chiudi | stampa

Raccolta di testi in prosa di Salvatore Solinas
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Tamerisco X XV seconda parte

XXV

Una lettera



Quella notte dormii profondamente. Mi svegliò lo sbattere di una porta e il chiacchierio proveniente dall’appartamento vicino. Sentivo distintamente la voce di Mirella: era tornato il marito che andava spesso a trovare i parenti in Nigeria, suo paese d’origine. Ricordo che ero appena andato ad abitare in quel palazzo, quando Mirella mi presentò i suoceri. Erano neri con i capelli ricci e bianchi come i loro denti, ancora intatti nonostante l’età. Il padre, un signore alto e magro, un pò curvo, forse a causa di un’incipiente sordità, era ingegnere elettronico e aveva lavorato in California all’epoca del pionierismo informatico. Al culmine della carriera era tornato in Nigeria perché, come disse, sentiva il dovere morale di aiutare il suo paese. La moglie era una donnina dall’espressione calma e sorridente, di bassa statura, almeno così sembrava accanto al marito. Conservava un bel viso dai lineamenti regolari, quasi privo di rughe. 

 Allora frequentavo spesso Mirella ed ero stato parecchie volte a casa sua per cena. Quando arrivò Adelina i nostri rapporti si raffreddarono perché le due ragazze non simpatizzavano tra loro.

 So che il marito la stringeva tra le braccia, la sollevava da terra, la portava fuori dalla porta e poi nuovamente dentro casa. Faceva sempre così ogni volta che tornava da un lungo viaggio. Lei protestava ridendo, facendo un gran chiasso, così tutto il palazzo sapeva che il marito era tornato. Parlavano velocemente, non si capiva cosa dicessero. Sentii il rumore di tazze sul tavolo e il borbottio della caffettiera insieme allo sciacquone del water: evidentemente Mirella preparava la colazione, mentre lui era in bagno. Erano quasi le nove, mi alzai in tutta fretta, il treno di Adelina sarebbe arrivato alle undici e mezza. Volevo fare le cose con calma e godermi quelle ultime ore di solitudine.

Uscendo trovai una lettera nella cassetta della posta. Non era affrancata: “Per Piero” niente indirizzo, niente di più. La misi in tasca proponendomi di leggerla al bar, davanti al cappuccino con la pasta alla crema. Mi avviai verso la stazione. A non più di dieci minuti di cammino, all’angolo di Via Savoia, mi sedetti al tavolo del bar all’aperto e ordinai la colazione. Il mattino era fresco, l’aria tersa e chiara come in primavera. Adelina sarebbe scesa dal treno trascinandosi la valigia come se fosse un peso enorme. Odiava la fatica fisica, fosse pure il peso minimo di un trolley mezzo vuoto. Io facevo finta di non vederla, facevo sempre così, per scherzo. Lei si sarebbe avvicinata e con aria supplice mi avrebbe tirato per la manica indicandomi la valigia. Avremmo riso e ci saremmo abbracciati.

Pensavo di portarla a pranzo fuori, non in collina, perché tornava appunto dalla montagna, né al mare, che era troppo distante, e lei non avrebbe avuto voglia di rimettersi in viaggio. L’avrei portata al ristorante del castello: erano cinque minuti di taxi, l’ambiente era elegante e semplice, là in alto si sarebbe goduto un bel fresco. Di sicuro lei avrebbe chiesto di fare prima una doccia. Era tanto tempo che non facevamo l’amore, avrei potuto rimandare a dopo aver mangiato, non sapevo, un desiderio sottile mi pervadeva. A vederla umida dei vapori del bagno, profumata e tenera, non ero sicuro che avrei potuto rimandare. Mi rammentai allora che forse era insemenzata: una vertigine mi colse improvvisa. Appena scesa dal treno, oppure a pranzo, o meglio a letto tra le braccia, nei lunghissimi preliminari che precedevano l’amore, mi avrebbe detto che ero padre, quasi a rimarcare che ero proprio io il responsabile del misfatto e che dovevo riparare. Ero piuttosto sconvolto al pensiero, e lo sarei stato ancora di più in quel momento. Mi proposi di coprirla di baci, di dimostrarmi felicissimo, come forse lo ero, in fin dei conti, perché la paternità è una bella cosa, una meta nella vita di ogni uomo. Pensai ancora di portare per mano il marmocchio a passeggio, e di giocare con lui sopra un prato. Certo essere padre fa parte della vita e, prima o poi, deve succedere. Forse con l’arrivo del marmocchio Adelina sarebbe diventata meno possessiva e assillante. 

Ci saremmo sposati in municipio. Pensavo di avere un carattere troppo indipendente e di non essere adatto alla vita matrimoniale, anche se il nostro rapporto era divenuto così assiduo, così stretto, che era più che un matrimonio. Anzi, forse una volta sposati, acquistata la certezza dell’unione legale, avremmo cominciato una vita routinaria in cui ciascuno si sarebbe ritagliato uno spazio proprio.

 

 

 

*

Tamerisco XXIV seconda parte

XXIV

La morte di Pietro

 

