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Raccolta di testi in prosa di Stefano Verrengia
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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La minestra incantata (da Fiabe Macabre)

LA MINESTRA INCANTATA

 

 Un tempo vi era un bambino molto povero, figlio di poveri operai, che non aveva mai assaggiato il prosciutto, il latte, o la mortadella ma che, per via della povertà della sua famiglia, era costretto continuamente a mangiare, a colazione, pranzo e cena la minestra. Un giorno, il povero bimbo, prende coraggio per fare una cosa che i genitori gli avevano espressamente vietato di fare: andare dallo stregone del villaggio. Lo stregone del villaggio era una persona assai strana poiché aveva salvato molte vite, ma comunque le sue magie, i suoi esoterismi, erano visti come un qualcosa di oscuro, di demoniaco, e incutevano un enorme timore in tutti i cittadini. Nonostante la sua paura fosse enorme, il suo desiderio aveva superato la paura stessa, quindi aveva preso coraggio e aveva deciso di recarsi dallo stregone.

Incamminandosi verso la montagna la paura lo assalì, iniziò ad aver timore che stesse facendo la cosa sbagliata, una cosa che avrebbe potuto portare rovina nella sua vita e nella vita delle persone che amava. Essendo un bambino, però, in lui vinse il desiderio di avere rispetto alla ragione per la quale stesse facendo quel gesto. Arrivò in una piccola casupola di montagna, da sempre risaputa come il luogo dove albergava lo stregone in completa solitudine. La casa era in legno abbastanza logoro, rovinato forse dalle intemperie e dall’incuria. Arrivò alla porta e bussò.

“Vieni piccolo, entra pure.” Disse una voce profonda e decisa. Il piccolo entrò senza pensarci due volte. Vide lo stregone sul tavolo che lavorava a strani marchingegni e che non lo aveva neanche minimamente guardato. “Sei sicuro della tua scelta?”. Continuò immediatamente. “Le scelte sono come le strade: ci sono bivi e solo una strada è quella corretta, le altre possono portarti in luoghi selvaggi e pericolosi.”

 Il piccolo guardò lo stregone con occhi spalancati, come se fosse stupefatto dallo stregone. Era una persona che, apparentemente, poteva sembrare tutto fuorché uno stregone. Era vestito come un boscaiolo, la barba non era poi così lunghissima e non vedeva pozioni o teste mozzate da qualche parte in casa, e non rispecchiava minimamente tutte le parole che venivano dette su di lui giù nel villaggio. Tutto questo, ovviamente, aveva fatto calare la tensione nel piccolo bimbo che pensava di trovarsi di fronte un mostro, mentre di fronte a sé trovava solo un uomo comune, forse solo un po’ strano. “Sei sicuro, allora?” Intervenne di nuovo lo stregone.

“Si. Non è giusto che tutti i miei amici possano avere tutto quello che io non ho, mangiare cose buonissime, avere bei vestiti, avere dei giocattoli che io non ho … e poi devo sempre vedere la mamma e il papà litigare per i soldi, e poi che si tolgono il cibo per darlo a me e loro devono morire di fame. Voglio avere cose buone e non voglio più togliere il cibo a mamma e papà.”

 Lo stregone rimuginava girandosi i baffi e guardando il soffitto.

“Le tue intenzioni non sono cattive, e il tuo desiderio altrettanto … ma saranno sempre queste le tue intenzioni? Vorrai sempre aiutare la mamma e il papà non pesando su di loro? Bisogna star attenti a quel che si desidera, perché i desideri sono come coltelli: puoi infilarli nel burro per spalmarli sul pane o far del male ad una persona se le tue intenzioni sono cattive.“

 Il bimbo guardò lo stregone e, con forza, intervenne:”Le mie intenzioni sono buone, non voglio far del male a nessuno.”

