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Raccolta di pensieri di Maria Pace
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Dall’Antico Egitto - Gli Amanti Divini... Nut e Geb

NUT, Signora del CIELO e GEB, Signore della TERRA,  figli di SHU  e  TEFNUT, erano legati da un amore profondo ed esclusivo, ma furono separati dalla gelosia di SHU, Signore dell'ARIA, che sollevò la figlia, tenendola alzata sulle braccia (i Pilastri del Cielo).
Le due divinità, non avevano altro luogo dove incontrarsi ed amarsi se non l'ORIZZONTE... dove cielo e terra si univano e confondevano... solo l'ORIZZONTE, prima che le tenebre li inghiottisse... soltanto l'ORIZZONTE, per un fuggevoli incontri.
 
La Divina NUT era disperata... era in travaglio, ma non poteva mettere al mondo i figli che portava in grembo... La gelosia di SHU, il potente Signore dell'Aria, si era manifestata nella maniera più cattiva: le aveva proibito di partorire in qualunque giorno dell'anno.
Solo una mente maschile poteva escogitare una punizione così perfida!
Inutilmente GEB promise e minacciò.
Ma ecco intervenire il saggio, ma determinato THOT, l'eterno e sfortunato innamorato della divina NUT, Signore della Sapienza, il quale propose a SHU una partita a Senet, (un gioco tra la dama e gli scacchi). 
In palio c'erano i 5 giorni epagomeni del calendario egizio, ossia, i 5 giorni che venivano aggiunti ai 360 giorni. 
ll Sapiente THOT si aggiudicò la vittoria e donò quei 5 giorni alla divina NUT, che poté finalmente mettere al mondo  quattro  figli: OSIRIDE, ISIDE, SETH e NEFTI.

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I Centauri, la leggenda degli uomini-cavallo

Letteralmente il termine Centauro significa: “colui che trafigge il toro”, dall’etimo classico Kentauroi; un altro etimo suggerisce, invece: “gruppo armato di cento uomini”.
Qualunque sia il significato del termine, il mito li vuole d’aspetto davvero singolare: uomini fino all’ombelico e cavalli per il resto del corpo. Il mito li vuole anche rissosi, lussuriosi e sempre pronti a saltare addosso alla prima donna che capitava loro davanti.
Omero li chiama: “villose bestie selvagge”, per il loro aspetto e le attività orgiastiche ed erotiche.
La leggenda sulla loro origine farebbe arrossire gli autori di erotismo più audace. Vediamo perché.
Il capostipite fu un certo Issione, re dei Lapiti, tipo poco raccomandabile, per giunta assassino.
Giove, re degli Dei, pur contro il parere degli altri Immortali, non solo non lo punì per il suo reato, ma lo invitò alla sua tavola.
A Issione piacevano molto le donne, proprio come a Giove; per questo, forse, non mancò di fare certe proposte addirittura a Giunone, sposa del suo divino ospite.
Giove scoprì presto le intenzioni del suo ingrato ospite e per metterlo alla prova dette ad una nuvola le sembianze di Giunone.
Annebbiato dal vino e dalla lussuria, Issione sfogò le sue brame sul simulacro di nuvola; dall’inconsueto rapporto nacque Centauro che, diventato adulto, dette sfogo alle sue insane tendenze sessuali e si accoppiò con le cavalle del Monte Pelio, che gli generarono i Centauri, creature metà uomini e metà cavalli.

Numerosi gli aneddoti che li riguardano a causa proprio di questo loro temperamento.
Alle nozze di Piritoo, Re dei Lapiti, con Ippodamia, il centauro Eurizione, inebriato dalle troppe coppe di vino tracannato tentò di rapire la sposa In soccorso della sposa accorsero Piritoo e Teseo. Ne nacque una lotta violenta e senza quartiere tra Lapiti e Centauri e questi ultimi ne ucirono piuttosto malconci e corsero al galoppo in direzione del Monte Pindo, dove si rifugiarono.
Un altro centauro commise lo stesso errore e finì ammazzato: Nesso, che tentò di rapire Deianira, moglie nientemeno che di Ercole.
Il più noto fra tutti i Centauri fu certamente Chirone.

Questo il mito. La realtà, naturalmente, era un’altra.
I Centauri erano uomini barbuti e selvaggi, appartenenti a tribù delle montagne della Grecia orientale, i quali vivevano in tale simbiosi con i loro cavalli, da sembrare una sola cosa con il proprio animale.
Nacque così la leggenda degli Uomini-cavallo.