Girovagai per più di mezz’ora. La nebbia si era alquanto diradata e potei scorgere in fondo al viale l’edificio basso e lungo della stazione sormontato dall’orologio ottocentesco. Svoltai a destra; in quel tratto di strada piuttosto stretto la nebbia era rimasta fitta e una leggera brezza la scuoteva formando strane immagini zoomorfe. A cento passi si apriva la bocca scura del vicolo da cui esalava un denso vapore, come da un cratere spento o dalle fauci di un drago dormiente. Mi inoltrai in esso: il portone del palazzo era socchiuso, lo spinsi senza difficoltà ed entrai. Il cortile era come l’avevo visto la prima volta: lo stesso polveroso, trascurato disordine. Mancava il paggio. Al suo posto l’impronta del piedistallo sulla terra umida. Alcuni anni dopo rividi quel paggio dal naso mozzo nel parco di una villa. Venni a sapere che Maria l’aveva venduto a poco prezzo con alcuni mobili antichi che le erano avanzati. Fu quella l’ultima spoliazione del prestigioso palazzo dei Pergamena, prima che gli eredi lo vendessero a una società immobiliare.
Salii le scale; la porta dell’appartamento era spalancata. Bussai inutilmente. La sala era in penombra. Essendo scomparsa la nebbia, il sole, ormai al tramonto, vi penetrava dalle imposte socchiuse con una brezza che faceva impazzire il pulviscolo dell’aria. Tutto era disposto come prima: il divano, il tavolino, le sedie antiche, cadenti e sdrucite come la tappezzeria dei muri. Tutto aveva in quella luce un non so che di dignitoso che lo preservava dal tempo, come se avesse toccato il fondo del degrado e fosse destinato a rimanere così per sempre, lasciando ad altri il compito di decomporsi, di disfarsi, di scomparire, di non essere più. Credetti che la casa fosse deserta perché regnava un silenzio assoluto. Tuttavia era strano che le porte fossero aperte. Era spalancata pure la porta a vetri che portava alla camera dove era scomparso Pietro il giorno in cui ero entrato per la prima volta in quella casa. La stanza era in piena luce, una luce forte insolitamente chiara, evidentemente riflessa dall’intonaco in calce bianca delle pareti. Sul grande letto matrimoniale giaceva Pietro, o meglio il suo corpo nudo, scheletrico, ingiallito. Maria e Susanna erano intente a lavarlo strofinandolo amorevolmente con la spugna che bagnavano in un catino d’acqua dove, a giudicare dal profumo, avevano disciolto un’essenza orientale. Pareva che Pietro si fosse accorciato: il tronco era stranamente piccolo rispetto al capo, dove sporgeva il naso immobile, affilato, e il mento che si era fatto aguzzo e duro. Le palpebre chiuse, sigillate dalle lunghe ciglia cispose, incredibilmente nere, le labbra avvizzite e livide, appena socchiuse, esprimevano un sereno riposo. Era morto, come dicevano a turno le due donne, senza soffrire. Ora mi era chiaro il perché ero uscito quel giorno: per andare in quella casa dove era Pietro, morto, o meglio, il suo cadavere, perché non c’era più nulla di lui, dell’uomo dall’aspetto elegante, dagli occhi brillanti ed espressivi che suscitavano rispetto e simpatia. Quando finirono di lavarlo, lo coprirono con un lenzuolo bianco, lasciando scoperto soltanto il viso. Quindi si abbracciarono piangendo.
Quando si fece notte, Susanna uscì per tornare immediatamente con quattro ceri che accese e pose attorno al letto. Andai a sedermi nella stanza accanto, al buio. Una stanchezza mortale s’impadronì delle mie membra.
Pensai di tutto: Adelina che era lontana, dai suoi, la mia casa che era risorta dopo la devastazione dei ladri, il negozio di Sara dove dormivano i cristalli e gli argenti e il quadro della martire discinta; la passeggiata con Guido lungo il fiume, suo fratello suicida.
Arrivò Luigi per primo. Passò diritto nella camera, senza accorgersi di me.
Vennero alcuni colleghi della biblioteca e inaspettatamente Albertini in persona. Due monaci in tunica bianca bussarono timidamente alla porta, poi con una sommessa domanda di permesso, varcarono la soglia e, trovandosi completamente al buio, si fecero avanti disorientati; udito poi il brusio proveniente dalla stanza da letto, vi entrarono. Ascoltai le loro preghiere e benedizioni mentre un profumo d’incenso si spandeva per l’appartamento. Mi domandavo quale dei due fosse il monaco che aveva assistito Pietro nei suoi ultimi giorni. Mi proposi di domandare loro a quale ordine appartenessero, ma non ne ebbi l’occasione. L’appartamento cominciava a essere affollato: erano arrivati Marta e Coito. La prima volle entrare immediatamente a vedere Pietro per l’ultima volta e abbracciò Maria e Susanna che avevano ripreso a singhiozzare sommessamente. Coito si era messo a sedere lontano da me, in equilibrio su una sedia dall’altra parte della stanza. Apparentemente immerso nei pensieri, ostentava di ignorare la mia presenza. Entrò poi un signore anziano, sulla settantina, alto, ancora ben diritto nell’abito blu doppiopetto. Era lo zio di Pietro, un fratello della madre, un imprenditore edile che, come mi disse poi Michele, era molto affezionato al nipote e aveva cercato in tutti i modi di salvarlo dalla bancarotta. Era ormai l’unico che faceva caso al morto. Stava in piedi accanto al letto dove, alla luce dei ceri, splendeva il bianco viso di Pietro, cui il tremore delle fiamme donava una vita effimera. Tutti ormai parlavano tra loro a bassa voce e il brusio si era fatto imponente. Dal mio angolo d’osservazione potevo vedere il nostro direttore che si intratteneva a lungo con Susanna.
La stanchezza mi aveva rotto le gambe. Molti erano tornati nel salotto, che rimaneva al buio. Qualcuno accese perfino la sigaretta. Uscii nel pianerottolo delle scale, la notte era stellata, mai avevo visto le stelle così da vicino. M’incamminai verso casa: sentivo addosso gli occhi di Pietro, il suo sguardo febbricitante dell’ultima volta che lo vidi da vivo.
L’aria della sera era fresca, se non fossi stato così stanco avrei fatto una passeggiata, ma per quel giorno avevo camminato abbastanza.
Via Ariosto era a quell’ora insolitamente deserta. Il negozio di Sara era ancora illuminato, bussai sommessamente, nessuno rispose. Voltando l’angolo andai alla finestra che dava sul vialetto di fianco e, sollevandomi in punta di piedi, spiai dai vetri: sdraiate sopra un tappeto, ai piedi di una scrivania a fagiolo, Sara e Luisa facevano l’amore. I loro corpi nudi, illuminati appena dalla fioca luce di una lampada da tavolo, s’intrecciavano in morbide, disperate carezze. In quella notte ognuno faceva di tutto per sentirsi vivo .

 

 

*

Tamerisco XXIII parte seconda

XXIII

 

Passeggiata senza meta

 

Giunsi vagabondando in Piazza Duomo. Il sole  divenuto splendido  dipingeva di rosa il travertino della chiesa. Lame infuocate attraversavano oblique la piazza andando a cancellare le ombre dei rosoni, delle trifore, delle bocche dei leoni, dei draghi, dei mostri primordiali ghignanti accanto ai cornicioni del tetto, in cima alle lesene. Entrai nel fresco umido delle navate. La musica dell’organo vibrava nell’aria cupa e solenne. La chiesa era vuota e buia. Solo le candele spandevano una luce fioca che pareva tremare in consonanza con le note dell’organo. Mi fermai nella cappella in cui ci aveva condotto Guido. Non so per quanto tempo, forse un quarto d’ora, forse mezzora, rimasi a contemplare la deposizione, l’enigma della quercia sullo sfondo, la croce ai suoi piedi riversa, dove era disteso il corpo del Cristo crocefisso. Mi aveva condotto in quel posto la domanda che ogni tanto mi ronzava in testa, come la mosca di Parise, mi domandavo se il fratello di Guido avesse mai visto quel dipinto, se non fosse stata quell’opera a ispirare il suo gesto folle. A volte l’arte esalta l’animo a tal punto da non essere più capaci di distinguere la finzione dalla realtà. Così accadeva nei tempi passati che all’uscita di teatro gli spettatori bastonassero l’attore che aveva interpretato magistralmente un personaggio odioso. Così tanti giovani languiscono nel pessimismo dei versi di Leopardi o nel fuoco di Holderlin, pronti a buttarsi nella bocca del vulcano per un oscuro e impreciso desiderio d’infinito.

 L’organista, un omino vestito di nero, dalla capigliatura liscia e bianca sopra un viso sottile e ispirato, provava “La Passione” di Peronesi. Non avevo avuto il coraggio di parlare di quel quadro con nessuno, nemmeno con Adelina. Quella scena mi commuoveva, mi poneva a disagio, pareva emanare un’energia, un maleficio antico che solo ai nostri tempi aveva trovato il suo bersaglio, aveva assolto il compito per cui era stata dipinta. Essa aveva carpito l’anima di Giovanni, l’aveva privata della libertà. Dove è la colpa, la responsabilità? Forse fu Guido a mostrare al fratello il dipinto, e per questo motivo si macerava nel rimorso.

Formulavo pressappoco questi pensieri, quando sentii dietro di me un fruscio, uno scalpiccio di passi. Mi voltai appena in tempo per scorgere Guido, mi parve proprio lui, ma se dovessi deporre in tribunale non potrei affermarlo con certezza, che attraversava la navata centrale ed usciva in tutta fretta dalla porta laterale della Chiesa.