 “Allora avrai per te il dono che non ho mai fatto a nessuno, quello della minestra incantata. Questa minestra è molto particolare, ed è un dono molto utile ma che può diventare pericoloso se lo utilizzi in maniera sbagliata. Mangiando questa minestra assaggerai tutti i sapori che desideri: se desideri assaporare il latte, sentirai nella tua bocca il caldo latte appena munto, se desideri assaporare un pezzo di carne morbido e succulento, assaporerai un pezzo di carne morbido e succulento. Inoltre, questa minestra è infinita: ogniqualvolta ne assaggerai un cucchiaio la minestra si riformerà magicamente da sola, quindi non peserai più sui tuoi genitori e non si toglieranno più il loro cibo per darlo a te.”

 Il piccolo era molto galvanizzato da tutto ciò che gli stava accadendo. Finalmente avrebbe potuto assaggiare tutto il cibo che agli altri bimbi era concesso mangiare molto spesso e inoltre avrebbe potuto finalmente vedere i propri genitori mangiare senza togliersi il cibo per darlo a lui. Si avviò verso casa molto galvanizzato da quel che gli stava accadendo, con la sua boccia di minestra ben sigillata. Arrivò a casa proprio per l’ora di cena e vide i propri genitori tristi seduti al tavolo mentre guardavano i loro piatti scarni aspettando il loro figlioletto. Il piccolo entrò tutto euforico ma nascose immediatamente la boccia di minestra dietro la schiena.

“Cosa nascondi dietro la schiena?” Intervenne il padre con la calma di chi è stanco dopo una dura giornata di lavoro.

“Niente Papà, solamente un barattolo.” Il padre guardò attentamente.

“Fammi vedere.” Il bimbo mantenne ancora il barattolo dietro la schiena. “Va bene, fai il misterioso, sarà qualcosa di qualche ragazzetta.” Il bimbo sorrise leggermente. “Non vieni a mangiare?” Il bimbo fece cenno di no con la testa.

“No papà, da oggi in poi tu e mamma potrete mangiare tranquillamente tutto quel che volete.”

Il padre guardò stranito il figlio, come se non comprendesse quel che voleva dire.

“Perché dici questo?” Il piccolo sorrise.

“Voi vi siete sempre tolti del cibo per darlo a me, molto spesso andando a letto digiuni e non pensate che io non vi abbia sentito, perché la notte piangete di nascosto da me, ed io non voglio che voi piangete. Quindi mangiate tutto quel che c’è, perché io mangerò per sempre tutto quel che voglio!”

La madre scoppiò in un pianto irrefrenabile, non riuscendo più a trattenersi dal dolore provato fino ad adesso. Il padre si alzò ed andò a rincuorarla.

“Perché dici questo, come farai senza cibo?”

“Non preoccuparti papà!” Esclamò il bimbo con grande certezza.

“Ho la minestra incantata, una minestra che si riforma ogni volta che la mangio.”

 “Non dirmi che sei andato dallo stregone!” Disse il padre alterato. “Ogni persona che si è recata da quell’uomo ha avuto una triste fine! Butta immediatamente quell’oggetto del male!” Urlò il padre, ormai furioso.

