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Raccolta di poesie di Bianca Mannu
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Spaesamento

  

Sulle rive della Sprea

una piccola s’è persa

bianca

di capelli

antica ragazza.

 

Arcaica

e

così

Bianca

che

senza riconoscersi

si guarda

 riflessa dai lumi

freschi di globalizzazione

delle vetrine gotiche.

 

“Che fa lei qui

simile a una formica

stanca

che cammina a vuoto

da sette lunghi dì

come se le tornasse nuovo

aver lasciato il suo covo

 e quel vaso a uovo

 di cotto

dove a stento alleva

una «begonia discolor»

 laggiù

sul  calcagno dell’Isola

del Lapislazzuli mar?

 

Nel cuore della Prussia

si aggira un po’ perplessa?

 Da questa babilonia

di segni e di sentori crucchi

di tracce dei vecchi orrori

  è sazia e intormentita?”-

chiede a lei

la faccia mia

stranita

 

Scoccano

teutoniche

dal campanile a cuspide

 maiolicato in verde

le Stunden/Uhr

sopra la

Brandenburger Tor

 

Stunden con punta d’or!

 Teutonica mente affiggono 

a un cielo plumbeo

la bronzea quadriga

della Valchiria  

alata:

una Nike grexata

 

E ancora bronzi

 bronzi e falsi ori -

che mezzo mondo pianse -

a incombere

tra il verde rabbuiato

su parchi e su giardini

 curati con germanico

ripicco

 

         Ma alla formica in tour

i formicai stranieri

con vezzi

dietro ai vetri

di cortine

schiuse a cuore

su vasi

di finti narcisi

non destano stupore

 

Tranne l’ossequio

per le simmetrie geometriche

sono simili al suo

che

rosso-fiamma

ostenta invece

una begonia

sulla rozza cornice

del balcone

dove

i  suoi tramonti accesi

spiando va

infervorata e sola

 

Da lì

- ecco la nostalgia!-

 almeno col maestrale

vola

e non scrive cilecca

qualche sua

parola.

 

*

L’altra metà dell’uomo

I

Gineceo … come ipogeo

La storia era partita senza scorte -

su per giù così ben prima di Saffo -

ché per allora si moveva vuota

d’ogni scelta muliebre per sentenza

d’ogni nozione di piglio controverso

d’ogni scimmia di dottrina maschia

in voce bianca e di gentile aspetto …

Mai che donna avesse corale udienza

e il suo dire prendesse ala di precetto

ma scimmia del padre in voce di falsetto

sempre nella oikìa risonasse

 in sua eco perfetta.

 

 II

Maschia  la cifra …  

Era la polis neanche in germe sogno

quando il kyros dominava dall’akros

su quanto palpitava nell’oikos

E già - per tacito costume - a stuolo

aedi digiuni ed àuguri affamati

con vili bifolchi e ignobili accattoni

stanno alla stoa d’arroganti Aristoi –

tediati signori di non pingui armenti –

alla razzia come alla guerra avvezzi

e ad altre usanze – benché regali- atroci

Tutto era maschio allora per l’assetto

convenuto - pur in sacro peplo involto

 

III

Appartate …

Compresse in obbligate stanze

donne a oblique dee imparentate

– possibili olocausti –  quasi nulla

di pubblica evidenza – al più alveare

per produzione padronale : fattrici -

nutrici in turnover per regola d’età -

di varie trame tessitrici - all’ira

esposte di Partenos – operaie tristi

 di sudari e di lugubri trapassi –

ministre vicarie di pargoli ed ancelle

in  tempi/luoghi circoscritti  - regni

che Giove mai diresse di persona

 

IV

 Crogiuoli d’angustie

Valuta – o Zeus – l’ancillare suo status:

ad’Erinni ed a Moire “insorellata”!

Per natura o per Fato disarmata

docile manufatto a sua insaputa

come s’anche la mente amputata avesse!

Di sé - mutila alquanto e deprezzata -

un alias per noia tesseva inopinato

nelle pieghe del suo ambito privato …

Ed ali  nutriva - cupide di volo -

in preda al capogiro di gemmare

da sé un suo doppio irriducibile:

cheloidi - maschio e femmina – in uno

quali spiriti nel Fato perturbati

 

V

Tempo del sacro

Agli Aristoi compete – grato nume –

disporre il nodo del sacro col profano

- interrogati gli àuguri - e imporre

ai coadiuvanti sequenze e modi

a norma d’uso consacrato.