I banchi erano vuoti, se non fosse stato per una vecchina ferma dinanzi ai ceri votivi di una Madonna regalmente incoronata, vestita di orpelli dorati, trafitta da tante spade, come quelle addolorate che si ammirano nelle chiese spagnole; le navate erano deserte e la musica dell’organo vi si spandeva lentamente, dolcemente sonora a occupare ogni anfratto, ogni angolo buio, ogni confessionale spento dietro le grate metalliche antiche, dietro le tende polverose.

Ritornato sulla piazza, il sole era scomparso, così pure le rondini, i piccioni, i cani e ogni sorta d’animali che la popolavano in quei pomeriggi di Agosto. Radi passanti attraversavano indossando i primi maglioncini di cotone. Si era alzata una fitta nebbia che dava una sensazione di freddo, attaccandosi alla pelle delle braccia nude, ancora intrise di sudore, perché il termometro si manteneva intorno ai 28°.

Sul viale Atena il traffico delle macchine era rallentato. Le case e i lampioni parevano venirmi incontro animati da quel fumo grigio, come spiriti di un aldilà pagano.

Dalla torre campanaria di Santa Lucia si staccò un rintocco di campana. 

Mi ricordava una Pasqua di tanti anni fa: c’era la stessa nebbia ed io bambino camminavo per mano con mio padre. “Cristo poteva essere morto in un giorno come quello” pensai, e mi tornò in mente la quercia, la Deposizione e Guido che fuggiva da chiesa.

“Forse sarò padre; presto, chissà, come mio padre, camminerò con un bambino per mano” Accelerai il passo rabbrividendo nell’aria umida. Incrociavo uomini e donne dalle facce stranite, chiuse nei pensieri; gli occhi, come fari sbiaditi, che non scrutavano più lontano  del naso, li facevano sembrare irreali. I loro passi parevano meri esercizi muscolari di sollevare e lasciar cadere i piedi, avendo perso lo scopo di andare, di arrivare da qualche parte. La nebbia si era fatta più fitta, a stento si leggevano le insegne dei negozi che nel grigiore avevano dismesso l’abito familiare e rassicurante delle mie passeggiate solitarie per il centro.

A un certo punto non capivo più dove mi trovassi.

“Da Marco” era l’insegna a caratteri d’oro di una trattoria dove alcuni giorni prima ero stato con Michele e Luigi. Era un posticino angusto, di pochi tavoli. Una tovaglia di plastica copriva il desco e le stoviglie erano di una semplicità domestica, a buon prezzo, come di una famiglia dove non è il caso di comprarne di costose, perché ci sono bambini e si sa che presto andranno in frantumi. Marco era un distinto signore vicino alla settantina, alto, un poco curvo, i capelli brizzolati accuratamente tirati all’indietro. Nei gesti lenti e precisi, nell’espressione e nella profondità della voce conservava la signorilità dei grandi alberghi di montagna, dei ristoranti importanti e alla moda. Raccontava che la comparsa di problemi cardiaci lo aveva costretto a quell’attività più modesta e tranquilla dove riversava tutta l’esperienza e il talento di ristoratore. Sebbene il menù fosse limitato a uno o due piatti, ogni giorno era diverso, e le pietanze erano veramente prelibate. Ci aveva condotto una sera Luigi, che pareva essere un assiduo frequentatore, addirittura un amico intimo di Marco. Bevemmo dell’ottimo vino rosso. Michele raccontò qualche aneddoto del suo lavoro: di un ladro che attraversò l’Europa con un  tir rubato, passando quattro frontiere. Fu scoperto a causa di un incidente banale: a un autogrill, facendo manovra, urtò una colonnina di benzina. Condannato a sei anni di reclusione, passava il tempo tranquillo e sereno costruendo antichi galeoni spagnoli di cui Michele gli aveva portato in regalo un libro illustrato. Luigi raccontò dei suoi viaggi nei paesi esotici: fu in uno di questi che conobbe Mario Cabrini, proprietario non solo del villaggio turistico, ma di tutta l’isola. Raccontò che un fortunale, uno di quei tornado che infestano il mare caraibico, distrusse l’enorme flotta di pescherecci che ogni giorno procurava il pesce che era poi congelato nei suoi stabilimenti; quel giorno era cominciato il declino dei Cabrini.

Michele gli domandò com’era possibile che informazioni delicate come la condizione patrimoniale di un individuo o di una società, potessero uscire dalla banca.

“Pochi alti funzionari possono accedere a certi dati riservati. Probabilmente qualcuno di questi, forse amico o parente di Maria… I Pergamena sono una famiglia molto grande ed hanno parenti nelle più alte sfere del mondo bancario.”

“Non si tratta semplicemente d’indiscrezioni, di parole, ribatté Tango, ma di documenti: carta, nero su bianco” Rammento questa precisa conversazione che mi confermò nell’idea che Tango fosse convinto della responsabilità di Cabrini in quello che accadeva a Pietro e Susanna. Da parte mia, dopo le parole di Marta, della cui sincerità non potevo dubitare, avevo accantonato ogni sospetto e in realtà non pensavo più a quella faccenda.

Entrai da Marco, mi era venuta voglia d’un bicchiere del vino rosso, asciutto e buono che bevemmo quella sera. La cucina era chiusa e il locale a quell’ora era frequentato da pochissimi abitudinari. A un angolo della sala, nel suo solito abito di grisaglia grigia, con un’espressione abbacchiata in viso, era seduto zio Cosimo. Come mi vide, mi invitò con un cenno del capo al suo tavolo. Ordinai un bicchiere di vino rosso per due, ma Cosimo rifiutò indicando il bicchiere d’aranciata che aveva appena svuotato: “ Non posso, credimi, ho il fegato a pezzi. Ho un dolore proprio qua sotto le costole” E si palpava l’addome al lato destro. 

“ Non ne posso più, non ho tregua. Tanti muoiono di un brutto male. Se domani mi sveglio giallo come un limone è segno che è giunto il mio turno. Che arrivi presto però!” Gli domandai se era stato dal notaio 

“ E’ chiuso di sabato. Mah, che si arrangino quei ragazzi! Ho fatto la mia parte. Mio padre, che ha combattuto due guerre mondiali e ha fatto perfino la Campagna in Africa, diceva che la guerra l’aveva combattuta anche per me:

 – Tu non devi andare in guerra perché l’ho fatta io al posto tuo -

Si sbagliava, eccome se si sbagliava! Nessuno può sottrarsi alla propria guerra, che non è fatta solo di bombe e cannoni, più spesso è una guerra subdola, tutti i giorni sotto battuta. Neppure i suicidi riescono a sottrarsi alla loro guerra” 

“Pensate al suicidio, siete depresso?” Gli domandai. 

“Proprio per niente! Se potessi, se stessi bene, andrei a godermi la vita al sole, con tante belle ragazze, come fanno i nababbi, ma in queste condizioni, dove vuoi che vada? E tu dove stai andando?” 