“No! Non vi vedrò più soffrire! Non è giusto che nel mondo ci sia chi ha tutto e chi ha nulla, non è giusto che voi soffriate a causa mia e che voi per causa mia dobbiate soffrire la fame e dobbiate piangere ogni giorno perché con noi la vita è stata cattiva! Non la butterò mai papà!” E, detto questo, il piccolo scappò di casa correndo come una agile gazzella da un leone affamato. Riuscì a giungere in un luogo sperduto, da solo. Aveva il fiatone, era stanco, e forse per l’adrenalina non se n’era accorto, ma aveva corso veramente molto. Prese un ramo da terra e, con il coltellino che aveva sempre dappresso, fece un cucchiaio di legno. Aprì il suo barattolo di minestra e ne assaggiò un cucchiaio. Inizialmente non gli sembrava buona, e pensò immediatamente al fatto che quella della sua mamma, nonostante fosse sicuramente di meno, era decisamente più buona. Ma, improvvisamente, ecco che la minestra prese il sapore della minestra della mamma. Divenne buonissima. Così, preso dal gusto, il piccolo pensò a quanto potesse essere buona la mortadella, ed ecco che il sapore nella sua bocca si trasformò e divenne il sapore della mortadella. Non aveva mai provato quel sapore, e lo trovò eccezionale! Prese immediatamente un altro cucchiaio, perché voleva sicuramente riassaporare la mortadella e il suo sapore morbido nella sua bocca. Di nuovo sentì quel morbido sapore nella sua bocca e ne fu felicissimo! Ma ancora il piccolo non si sentiva sazio. Prese un altro cucchiaio e, questa volta, immaginò il caldo latte di una mucca che si è nutrita negli alti pascoli di erba incontaminata. Sentì un sapore dolcissimo nella sua bocca, un sapore talmente buono che aveva quasi l’impressione che stesse per piangere! Non poteva pensare al fatto che fino ad adesso fosse stato privato di tutti questi bellissimi sapori e che avesse dovuto privare la possibilità ai genitori di mangiare copiosamente la più umile tra tutte queste delizie (anche se la minestra della mamma era sicuramente buonissima). All’improvviso, però, lo sconforto lo colse. Ed il papà? Il papà gli avrebbe tolto con grande certezza la sua minestra incantata e lui sarebbe dovuto ritornare a mangiare quel poco di minestra che la mamma si fosse potuta permettere. Pensò di darne anche ai genitori, ma se poi, andando lì, il padre gli avesse tolto la minestra e non avesse voluto saperne ragione? Era troppo rischioso tornare a casa perché il padre avrebbe potuto vedere la sua boccia con la minestra incantata. Così inizio ad immaginare cosa fosse successo se il padre fosse stato cieco e potesse non vederlo, in maniera tale che lui avrebbe potuto girovagare per casa con la sua boccia oppure, nel peggiore dei casi, avrebbe potuto mentirgli. Era sicuro che la mamma non gli avrebbe detto niente della sua minestra perché era così triste che tutto le passava quasi inosservato. Così si immaginò che il padre lo guardasse e immaginò successivamente il padre cieco. All’improvviso nella sua boccia apparvero due occhi molto grandi e la loro pupilla era dilatata dall’orrore. Il piccolo si terrorizzò a tal punto che gli cadde di mano la boccia che, fortunatamente, non si era rotta. Corse a casa per paura, dopo aver raccolto la boccia con gli occhi del padre dentro, danzanti come comete nel firmamento. Entrò lentamente, per non farsi sentire e vedere. Vide la mamma appoggiata al muro, terrorizzata, e sulla faccia aveva una smorfia orribile, come di chi abbia avuto un incubo. Si girò più in là e vide il padre sdraiato a terra. Si avvicinò lentamente a lui tenendo stretta la boccia fra le braccia. Vide il padre con le orbite incavate e il sangue che gli colava dagli zigomi al mento, con la bocca contorta in una smorfia terrificante. La vista di quegli occhi senza occhi, quel vuoto orribile gli gelò il sangue in un istante. Non riuscì a trattenersi ed urlò dal dolore talmente forte che la mamma cadde a terra e perse i sensi. Scappò verso la dimora dello stregone chiedendogli cosa fosse successo. Arrivò molto più rapidamente a casa dello stregone perché corse veloce come mai corse prima. Aprì la porta con foga ed urlò:

“Mio padre!” Lo stregone non si scompose mentre era lì intento, ancora una volta, sui suoi marchingegni a creare qualche diavoleria che nessun umano aveva mai visto prima.

“E’ ormai andato, piccolo … non ti vedrà più, non preoccuparti: non patirai mai la fame e l’invidia del cibo.”

“Rivoglio mio padre!” Lo stregone fece cenno di no col capo, facendo capire al bimbo che non si poteva tornare indietro. Il piccolo, piangendo disperatamente, aprì la boccia di minestra e iniziò a berla come fosse acqua. Immaginò, a questo punto, il suo cuore e, d’un tratto, del sangue iniziò a sgorgargli dalla bocca come una fontana e cadde a terra con il corpo preda di spasmi fortissimi. Dopo poco il corpo del piccolo si fermò, e il freddo apparve nei suoi occhi. Lo stregone comprese che era finita la sua vita e prese il corpo inerte del piccolo, per seppellirlo in giardino al fianco di altre lapidi, come se già sapesse la fine di quel piccolo cuore divorato da sé stesso.  

