio di ragazze ed una quasi sospensione per aver quasi alzato le mani sul professore di storia dell’arte che aveva un nome del cazzo, sì, però...
“Barra, ho parlato col tuo professore di matematica delle medie, è un mio caro amico” iniziò la professoressa “Mi ha detto che la matematica non la digerivi molto bene, perché hai scelto un liceo scientifico?” si piantò le nocche delle dita intrecciate sotto il mento. Non risposi neanche a quella domanda.
Il fatto è che io ce l’avevo messa davvero tutta a cercare di capire il significato delle sue spiegazioni e realmente non avevo smesso di studiare neanche quando la mia testa minacciava di andare a farsi fottere, dolente sul libro di algebra, forse se non ci si fossero messi di mezzo quei cazzo di cartoni animati…
Scossi la testa piano, serrando le labbra, tentai di dire qualcosa almeno stavolta, ma alla fine mi tenni il mio silenzio da demente che durò un’ora/due secondi, finché la professoressa, alzando le spalle, non chiamò qualcun altro a spiegarle le formule che lei stessa ci aveva insegnato.
Quel qualcuno fu una ragazza di nome Michela Traversa. Avevo il forte sospetto che fosse completamente deficiente dagli indizi che incessantemente disseminava nell’etere intervenendo con affermazioni e domande assurde in tutte le ore della giornata. Formulai che mi riservavo di indagare più approfonditamente sulla cosa.
Eppure la sua mano iniziò a scorrere velocemente sulla lavagna, lasciandoci numeri e lettere che non avrei mai immaginato, che non avrei mai compreso.
In cinque minuti tutte le tracce sulla lavagna erano belle e svolte, con una ortografia da amanuense ed un ordine di cui non sarebbe stato capace neppure un calcolatore. Non avrei mai visto la mia mano riuscire a scrivere le stesse cose.
Continuai ad osservarla mentre rispondeva a tutte le domande così come la professoressa gliele chiedeva, accalorato fino alla fronte, tanto che sentivo qualche linea di febbre salirmi su.
Mi sbottonai la camicia nera che indossavo sino al bottone più basso, poi me la sfilai di dosso e la poggiai sullo schienale della sedia in modo automatico, senza preoccuparmi di sistemarla.
A maniche corte la situazione non era migliorata un granché.
Mi infilai una penna tra le labbra e cercai di dimostrarmi almeno attento all’interrogazione, perché sembrassi sinceramente intenzionato ad incamerare anche la più piccola nozione matematica stillata da polvere di gesso e proferir di labbra.
La mia finta attenzione venne premiata, per fortuna.
“Allora, facciamo così, Barra: per questa volta considero la tua interrogazione come una verifica senza voto, ma la prossima volta che verrai alla lavagna non potrai permetterti lo stesso lusso. Ti consiglio di farti aiutare da qualcuno, se non riesci a studiare da solo, la matematica va capita fino in fondo, non è come le altre materie perché il libro da solo non può insegnarti ciò che non comprendi in classe. E poi scusa, potevi chiedermi di rispiegare la lezione, noi professori siamo pagati per questo”
Avrei voluto baciarla, ma promisi solamente, balbettando ed arrossendo, che avrei cercato di recuperare tutto ciò che non mi era chiaro lasciandomi aiutare da qualcuno, anche se sarebbe stata la prima volta nella mia vita, perché me l’ero sempre cavata da solo.
La prima ora passò così, con la prima dimostrazione di incapacità dell’anno.
Non ero stato interrogato da nessun professore e contando che tutte le materie riuscivo a comprenderle abbastanza velocemente, ero stato chiamato proprio dall’unica professoressa che non avrebbe dovuto farlo.
La seconda ora era di ginnastica, saltellare a destra e sinistra come un deficiente e flettere il mio busto toccando con le punte delle dita fino a terra non cancellò lo sconforto per quello che sarebbe stato il mio futuro in matematica, ma quando, dopo un quarto d’ora di esercizi, il professor Aniello ci gettò un pallone in mezzo al campo, mi accorsi che era arrivato il momento di sgomberare la mente da ogni pensiero.
Il calcio è il deterrente per qualsiasi genere di preoccupazione, sarà perché il senso è correre, superare un ostacolo, raggiungere il fondo, sarà per quella meta chiara che hai ben esposta davanti agli occhi, sarà per il fatto che quando giochi non sei Gabriele Barra, non sei uno studente, non sei un pidocchioso di quattordici anni che vuole solo farsi i cazzi suoi, sei uno che gioca e sei il modo in cui giochi e basta. E quando perdi, se perdi, non esiste nessun tipo di problema, non è successo niente, non devi preoccuparti di nessuna conseguenza, non devi farti complessi.
Dimenticai di essere Gabriele Barra e la mia squadra perse con la conferma di quelle che erano le mie asserzioni: non mi sarebbe successo niente di grave per questo.

Al rientro il corridoio pullulava di fanciulle in attesa che cominciasse la prossima ora di lezione.
Ne osservai un po’, riprendendo la mia ricerca, sapevo che in mezzo al mondo esisteva una donna che faceva al caso di ogni uomo, a dire il vero sapevo che ce ne fossero sette ma io avrei messo nel fondo cassa del resto della popolazione maschile le mie altre sei, pur di trovare quella che avrebbe saputo trasformarsi in musica. Riuscii a scovarne un paio da tenere in considerazione nel caso fosse tornato l’impellente bisogno di scrivere qualcosa. Magari ne avrei lasciate cinque, nel fondo cassa, no?
La prima era una ragazzina con un caschetto biondo che doveva avere la mia età, aveva un viso piuttosto semplice e lineamenti morbidi, però sembrava promettere molto come aspirante portatrice di belle emozioni.