CHIRONE

Era il capo, piuttosto temuto e rispettato, di questa razza di rissose e selvagge creature. Pur avendone il medesimo aspetto, però, Chirone era di tutt'altra natura : saggio e sapiente, forte e gentile. Forse per la nobiltà dei natali: Ghirone non faceva parte della stirpe di Issione, ma era figlio di Giove e di Filira, bellissima Ninfa mutata per gelosia in cavalla da Rea, la sposa di Saturno che di lei era follemente innamorato.
Anche il suo stile di vita era diverso da quello dei suoi simili. Egli viveva in una grotta del monte Pelio, diventata ben presto la Scuola d'Armi e di Sapere più famosa della Grecia. Molti degli Argonauti furono suoi allievi, pefino Esculapio.
Fra gli eroi che si formarono alla sua Scuola: Giasone, Enea, Diomede, Achille... tanto per citarne qualcuno.
A causargli la morte, ironia della sorte, fu proprio uno dei suoi allievi, il suo allievo preferito: Achille.
Quando questi mosse guerra ai Centauri, Chirone si schierò dalla loro parte per solidarietà.
Durante uno scontro durissimo fu ferito gravemente proprio da Achille e dolorosamente, poiché le frecce dell'eroe era intinte nel veleno dell'Idra di Lerna. Proprio in quella circostanza ed a causa del dolore insopportabile, Ghirone, che il padre Giove aveva reso immortale, chiese di morire.
Giove lo accontentò, ma volle donargli almeno l'immortalità del nome e lo mutò nella Costellazione del Sagittario.

*

San Valentino: AMORE ed ESTASI - la prima volta

Si ritrovarono da soli e Lucilla, coperta unicamente dallo sguardo innamorato di Marco.
Il giovane le si avvicinò piano. Lentamente. Assaporando l’attimo meravigliosamente prossimo di un frutto da cogliere. La guardava con tutta la sessualità accesa, l’olfatto eccitato: l’aveva desiderata fisicamente fin dal loro primo incontro sul Palatino. Un desiderio che lo aveva quasi ossessionato e spinto altrove: un desiderio mai soddisfatto con alcuna altra donna, però. Un desiderio sempre più potente. Più di ogni altra sensazione ed eguagliato solamente dall’amore che per lui era sfaccettatura dello stesso sentimento.
Anche lei lo guardava. A piedi nudi, le mani tremanti che reggevano un telo di lino e con dentro gli occhi qualcosa che Marco non capiva. Le fu vicino. Lei continuava a fissarlo con “quello” sguardo. Lui continuò ad accarezzarle le spalle nude poi le cinse la schiena; il desiderio gli premeva dentro prepotente.
Lucilla si sollevò sulla punta dei piedi; con un braccio gli circondò il collo e con l’altro continuò a reggere il lembo del telo che copriva ormai così poco del suo corpo, ma nascondeva tutto il suo pudore che brillava intenso, rannicchiato negli occhi azzurri.  Marco tremava d’emozione, mentre si chinava a cercare quella curva eccitante  tra la nuca e il collo; l’anima e i sensi imprigionati dall’odore di lei.
“Marco, io..” cominciò lei con le palpebre abbassate.
Marco comprese.
“Hai paura? - domandò - No!... Non devi averne, tesoro mio. L’amore è una cosa dolcissima!” la rassicurò, rituffandosi nel suo sguardo e prendendo possesso dei suoi sensi e del suo pudore. Abbassò il capo e la bocca affondò ghiotta sulla nuca e sul capo; il telo scivolò a terra.

Il tripode, poco discosto, ardeva crepitando.

Con le mani Marco la percorse: la schiena, i fianchi, la vita. Si insinuò tra curve e pieghe. Lentamente. Leggermente. Dolcemente.
Lei sentiva liquido fuoco vivo attraversarla tutta e l’eccitazione consumarla: il contatto con la diversità di lui. Così dura. Così terrificantemente eccitante. Poi la bocca di lui che scivolava lungo il collo, la gola per fermarsi sul seno: “Oh!...” gemette.
Vinto da quella resa voluttuosa e dall’ardore del proprio temperamento, Marco piegò un ginocchio e la trascinò a terra con sé; con l’altro ginocchio la sostenne; il soffio ansante delle sue labbra sfiorava i capelli di lei.
Lucilla cercò di trattenere gli ultimi brandelli di pudore, ma lui sorrise con inusitata dolcezza in tanta eccitazione. Prese la mano di lei e ne guidò le dita tremanti sotto la tunica slacciata. La pelle eccitata fremette. La bocca, sempre affondata nella dolcissima curva tra collo e spalla, impazzì di piacere. Premette più forte.
Un brivido percorse Lucilla. Così profondo da darle la sensazione di perdere conoscenza e vacillare. La sua mano smise di carezzarlo; le dita  si contrassero, le unghia quasi si conficcarono nella schiena di lui. Si accorse di essere distesa per terra. Supina.
Marco, a torso nudo, era sopra di lei. La tunica era  per terra accanto al suo telo di lino, ma lei ne vedeva solo un lembo, segmentato di rosso. Vedeva l’aria rilucere del riflesso del tripode e il bel volto di lui trasfigurato dall’eccitazione e dalla passione. Chiuse gli occhi e sentì le labbra di lui che cercavano la sua bocca; le sue mani continuavano a percorrerla.  Rispose al bacio.
Nuovamente Marco prese la sua mano per guidarla su di sè. Nuovamente lei fremette, mentre imparava a conoscere quel corpo che amava e in cui era concentrato tutto il mondo che andava scomparendo intorno a lei: sempre più piccolo e stretto, fino a ridursi a quel solo essere adorato.  Le pareva, mentre con le dita scorreva e scopriva la pelle eccitata di lui, i rigonfiamenti, i muscoli, gli incavi, di conoscerlo già: quante volte aveva accarezzato quel corpo facendo l’amore con lui con la fantasia.
Un’altalena di emozioni, un groviglio di sensazioni che elevava e inabissava e i respiri ora corti, ora lunghi. Pian piano i respiri si fecero calmi, placidi. Fino a scivolare all’unisono lungo un tempo immobile. Come trasognata, Lucilla sentiva il capo di lui fremere contro la sua spalla, il suo petto ansante, le sue mani sulle gambe. E Marco sentiva  le braccia di lei intorno al busto, le gambe avvinghiate alle sue, le dita accarezzargli dolcemente la schiena. Ancora cercò le labbra di lei, poi, quando le labbra la lasciarono per saziarsi altrove, le vide reclinare il capo dolcemente di lato. Completamente arresa. Completamente abbandonata. Completamente rilassata. Rilassati i muscoli delle gambe, rilassato il grembo, rilassata la pelle intorno all’inguine.
Un   dolore acuto le strappò    un gemito, poi     una sensazione di sconfinato piacere che mutò in eccitato languore i gemiti di dolore e che la trasportò in alto, verso vette sconosciute e immacolate, in un tempo immobile, insieme a lui, in dimensione irreale e magica.
Giacquero, l’una sull’altro, per riemergere storditi e appagati.