 

 

*

Ad un passo dal buio (Cap.1: una falena)

AD UN PASSO DAL BUIO

 

CAPITOLO 1: Una falena.

 

“Amico mio, non ti nascondo che mi trovo in un momento di completa disperazione. C’è qualcosa, qualcosa nascosto come uno squalo sotto la superficie dell’acqua, un mostro affamato che riesco a vedere solo perché è così stupido da mostrare la pinna prima dell’attacco, ma è talmente veloce che non potrò fuggirlo. Mi trovo in questa situazione, in questa condizione di discesa disperata, questo cadere, ruzzolare irrefrenabile verso il precipizio, come fossi una pietra che ruzzola per la pendenza fino alla scarpata.”

Marco Macorich prese il calice di vino e lo tirò giù tutto di un sorso. Poi guardò attentamente l’amico in attesa di una sua risposta.

“Marco, comprendo perfettamente il tuo momento … avere una situazione come la tua è pesante come avere un macigno sulle spalle, anche se in apparenza può sembrare diverso per chi non l’ha provato. Ma sono sicuro che supererai anche questa triste condizione e ti riprenderai, tornando ad essere quello che eri. Non puoi pensare, credere che la malattia di tua madre ti lasci incolume, senza alcuna cicatrice interiore. E’ umano e destabilizza, come è ovvio che sia. Come tutti sanno, e come è banale dire, questa è la vita … la vita non guarda in faccia a nessuno, che sia benestante, ricco, povero o un barbone disgraziato.”

Marco Macorich alzò la mano frettolosamente cercando di attirare l’attenzione del cameriere. Nonostante si muovesse guizzando con la mano come un pesce fuor d’acqua, il cameriere non poteva intravedere l’uomo e la sua mano fra quella folla presente al locale quella sera.

“Vedi Stefano, come fanno? Come fanno a non accorgersi di tutto questo? Come fanno a non soffrire, patire, disperarsi gli esseri umani dopo un evento così tremendo? Come si illudono gli altri, quali meccanismi utilizzano per illudersi, per continuare a credere e a sperare che tutto ciò abbia un senso? Noi siamo amici da vent’anni e non posso nasconderti nulla, proprio nulla! Ho fatto strani pensieri Stefano, strani, stranissimi pensieri!”

“Di che pensieri stai parlando?” Disse l’amico che scivolò con le braccia poggiate sul tavolo verso Macorich, come se volesse fargli comprendere che aveva la sua completa attenzione.

“Sarà stato un attimo, un momento di follia, ma ho comprato una corda …”

“No Marco, questo non va affatto bene! Devi assolutamente andare in terapia e farti aiutare!” Asserì immediatamente, con rabbia, Stefano.

Marco Macorich si guardò attorno, vagando con lo sguardo nel vuoto.

“Me ne vado a casa, ho bisogno di stare un po’ da solo.”

Dopo queste parole si alzò di scatto e se ne andò, con una faccia buia come la notte, senza salutare il suo amico, in maniera molto maleducata. Si incamminò lentamente verso casa, gettando lo sguardo sulle onde che si frantumavano contro gli scogli sul lungomare. Si sentì assalito da una tale tristezza e disperazione e non riusciva a trovare una motivazione profonda, vera, per liberarsi di questo suo malessere così radicato, viscerale.  Passò vicino ad un pub che conosceva e lo fissò per un attimo. La luce brillante dell’insegna lo attirò come una falena a caccia di luce. Rimase come impietrito per un attimo e poi si avviò verso il pub. Aprì la porta d’ingresso ed entrò, andandosi poi a sedere in un tavolo libero. Non c’erano molte persone in quel pub, anzi, al contrario dell’altro locale dove era stato prima con il suo amico Stefano si può dire che erano veramente poche le persone presenti. Era passato dal caos e dalla moltitudine di schiamazzi, urla, balli e bicchieri in festa a tavoli silenziosi, con persone sole o piccoli gruppi che parlavano con un tono di voce molto pacato. La luce soffusa del pub sembrava influire sull’umore delle persone lì presenti, o le persone presenti avevano scelto quel pub proprio per la sua luce soffusa, a tratti tetra, e la calma.