La seconda ragazza aveva lunghi capelli ondulati e castani e un paio di occhi dal taglio orientale. Mi osservò passare senza smettere di chiacchierare con la compagna con cui se ne stava. Le ricambiai lo sguardo scoprendola arrossire e voltare la testa precipitosamente.
Raggiunsi il bagno per lavarmi la faccia, ma lo scorrere dell’acqua fresca sulla pelle era così piacevole che portai l’intera testa sotto il getto della fontana.
Restai così per qualche secondo. ‘Ragazza bionda!’ pensai ‘e ragazza con gli occhi orientali, quando l’acqua avrà trascinato via con sé l’immane stanchezza e questa tristezza spasmodica, via definitivamente, io vi cercherò e voi sarete le muse del nuovo approdo della musica melodica contemporanea!’
Poi smisi di sparare cazzate e me ne tornai in classe.
Mi lanciai sullo schienale della sediolina per scimmie sotto il banco e buttai la testa all’indietro chiudendo gli occhi e respirando profondamente.
L’unica cosa a cui riuscivo a pensare era una bella doccia sotto cui ficcarmi aprendo al massimo l’acqua ghiacciata, restando immobile per ore ed ore, sentendo i giorni fuori passare e persino le settimane e poi le intere ere ed io sotto la cascata permanente mi sarei cristallizzato, la mia pelle sarebbe stata levigata fino a sembrare di pietra, di marmo, rassomigliandomi al David di…
...Sarah Moretti, in piedi dietro il suo banco dietro la mia sedia, che sorrideva mostrando una fila di denti bianchi dietro due labbra rosa e sottili. Vista al contrario, col mento al posto della fronte e con i capelli che sembravano barba, aveva subito una mutazione interessante.
“Cosa c’è?” le chiesi. Avevo riaperto gli occhi in quell’istante sentendo il suo dito bussare sulla mia fronte.
“Stai bagnando tutti i miei libri, idiota!”
Alzai di scatto la testa e mi voltai. Credevo realmente che stesse sorridendo, ma una volta che il mondo aveva riacquistato la sua giusta angolazione, le pupille, dal suo sguardo accigliato, mi squadrarono perdendo tutta la dolcezza che avevano avuto quando lei se ne stava a testa in giù.
“Scusa, non me ne ero accorto...” cercai di farmi perdonare, ma quella sbatté violentemente la sua sedia contro il banco e fermò le mani sui fianchi.
“Io... io non lo so! Cosa dovrei dire adesso a mia madre, io... me lo spieghi?” ed indicò il casino di pagine bagnate che avevo combinato.
La mia mente macinò un paio di pensieri affrettati che mi portarono a voltarmi verso il mio banco.
Quando osservai i miei libri, tutti di seconda mano e scarabocchiati come fossero stati schede per bambini d’asilo, scartai la possibilità di fare a cambio con i suoi (nuovi e tenuti nel tipico ordine delle ragazze per bene finché non ero arrivato io, naturalmente).
L’imbarazzo di trovarmi a dover fornire una giustificazione di fronte ad una persona che non conoscevo (e per di più una ragazza), mi fece schizzare così velocemente il sangue in faccia attraverso le vene, che in pochi secondi sentii i miei occhi desiderare di lacrimare per avere almeno un po’ di fresco umido.
“Mi dispiace davvero, io... ecco...” mi premetti il palmo della mano sulla tempia che mi pulsava al ritmo di musica tribale, osservai le vene sulle mie braccia gonfiarsi smisuratamente e venir fuori come scolpite in rilievo sul marmo, ripensai al David, me lo cancellai dalla testa in un fotogramma, non riuscivo più a reagire in alcun modo, in fondo non potevo rimproverarle niente.
“Potevi pure tenerteli sotto il banco, i tuoi libri del cazzo, no?” intervenne Corona in quel preciso istante.
Corona era un Dio della comunicazione diplomatica.
“Tu fatti i fatti tuoi, io li posso tenere dove voglio, i libri, hai capito? Finché restano nel mio spazio e si dà il caso che…” la ragazza si stava dilungando, forse non sapeva che il Dio della comunicazione diplomatica non avrebbe esitato a sfoderare presto le sue migliori qualità oratorie e mentre piccoli fiori di saggezza prendevano forma dalle labbra di Corona: “Ah sì? E allora vedi di ficcar...” gli strinsi una mano sul volto coprendogli la bocca.
“E’ colpa mia” dissi con lo sguardo su Luigi e poi mi voltai verso Moretti, improvvisamente sapevo cosa potevo dire “te li pago, i libri, così facciamo finta che non sia successo nulla” cercai anche di sorridere.
“No, senti... scusa” sbatté le palpebre, lei “volevo solo... dirti di stare più attento... la prossima volta”
Il professore di inglese entrò nella nostra aula seguito da mezza classe che stava fuori ad aspettare il suo arrivo. Poggiò la sua cartellina sulla cattedra e si diresse verso la porta per chiuderla. Poi sganciò uno dei bottoni della sua giacca e si mise comodo sulla sedia.
Corona si mise seduto nella sua classica posizione: un piede sotto il banco e dondolando sulla sua sedia che cigolava fra la sofferenza ed il rimpianto di culi più composti.
Il professore lo guardò un paio di volte, con lo sguardo minaccioso che assumeva ogni qualvolta puntasse gli occhi su di lui, infine, rassegnato, iniziò finalmente la lezione introducendo un nuovo argomento che avevo imparato un mucchio di tempo prima, alle scuole medie e prima ancora alle elementari, forse.