(continua)

brano tratto dal libro di Maria PACE:
"LA DECIMA LEGIONE - Panem et Circenses"
di prossima pubblicazione

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IL PATTO - Cap. XIII La Fuga

Quando la porta fu aperta ed ebbe visto la faccia del carceriere e un frate incappucciato, comprese d'essere stato condannato a morte e che la sua ora era giunta, poi riconobbe la voce del frate, che chiedeva di lasciarlo solo con il condannato per la confessione.
"Spaccamontagne…”
“Fai tutto quello che ti dico…”
Il finto frate si chinò sull’amico ancora disteso sul giaciglio di paglia.
“Ma cosa fai qui? – Raniero si sollevò -  Chi ti ha dato questo saio?" bisbigliò all’orecchio dell’amico il quale aveva tirato un piccolo crocifisso di legno da sotto il saio.
"Un'anima pia!... Fratel Daniele, che assiste i condannati; ha già assistito alla condanna a morte di Rames."
"Rames?" stupìil ragazzo.
"E' stato giustiziato questa mattina...Tu non puoi sapere, certo, quello che è successo: quel pazzo ha ucciso il vecchio Ivan e ferito Pthos e Menes."
"Cooosa?"
"... in un eccesso di gelosia nei tuoi confronti, per amore della bella Marika:.E’ stato lui, con un certo bettoliere a denunciarci al Consiglio dei Dieci...così mi ha spiegato madamigella Mavera...E' lei che mi ha aiutato ed ha convinto il frate ad aiutarci, permettendomi di sostituirlo. All'isolotto del Buon Pastore troveremo cavalli pronti per lasciare la città.. Ma ora ascolta..."
Spaccamontagne espose il piano e Raniero ascoltava in silenzio poi lo  abbracciò, riconoscente e commosso.
Così li trovarono i fanti incaricati di condurre il condannato sul luogo del supplizio. Erano entrati in silenzio e si erano fermati sulla porta, con le alabarde in mano.
Con loro c'era anche un uomo dall'aria molto autorevole, incaricato dal Comune di assistere all'esecuzione. Costui  si accostò al condannato, spiegò la pergamena che teneva in mano e lesse:
"In nome dell'Eccellentissimo Consiglio dei Dieci e di Sua Altezza Serenissima, il Doge, io vi comunico, Raniero detto il Diseredato, che il Tribunale vi ha riconosciuto colpevole e condannato alla pena di morte per annegamento nel Canale Orfano."
Raniero chinò il capo senza rispondere e i  quattro fanti lo circondarono.
Sempre in silenzio, il ragazzo seguì il falso frate, che apriva il mesto corteo; l'incaricato comunale e il boia venivano per ultimi.
Nel silenzio complice della notte, rotto solamente dall'eco che i passi si lasciavano alle spalle, il corteo attraversò scale e cunicoli e lasciò il tetro edificio.
Raniero aveva le mani legate dietro la schiena e per salire sulla gondola che doveva condurlo al supplizio, dovettero aiutarlo e il timoniere, che per l'occasione era un fante, si pose alla guida.
Dopo un breve percorso raggiunsero il Canal Orfano, reso tristemente famoso dalle esecuzioni di cui si era reso complice involontario…  Canale che sarebbe stato più giusto chiamare Canale della Morte, come in effetti lo aveva ribattezzato il popolo.