“ Da nessuna parte. Ero uscito per fare due passi, poi s’è alzata la nebbia. Mi sono trovato davanti a questa porta e mi è venuta voglia d’un bicchiere di vino.” Veramente non sapevo dove fossi diretto. Ero uscito da casa depresso, con una sensazione di sciagura imminente. La nebbia mi aveva disorientato: a momenti non riconoscevo i luoghi dove mi trovavo. La memoria, con flash di luce e di buio, mi giocava degli strani scherzi. Pensavo che così dovesse accadere a chi era affetto da demenza progressiva. Forse alla fine di quel itinerario mi sarei trovato nel buio completo: quel buio abissale della scatola cranica in cui vivono le cellule cerebrali come bianchi, ciechi polipi dai lunghissimi tentacoli.

Sarà stato l’effetto del vino, mi venne una smania di andare; uscii dalla trattoria all’aria umida e grigia della strada e ripresi il mio cammino inquieto.





 

*

Tamerisco XXII seconda parte

XXII

 

Discorsi sulla libertà



Quel pomeriggio squillò il cellulare, tre brevi squilli secchi. Credevo che fosse Adelina, invece comparve un numero sconosciuto.

Mi vestii rapidamente e uscii. Avevo un presentimento: era uno di quei momenti di lucidità in cui il cervello, o lo spirito se preferite, ha la capacità di decifrare segni impercettibili, di collegare eventi insignificanti, di cogliere sensazioni sottili, tanto sottili da essere trasparenti come fantasmi. Tutto viene decodificato, letto, tradotto in pochi pensieri improbabili, mediante i quali tuttavia raggiungiamo all’istante l’assoluta certezza. M’incamminai diritto alla stazione. Sul marciapiede, che in quel tratto era stretto e sconnesso e non lasciava spazio a più di una persona, vidi avanzare verso di me una coppia: lei camminava sul ciglio, salendo e scendendo da esso, per lasciare spazio a lui che parlava gesticolando animatamente. Quando mi furono vicino non poterono fare a meno di vedermi, dato che in tre su quel marciapiede non si poteva passare. Mi veniva da ridere: mi pareva che la situazione potesse essere imbarazzante, ma il piacere di incontrarli era tanto maggiore in quanto ero uscito da casa con un presentimento di disgrazia. Quando si accorsero di me, Lucia salutò arrossendo leggermente e abbozzando un sorriso appena percettibile tra le labbra contratte nello sforzo di seguire i ragionamenti sempre complessi di Michele.Tango sollevò gli occhi da terra e parve stupito di vedermi.

“Un detective che si rispetti non deve meravigliarsi mai di niente, deve stare sempre in guardia, guardare lontano!” dissi dandogli una pacca sulla spalla che lui vigorosamente restituì. Andavano al palazzo delle mostre ad assistere alla conferenza di un criminologo illustre. Michele portava la cravatta, cosa mai accaduta da quando lo conoscevo. Lucia indossava un vestitino bianco che faceva risaltare le forme vigorose del corpo e si perdeva nella carnagione bianchissima delle braccia e del viso. Mi domandarono dove fossi diretto e se non volessi unirmi a loro. Risposi che dovevo trovare un amico, che anzi ero in ritardo e dovevo affrettarmi, così li salutai e proseguii per la mia strada. In realtà non sapevo dove fossi diretto. Sentivo una corda di violino tendersi nel cervello. “Se si spezza muoio, forse sta per scoppiare una vena dentro la testa” pensai. Deviai per Via Petrarca e mi fermai all’Aurora. Non sapendo cosa prendere, ordinai un caffè decaffeinato. Vicino al banco tre ragazzi, dovevano essere studenti del liceo, discutevano animatamente. Quello che sembrava il più anziano, un primo della classe, il tipo dell’intellettuale accidioso che vorrebbe sentenziare su tutto e su tutti, parlava con voce stridula, scandendo le parole a sottolineare l’essenzialità e la necessità di ognuna di esse: “ La libertà è un valore politico. E’ la polis, la società, che procura la libertà ai suoi membri. Certamente dovete ammettere che la libertà di un Ateniese non è la stessa di quella di uno Spartano o di un Tebano. Tuttavia nessuno dei tre penserà di non essere libero! Sulla porta del campo di sterminio di Auschwitz, mi pare, era scritto:- Il lavoro ci rende liberi –  per sfregio, s’intende. Tuttavia quanti capitalisti vorrebbero scriverlo a grandi lettere sulla porta delle loro aziende, quante multinazionali. Eppure l’oggetto di questa proposizione cambia secondo le situazioni: nei paesi sottosviluppati il lavoro degli schiavi, affamati, pagati con un pugno di riso, rende liberi i padroni di fare soldi, quanti ne vogliono. Da noi, il lavoro degli immigrati, su cui pure sputiamo addosso, rende liberi gli autoctoni, gli indigeni, i civili, dai lavori più umili e degradanti. Forse, con un’enorme dose di buonismo, si può affermare che nella nostra civiltà il lavoro rende liberi i padroni e gli operai dal bisogno. Ma con questi salari da sopravvivenza, per quanto tempo ancora potremo andare avanti  a ripetere un simile luogo comune falso e ipocrita?” Si era accalorato e la voce era divenuta tagliente mentre menava la mano per l’aria, come se davanti a lui fosse radunata una folla di spettatori consenzienti, e non i due compagni che neppure lo seguivano nei ragionamenti, impazienti com’erano di dire la loro. L’orologio a cucù del signor Alfonso si era messo a suonare. Il suo canto sovrastava ogni voce imponendo una sospensione. L’uccelletto verde si dondolava sulle zampe come volesse spiccare il volo e non finiva più di mandare il suo verso canoro. Evidentemente il meccanismo si era inceppato e le dame e i cavalieri, appena affacciati dalla porta del castello, attendevano il loro turno di danza. Alfonso, che era il padrone dell’Aurora, si arrampicò su una sedia e sospinse delicatamente con le dita il volatile dentro la finestrella, così la musica del carillon poté cominciare e si diede il via alle danze delle coppie che volteggiavano intorno a se stesse e a un centro ideale, posto all’interno dell’orologio.

Ogni estate il signor Alfonso portava un trofeo dai suoi viaggi. Questo che pendeva sopra la vetrina dei liquori era un monumentale orologio della Baviera che male si accompagnava con l’eleganza del locale. Tuttavia era in quel luogo da tanto tempo che i clienti abituali, quando chiedevano l’ora, domandavano il tempo del signor Alfonso: un tempo assoluto, che sembrava scorrere indipendentemente dagli altri orologi.