Non ero mai stato un genio in inglese, i miei voti oscillavano dal cinque al sei in prima e seconda media. Poi un giorno di maggio era sceso quaggiù un mio cugino tedesco e l’avevo tenuto con me per due settimane. Lui non parlava italiano, io non parlavo tedesco, ma entrambi conoscevamo quel po’ di inglese che ci permetteva di comunicare. A meno che non volessimo dirci soltanto cazzate, dovemmo ingegnarci abbastanza per poter avere una qualche discussione decente e grazie a questo il mio inglese migliorò di parecchio ed i miei voti rimasero comunque gli stessi.
Così, nonostante la tenacia di tutti gli insegnanti nell’essere sempre ingenerosi al momento di valutarmi, adesso almeno avrei potuto permettermi di non seguire le lezioni di inglese senza che ci fosse differenza nel mio rendimento.
Come al solito in quell’ora succedeva quasi di tutto tra i banchi della nostra classe e bastava porgere le orecchie per ascoltare dall’ultima fila bestemmie ed insulti riferiti in coro al professore e alle sue sorelle e non di meno anche ai compagni. In assolo, invece, c’era Cristiani col suo vizio di urlare stronzate in chissà quale idioma indigeno Neozelandese.
Con la coda dell’occhio mi accorsi di Corona che finalmente smetteva di dondolarsi sulla sedia.
Poggiò la fronte sullo spigolo del banco, piegandosi come se stesse male, poi fece un po’ indietro la sedia e tornò a poggiare la fronte sullo spigolo.
Lo guardai un po’ più attentamente e mi accorsi che gocce di saliva grosse quanto noccioline colavano dalle sue labbra fino al pavimento.
Dopo una decina di minuti aveva combinato un casino a terra: pezzettini di crackers che ogni tanto masticava e Pepsi schiumante che aveva sotto il banco.
Deglutii una dozzina di volte, trattenendo il vomito, cercando di ignorarlo e di interessarmi alla lezione e mi riuscì molto bene, almeno finché quello non prese a ridere sotto i baffi avendo notato il mio comportamento nei suoi confronti e nei confronti delle porcherie che stava combinando.
Voltò lentamente la testa verso di me senza alzarla dal banco. Aveva la faccia tutta rossa e una grossa linea violacea che gli trapassava la fronte per essere stato troppo tempo con la testa sul taglio del banco.
Rise con un angolo della bocca ed allora non potetti fare a meno di voltarmi nuovamente verso di lui e guardarlo negli occhi.
Una goccia di saliva si allungò dalle sue labbra e finì a terra macchiandogli il labbro inferiore fino al mento, tutto questo senza che smettesse di sorridere.
Mossi gli occhi verso il basso, schivai un conato tirando un soffio d’aria pazzesco e poi rialzai lo sguardo in direzione del lobotomizzato. Tornai ad osservare il professore.
Mi accorsi che Corona continuava a fissarmi come se fossi stato una bella ragazza e visto che non mi toglieva gli occhi di dosso, le mie gote si imporporarono nuovamente e sentii una vampata di calore salirmi fin dallo stomaco.
“E’ forte sputare a terra durante la lezione” sussurrò. Perché non provi anche tu?” lo sapevo, stavo giusto pensando che avesse qualcosa da dirmi.
“...il paradigma è lo schema principale da cui si ricavano tutti i...”
“Dàì, sputa pure tu” cominciò ad attaccarsi alle palle.
Che gusto c’è a sputare in terra durante le lezioni?
“...tempi composti dei verbi. Di solito l’inglese...”
“E’ dài, aiutami a fare i vomitini a chiazze sparse?”
“Sì, come la pelle del giaguaro!” che coglione, Corona. Signori, seguire una lezione può essere molto poco interessante, ma persino dormire è più gratificante che sputare. Invece fare i vomitini a chiazze è la cosa più demenziale che io abbia mai visto fare in una classe, dopo mangiarsi le caccole del naso, è chiaro. E per quanto a molti possa sembrare una leggenda, i miei occhi hanno visto le porte di Tannauser e via di seguito.
“...segue la regola del suffisso ‘ed’ per passato e participio...”
“Eddài, collabora un po’ con il mio senso artistico” il profeta dell’arte biodegradabile “Che cazzo hai paura di sputare a terra?”
Stava diventando insopportabile, senza contare che da quando aveva cominciato a sussurrare, il professore di inglese continuava a guardarmi come se io gli dessi corda.
“Vedi, devi fare così…” e sputava quel poco di saliva che gli era rimasta, poi beveva, se ne caricava un altro po’ e riprendeva “Hai paura di sputare!” sentenziò.
“Non ho paura…” cercai di giustificarmi mentre il professore tornava a guardarmi aggrottando la fronte per cercare di capire.
“Haipaurapaurapaurapaurapaura!” cantilenò prima che l’insegnante prendesse a gridare al nostro indirizzo e quindi zittì.
Ma durò solo finché quello non volse il capo dall’altra parte.
“Maseipropriouncoglionazzocagasottorottoinculochenonvuolesputare, eh?” tirò fuori tutto d’un fiato, avrei tanto voluto capire che cazzo gli girava nel cervello, se fosse o meno la Pepsi a fargli quell’effetto.
“Non ho paura, è che non ne vedo…” stavo cercando di spiegare quando un ruggito mi investi. Non propriamente un ruggito, era il mio nome urlato sulle vette più acute delle possibilità umane.
“Ora ti ho visto, ti ho visto che sei tu, pensavo che fosse Corona, invece sei tu che parli, sei tu che non la smetti” sì accanì l’insegnante puntandomi un dito contro come potesse con quello mitragliarmi.
“Non sono io che…” un secondo ruggito mi travolse mentre provavo a chiarire.
“E parli ancora e parli ancora?” e non dovevo parlare? “E allora adesso vediamo se parli ancora se ti metto un due, vediamo se parli ancora” prese registro e penna e lo aprì con una forza tale da quasi strapparlo.