“Cosa ti do?” Disse il barista a Macorich.

“Una pinta di Aventinus, se ce l’hai.”

Il barista rispose con il pollice all’in su, per confermare a Macorich di poter esaudire la sua richiesta senza sprecare altro fiato, come se fosse un eccessivo sforzo poter dire “si”. La birra fu pronta in pochi istanti e l’uomo si alzò e si recò al bancone per prenderla, per poi sedersi nuovamente al suo tavolo. D’un tratto, una donna seduta ad un altro tavolo si alzò con la sua pinta di birra e si sedette vicino a lui, sulla sedia al suo fianco, e poggiò la sua pinta sul legno silenzioso di quel pub tetro. 

“Marco Macorich?”

“Si …” rispose intontito, confuso, non riuscendo a comprendere con quale maleducazione una persona potesse sedersi al suo tavolo senza chiedere neanche il permesso.

“Alice Keller … non ti ricordi di me?”

La guardò con attenzione, cercando di ricordare chi fosse questa bella donna seduta al suo tavolo. Non poteva negare a sé stesso la bellezza di questa donna, che brillava di una strana luce per essere in un pub così tetro. I suoi capelli biondi brillavano tendendo al rosso colpiti dalle luci fioche dei lampadari, i suoi occhi di color ghiaccio, nonostante la penombra, colpivano profondamente e magnetizzavano lo sguardo.

“Alice … eravamo insieme in terza media?”

“Esatto, bravissimo!” Esplose la donna, che fece girare le poche persone presenti nel pub come se fosse scoppiata una bomba. Lo stesso barista, fece una faccia indignata e al contempo arrabbiata per questa frase quasi urlata della donna. “Ricordi quando facemmo i compiti di italiano a casa mia?”

“Si, certo, certo che ricordo. Studiavamo Giacomo Leopardi, se non ricordo male …”

“Si!” Disse Alice, quasi strozzando la sua voce, accorgendosi che stava, ancora una volta, per disturbare quelle anime silenziose e tristi in quel cupo pub. “Quanto odiavo Giacomo Leopardi, una noia mortale! Come fa una persona dotata di così tanto talento ad essere al contempo così patetica?”

Un lieve sorriso sorse sulla faccia di Marco Macorich, che successivamente guardò la sua birra come un prete il calice di vino dorato durante l’eucarestia.

“Non ti nascondo che, a volte, mi chiedo quanto dovessero essere belle Silvia, Laura e Beatrice per aver mandato sotto sopra menti di quel calibro … anche se hai tempi una donna bella era una donna che aveva meno baffi delle altre.” Detto ciò, sorridendo, fece un altro leggero sorso e si sporcò di schiuma i baffi. Alice lo guardò intensamente, poi prese un fazzoletto dal porta fazzoletti e lo avvicinò alla sua bocca, sussurrando “hai tutta la schiuma sui baffi”. Poi gli levò via la schiuma sorridendo.

“Posso farti una domanda intima?”

“Certo.”

“Sei fidanzato, sposato … in poche parole hai trovato l’amore?”

“No. Tu, invece?”

“No, tutti stronzi, voi uomini.”

“Ah si, e come mai pensi che siamo tutti stronzi?”

“Perché lo siete … puoi negarlo?”

“Su molte cose siamo sicuramente diversi, senza ombra di dubbio, ma anche noi uomini potremmo dire che voi donne siete stronze.”

“Per quale motivazione?”

“Potremmo parlarne per ore … “

“Hai da fare?”

“No, domani non lavoro neanche, quindi posso far l’ora che mi pare.”

“E allora perché non ce ne andiamo da qui e andiamo a casa tua per parlare in intimità?”