“Per le più ambite e molto audaci imprese

l’arduo assenso divino impetrerai

con somma pietas  e con  zelante cura

- la vittima sacrale sull’altare

degna dell’entità dello scongiuro.”

 

 VI

Dedica

Per convenuti segni  - dalle schiere

di pizie importune e di veggenti orbi

di sgradite mogli o di sleali ancelle

d’esecrate etère o d’infanti inermi  -

- tra l’una e l’altra parentesi lunare            

o del  pigro corso generazionale -

nel viluppo segreto e transeunte

dei suoi moltiplicati equivoci –

per oblazione era estratto  un ente  

… pressoché filiale

In qualità d’umano paradosso

era dunque dal padre-re promosso

all’appetito scosso d’un simulacro

ospite d’un nume in auge …

 

VII

Guiderdone

Immane prezzo e senso della prova

per la vittima segnata “a sé già persa”

nel santo tiaso o nel mistero assurdo

Sciolto in rituali dissimulatori

e assise conviviali il panico sacro

a individuali spasimi intrecciato:

 impetrare la comune buona sorte

 scongiurare imminenti carestie

la colpa e il suo ristoro ripartire

sotto la potestà del dio: per sempre

 

VIII

Combinazioni

Forse accadde -  e per più volte accadde -

che una famula di provata devozione

 - con licenza di filiale sbrego – al padre

il pugno infragilito teneramente aprisse

onde allentare i sigilli al sordo tempo

e  accelerare del suo moto la misura :

sì che il gesto uscito uno e individuale

si dispose nella storia a campione generale

e si chiamò  progresso! 

 

IX

Ricorrenze in asintoto

Ma ancora e fino a un “sempre” più caduco

l’umano - col de iure insieme - inventa

sue procedure autoassolutorie

e trasmutando dimentica

e  deriva in … replicanti

tragiche giaculatorie.

 

Poemetto inedito. 

*

Fasi

 

un rovo esausto

stringe alla gola

il mio cieco filo d’acqua:

annaspo sospesa sui vuoti

aperti dal passaggio assiduo     

di nembi – messaggi d’ombra

che l’obliquo spasimo

dei quattro venti insieme

gonfia di minacce

 

dall’urto sguaina

tagliente e repentina

la luce a coltellate

- non calde di sole

ma di luna diaccia -

in un torbido di brume

 

nella camicia di cenere

le braci primigenie

- pur male alimentate -

contendono alla cocciuta

legge della consunzione

le molliche ultime di vita

annidate nei cavi

del cuore accartocciato …

 

 sussulta da gatto il cuore digitante

al ronzo delle mosche

furenti di morte

per poi tossire – in piena crisi

asmatica -

grumi d’alfabeti

sul deserto della pagina.

*

Silenzio e silenzi

Era … è …

 

Il a été

l’enfant gâté … di poeti

letterati folli e anacoreti …

Era questo un silenzio

di maniera e d’ozio

un silenzio ad orari

per  sit-in letterari -

era discreta interruzione

allo stress del partitone -

era un dopo differito

al parlare  già gualcito.

Era. A notte

era fondo - era banale

ma del domani nauseabondo

livido onorava il capezzale

d’uno stanco giramondo.

 

È.

Maligno - denso.

Silenzio nero  genuflesso

già calcificato nel suo vizio

di colmare ogni interstizio

nella carne d’uno spazio

ripiegato  in quest’adesso

che sta malato e circonflesso …

Silenzio umido e  ratto -

clandestino sul selciato -

rotola con la vedovanza della sera -

scivola sulla negletta fioriera

e preme sulla triste atmosfera

d’una più mesta piazza

dove vortica e muta e impazza

per qualche secondo eterno

la voce disperata dell’inferno.

 

Prolifica.

Altri silenzi piovono ansanti

sulle teste dei rari passanti

Alcuni aguzzi t’assaltano avversi

negli angoli bui dei giorni persi -

pochi dispersi in rabbiosi digiuni

ne ignorano  altri sotto i pleniluni.

Quelli ansanti arrivano - enti vivi -

col trambusto dei tripudi festivi:

ma sono ricordi di giovani dolenti

smanie iniziali di nuovi adolescenti … 

Per timore certi silenzi bisbiglianti

strisciano nei cervelli dei pensanti:

sono silenzi che tornano spettrali

filtrando dentro da muti davanzali.

 

Memento.