Restai allibito, in piedi senza neanche essermi accorto di alzarmi. Farfugliai due parole, ma capii che non ne valeva la pena. Mi rimisi a sedere.
“Vicino a quello ti sei messo? Vicino a quello per fare casino? E io ti metto due!” un’esecuzione sommaria, in pratica.
“Non sono io che mi sono…” si alzò automaticamente il tono della mia voce, per scavalcare il suo. Anche stavolta il mio nome fu urlato con un vigore tale che mi parve di veder comporsi nell’aria le chiare lettere di Barra in netto Arial Bold.
“Adesso allora ti metto anche una nota disciplinare così vediamo se mi fai perdere ancora tempo…” ma che cazzo gli avevo fatto io, a questo? Non si poteva contrattare per niente, ogni mio tentativo di fare chiarezza mi portava una maggiorazione della pena.
Per la prima volta nella vita cominciai ad intendere che cosa significasse per davvero ira funesta: quel deficiente di Corona adesso non parlava più, mi ero preso un due per colpa sua e già era un bel casino. Il professore, da parte sua, non mitigava per niente, peggiorava la situazione, mi aveva messo un due perché avevo interrotto la lezione ed io che credevo che le valutazioni si dessero sulla conoscenza della disciplina, oltre a questo adesso stilava la sua nota… scrivendoci cosa?
Osservai la finestra aperta davanti ai miei occhi, il fatuo riflesso del mio viso rabbuiato, mi voltai verso il professore che, con la penna sotto il mento, cercava le parole, verso Corona che rideva, verso la classe ammutolita come si stesse decidendo il mio destino ultimo e l’ira funesta raggiunse la sua vetta.
Sputai contro il vetro con una forza tale da smuovere la finestra come un soffio di vento l’avesse accarezzata. Chiusi immediatamente gli occhi senza pensare a niente.
Poi, a dire il vero, una cosa la pensai e chiaramente anche: ‘Noooooooo’.
Avevo fatto una vera e propria cagata, non c’è che dire.



*

Skizzando nel vento 1: Sì la do

1
Si la do
(Alla ricerca della musa ben disposta)



SETTEMBRE DI SPERANZA

Il liceo mi aveva sempre affascinato.
Me lo immaginavo come un bel posto che straripava di fanciulle-muse-ispiratrici piene di curve e di emozioni da regalarti senza pretendere nulla in cambio.
A stento ero riuscito a superare le scuole medie con un po’ di intuito e pochissima attenzione durante tutte le spiegazioni e adesso me ne stavo zitto zitto con la faccia del bambino che sa già cosa vuole dalla vita (anche se non ne avevo proprio idea, di che cosa volessi) e con i miei famosi puntini di barba già cresciuta proprio l’estate prima.
Osservavo incuriosito tutte le ragazze presenti cercando di registrare i volti delle tipe che venivano chiamate per osservare le prime reazioni del mio cuore all’impatto con i loro graziosi sorrisi e con i loro piccoli e snelli corpi imprigionati in completini e gonnelline estive che rimpiangevano la libertà delle ultime vacanze da bambine di già finite.
Tirai su i miei jeans un paio di volte e mi pentii di non essermi mai degnato di usare una cintura anche se portavo jeans che erano due taglie più della mia ed io ero magrissimo e ci stavo dentro come una sottiletta in un lenzuolo.
Ascoltai ancora attentamente il Preside che non smetteva di chiamare ragazzini e accarezzare i loro capelli come fosse un lontano zio che salutava i suoi nipoti, poi mi stufai già della situazione e presi ad osservare gli alberi che ci stavano intorno nel cortile dove eravamo, immobili e solenni quasi stessero assistendo ad un borioso cerimoniale. Mi ero già rotto le palle di quel posto e della gente che lo frequentava, forse non avevo avuto una bella idea a decidere per un liceo scientifico. Ma non stavo lavorando bene: il mio compito nel mondo era quello di sentire, non osservare, non partecipare ma solo immergermi nel flusso caotico neutrale di cui è composta la realtà e scivolare al suo interno attraverso le mie sensazioni, niente di più e niente di meno, niente sforzi mentali, niente di niente. Questo non era un liceo, questo non era il cortile di un liceo, quello di fronte ai miei occhi non era il Preside di un liceo e quelli dinanzi ai miei occhi non erano studenti al primo anno di liceo. Questa dinanzi a me, tutta insieme, era la realtà ed io ne facevo parte, niente digressioni o quanto altro, tutto molto più semplice del previsto.
Tornai ad occuparmi della realtà, senza ulteriori astrazioni.
Le ragazzine che erano già state chiamate dal Preside e che avrebbero formato la classe che mi avrebbe accolto, erano perlopiù facce da studiose serie e motivate da una grande passione per materie che per me erano incomprensibili quali la fisica, la matematica e le scienze. Mi lasciai girare nella mente per qualche secondo quella sensazione, mentre guardavo allungarsi la fila dei miei futuri compagni di classe, poi decisi di dedicare lo sguardo alle punte delle mie scarpe che dal basso mi guardavano e mi chiedevano di andare via da quel posto, che in fondo non era proprio come me l’aspettavo.
Rialzai lo sguardo solo quando il mio nome venne pronunciato dalle labbra del Preside che non risparmiò lo stesso trattamento ai capelli neppure a me che un bambino non lo sembravo già più dalla scorsa estate.