Marco Macorich la guardò con occhio affamato. Era palese che quella donna avesse ben altre intenzioni rispetto al semplice parlare. Si alzò e, galantemente, pagò la birra di entrambi. Lei si mise il cappotto e successivamente il cappello di lana di colore azzurro, intonato con i suoi occhi, ed una sciarpa nera, che a tratti poteva confondersi con il nero del cappotto. Lui mise addosso il suo cappotto beige, alzò il colletto per ripararsi dal freddo, in quanto non aveva portato con sé la sciarpa, sbadatamente, essendo quasi sempre con la testa fra le nuvole. Uscirono dal pub e lui mise la mano nella tasca destra del giubbotto, cavandone fuori un pacchetto di sigarette Marlboro. Ne tirò fuori una come un poeta tira fuori la penna dal suo tappo. Poi guardò Alice. Alice era, senza ombra di dubbio, una donna di una bellezza particolare. Era ben diversa, ai tempi delle medie, nella sua ancora acerba corporatura, priva delle prelibatezze dell’età adulta, della sinuosità statuaria che una donna può possedere con le sue forme. Adesso, adesso era diverso. Anche se vestita, poteva facilmente correre con gli occhi sulle sue curve come su delle montagne russe. I seni prorompenti potevano facilmente intravedersi anche attraverso il maglione invernale che portava. La guardò con occhio avido, e non si sentiva così da tempo, da molto tempo. Fu come un toccasana l’averla incontrata. La guardò cercando di non esser scoperto, mentre lei era attenta a guardare il telefonino messaggiando con qualche sconosciuto, o sconosciuta.

“Hai l’accendino?” Le chiese.

“Si, aspetta che lo cerco nella borsa.” Alice mise le mani in borsa rovistando come un cane nella terra, a caccia dell’osso.  “Eccolo.” Disse prontamente.

“Grazie.” Disse Macorich. “Ne vuoi una anche tu?”

“Si grazie, non ho voglia di girarmi il Pueblo.”

“Cos’è il Pueblo?”

“Tabacco.”

“Ah, fumi tabacco … come ti trovi?”

“Molto meglio che con le sigarette, ma a volte mi scoccio nel prepararmela e non fumo. La pigrizia è sempre un buon deterrente contro i vizi, o il peggior vizio.”

Lui aprì il pacchetto e lo porse verso di lei, come farebbe un promesso sposo con l’anello di fidanzamento, ma senza inginocchiarsi. Lei prese la sigaretta, la portò alla bocca e l’accese con l’accendino preso dalle sue mani. Poi si incamminarono verso casa. Alice prese di nuovo dalla tasca del suo cappotto il telefono e lo guardò, iniziando a digitare ininterrottamente, con la sigaretta in bocca fumata dal vento. Lui fumava, gettando uno sguardo sul suo telefono senza farsi scoprire, poi rivolgendolo verso il mare rigonfio che divorava con le sue onde gli scogli del lungomare. Alice lo aveva stranamente stregato. Il suo modo di fare così infantile, così colmo di vita e gioviale, alleggerivano i pensieri nella sua mente, come se fossero legati a dei palloncini ricolmi d’elio pronti a salire verso l’alto fino al loro inesorabile scoppio, ripiombando giù senza speranza. Infatti, non appena la osservava di nascosto mentre lei fissava il telefono, subito i suoi pensieri spiccavano il volo fin quando non ripiombavano giù in preda ai timori, le paure e le angosce. I suoi lineamenti erano così delicati, con quelle sue guance rosse e all’apparenza calde, che il suo viso gli sembrava una mela succosa da assaporare. Fece un altro tiro di sigaretta e poi, terminata, la gettò a terra e la schiacciò.

“Alice, come ti senti?”

“Bene. Perché, tu cos’hai?”

“Ho mischiato troppi alcolici e mi sento un po’ alticcio …”

“Cos’hai bevuto?”

“Vino, birra e qualche shot.”

“Ti viene da vomitare?”

“No, fortunatamente no.”

“Ti ricordi quando alla festa di Carlo abbiamo bevuto per la prima volta il Bacardi breezer?”

“Certo, come no, ci sentivamo dei veri ribelli, dei pirati pronti ad andare contro tutto e tutti per aver semplicemente bevuto un Bacardi. Ci sentivamo dei veri duri, ad aver violato le regole dei nostri genitori che ci vietavano di bere qualsiasi alcolico e che ci minacciavano di non fumare altrimenti ci avrebbero messo in castigo. E noi, cosa abbiamo fatto? Abbiamo bevuto ed abbiamo fumato, abbiamo fatto tutto quel che ci è stato detto di non fare. Noi esseri umani siamo fatti così, non ci possiamo far nulla. Ogni qualvolta ci viene detto di non fare qualcosa è per noi il momento giusto di farla.”