Battono le suole silenzi raggelati

sopra il pallore degli ammalati

Attoniti silenzi sulle bocche a museruola

- doline di carne derubate di parola -

 - silenzi rappresi sugli usci abbandonati

- silenzi all’addiaccio come cani appestati

- silenzi custoditi nell’animo scavato

 - silenzio affilato - silenzio deturpato -

 - silenzio a silenzi ammonticchiato -

 - silenzi a silenzio agglutinati

in grigie pietre senza giusto pianto

Silenzio d’oggi, d’ieri e l’altro ieri

per stingersi straniato in mille cimiteri.

 

*

Colpi di coda

Affiochite o semispente

le luci della città interiore -

prendi un cammino ignoto

che sgrana frane di fuliggine.

Di vele e remi il moto è messo ai ceppi

forse da un Dio che non ti ama

forse dal Caso che non si dichiara.

Eppure l’asperità caparbia del respiro

eccita tuoi obsoleti lembi

a remare verso il Capolinea detestato.

È questa l’umanità del Fato:

vedere l’invisibile – ignorare il prevedibile

e poi – forse - volere l’irrefutabile.

Misterioso nel tempo e nella prassi

fu impresso a caldo il Fato

con cadenza irreversibile

sul rigoglio di appetiti inoculati –

ancora un poco vivi – adesso rastremati –

che paghi a boccate d’aria stanca.

 

 

Era l’alba appena quando ti raggiunse

come rivelazione la Novella.

Il tempo fiammante di sorprese e giochi

era tuo - senza frontiere - a verde aiola:

senza patemi potevi vagheggiare

la tua assenza priva di spavento –

come bigiare una giornata a scuola.

Rassicurata: avresti avuto ali -

se morta - e ogni bene mondano

avresti beatamente sorvolato –

così come - mentendo - la nonna

ti persuadeva che volando da lassù

avrebbe seguito ogni tua gioia

ogni tuo verde spasso su ogni prato

ogni tuo dubbio sul mondo di quaggiù.

 

 

L’ingordigia e la deità di Crono

chiudono in mito l’angoscia della specie.

Ma tuo è il tempo faticoso della coda:

non resta che andare rimanendo -

a soffi e sbuffi - in folle il cardias –

smaniosa in fondo a un letto -

divisa in ansie contrapposte:

se affrettarti alla Stazione ovvia

o fingere di scucire al Fato esoso

una o più soste speranzose …

Come se il semplice Poi

potesse con le spine dare rose.

Come se quel Poi potesse aprire

il chiuso pugno per donarti d’un colpo

- ora! – quel bene senza nome -

quello  non confessato –

che al Poi segretamente hai riservato -

come saldo di conto –  per altro scampo 

dalla finale sorte.

Inutilmente!- come sapevi e sai.

*

Un certo vento

 

Labbri stretti

arpeggiava orizzontale

insidie vaporose

un certo vento

 

Obbediente a sé - il corpo d’aria -

mi trascorreva sulla pelle ottusa

insistendo sulla nota

dello stesso pentagramma

come se altra non fossi

che stoppia di campo

e non qual ero:

cucciola chiusa

in amato altrove

 

Ancora replica senza mutamento

il querulo soffio

e non importa il luogo

e non importa la stagione

né quante ne possa io contare

in termini di solchi 

sul volto e sulla fronte

 

Mi geme ancora addosso

il suo compito lagnoso

e m’inquina di  carenza

l’obliosa mia latenza

d’ogni senso

quando nell’animo

assomiglio a quella me

che non sapeva

 

E ancora arpeggia

tenere insidie vaporose

quel vento

puntando con la sincope

al cuore del risveglio

ghermendo per la gola

la mia cara alienazione

 

Lo sgomento del lutto

il miele ignaro d’una volta

insapora per sempre

d’assenzio repentino:

mitico nodo delle braccia

mitica età raccolta in occhi chiusi

per sempre cari

 - Assenti -

*

Vizio di vivere da sulla gobba del tempo

Da lei qualcosa si staccò

come organo esule - da lei -

in cerca d’un corpo ad hoc …

Lei lo inseguì - lo superò

volgendosi a guardarlo … mh?