“Gabriele Barra” esclamò quasi sorpreso “Sappiamo del tuo particolare talento per il calcio, può risultarci utile per la squadra scolastica. Ma non devi trascurare lo studio però, un vero uomo non è completo se non sa dedicarsi ai suoi hobby senza togliere nulla al suo lavoro”
Annuii semplicemente col capo guardandolo direttamente negli occhi, ero stato nella squadra degli allievi del paese per un po’, ma a dire il vero non ero mai stato un patito del gioco di squadra organizzato. Agli stadi avevo sempre preferito i campi sterrati che magicamente comparivano dietro una collina, magari in pendenza con pali di legno scheggiato o immaginarie porte segnalate soltanto da due pietre poste ad una ipotetica distanza regolamentare, alle divise delle squadre di calcio preferivo i torsi nudi ed i pantaloncini mezzo strappati dall’asfalto o dalle pietre. Quello era calcio ed il resto chiacchiere senza storia.
Il Preside mi lasciò andare verso gli altri, mi inserii nella fila senza dire una parola, mi guardai affianco scrutando di profilo i volti degli altri ragazzini. Mi chiesi se avrei mai fatto amicizia con qualcuno di loro, mi chiesi se sarei riuscito a fondermi nello spirito di classe, io che i gruppi li avevo sempre malvisti e che ero sempre stato malvisto dai gruppi. A giudicare dai nasi che vedevo sporgersi da quella angolazione, non ci sarebbe stato molto di interessante a cui partecipare da lì ai prossimi cinque anni. Sbadigliai, pensai di grattarmi una chiappa. Mi grattai una chiappa.

Quando raggiungemmo finalmente la nostra aula, mi scelsi un posto in prima fila, isolato sotto la finestra, così avrei potuto guardare fuori ogni tanto e tanto per ambientarmi presto, cominciai a guardarci da quel momento.
Puntai i miei occhi sull’antenna parabolica di una abitazione quadrata che sembrava una di quelle messicane che si vedono nei film e che aveva i muri ingialliti dalla polvere. Un tempo doveva essere stata una bella villetta solitaria nel bel mezzo di un campo abbandonato. Mi ricordò la casa di mia nonna, quella che riuniva tutta la mia famiglia sparsa per l’Italia nelle torride estati degli anni ottanta, quando, ancora bambino, con linee di muco che mi spuntavano dalla narici e la maglietta intima bagnata di spruzzi d’acqua, me ne stavo seduto in mezzo ai miei cugini e iniziavo a battere forte sulla mia chitarra gridando più che cantare canzoni che non avevano nessun significato, fatte di frasi senza nessi logici tra di loro.
La mia chitarra.
Adesso se ne stava abbandonata in una casetta di campagna che avevamo trasformato in un magazzino. Non eravamo mai andati particolarmente d’accordo, io e lei, anche se il mio sogno da bambino era stato quello di diventare un chitarrista prima ancora che di diventare un calciatore.
Certamente l’avevo delusa, se la nostra fosse stata una storia d’amore, allora potevo dire di averla tradita con una pianola Yamaha più moderna e meno dura da far commuovere. Non mi piaceva suonare la pianola a dire il vero, non ce l’avevo mai avuta la fissa per i tasti io, avevo sempre preferito le corde, poi un giorno il mio professore di musica delle medie, osservandomi le mani, mi aveva messo in testa che erano due mani da pianista ed io, come se ci volesse lui a dirlo, mi ero preso la cotta per questa rivelazione ed avevo lavorato per tutta un’estate per comprarmi una pianola e qualche libro di musica che potesse insegnarmi ad usarla, così, giusto per non limitarmi a leggere il libretto delle istruzioni. Ed allora avevo abbandonato la mia bella chitarra acustica regalatami da mio nonno quando avevo ancora sei anni, neanche avessi il potenziale di un futuro Elvis, mi ci ero fissato così tanto che mia madre tuttora mi ricordava che spesso la nominavo nel sonno, a quell’età e così un giorno di un estate che ricordavo ancora vividamente, mio nonno me l’aveva portata, recuperata da chissà quale suo amico.
Ormai avevo le basi, il successo garantito e la mia storia poteva anche cominciare, ma tranne che farmi dolere i polpastrelli per cinque o sei anni, non ne avevo mai tratto nulla di buono. Proprio non mi si ficcava nella testa, non avevo metodo né questa grande volontà di applicarmici. Era un gioco e non superò mai quella proto forma di esistenza.
Ogni tanto l’avevo ripresa tra le braccia e l’avevo accarezzata come sempre, ma lei era stata fredda con me, aveva sputato fuori suoni duri e le sue corde si erano irrigidite in una maniera bestiale, così avevo deciso di metterla fra la roba che ormai non serve più e ce la avevo lasciata lì senza neanche più guardarla.
Un amore quando finisce, finisce.
Adesso come adesso, mi ero dedicato del tutto alla Yamaha, sperando che qualcosa potesse ispirarmi a comporre un po’ di musica decente. In tutto vantavo dodici grandi successi che avevo scritto e tenuto per me, con un testo stupido e note molto distaccate fra loro.
“Bene, vi chiamerò ad uno ad uno e cercherò di memorizzare i vostri nomi, mi parlerete di voi, così ci presenteremo un po’, va bene?” captarono le mie orecchie.
Una specie di professore era arrivato da poco in classe ed io, come al solito preso dalle mie stronzate, mi ero perso la prima occasione di partecipare alle presentazioni. Era un tipo dai capelli a spazzola, grigio scuro alle punte e più bianchi verso la radice, portava un paio d’occhiali da vista con lenti alternative da sole (evidentemente graduate) applicate sopra la montatura grazie ad una minuscola cerniera. Era il professore di educazione fisica o tale mi pareva da quanto avevo capito dalla tuta e dalle scarpe da ginnastica che indossava.
Un coro di vocine timide rispose sibilando come la somma di tanti versi di rettili in situazione di pericolo.
“Allora... mmm... Altamura Sabrina... chi è Altamura Sabina?”
Proprio nella seconda fila, due banchi a destra dietro di me, una ragazzina dai capelli lunghi e castani, con la faccia pulita e gli occhi da studentessa decisa e brava a tutte le materie, si mise in piedi poggiando i palmi delle mani sul banco.