Il ragazzo che era un po’ più basso del primo, con spalle larghe e robuste, una mascella volitiva in un viso perbene, come ce ne sono tanti nell’Azione Cattolica, disse che la libertà è un valore spirituale, individuale, indipendente dalle situazioni contingenti, politiche o storiche. Si esprimeva con voce calma e gradevole. Si capiva che era abituato ai dibattiti in pubblico. Diceva che era responsabilità dell’individuo privarsi della libertà, divenire servo. Pure un galeotto in prigione poteva essere libero, così pure uno schiavo. E quando questi citò lo schiavo di San Paolo, il ragazzo che aveva parlato prima, che dava sempre più segni di insofferenza, sbottò con rabbia: “Così tu giustifichi la tirannia. Nessuno ti ruba la libertà, quindi non esistono i tiranni, non esiste niente, un bel niente per te!” e gli andò di traverso la saliva e cominciò a tossire e sputacchiare. Il barista mi diede un’occhiata di complice disapprovazione. Il terzo ragazzo, vestito di nero, pallido come raramente se ne vede nei mesi d’estate, approfittò di quella pausa forzata per dire la sua. In realtà la sua opinione non sembrava interessare minimamente ad alcuno. Disse che tutti siamo schiavi della Felicità, con l’effe maiuscola precisò, o meglio del desiderio di essa, che si mostra a tratti e poi scompare e i suoi bagliori sono come il luccichio di certe esche per i grossi pesci. E noi altri abbocchiamo all’amo. La Felicità ci fa suoi schiavi e lentamente ci divora  privandoci della dignità di uomini e perfino dell’ intelletto. Noi stupidamente consenzienti ci inginocchiamo dinanzi a lei. Come si spiegherebbe infatti che per quelle sordidezze che riempiono le vetrine dei negozi e dei supermercati, per quei falsi mondi artificiali, accettiamo di affamare e di uccidere i nostri simili che vivono in paesi non tanto lontani, a poche ore d’aereo? Facendo finta di non sapere, di non vedere…” Evidentemente il ragazzo faceva parte di quei gruppi di pallidi malinconici per i quali la felicità e l’allegria sono una colpa, e si proibiscono di ridere e gioire, godendo comunque del piacere che procura la tristezza e l’autocommiserazione. Avevo sorseggiato il caffè lentamente, curioso di ascoltare i loro discorsi: gli stessi discorsi che io facevo con i compagni di università quando ero giovane. E quell’espressione “Quando ero giovane”, pensata all’età di 24 anni, fu come se il tempo mi rovesciasse addosso tutta la sabbia della sua clessidra. Incolpai il lavoro in biblioteca troppo tristemente routinario. Me ne andai infine portandomi dentro la sua stupida malinconia.






 



*

Tamerisco XXI seconda parte

XXI

 

Una passeggiata tra i rifiuti



Il ferragosto era passato e non pioveva da parecchio tempo. Dopo gli acquazzoni di Luglio, due o tre scrosci troppo repentini, troppo violenti perché la terra potesse abbeverarsi, non era più caduta una goccia d’acqua.  

Dalla pianura giungevano i lamenti dei contadini: se fosse continuato così sarebbe stata la rovina, non ci sarebbe stato raccolto e la semina sarebbe andata male, una specie di carestia d’altri tempi. I viticultori in collina annunziavano per quell’anno un vino forte e buono come mai si era visto, perché la scarsità d’acqua produceva uve dolci e zuccherine, se pure in minore quantità. Ma si sapeva come sarebbe andata a finire poi: in Autunno improvvisi, violenti temporali avrebbero inondato la campagna, distruggendo i raccolti e i filari delle vigne, si sarebbe proclamato lo stato di calamità naturale e il Governo avrebbe distribuito un po’ di soldini, quel tanto da comprarsi un trattorino nuovo, oppure rifare l’intonaco della casa o il pozzo nel cortile. In città quel secco produceva il disagio di qualche doccia in meno e del filo d’acqua al rubinetto nel tardo pomeriggio. Poi le piogge torrenziali avrebbero allagato le strade. La rete fognaria avrebbe tracimato le sue acque bianche e schiumose, maleodoranti come le polemiche d’ogni autunno sul giornale.

Quelle giornate di fine Agosto erano come rose gialle troppo mature, già appassite nelle prime ore del mattino.

Andavamo lungo l’argine del fiume, dove il letto fa un’ampia ansa sfiorando le mura quattrocentesche del monastero di Santa Caterina: traditur che il signore locale avesse costruito quel convento, che aveva più l’aspetto di una fortezza che di un luogo sacro, per rinchiudervi la figlia incinta e disonorata da un cortigiano, non nobile abbastanza da poter aspirare alla mano della fanciulla. Ora il luogo era mantenuto da un manipolo di suorine provenienti dall’Asia che l’avevano ingentilito con gli ornamenti della loro civiltà profana. Guido era taciturno, camminava al mio fianco o sopravvanzandomi di qualche passo. L’aria era mite e il paesaggio troppo dolce perché mi ponessi dei problemi. Seguivo con gli occhi il letto del fiume in secca che si curvava con grazia e s’imboscava in folti di noccioli e arbusti sempreverdi, per riemergere in lande di fango madreperlaceo e duro che specchiava la luce sbiadita del mattino. Adelina era andata a trovare i genitori: da dieci giorni aveva un preoccupante ritardo delle mestruazioni. Avevamo deciso che, quando ci fosse stata la certezza dell'inseminazione, sarebbe venuta ad abitare da me. Era tanto tenera e indifesa in quei giorni, non domandava neppure di fare l’amore ed io godevo un lungo periodo di astinenza sessuale. A volte il pensiero di diventare padre mi causava il panico. La osservavo camminare per la sala della biblioteca, o meglio guardavo la sua pancia dove forse si svolgeva quel misterioso processo che porta alla formazione di un essere vivente. Le cellule si mettevano in fila, soldatini alla parata militare, ciascuna con un proprio compito. La vita iniziava con un movimento ordinato. Sarebbe bastata una turbativa, anche minima, nella loro vita operosa e il processo si sarebbe interrotto, il progetto di un uomo sarebbe abortito nel caos. A parlare di progetto, tuttavia, avremmo dovuto ammettere l’esistenza di un progettista, un’entità superiore e mi pareva impossibile che costui avesse definito in ogni minimo particolare l’esistenza di un numero infinito di esseri, curandosi di ciascuno di essi. Pensavo che avesse piuttosto stabilito un copione di massima, come una recita a soggetto in cui ognuno entrasse in scena al momento giusto, e le battute fossero create a seconda della necessità e dell’estro dell’attore.

A quei tempi ero propenso a credere che ciascuno di noi fosse il frutto di innumerevoli tentativi, che il caso fosse l’oscuro signore che domina la nostra esistenza fin dal nascere. Queste considerazioni ponevano altre domande di cui non ultima era da dove derivava la forza che portava il maschio a deporre il seme nella pancia della femmina, e forse un domani non tanto lontano a deporlo nell’alambicco di una moderna alchimia. Da dove veniva l’oscuro magnetismo che portava la donna tra le braccia dell’uomo a mischiare gli umori, a condividere il letto, i pasti, lo spazzolino da denti. A quel punto mi coglieva un crampo allo stomaco, come se dentro la pancia scalciasse un bambino come quello che ero stato io, che si chiudeva nella stanza da letto al buio, stanco delle provocazioni degli altri bambini perché non amava giocare al calcio, stanco di perdere alla corsa e alle prove di forza. Giuravo di rimanere in quella stanza, sdraiato sul letto, al buio, per sempre solo. Mio padre diceva che nella vita non sarei arrivato da nessuna parte. .   

 Del cortigiano non si sapeva niente: poche righe nelle cronache della città, niente più di un pettegolezzo: la copula sarebbe avvenuta durante una festa campestre, forse una battuta di caccia: amore all’aria aperta, guardando le nuvole passare, il passero sgambettare sul ramo, la mantide religiosa più verde dell’erba e delle foglie consumare il suo pasto maritale. Dopo, dell’uomo si perse ogni traccia. Forse, chi può sapere, imprigionato nelle segrete del palazzo signorile, bruciò i suoi brevi giorni in compagnia di topi e  ragni, oppure fu ucciso mediante veleno o pugnale e seppellito nel bosco o dato in pasto ai suini; oppure, preferibilmente per lui, fuggito in paesi lontani dove nessuno gli poneva domande, si era fatto una nuova vita, un commercio, una famiglia. Della ragazza si sa che visse nel convento dove fece rapidamente carriera divenendo madre badessa. Allora il convento godeva di grande prosperità essendovi più di cinquanta suore in regime di semi-clausura. Della creatura non si sa nulla. Probabilmente fu un maschio, ammettendo che mai venne alla luce. Forse fu affidato a una coppia di contadini sterili, com’era in uso a quei tempi, oppure, allevato in convento, fu avviato alla solida professione di giardiniere o stalliere. Si sa che dei bastardini non importa niente a nessuno.      