“Quel giorno vomitai per la prima volta” disse ridendo Alice. “Ho bevuto tre Bacardi breezer solo per fare un dispetto a mia madre, solo per dimostrarle che non l’ascoltavo, che avrei fatto di testa mia, superando ogni suo limite imposto semplicemente mettendo due labbra su una bottiglia. Quelle labbra sulla bottiglia furono come un bacio, un bacio col Diavolo, con tutto quel che non va fatto.”

“La trasgressione, la voglia di trasgressione è un sentimento, un desiderio assurdo. Se ci mettono un muro davanti, non sappiamo far altro che abbatterlo, a meno che quel muro non sia per proteggerci e non per dividerci, prima di tutto da noi stessi. Nessuno può fuggire sé stesso né il desiderio di scoprirsi in tutta la propria interezza, completezza … siamo arrivati, questo è il mio portone.” Disse d’un tratto Marco Macorich, interrompendo il suo discorso. Prese le chiavi ed aprì il portone, facendo entrare galantemente prima Alice. Alice stava per salire le scale quando l’uomo la fermò, prendendola per la spalla.

“Aspetta, abito al quinto piano … non vorrai mica salire tutte queste scale a piedi … prendiamo l’ascensore.” Premette così il pulsante dell’ascensore, che si fece rosso. Dopo pochi attimi la porta si aprì ed una luce eccessivamente forte colpì il viso di entrambi, una luce troppo forte per il buio al quale fino a quel momento erano stati abituati. Entrarono e lui premette il pulsante per andare al quinto piano. La porta dell’ascensore si chiuse ed insieme ad essa le tenebre dell’entrata del palazzo. I due si misero l’uno rivolto verso l’altro, entrambi si guardarono con sguardo di fame e desiderio. Si guardarono intensamente, per alcuni secondi, prima di scaraventarsi l’uno contro l’altro con tale foga che sembravano due nemici al fronte più che due esseri umani infiammati dal desiderio. Marco Macorich iniziò a togliere il cappotto ad Alice, continuando il bacio appassionato. La porta dell’ascensore si aprì e Alice si rimise il cappotto, come rientrando in sé stessa. I due si guardarono e risero. Alice pulì le labbra di Marco spalmate di rossetto, tale che sembrava un lupo dopo aver pasteggiato nella carne di una lepre. Uscirono dall’ascensore e si avventurarono alla porta. Lui aveva sempre odiato il posto dove abitava per varie ragioni. Una delle ragioni per le quali odiava la sua casa era sicuramente il lungo corridoio che doveva percorrere per arrivare alla sua abitazione, lo faceva sentire come distante dalle sue quattro muro, dal luogo dove avrebbe dovuto ristorarsi, rilassarsi e riposare. Un’altra motivazione era l’orribile vicinato al quale aveva sempre dovuto porgere ipocriti sorrisi. Viveva in un quartiere popolare di Roma, il quartiere di Torre Spaccata. Sicuramente non la zona residenziale che aveva sempre desiderato durante la sua infanzia e durante la sua adolescenza, per poter avere a che fare con persone educate, gentili, anche se ipocritamente educate e gentili. Il suo vicinato era composto di tossici, persone agli arresti domiciliari, spacciatori, famiglie disagiate e famiglie logorate dalla povertà. Aveva sempre riconosciuto a questa tipologia di persone, nonostante il disagio che provasse nel dover parlare con quest’ultime persone, un’onestà a volte ingenua che era, senza ombra di dubbio, piacevole. Questa onestà rendeva l’aver a che fare con le persone una cosa semplice, a volte piatta, ma di certo queste umili persone non cercavano vie traverse per poter instaurare un dialogo con gli altri. Andavano dritti al sodo. Si vergognava della sua situazione, della sua condizione esistenziale di quel momento.