“Sono io” rispose con una voce stridula che sembrava il cigolare di una porta male oliata.
“Bene, Sabrina, quale scuola media hai frequentato e quale è stato il tuo voto di licenza... Ah, parlaci anche un po’ della tua situazione familiare, naturalmente”
La piccola non mosse neanche per un attimo gli occhi da dove li aveva messi e cioè da sopra al viso del professore.
“Ho frequentato la Scuola Media Statale ‘Ugo Foscolo’ nella sezione di bilinguismo. Il mio voto complessivo è stato Ottimo in tutte le discipline, compreso educazione motoria e musicale. Mio padre si occupa di medicina ed è chirurgo presso l’ospedale del nostro paese, mia madre insegna latino nel Liceo classico ‘Carlo Troya’ che è ubicato in Andria, sono figlia unica” Sabrina attese comunicazioni.
“Molto bene, Sabrina, puoi riaccomodarti” il professore incrociò le mani sul registro, osservò ancora per pochi secondi la ragazza, poi puntò l’indice nuovamente sulla lista e passò avanti.
“Barra Gabriele...”
Iniziai a tastarmi l’orecchino a cerchio che avevo all’orecchio, mi capitava spesso di farlo, quando ero colto alla sprovvista.
Tranquillo, tranquillo, che tanto non te ne frega di fare brutte figure, in fondo a quanto si è visto fuori, qui non c’è nessuna tipa che potrebbe ispirarti, no?
“Ho passato i tre anni più brutti della mia vita nella scuola Bovio (non ricordo il nome di Bovio, mi scusi), non so se ho studiato francese o inglese, perché non ho mai studiato molto, ma fa lo stesso. Il mio voto complessivo è stato sufficiente in tutte le materie, compreso ginnastica e musica. Mio padre si occupa di muri ed è il muratore più in gamba della nostra città, mia madre insegna... a cucinare a mia sorella e gestisce l’educazione di mio fratello di tre anni. Come vede non sono figlio unico”
Ripresi posto incastrando la mia testa nelle spalle come fanno le tartarughe, fermo nell’imbarazzante silenzio degli sguardi addosso, finché a stemperare la tensione ci fu una schietta risata del professore e, dopo un soffocato ridere che girava di bocca in bocca per tutta la classe, anche i miei nuovi compagni risero apertamente. Rise perfino la ragazza che mi aveva preceduto nella presentazione.
Tentai di fare l’indifferente, non amavo molto salire su un palco o tenere la scena, ma quando mi capitava di farlo, cercavo di vincere la timidezza, di parlare senza esitazione, di non passare per deficiente, almeno. E dalla vergogna della prima cazzata fatta, presi a decifrare le scritte che erano incise nel mio banco sentendo lentamente le guance imporporarsi.
Ce ne era qualcuna divertente come un botta-e-risposta di due ragazze che, a quel che sembrava, si erano innamorate della stessa persona e si insultavano a vicenda chiedendosi l’un l’altra di lasciar perdere il tipo. Evidentemente il mio banco doveva essere appartenuto a un latin lover.

Altri nove fra ragazzi e ragazze si presentarono parlando di genitori avvocati, professori, medici alcuni per di più Assessori, per non parlare di tutti gli ottimo e distinto che avevano proferito labbra di bambini che erano già decisi di proseguire e bene, nella strada intrapresa, cosa che io non avevo mai tenuto in considerazione neanche per scherzo.
Avevo sempre pensato più che altro che nella vita c’è chi nasce a Milano o Roma o Bari e gli tocca fare certe cose e non è lui che le ha scelte, io invece ero nato qui e mi toccava andare a scuola e non ero io che l’avevo scelto, vivevo il tutto abbastanza passivamente proprio per questo, non ero stato io a scegliermelo, ma mi toccava farlo e basta.
La porta della nostra aula si spalancò quando una ventina di persone, e cioè due terzi della classe, dovevano ancora presentarsi ed un ragazzo dai capelli di un biondo scuro venne spinto all’interno violentemente.
Il professore si voltò con calma, osservò il ragazzo e le sue labbra si mossero ad un leggero sorriso.
“Corona?! Primo superiore anche quest’anno?”
Il ragazzo sorrise e si avvicinò alla cattedra, poi strinse la mano del professore senza smettere di sorridere e gettò da un lato alla base del muro sotto la lavagna, la sua cartella piena di murales e di disegni che parevano tatuaggi.
“Se voi non vi siete ancora stancati di tenermi!” allargo le braccia “Purtroppo mio padre sta fissato che devo studiare”
“Vatti a sedere che a presentare te ci penso io, visto che la C…” disse il professore, abbassando il mento per osservare il registro, il ragazzo rimase al suo fianco “l’abbiamo già superata. Lui si chiama Luigi Corona, è la terza… terza?”
“Terza” rispose Corona.
“…volta che frequenta questa classe o eri in qualche altra sezione gli anni scorsi?”
“No, sempre la C” disse ancora sistemandosi un ciuffo di capelli dietro un orecchio.
“Che altro dire? Ha collezionato almeno dieci sospensioni l’anno scorso ed una cinquantina di note disciplinari”
“E questi qui non sanno niente!” aggiunse Corona rivolto a noi, stampandosi in viso uno di quei sorrisi da criminale che avevo riconosciuto in mille volti apparsi sui giornali dopo una rapina o un omicidio o una maxi operazione antidroga portata a termine dalla polizia il giorno prima.
“Abbiamo bisogno di un banco ed una sedia per ospitarti, Luigi, va’ a chiamare un bidello” fece il professore, così il tipo scomparve dalla porta e se ne tornò senza l’aiuto di nessun bidello con un banco ed una sedia tutti suoi. Doveva aver liberamente optato per la sottrazione da qualche aula vicina.