“Sei stanco? Arriviamo alla discarica” disse Guido distogliendomi dai pensieri. 

La discarica era una montagna grigia che si trovava dopo l’ampia curva che il fiume faceva contornando una collinetta rocciosa. Ai suoi piedi una coppia di barboni contendeva il campo a un cane meticcio figlio di meticci, bastardo da infinite generazioni. Chissà se pure i cani hanno avuto un primo, un’epoca in cui tutti erano puri, come noi abbiamo avuto Adamo, che poi forse non era un uomo, ma un popolo, una civiltà di esseri felici che non conoscevano il dolore e la morte. La donna minacciava il cane brandendo un grosso sasso. L’animale si allontanava per tornare quatto quatto appena vedeva un oggetto di suo interesse. La donna riprendeva a urlare, finché l’uomo, alto e smilzo con barba grigia e incolta, che aveva rubato i vestiti a uno spaventapasseri, si spazientì e le intimò, lui pure urlando, di riprendere la ricerca. Spostavano cerate bisunte e lacere disseppellendo scheletri di carrozzine, frigoriferi rugginosi, sedie e divani dismessi.

“La prossima settimana lascio la biblioteca. Finalmente!” disse Guido

“Davvero! Mi dispiace, ma ho piacere per te. Così potrai fare quello che ti interessa. Entri subito in servizio al giornale?”.

“Credo di si. Dovrò fare un periodo di ambientamento. Sono d’accordo col direttore che mi interesserò d’arte, in particolare del patrimonio artistico del territorio. Prima mi vuol fare cimentare in tutti i settori, perché dice che l’arte va legata alla vita quotidiana della gente, allo sport, alla politica. Ha idee tutte sue…”.

“Non ha tutti i torti, a pensarci bene. L’hai già detto ad Albertini?”

“No, e non voglio parlarne con lui. Da tempo mi ignora e naturalmente tutti si adeguano. Nessuno mi rivolge più la parola, tranne te e Adelina.” Camminavamo ai piedi della montagna di rifiuti che per assenza di vento emanava un fetore uniforme, come se tutta l’aria del pianeta fosse ammorbata da quell’ammasso maleodorante e putrido. “Spero che continueremo a vederci. Mi dispiacerebbe rinunciare alle nostre passeggiate in campagna” Guido si era fermato pensieroso e spostava col piede una pila di cartoni dipinti da un dilettante maldestro che buttandoli via aveva  finalmente riconosciuto di non essere in possesso del talento necessario.

“I rifiuti! Sai cosa vuole dire essere dei rifiuti, essere rifiutati? Pochi lo sanno veramente, eppure gran parte dell’arte e della letteratura non parla d’altro”

“Domandalo a quei barboni” Dissi indicando il gruppetto riottoso che razzolava nella spazzatura a cento metri da noi.

“Quelli non sanno, non più del cane che è nato così, perché i genitori hanno vissuto nei rifiuti e così i loro antenati” Disse Guido come se avesse letto i miei pensieri di prima. 

“ Vedi questo bambolotto” spostava con la punta del piede il busto rosa smembrato di una grossa bambola dalle dimensioni di un neonato. “ Una bambina l’ha posseduto, l’ha stretto a sé immaginando per gioco che fosse il suo bambino o il suo uomo. Poi, quando s’è stancata, l’ha smembrato, sempre per gioco, e l’ha buttato nella spazzatura. Oppure l’ha rifiutato, perché non era bello come avrebbe desiderato, e l’ha buttato dalla finestra, sulla strada. Forse un cane di notte o un’automobile che passava l’ha smembrato. Immagina se fosse di carne e ossa, con lo stesso bisogno d’amore di un essere umano. Dimmi che cosa avrebbe provato!”

“Non saprei, dimmelo tu!” Mi guardava con gli occhi lucidi, febbricitanti: “Solitudine, una solitudine infinita. E dentro il tormento dell’amore e dell’odio. E ci sguazza in questo crogiuolo bollente di dolore, perché sente che il giorno in cui esso si inaridisce, che l’amore e l’odio svaniscono, non ci sarà più niente. Sarà morto dentro.”

Pensai che esagerava, che recitava. Guido era tanto immerso nelle sue problematiche d’arte e di letteratura da non distinguere più la finzione dalla realtà. Per questo mi divertivo in sua compagnia. Non potevo immaginare in quel momento quanto mi sbagliassi.





 

 

*

Tamerisco XX parte seconda

XX

 

Una lotteria per Guido



Quel sabato io e Adelina fummo invitati a cena da Parise. Fummo accolti dalla moglie, Giuliana, in un salottino stile Luigi Filippo, illuminato da lampade simili a incensieri pendenti dal soffitto per mezzo di grosse catene, forse d’argento. Alle pareti ricoperte da una tappezzeria a fiori erano appesi il diploma di laurea di Parise e numerosi attestati di premi vinti in concorsi letterari. Tenevo in mano una bottiglia di prosecco ancora appannata dal frigorifero. Leggevo quegli attestati sorpreso; alcuni di essi erano di concorsi di poesia molto importanti. Sapevo che Parise era un valido scrittore ma non avrei mai immaginato fino a quel punto. 

Restammo seduti sul divano a conversare per circa un quarto d’ora aspettando che Parise facesse ritorno dallo stadio, come ci informò con aria seccata la signora. Adelina aveva preso in simpatia la donna e conversava con lei animatamente. Io la osservavo: dai segni che il marito portava sul collo, avevo immaginato una gatta selvatica dal pelo arruffato e le unghie lunghe, pronte a graffiare. Invece mi si presentava davanti una donnina dal viso dolce incorniciato da boccoli biondi, il corpo piccolo ma ben proporzionato, la voce dolcemente sonora. Osservavo soprattutto le mani, quelle mani che avevo immaginato fornite di artigli, che erano invece piccole, bianchissime con unghie corte, ben curate. Niente che potesse far pensare alle zampe di un felino. Mentre lei parlava, osservavo la bocca dalle labbra rosa dietro le quali si nascondevano le palette degli incisivi e i canini aguzzi e bianchissimi, causa degli orologi stampati sul viso di Parise, come diceva Adelina.

Cenammo in cucina attorno a un tavolo rotondo. Era invitato pure Luigi che si presentò accompagnato da una bellissima ragazza la quale non aveva occhi che per lui. Ma Luigi, per sua disgrazia, non era toccato da quegli sguardi carichi di desiderio. Parise disse che avrebbe invitato volentieri Guido per parlare con lui di arte. Provava, disse, una grande stima per Guido e aveva letto molti dei suoi articoli sui giornali di provincia, ma l’umore di Guido in quei giorni si era deteriorato ed era divenuto inavvicinabile.