Il primo a lasciare la barca fu il timoniere, seguirono il prigioniero e il frate, poi tutti gli altri; ultimo a scendere fu il boia, che si fece aiutare da un fante a portare corde e pesi. Uno sguardo di intesa corse fra i due e intanto, il finto monaco accostava la piccola croce  alle labbra del condannato. Proprio nello stesso momento, nell'oscurità  screziata di ombre, la luce delle fiaccole dei fanti illuminò le figure di due uomini incappucciati ed armati fino ai denti.
Erano comparsi sulla scena come d'incanto.
I due aggredirono i fanti e il finto monaco fece volar via il saio ed ingaggiò una lotta con l'ultimo fante poiché l'altro, il terzo, si era trovato prigioniero del pugnale del timoniere.
L'incaricato comunale, trovatosi solo, si avvicinò al boia.
"E' un tranello.- disse - Vogliono liberare il condannato." ma quello, con una risata di scherno, si liberò del cappuccio, mostrando all'esterrefatto signore, un volto sconosciuto.
"Voi non siete il boia!" esclamò sgomento.
"Proprio no, signore. Se volete il vostro valente strangolatore a pagamento, tornate nelle prigioni del Ponte dei Sospiri. Da qualche parte troverete un salame impacchettato… ah.ah.ah." rise.
Sopraffatti per numero e valore, gli uomini della Repubblica si arresero e il rappresentante del Consiglio tuonò:
"Non penserete che questo atto resti impunito? Chiunque venga condannato dal Tribunale dei Dieci è raggiunto ovunque…"
"Non questa volta, messere… - lo interruppe Spaccamontagne con un comico inchino - Non questa volta: la vostra giustizia non ci riguarda."
"Ma essa vi ragg…!"
"Staremo ad aspettare. – lo interruppe ancora il giovane con sarcasmo - Per intanto, portate i nostri saluti ai Dieci del Consiglio." replicò l'ex bandito voltategli le spalle poi raggiunse Raniero già ai remi della gondola; gli altri erano già lontano oltre il Ponte, inghiottiti dalle tenebre.
Seguendo il piano di fuga, all'isolotto del Buon Pastore Raniero e Spaccamontagne  trovarono ad attenderli  i cavalli con cui lasciare Venezia e la laguna.

Mentre alle prigioni la Giustizia faceva il suo corso, cosa accadeva nella cantina del Gambero Rosso, dove, secondo le affermazioni di Bortolo doveva trovarsi Rames?
Nel lasciarsi con lo zingaro, due giorni prima, il taverniere si era reso conto di aver messo le sue sorti nelle mani del compare e questo proprio non gli piaceva. Decise, con l'aiuto di alcuni amici suoi complici, di rapire lo zingaro e rinchiuderlo in fondo alla botola della sua cantina in attesa degli eventi.
                                               

Rinvenuto dallo stato di incoscienza in cui lo aveva sprofondato un violento colpo in testa, Rames si ritrovò legato mani e piedi nel fondo della botola del vecchio compare ma, passato il primo attimo di rabbia, lo zingaro non faticò a liberarsi delle corde con l'aiuto di un pugnale di ridotte dimensioni che portava nascosto sotto la suola dei calzari e che era sfuggito alla perquisizione del taverniere.
"Piccolo ladruncolo di polli. Ti farò pentire d'essere al mondo." ringhiava lo zingaro mentre perlustrava il fondo della botola.
Nell'udire un rumore di acque, gli vennero in mente certe parole di Bortolo:
"Tutte le cantine a Venezia hanno uno sbocco in mare. Un cadavere può sparire senza lasciar traccia."
Sicuro che anche quella cantina ne avesse uno e col timore che anche a lui  potesse toccare quella sorte e finire cadavere in mare, si pose immediatamente e febbrilmente alla ricercalo di qualche indizio.
La cantina era ampia ed umida; una sottile coltre di polvere, resa compatta dall'umidità, copriva ogni cosa quasi con ostentazione.
Il giovane zingaro buttò tutto per aria: casse, stracci, assi ed ogni altro oggetto e i suoi sforzi furono finalmente premiati, quando scoprì un'apertura nella parete, alta settanta o ottanta centimetri e larga non più di mezzo metro. Un sinistro sorriso gli rischiarò la faccia rabbuiata.
Nella serratura  mancava la chiave e lui la cercò febbrilmente, anche se era certo di non trovarla. Non la trovo, infatti, ma non se ne curò: far saltare la serratura con la punta del piccolo pugnale era un gioco da ragazzi.
La porticina si aprì cigolando e lo zingaro, pugnale tra i denti, si buttò in acqua senza esitazione e nuotando vigorosamente ed a lunghe bracciate, aggirò la casa e si allontanò lasciandosi alle spalle il Gambero Rosso.

A Palazzo Mavera trovò i compagni già pronti a lasciare la città; l’incalzare degli eventi suggeriva cautela.
Irriconoscibile per la vistosa ferita alla fronte e per il sangue che gli imbrattava la faccia e le vesti, Rames fu accolto da un coro di disapprovazione;  il vecchio Ivan gli puntò  contro la mano accusatrice.
"Hai tradito un ospite. - tuonò - Fermati dove sei."
Rames non si fermò, ma lentamente ed a lunghi passi si avvicinò al crocicchio degli zingari.
"Cosa hai da dire a tua discolpa? —, incalzò il vecchio capo -  Parla. Difenditi."
"Io mi difendo col pugnale." rispose lo zingaro sfoderando la sua arma micidiale.
"Posa quell'arma e sottomettiti al giudizio degli anziani della  tribù. Lo sai a cosa vai incontro con la tua impudenza."
"Nessuno di voi mi toccherà!" ringhiò lo zingaro.
"Prendetelo!- ordino il capo - Che sia..."
Rames, però, non gli consentì nemmeno di terminare la frase e senza un attimo di esitazione immerse l'arma nel petto del vecchio capo, fino all'impugnatura.
Ivan non gridò, neppure un lamento; fu Marika che lanciò un urlo disperato e si  gettò in avanti.
"La visione... La visione..." urlava, tentando di sorreggere il padre.
Rames si chinò con gesto repentino a recupeare il pugnale dal corpo senza vita del capo, pronto ad uccidere ancora, ma Pthos, il futuro Re del Popolo Giziano, il figlio adottivo del vecchio capo, armato lui pure di un pugnale, si portò alle sue spalle.
"Risponderai a me di questo sangue."
Quando Marika si accorse del nuovo duello mortale che stava per consumarsi, si alzò e come una furia raggiunse i due.
"No!" urlò, mettendosi tra di loro.
"Allontanati, Marika.  – le ordinò il giovane - Il cadavere di nostro padre giace per terra e tocca a me vendicarlo. Farò bere al mio pugnale il sangue di questo infame."