Gli occhi del ragazzo scrutarono tutta l’aula alla ricerca di un po’ di spazio libero e poi si fermarono su di me. Il mio era l’unico posto singolo di tutte le file. Così trasportò il banco fino a me e lo lasciò cadere a terra mentre il professore riprendeva a sparare nomi di persone che avevo già sentito una volta, fuori.
Corona alzò di peso la sedia che aveva poggiato sul banco per portarli entrambi e poi la rimise giù sedendosi in maniera composta.
Due minuti dopo se ne stava già stravaccato con un piede nel ripiano sotto il banco e dondolandosi sulla piccola seggiola che cigolava pericolosamente.
Stetti a guardarlo per un po’.
Era un tipo abbastanza alto, piuttosto muscoloso, con un codino dai riflessi chiari e un paio di basette triangolari che gli coprivano mezza faccia. Un gigantesco tatuaggio nero e rosa che raffigurava quello che pareva il volto di un diavolo che sbuffava, spuntava dalla manica corta della sua maglia e finiva proprio sul bicipite ben allenato.
Non si voltò nemmeno per uno sguardo, verso di me, non era minimamente interessato al suo nuovo compagno di banco, ma d’altronde anch’io me ne ero sbattuto degli altri e mi ero scelto un posto da solo.

Alla fine della prima ora il tipo era riuscito a cambiare un centinaio di posizioni diverse, c’era da apprezzare però il fatto che se ne era stato zitto per tutto quel tempo preoccupandosi solo di studiarsi le unghie delle mani prima di farle fuori.
Il suo zaino era rimasto piantano dove l’aveva lasciato e cioè sotto la lavagna finché non squillò la campanella.
Mi alzai appena il professore era fuggito via dalla sua prima ora di lavoro effettiva dopo un’estate di riposo. Mi stiracchiai un po’, compostamente, sentivo le mie chiappe rigide e quadrate come il fondo della sedia.
Un paio di ragazzi (uno dai capelli rossi ed uno abbastanza robusto) che dovevano conoscersi da prima di essere entrati nella nuova classe, si avviarono verso la porta e dopo essersi affacciati, presero a chiacchierare su quello che vedevano fuori nel corridoio.
Una ragazza che il professore aveva chiamato Del Monte nel suo appello, stava osservandosi la collanina che portava al collo; ogni tanto si ravviava i capelli con entrambe le mani.
Non sapevo proprio cosa fare e cosa dire e soprattutto con chi poter parlare in quel momento, così seguendo l’esempio dei due ragazzi che dovevano conoscersi, varcai anch’io la porta e mi levai dalla possibile situazione imbarazzante di dovermi trovare a parlare con qualcuno che non conoscevo assolutamente.
Qualche bel culetto ondeggiava a destra e sinistra nel corridoio spostandosi da una classe all’altra, ragazzi più grandi di noi, invece, si divertivano a correre avanti e indietro sgommando platealmente davanti ad ogni porta.
Tornai nella classe proprio nel momento in cui un signore che poteva avere tra i cinquanta ed i sessant’anni, basso e con un cappello alla Dick Tracey a quadratini grigi, iniziò a gridare qualcosa al nostro indirizzo, appena imboccato il corridoio. Sorreggeva una cartellina marrone scuro e doveva essere un altro dei nostri professori.
Capii che non era così dopo aver ripreso il mio posto sotto la finestra; infatti il signore si presentò come un professore di italiano e latino e dichiarò di essere un supplente per quell’ora.
Comunque non era in classe neanche da cinque minuti, che già ci stava parlando di Dante Alighieri e Petrarca e Platone e di quanto questi tre tipi fossero amanti delle ‘umanae litterae’, di quanto fosse stato importante per Dante ricevere il dono della fede e cose così che percepivo a malapena, distratto dai miei pensieri che mi stavano conducendo in una landa deserta fuori da ogni città.
Adesso la mia mente permetteva alla mia pianola di materializzarsi in quella landa ed io mi avvicinavo ad essa ed iniziavo a toccare lievemente i suoi tasti, facevo partire una base ok e prendevo a suonarci da sopra un motivetto niente male, tutto soft. La polvere si lasciava catturare dal vento e si alzava debolmente dal terreno, poi saliva, saliva insieme al vento, sempre più su, più in alto, e più saliva, più il volume della musica aumentava e più le note si facevano reali e, quasi pesanti, le mie dita cadevano sulla tastiera e sapevano già come spostarsi tra tasti neri e tasti bianchi.
E le parole mi uscivano da sole dalle labbra e finalmente nasceva un testo garbato in una lingua che non capivo ma che immaginavo fosse l’idioma di una qualche tribù dell’America precolombiana.
Questa era certamente una precognizione che dovevo aver avuto, del mio più certo futuro, ma perché tutto questo avvenisse, ci voleva un’ispirazione di quelle estasianti e una ragazza che avesse la stoffa della musa.
E dove la trovavo io, una così?
La scuola media mi aveva offerto una sola ragazza che potesse essere la giusta fonte artistica, ma avevo scritto per lei solamente una canzone che era la più riuscita fra le dodici da me composte, ma che non aveva assolutamente nulla di musicale come le altre d’altronde che sembravano piuttosto suoni contorti sotto quattro parole messe lì in stato di ebbrezza pesante. Le mie altre undici canzoni le avevo scritte per undici ragazze diverse con cui avevo provato ad ispirarmi, ma che non avevano fatto altro che farmi rendere conto che come musicista non valevo proprio nulla.
Forse avrei dovuto mollare, dopotutto che cosa mi faceva credere, a soli quattordici anni, di essere in grado di comporre una canzone? Voglio dire, che cosa mi faceva tendere proprio verso la musica invece che verso una qualsiasi altra forma d’arte se non solo il fatto che avessi avuto a che fare con il mio primo strumento musicale a soli sei anni?