“Ho paura che l’infatuazione per Susanna lo stia trascinando nel baratro. Non riesco a immaginare cosa potremmo fare per lui”. 

“Potremmo fare una lotteria e con il ricavo lo mandiamo in America. In Brasile ci sono bellissime creole che non vanno per il sottile in fatto di uomini”. Tutti trovarono la battuta di Giuliana divertente; io rimasi stupito dalla stupidità di quella donna. Forse sarebbe stato meglio se fosse stata una leonessa, invece mi appariva or una scimmietta da circo equestre.

Si parlò molto di letteratura. Parise era un appassionato conoscitore dei tragici greci. Parlava di Dike, Ares, del Fato come fossero presenti nel nostro mondo e non personaggi del mito. Adelina seguiva con attenzione annuendo ogni tanto col capo.




*

Tamerisco XIX parte seconda

XIX

 

una fiaba in biblioteca




“Dio non ha creato la donna dalla testa dell’uomo perché lo dominasse, né dai suoi piedi, perché ne fosse la schiava, ma dal fianco di lui, perché rimanesse vicino al suo cuore.”

Così recitava Albertini seduto sulla Savonarola, aspirando profondamente dal sigaro toscano. Era il tredici d’Agosto; tra meno di una settimana la biblioteca avrebbe riaperto i battenti. La consueta folla di lettori avrebbe popolato le sale con un brusio discreto, con fruscio di fogli, con schiocchi di libri chiusi, di poltroncine spostate sul pavimento di legno. Mi spiegavano i più anziani che il direttore era sempre di buonumore in quella ricorrenza. 

Noi avevamo quasi terminato il lavoro di catalogazione e riordino e gli stavamo attorno in rispettoso ascolto.

“Questo passo del Talmud dimostra come già in tempi antichissimi si ponesse il problema di chi nella coppia debba comandare. Anche allora non era per niente scontato che comandasse l’uomo. In realtà, ve lo dice uno che ha una lunga esperienza: l’uomo comanda e la donna non ubbidisce mai. Ve lo dico io che vanto più di trent’anni di matrimonio infelice.

Quando invece comanda la donna, l’uomo è ubbidiente come un soldatino valoroso e non si azzarda a fare la minima protesta!” I maschi ridevano mentre le donne ascoltavano con aria perplessa.

“Scherzi a parte, è proprio vero che l’uomo deve portare la propria donna vicino al cuore, intendendo questo come la fonte dei buoni sentimenti. Se non portate la vostra donna sul cuore, la vita diverrà un Eden perduto: sarete scacciati dal Paradiso Terrestre, sarete infelici, senza pace, almeno fino a che non vi sarete divisi da lei, fin quando non sarete tornati in quella solitudine per sottrarvi alla quale il Creatore vi ha dato una compagna. Che ne pensa Cretini, lei che è Ebreo e il talmud dovrebbe conoscerlo?” Risposi che non conoscevo il Talmud, che avevo letto a stento qualche passo della Bibbia e  non mi ero mai interessato di testi sacri. In realtà mi ero distratto a osservare Guido il cui viso paonazzo pareva in preda a una congestione: gli occhi lucidi fino alle lacrime, le labbra tremanti ripetevano parole incomprensibili. Quando Albertini riprese la sua omelia, mi avvicinai a lui e, afferrandolo per un braccio, gli domandai bisbigliando se stesse male. 

“Non è niente, grazie, stamattina ho un po’ d’influenza, forse la febbre” 

Tutti erano così servilmente interessati alle parole del Direttore che non si accorsero di nulla. In verità Albertini era un ottimo oratore: mischiando discorsi seri con facezie e stupidaggini d’ogni genere sapeva monopolizzare l’attenzione degli ascoltatori anche per un tempo lunghissimo.

“Non c’è nulla di più triste che vivere soli. La solitudine è diabolica. Intendo dire che è del Diavolo, che divide, inganna, mente!

L’uomo e la donna sono fatti per unirsi, procreare e vivere insieme.

L’unione è divina, la divisione è diabolica. Non c’è niente che ci possa rendere felici se non il tempo trascorso con la nostra donna, e lo sa bene chi la donna l’ha avuta e gli è stata tolta. Vero Sanguineti? Se lei fosse un po’ meno timido potrebbe testimoniare ora in favore di questa mia tesi.” Sanguineti era uno dei più vecchi in biblioteca, aveva quasi cinquant'anni ed era rimasto vedovo alcuni anni fa, ma si era risposato dopo neppure tre mesi dalla scomparsa della moglie, e molti sostenevano che quella donna l’aveva già da molto tempo prima, anche se nessuno se n’era accorto.

Sentitosi chiamato in causa, Sanguineti sorrise imbarazzato e dopo una lunga pausa in cui il Direttore lo fissava sadicamente tacendo: “ Certamente, balbettò, sicuro! Non c’è niente di peggio che rimanere soli!” Tutti, vedendo l’espressione del viso di Albertini che pareva dire - Altroché se ti sei consolato presto! - o forse – per te è stata proprio una manna dal cielo – considerando che la prima moglie era una donna acida e brutta mentre la seconda era molto bella e dolce, tutti, dicevo, scoppiarono a ridere. Tutti tranne Guido che aveva il viso rigato da pesanti lacrime.

“E lei Parise cosa ne pensa: chi deve comandare in casa? Ci dia un suo parere, lei che è un uomo colto, un uomo di lettere!”

Parise era un bell’uomo sui trent’anni dotato del dono dello scrivere, sebbene non avesse mai pubblicato. Si limitava a comporre versi che donava a questo o quell’ amico, a raccontare una storia, quando era in compagnia, soprattutto fiabe se erano presenti i bambini.  Tutti lo stavano ad ascoltare rapiti. Ricordo una cena in campagna con i colleghi. C’erano Elena e Alberto, essi pure dipendenti della biblioteca, con i loro figli, uno di quattro e l’altro di sei anni. Siccome Elena si lamentava che il più grandicello non voleva portare l’apparecchio ai denti, Parise si mise a raccontare rivolto ai due piccoli: 

“Pure a me, da bambino, fu messo l’apparecchio, ma non in bocca, bensì in testa, perché non ero capace di parlare. Così mi fu aperta la testa e cominciai piano piano a parlare normalmente. Dopo che la testa mi fu richiusa e fu tolto finalmente l’apparecchio, sentivo giorno e notte un ronzio, soprattutto di notte, che non mi lasciava dormire. Dissi a mio padre che avevo una mosca dentro la testa, ma lui non diede alcuna importanza alle mie parole.  Tuttavia il ronzio continuava, ed erano parecchie notti che non dormivo. Così dissi al papà: “Metti un orecchio e senti!” Mio padre, per accontentarmi, posò l’orecchio sul capo e sentì il ronzio. Stupito disse: “Veramente c’è un ronzio, bisogna andare in ospedale e parlare al dottore” Io piansi perché non volevo tornare in ospedale e avrei preferito piuttosto tenermi quel fastidioso rumore.  Il dottore fu molto meravigliato e, chiamati i suoi sette assistenti, fece posare a turno l’orecchio sul mio capo e tutti con esclamazioni di stupore sentirono che qualcosa dentro ronzava. Si ritirarono in una stanza accanto ed io li vedevo discutere animatamente dai vetri della porta. Quando tornarono annunciarono a mio padre che dovevano riaprirmi la testa. Il giorno dopo mi misero l’apparecchio di prima e, aperta la testa,  z.z.z.z.z… ne uscì una mosca!