Rames indietreggiò; Pthos fece l'atto di seguirlo, ma l'altro voltò le spalle e si allontanò di corsa, come per fuggire; invece si fermò di scatto, fatti pochi metri, e si volt: si vide la punta del pugnale luccicare fra l'indice e il pollice della mano destra.
Pthos capì le sue intenzioni e tentò con uno scatto di evitare il colpo micidiale diretto al petto. Inutile. Il pugnale gli si conficcò fra due costole.
Il giovane mandò un grido e barcollando si aggrappò ad una colonna.
Urlando come una forsennata, Marika gli corse accanto e tentò di sorreggerlo, ma il giovane lentamente si lasciò scivolare a terra.
"E' ancora vivo. - disse qualcuno alle spalle della ragazza - Portatelo via."
"Prendete quell'assassino e consegnatelo alle guardie della Repubblica." fece eco un'altra voce, ma una terza, tonante come un uragano, sovrastò le altre:
"A me, assassino!"

Era Manes e Marika per la seconda volta si frappose fra due pugnali tesi.
"No, Menes. – gridò, aggrappandosi alle spalle dello zingaro - Non voglio vedere spargere anche il tuo sangue. No!..."
"Era questo che ti terrorizzava? - esclamò il gitano, senza voltarsi nè indietreggiare di un sol passo - Io non posso fermare il Destino, se questo è già stato scritto... Lasciami, Marika. Non é tempo per piangere, questo!"
Approfittando di quegli attimi, Rames aveva recuperato il pugnale caduto a Pthos e con quello si dispose a difendersi.
Menes lo fronteggiò, gambe divaricate, busto teso in avanti.
Era astuto, Menes e conosceva mosse di lotta segrete; era anche buono e gentile, ma quando andava in collera diventava una furia invincibile. Lo  sapevano tutti e anche Rames lo sapeva e per questo lo temeva e la paura cancellò in lui ogni residuo di umanità.
"Tu non dici niente? - lo sfidò - Non ti vanti di far bere il mio sangue al tuo pugnale?"
L'altro non rispose e quel silenzio lo rese folle di furore, una cieca violenza che lo portò a scagliarsi sull'avversario come una valanga.
Il suo pugnale sfiorò la spalla di Nemes, che continuava a sostenere l’attacco, poi la punta di una lancia costrinse Rames a lasciar andare il pugnale; anche Menes lasciò cadere la sua arma: erano giunti i fanti della Repubblica.

"Chi é lo zingaro di nome Rames?" chiese uno di loro.
"E' lui." una selva di mani accusatrici indicarono l'assassino.

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IL PATTO - Cap. XII - I Piombi


Un caldo soffocante svegliò Raniero dal doloroso torpore, ma passò un lungo attimo, aperti gli occhi, prima di capire dove fosse: nella coscienza era viva una sola sensazione: un immisurabile dolore. Poi, come un lento gioco ad incastro, ricordi ed immagini ricomposero la coscienza: l’interrogatorio, la camera della tortura, gli uomini incappucciati.
Ricordò ogni cosa e quando gli occhi, assuefatti al buio, riuscirono a distinguere tra le ombre, scorse una finestrella sopra la testa.
Si trattava, invero, di un’apertura  lunga non più di trenta centimetri e larga ancora meno, da cui la luce entrava a malapena, lasciando ogni cosa nella penombra.
L'aria era rovente, eppure un lungo brivido di freddo gli percorse la schiena: "Lei" era là.
Ancora una volta,  a trafiggerlo col  suo gelido sguardo senza fondo nelle orbite vuote: Madonna Secca. la Morte.
"Cosa vuoi? - tentò di sollevarsi - Perché mi perseguiti? Vattene via. Vattene via o prendimi, una buona volta."
Ricadde indietro con un lamento.
"Quella" continuava a guardarlo. Immobile. Terrificante.
"Vuoi che ti supplichi di risparmiarmi?...O vuoi invece che paghi subito il mio debito?...Allora fammi uscire da qui… Anch’io, come te,  ho un credito da esigere e se vuoi che… ma... ma dove vai? Aspetta...Aspetta..."
Raniero tese in avanti una mano, ma la terrificante presenza, come un'immagine riflessa in una superficie diacqua smossa, andò pian piano scomponendosi e i frammenti della visione sbiadirono e si dissolsero nell'aria tornata arroventata.
Raniero tese nuovamente la mano, ma incontrò il muro.
Liscio,  rovente, quel contatto gli procurò quasi bruciore alle dita; la ritiro immediatamente, per poi tenderla ancora ed  ancora incontrare la barriera infocata..
Si mosse: il giaciglio di pietra era scomodo e torrefatto e il dolore alla schiena, insopportabilmente atroce. Tentò di sollevarsi, ma ricadde indietro, ricacciato sul fondo di quella tomba dalla volta così bassa da non permettere sorta di movimento.
Si rannicchiò su un fianco e gemette: "Acqua..."