Io, a dire il vero, ce l’avevo sempre avuta la fissa di riuscire a plasmare dal nulla una canzone che non facesse schifo e che si potesse suonare ogni tanto, in presenza di estranei che non fossero spinti per questo a riderti in faccia, la sentivo come una cosa naturale, la mia non era una ricerca e basta, era quello che avrei dovuto fare e non l’avevo scelto io. Assolutamente. Come il fatto di nascere lì e di dover andare a scuola. Esatto uguale.
O magari la canzone avrei potuto anche tenerla per me, senza farla ascoltare mai a nessuno, ma che almeno mi desse un tantino di gusto a cantarla per intero sbattendo le dita sulla mia tastiera, così, per sentirmi un po’ me stesso più di quanto mi sentissi me stesso mentre me ne stavo sul cesso di casa mia a lasciare andare via parti solide che una volta avevano albergato nel mio corpo.
Insomma, io ci avevo qualcosa dentro e volevo che uscisse prima o poi, volevo liberarmene e sbloccarmi finalmente, per non tenermelo dentro, quel qualcosa, perché non avessi avuto più bisogno di scavare sotto mucchi di emozioni per ritrovarlo e perché fosse stato sempre a mia disposizione nella mia canzone. Magari nelle mie canzoni.
E invece quel qualcosa non mi era mai uscito del tutto e molte volte ero convinto che non sarebbe uscito affatto.
Questo mi faceva paura per davvero, così stavo cercando da un po’ di tempo una ragazza che mi aiutasse a sputare fuori tutto quanto, che mi ispirasse quanto mi bastava, che mi offrisse non dico un sorriso, non dico una parola, non dico nemmeno uno sguardo, ma quel poco di ispirazione che mi era utile per fare ciò che dovevo, poi avrei finalmente trovato la mia pace, ne ero sicuro. O parte della mia pace.
Ma forse era veramente arrivato il momento di smettere di pensare a tutte quelle stronzate, così ricominciai a seguire la lezione dal punto in cui Petrarca aveva detto a Boccaccio di non bruciare il Decamerone e questo dimostrava il loro intenso amore per la letteratura.
Nel giro di un’ora dovevano aver già fatto l’intero programma d’italiano di terzo o quarto superiore. Qualche giorno di tempo e saremmo stati tutti già diplomati.

Alla fine della mattinata e dopo tre o quattro presentazioni ufficiali con i professori, pensai che tutto sommato la classe non era proprio piatta come mi era parsa inizialmente, in tutto c’erano tre ripetenti: Corona, Ieva e Morra, diciassette ragazze fra cui mi restarono impresse Del Monte che avevo già stabilito di far rientrare nelle ‘carine’ (anche perché probabilmente era l’unica), una ragazza robusta dalla vocina sottile sottile seduta nella seconda fila dietro di me e vicino ad Altamura che era magrissima e poco attraente e un’altra ragazza dalla faccetta semplice semplice che se ne stava seduta proprio dietro di me ed a cui avevo mandato sì e no due sguardi in tutto e di sfuggita.
Poi c’era una dai capelli ricci, lunghi e piuttosto chiari che era magra pure lei e aveva l’aria da intellettuale con un neo proprio sopra le labbra e si chiamava Antonella Cavallo; questa qui era seduta vicino a Marialucia Del Monte dal lato opposto alla mia fila, sulla destra.
Le altre ragazze erano più o meno le fotocopie delle tre ragazze della fila dietro la mia, quella di Sabrina Altamura: facce serie e laboriose dall’aria di chi vuole impegnarsi nello studio ed è tutta dedita ad esso, senza concedersi minimamente ad altri interessi.
Per quanto riguarda i ragazzi, c’era qualche genietto da ottimo scientifico piccolo piccolo, c’era uno che si chiamava Tarantino e piccolo piccolo non era proprio, era quello uscito insieme al rosso (che si chiamava Coviello) alla fine della prima ora e pure se aveva anche lui l’aria da genio, era alto e massiccio. L’altro colosso della classe era un tipo che parlava con un fortissimo accento pugliese e, a quanto avevano fatto capire i suoi compagni di scuola media, era bravissimo in matematica. Il suo nome era Antonluca Marcantonio.
Gli unici due ragazzi che mi stavano simpatici, oltre ai tre ripetenti, erano stati da sufficiente alle medie: il primo era uno basso, smilzo e curvo come i genietti e di nome faceva Pastore, il secondo non rientrava nella categoria dei massicci soltanto perché era un vero e proprio gigante. Si chiamava Fortunato, ma non avevo capito se quello era il nome, il cognome o tutt’e due.
Avevo già imparato i nomi di quei tipi e la sensazione di aver fatto proprio una scelta di merda si faceva ancora più opprimente ora che mi ero reso conto di essere capitato in una classe fornita quasi unicamente delle due categorie di ragazzi che avevo sempre odiato: i criminali ed i figli di papà.
Il resoconto della giornata, tratto direttamente dal Diario Appunti Viaggio nell’Esistenza di Gabriele Barra, fu:
- Nessuna tipa in questa classe, manco a pagarla oro;
- Sono capitato in una classe di merda stando all’organico in generale;
- E per di più seduto vicino ad uno che mi darà un caaaaaasino di fastidio;
- Non capisco nulla delle materie scientifiche e questo è un Liceo Scientifico;
- Forse c’è qualcuno che mi sta simpatico.
Note complessive cinque.
Note negative: quattro. E mezzo (se contiamo che il forse dell’ultimo punto è per metà negativo)
Note positive: mezza (se contiamo che il forse dell’ultimo punto è per metà positivo)