Il dottore disse che non si era mai vista una cosa simile, che non era mai capitato… Mi richiusero la testa e tornai a casa guarito. Ebbene quella mosca mi seguiva ovunque e, forse perché era vissuta per tanto tempo nel mio cervello, capiva ogni cosa che le dicessi. Ad esempio le comandavo: “Salta qua” e lei saltava qua. Le dicevo: “Salta là” e lei saltava là. Oppure faceva il giro della stanza, se glielo ordinavo. C’era nella casa di fronte alla nostra un bambino malato, che non poteva camminare e stava tutto il tempo su una sedia a rotelle. Io prendevo un rotolino piccolissimo di carta, scrivevo un messaggio, lo legavo alla zampina della mosca e lei ronzando glielo portava. Il bambino era molto felice di quel gioco e mi rispondeva allo stesso modo” Qui Parise si fermò facendo una lunga sosta, come se si fosse dimenticato dei bambini, e questi lo interrogavano impazienti “E poi? Ce l’hai ancora la mosca?” 

“Un giorno, a pranzo, mentre mangiavo il brodo caldo, la mosca si era posata sul bordo del piatto e allungava la zampina bagnandola di brodo per assaggiare. Poi allungò tutt’e due le zampe di davanti e si sporse tanto che cadde nel brodo e morì affogata. Io non mi accorsi di nulla perché mi punzecchiavo e mi davo calci sotto il tavolo con mia sorella. Così, col brodo, mangiai pure la mosca”

Ricordo ancora le espressioni comiche d’orrore dipinte sui visini dei due pargoli. Adelina, scandalizzata, si scagliò contro Parise dicendo che non si dovevano fare certi racconti ai bambini, che rimangono traumatizzati. Parise rispondeva che i bambini d’oggi vedevano ben altro alla televisione, che i cartoni e persino le fiabe che erano state propinate a noi, quando eravamo bambini, contenevano una buona dose di violenza, eppure non pareva che fossimo cresciuti male. Ne nacque così una lunga discussione che non sto qui a riferire oltre. Parise era un ottimo poeta e scrittore, ma non aveva prodotto niente perché era posseduto da una passione che lo annichiliva, cui dedicava tutte le energie intellettuali: il gioco delle carte. Quando tornava a casa, a notte fonda o alle prime luci dell’alba, la moglie lo accoglieva con vere e proprie crisi isteriche: urla e botte si susseguivano con una furia impressionante. La poveretta era tanto traumatizzata dal vizio del marito che pareva giunta sull’orlo della pazzia. Una volta soltanto cercò di sottrarsi scappando da casa: fu quando il marito perse al gioco la casa al mare che i suoi genitori avevano acquistata con tanti sacrifici e che le avevano lasciata da pochi mesi in eredità.

Parise la rincorse, la supplicò di tornare, le fece promesse che, lei sapeva, non avrebbe mantenuto. Tuttavia tornarono insieme e lui riprese a frequentare le bische cittadine. Noi colleghi lo vedevamo arrivare in ufficio con il collo e il viso segnato da graffi, da piccole abrasioni rosse, dei cerchi sulle guance o nelle mani che riproducevano le arcate dentarie della moglie. Adelina li chiamava “orologi” e mi diceva: “Che ora fa oggi Parise?”. Per compensarla di quella vita grama, per farsi perdonare, Parise era servizievole e completamente sottomesso al volere della moglie.

“Mein Direktor, certe d’uopo sit imperare homo. Sed saepe nos  debilitat amor, atque femina, anima priva, nos superat et nos facit prigiones atque captivos.”  Solo a Parise era permesso di rivolgersi al direttore con quel linguaggio burlesco, misto di strafalcioni pseudo teutonici e latino maccheronico, a significare l’autoritarismo del grado che la carriera burocratica soltanto conferiva al direttore. E solo da lui Albertini avrebbe tollerato quell’ironia garbata, ma a volte pungente. Tutti ridemmo di quella trovata e quando il direttore tornò nel suo studio, il brusio delle chiacchiere lentamente si spense e ciascuno riprese il proprio lavoro. Adelina soltanto si fermò vicino al mio tavolo: “Ma guarda, chi avrebbe mai detto che Albertini fosse capace di simili discorsi, ogni tanto rivela profondità impensate. Peccato che non sia mai serio fino in fondo. Perché non dire che nella coppia nessuno dei due deve comandare, che deve esistere un’armonia che si chiama Amore, non ti pare?” Guido era pallido come un cencio. Lo seguivo con la coda dell’occhio, mentre barcollante andava in toilette. Meno male che nessuno se n’era accorto, almeno così speravo. 

“Non credi che questo fosse il senso di quel pezzo ebraico? A proposito, ti ricordi le parole? Voglio scriverlo da qualche parte!”

Adelina aveva un’idea tutta sua di Dio, conservava brani di testi religiosi e filosofici, aveva un’agenda zeppa di citazioni del Vangelo, della Bibbia, del Corano, di testi buddisti e di altre religioni orientali, così pure trascriveva Platone, Aristotele, Plotino, S. Agostino, Spinosa, Kant , fino ai filosofi contemporanei. Mi meravigliava questo interesse che coltivava fin dall’infanzia. Rimanevo volentieri seduto in cucina, mentre  leggeva ad alta voce quelle massime dal suo libricino, intrecciandole in un discorso coerente ed interessante sugli argomenti più disparati. Credo che considerasse quei momenti l’espletamento della sua missione di evangelizzazione, ed io ero il selvaggio da catechizzare, da convertire. Ero d’accordo con lei quando diceva che non esiste una Verità assoluta ma più verità, o meglio tanti frammenti di realtà che diciamo veri per comodità di linguaggio. Adelina sembrava, a chi non la conosceva intimamente, una ragazza superficiale, priva di interessi, se non quelli tipici delle donne: i bei vestiti, i gioielli, che non possedeva perché costavano troppo, la cura del proprio aspetto. Nessuno sospettava in lei quella necessità di andare al cuore delle cose per conoscere, per capire in profondità. Come nessuno avrebbe mai sospettato in lei tanta smania di godere, che costituiva il tormento della nostra relazione. 

Ho scritto questo capitolo, che a prima vista può sembrare superfluo, per tre motivi: il primo perché mi premeva di illustrare l’ambiente della biblioteca, che il lettore potrebbe credere costituito da grigi travet immersi nelle carte polverose, senza speranza alcuna di comunicazione. Invece si respirava un’aria di franco cameratismo e perfino di amicizia. Albertini, burbero e bonario ne faceva parte e forse ne era la causa prima.

Secondo motivo è descrivere un altro aspetto, non secondario, del carattere di Adelina, che era una ragazza complessa e che penso di aver conosciuto fino in fondo soltanto io. Infine quell’atteggiamento di Guido, quel pianto silenzioso che mi inquietò parecchio. Mi domandavo se fosse causato dalla sua autoemarginazione o se l’amore per Susanna e il dolore che ne conseguiva, fossero giunti a un grado così elevato da divenire passione insana, da fargli perdere il controllo su se stesso.





 

*

Tamerisco XVIII parte seconda

Microsoft JScript runtime error '800a003e'

Input past end of file

/testi_raccolta.asp, line 83