Nello sforzo di liberarsi da quella posa che dava i crampi ai muscoli, riuscì ad afferrare le sbarre dell'apertura. Infocate anche quelle, come ogni cosa, ma, al confronto delle fiamme che gli divoravano le spalle piagate, erano un refrigerio.
Cercò di guardare fuori, nella speranza di scorgere qualcuno, udire una voce, un segno di vita, perché si sentiva solo, l'unico essere al mondo, ma non vide nessuno, nè sentì nulla: sopra di lui non c'era che uno spicchio di cielo azzurro ed accecante.
Atterrito, ritrasse lo sguardo e il buio gli parve ancora più buio. Sconfortato, divorato dalla sete, tormentato dalla sofferenza, tornò a sedersi e la mano urtò contro una ciotola di terracotta che non aveva visto prima e che cadendo rovesciò il contenuto.
Stese immediatamente l'altra mano e la ritirò bagnata.

"Acqua...acqua..." gemette recuperando la ciotola che si portò febbrilmente alle labbra, ma solo poche gocce scesero dal recipiente in gola, riuscendo  ad acuire ancor più il bisogno di bere.
La lasciò andare e si stese di nuovo: il suolo bagnato gli procurò un po' di refrigerio.
Rimase in quella posizione fino a quando, a notte alta, non vennero a prelevarlo per portarlo in una stanza dove qualcuno gli curò le ferite. Quando l'opera fu terminata, i fanti lo condussero per lunghi corridoi fino ad una  sala che egli riconobbe essere quella dell'interrogatorio del giorno precedente ed esattamente come il giorno prima, immersa nel buio. Il secondo interrogatorio ebbe inizio e fu preceduto da un’ammonizione.
"Abbiamo la convinzione che siete una spia e potremmo condannarvi subito a morte, con un processo che potremmo istituire subito. ma abbiamo scoperto in voi la tempra del soldato e vi daremo morte onorevole se risponderete alle nostre domande."
"E se fossi innocente?" fece di rimando il ragazzo.
"Non spetta a voi fare domande. Ad ogni modo voglio rispondervi: se siete innocente non dovete temere la decisione di questo Consiglio. Ed ora ditemi dov'èil vostro amico e, se davvero ha lasciato Venezia, perché  lo ha fatto in tutta fretta."
"Vi ho già etto il perchè, eccellentissimo signore, e non posso che ripetere quanto già sapete."
Il colloquio continuò, estenuante, per più di due ore, ma Raniero rimase fermo nelle risposte, nonostante l’usanza dell'epoca di accompagnare con la violenza gli interrogatori e per la seconda volta egli fu condotto nella camera della tortura e torturato e solo quando i carnefici si convinsero che nessuna tortura gli avrebbe aperto la bocca, fu ricondotto in cella.
Verso l'alba ricevette la visita di una ragazza molto giovane il cui viso, affacciato allo spioncino, era quello di una sconosciuta e su cui la fiamma della lampada che teneva in mano, creava giochi d'ombre.
"Sono la figlia del carceriere. - disse sottovoce - Vengo a rassicurarti sulla sorte del tuo compagno."
Raniero balzò in piedi e si accostò allo spioncino.
"Non capisco." disse.
"Il tuo amico, dice di stare sereno, che non ti accadrà nulla."
"Chi vuole aiutarmi?" domandò dubbioso.
"La mia padrona, madamigella Bianca Mavera.
"Madamigella Mavera? - ripetè il ragazzo assai stupito - E perché a madamigella Mavera starebbe a cuore la mia sorte?"
"Perché ella ti ama." fu la candida risposta, e lasciò Raniero senza parole.
"Dov'é adesso il mio amico?" domandò.
"E' nascosto nelle stanze di madamigella."
"E' pericoloso per lui. Occorre che tu gli dica di lasciare subito Venezia e di mettersi in salvo. Per me non ci sono speranze: sarò condannato a morte."
"Sono qui per dirti di non temere per la tua vita, ma ora devo andare. Abbi fede e addio. Addio anche da parte della mia signora."
"Addio..." bisbigliò il ragazzo mentre lo spioncino andava richiudendosi e il fruscio della veste allontanandosi.
 

                                                      +++++++++++++++++++

Il giorno dopo il Consiglio dei Dieci si riuniva per l'ultimo confronto e per pronunciare la sentenza contro Raniero.
L’ interrogatorio si protrasse per alcune ore e vide, faccia a faccia, i due accusatori di Raniero. Come prevedibile,  si concluse con le reciproche  accuse che contribuirono ad affossare ancor più la già precaria posizione di ognuno di loro e quando anche Raniero fu condotto davanti ai Giudici per l'ultimo interrogatorio, il tramonto non era lontano.
"Vi proclamato colpevole o innocente?"
La domanda di rito del Grande Inquisitore.
"Sono innocente."
La risposta del ragazzo.
"Cosa avete da dire a vostra discolpa?"
"Dico che non conosco chi mi accusa."
"Il suo nome è Gualtiero Monco, detto Bortolo."
Raniero cercò inutilmente nella memoria un volto che corrispondesse a quel nome.
"Non lo conosco." ripeté.
"E conoscete uno zingaro di nome Rames?"
"Quello lo conosco."
"E' lui che vi ha denunciato."
"Non pensavo che il suo rancore potesse giungere a tanto." esclamò Raniero scuotendo il capo.
"Per l'ultima volta, perché siete venuto a Venezia?"
"Per incontrare dei mercanti provenienti da Roma, come ho già spiegato."
"Mentite!... Ma mentire non vi salverà la vita."
"La mia vita è nelle vostre mani!" rispose il ragazzo e si chiuse in un mutismo difensivo fino a che non venne condotto via.


Terminati gli interrogatori, i Giudici si riunirono in una sala accanto per prendere una  decisione sul verdetto. La seduta ebbe inizio. Tutto quanto i Segretari avevano riportato dell'interrogatorio, fu discusso a lungo e alla fine l'Avogador si alzò.
"Eccellentissimi signori. - disse - dall'esame testé fatto delle cose scritte e lette, dobbiamo desumere la colpevolezza o l'innocenza dell'imputato. Vi prego, dunque, di procedere alla votazione con animo sereno ed ispirazione divina.."
"Ho qualcosa da dire. - interloquì uno dei Dieci - L'imputato non ha confessato e senza la sua confessione non si può procedere alla votazione."
"Eccellentissimo Signore. -gli rispose il Grande Inquisitore - L'accusato non ha parlato neppure sotto la tortura, ma questo non è un buon motivo per dubitare della sua colpevolezza."
"Non dubito della sua colpevolezza, ma così procedendo, noi alteriamo il corso della Giustizia."
"Non possiamo attendere oltre, data la gravità del caso. Si passi ai voti, dunque."
"Ai voti." fece l'altro.
"Ai voti." dissero tutti
Il risultato dello scrutinio fu unanime: condanna a morte; sorte non diversa toccò allo zingaro, per Bortolo invece fu sentenziata la prigione.
La seduta si sciolse con la solita lettura:
"Vostra Altezza Serenissima, eccellentissimi Consiglieri, proclamo la colpevolezza dei tre imputati comparsi davanti a questo Onorevolissimo Consiglio, nelle persone di Gualberto Monco, detto Bartolo, gestore della locanda il Gambero Rosso, sita nell'isolotto del Querciolo, alla condanna di venticinque anni da scontare nel carcere del Ponte dei Sospiri, per rapina. Nella persona di Rames, gitano e lanciatore di coltelli, alla condanna all'impiccagione, da eseguirsi sulla scala principale del Palazzo Ducale, colpevole di assassinio; nella persona di Raniero, detto il Diseredato,, sconosciuto, alla condanna per annegamento nel Canal Orfano, per spionaggio ai danni della Serenissima Repubblica di Venezia. Si ordinano le condanne: la prima per domani all'alba e la seconda per la notte di domani. In tutta segretezza."
Letto il foglio, il Segretario lo porse all'Avogador, che a sua volta lo porse al Doge il quale recitò la formula di rito:
"Eccellentissimi signori, della segretissima seduta testè terminata, fuori da questa sala non dovete farne parola. Ne va della vita e dei beni."
 

All'oscuro di ciò che lo attendeva, Raniero dormiva profondamente; lo svegliò il rumore della chiave che scorreva nella serratura.

*

Sette e Confraternite - Il Priorato di SION

Questa, non vuole essere un’indagine, ma solo una personale opinione su una realtà inconfutabile: l’aspirazione dell’uomo di penetrare il mondo del mistero legato a stati dicoscienza interiore, messaggi divini, fenomeni legati alla natura o altro ancora.

Un’aspirazione umana che ha percorso tutta la storia e forse anche la preistoria, inseguendo la ricerca di poteri e conoscenze che potessero essere utili alla comunità.

Un’aspirazione legittima e positiva che, però, molto spesso, si è  trasformata in strumento egoistico e negativo,  necessariamente occulto, attraverso cui esercitare sugli altri dominio ed opera di persuasione.

E’ il mondo delle  Sette, delle Confraternite e delle Società Segrete e, anche se diversa è l’origine e la finalità di ognuna di loro (politica, religiosa, economica, criminale), hanno tutte una cosa incomune: la segretezza e il raggiungimento di uno scopo prefisso.

 

- Il Priorato diSion

 

Trattasi di una setta di cui dubito ci si sarebbe interessati se non fosse legata ad unepisodio di isterismo culturale e letterario collettivo.

“CHRISTUS A.O.M.P.S. DEFENDIT”

(Christus Antiquus Ordo Mysticusque Prioratus Sionis Defendit : Cristo difende l’Antico ordineMistico del Priorato di Sion)

Un Antico Ordine Mistico, lo definisce il suo fondatore.

Una setta, inrealtà, fondata nel 1.956, che si ispirava ad una Confraternita del passato cheportava lo stesso nome.

Il fondatore, PierrePlantard, uomo dalla complessa personalità e dalla fervida immaginazione, era un razzista, rivoluzionario, anticlericale e con qualche conto in sospeso conla Giustizia.

Tipografo di professione, passò l’intera esistenza a creare falsi documenti, allo scopo di costruirsi un passato glorioso con radici lontane.

 

“C.I.R.C.U.I.T. »(Cavalleria di Istituzione e Regola Cattolica e di Unione Indipendente Tradizionalista) era il nome del giornale attraverso cui divulgare il proprio credo, le ricerche, le presunte conoscenze e le scoperte altrettanto presunte.

 

Le finalità di questa setta erano tante:

-        Restaurazione inFrancia di una nuova Monarchia e Cavalleria.

-        Fondazione di un SacroImpero d’Europa

-        Sostituzione dellaChiesa Cattolica Romana con una nuova Religione di Stato universale e profetica.

Per realizzare tutto questo, Plantard e i suoi seguaci iniziarono una frenetica attività di stampa e divulgazione di documenti (più o meno falsi), molti dei quali sulla figura del parroco di Rennes-le-Chateau, dove, secondo le sue ricerche, si trovava la tomba del Cristo.

 

In realtà, simpatizzanti e seguaci non mancavano: la ricerca di una Nuova Verità,surrogato di una religiosità inappagata e di una scienza fallibile, affascinava e catturava.

E poi, la tendenzadel mondo occidentale a lasciarsi affascinare dall’occulto e dall’incomprensibile… quanto più occulto ed incomprensibile fosse…  Grazie anche al successo di un best seller dell’epoca (Le tresor maudit) ed alle inchieste televisive condotte da giornalisti come Lincoln ed a manoscritti e dossier pubblicati in un altro libro dalle vendite record (Il Santo Graal).

Tutto serviva alla Setta per legittimarsi e darsi una continuità con una Confraternita fondata daG. da Buglione durante le Crociate e che portava il nome di Priorato di Sion.

 

In realtà, pur riconoscendo  che l’Antica Confraternitasia potuta realmente esistere, non vi è oggi nessuna traccia che ne ricordi l’esistenza: né una chiesa, né un college, né altro.

Caduta nel dimenticatoio.

Nemmeno del Nuovo Priorato (che resuscitò quello antico) si sa più nulla dal 2.000, anno della morte del suo fondatore.

Se siamo ancora quia parlarne, però, è perché un alone di mistero avvolge ancora questa setta. 

La capacità degli autori de il Santo Graal   e Il Codice da Vinci  di mescolare vero e falso è tale da indurre all’equivoco e far precipitare in un mare di congetture senza né capo né coda.

 

Nel Santo Graal   si  riportano le liste di Grandi Maestri (tracui Da Vinci, Botticelli, Hugo, Newton, ecc) e si parla di decifrazione dicodici segreti, rebus, indizi nascosti in dipinti, ecc.  Si fanno congetture sulla fondazione dell’Ordine dei Templari.

Nel Codice daVinci  e in Angeli e Demoni  (il primo, un’affascinante ed intrigante ricostruzione del mito e il secondo, un assai mediocre tentativo di proseguiresulla stessa rotta) l’autore spinge la propria vulcanica mente verso il fantasy più ad oltranza.

 

Una domanda:

-        La Sindone

-        Il Sacro Graal

-        L’Arca dell’Alleanza

-        Le varie reliquie sparse per il mondo

 

cosa rendono, queste ricerche,  così attuali ed appassionanti per l’uomo moderno?

 

*

FIOR di LOTO

 

Proprioall’ingresso della prima delle grandi Sale della Statuaria, al Museo Egizio diTorino, c’è una splendida colonna papiriforme ornata alla base da un fior diloto chiuso e in alto da un fior di loto aperto.

Osservandola, ognivolta mi viene in mente un episodio riportato da:  “Le Istruzioni di Amenemeth”

(Libri dellaSapienza).

 

Amenemhet era unSovrano con qualità di scriba e teneva una lezione a suo figlio sullamisericordia del  Nether- Wa,  Dio-Unico, verso gli uomini.

Dopo un po’, ilragazzo, piuttosto scettico, gli fece una domanda:

“Signore, – disse-  Come può Dio occuparsi di tutti gliuomini che sono tanti, tanti e poi tanti ancora ed ancora di più?”

Dopo un attimo diriflessione, Amenemhet chiese:

“Figlio, hai maicontemplato un fior di loto?”

“L’ho fatto, sì.”rispose l’altro con accento un po’ stupito.

“Lo sai, figlio,che ogni sera il LunareThot provvede a chiudere ognuno dei petali del calicedel fior di loto, affinché né insetti, né animali, né vento o acqua lo danneggi?E lo sai che ogni mattino il Solare Horo provvede a riaprire quei petali perridare al fiore vita e bellezza?…  Sedue Divinità importanti come Thot ed Horo si occupano di un umile fiore, comepuoi dubitare dell’interessamento di Dio verso l’uomo, la più importante edamata delle sue creature?”

 

Cosa dire diinsegnamenti come questo!… E’ così attuale, che sembra uscito dalle labbra diun Pontefice.