Un modo di aspettarlo

per fissarselo sul dorso

come si fa con lo zaino

all’inizio di una gita

su terreno in salita

 

Un impeto e un moto

ignoti nel germe e nel destino

che lei - a sorsi e morsi- inghiotte

ora e per sempre come propri

 

Pari a un’ameba ignara

connivente  con il tutto e con il niente

dimenerà torso e appendici

cucendosi  a toppe e lune

sensi e senso

per  fabbricarsi il – giusto? –

tempo di esercizio

atto a scovarne il mistero e le ragioni

o contrarne appena il vizio

 

*

Sintesi e dispersione

 

Oscillo irresoluta   dal destro sul sinistro

dal sinistro sul destro: non mi agguanto

 

Oscillo sulla gobba del tempo dimagrito

che già si strama lungo il vecchio ordito

 

Oscillo sul boccheggiare del mio canto

Su dissonanze vocaliche alito malferma

percuoto un niente e suono come un sistro

 

Mi va tessendo il tempo la mia  assenza

 irride la sosia che s’è di me fissata in erma

 

La terza intanto sospesa come bruma

s’ adatta a una diafana apparenza

e al presente indecidibile che sfuma

 

Con freddezza sente e  s’adegua ad una sobria danza

di sillabe evocate sul muro di una stanza

 

Io – grumo di sintesi e dispersione in atto -

mi avvezzo ad esser ciò che  sono: un biocco

di polvere -tra spifferi – vagante  sull’ammattonato

 

Scopro dovunque esempi del niente che sarò -

un niente che già – senza sapere - so.

*

Lasciami respirare

Lasciami respirare!

 

Non posso respirare

coi miei tristi polmoni

d’uomo nero  - urlo

a spavento degl’infanti

Non posso respirare

sotto il giogo greve

del tuo ginocchio bianco!

 

Alti sono e negletti

d’ogni grazia i caseggiati -

lunghe e grigie le strade

dove fin da bambino

già cattivo e reo mi allevo

in un mondo che mi nega

 

La scuola che ricordo è luogo bianco –

bianco il suo giardino e i paffuti compagni

bianchi i libri e le preghiere

bianco il Gesù sulla sua croce bianca …

 

Piccolo e nero – seme di cappero

nella crepa d’un irto bianco muro …

Se cresco nel magro – che farci? 

Ma bianchi  e marmorei sui semi solidali

gli emendamenti ambìti stavano

 e stanno anche per me – a cippo -

nella Casa tutta di bianco costruita

E ancora s’intrudono nel nero sogno

dell’umano universale

 

Un Cristo - bruno di cattivo legno -

 in un capanno più cattivo e angusto …

Un ramo a croce nell’anfratto lo ritrae -

caro abbraccio di buio nella fuga …

Per il cattivo – un Cristo obsoleto!

Mi sono fatto un nido -

un nido ch’è cantiere ed orto -

nel  ventricolo sinistro

nero di sangue antico e d’agonia

nel cuore  dell’uomo crocifisso

Poco alla volta  - da schiavo a clandestino –

mi sono fatto bianco del suo buono

mi son vestito del suo bello

doppiandolo - modesto  per me -

col suono clandestino della voce

col suono clandestino d’una canna

maternamente allevata dalla Terra

 

Mi sono fatto bianco delle cause buone

e sono bianco complice d’orrori

Sono uomo di tutti i colori

di tutte le culture - di tutte le etnie …

 

Siamo tutti un po’ neri e poveri –

non tutti bianchi e ricchi -

tutti un po’ bianchi e pallidi

tutti un po’ rossi per le infamie

venute alla coscienza …

 

Lasciami respirare – o uomo

che ti senti bianco - “esclusivamente”–

Lasciami respirare! -E respira tu con me.

*

Nel brodo dell’umano

Il brodo dell’umano

si è a lungo mischiato

col mio sangue d’animale:

è tutto il corredo che

nell’umano mi plasmò plebea

                                          

Il chiasso suo babelico

la miseria del mio ricetto

ha risparmiato mai

 

Tingendo di affinità improbabili

di  strane somiglianze

e negazioni algebriche

ha artigliato coi visceri

le anse al mio cervello

 

Le correnti alternate degli affetti

troppo prossime e scontate

sotto l’inquietudine dei piedi

allungano ambulacri di silenzio

aizzando  la furia della percorrenza

dietro il suono fuggitivo della vita

 

Essere mondo e non avere artigli

Essere mondo come cosa che respiri

Essere mondo come cosa che si nutre

Essere mondo come ciò che diletta

e meno attrista

Esserlo … esserlo

sino a non sapermi discernere

se non là dove il dolore

ghermisce aderenze incaute

provoca strappi proditori

 

Ora il mondo da fuori

mi s’è rappreso in vecchia carne

adusa alla fitta cadenza degli strazi …

Ora so come

farmi male da sola 

*

Niente!

 

La mia notte dimentica del giorno

mi scioglie dalla vita

mi emancipa in un niente …

beota

 

Crepitii d’ossa – la cieca rivolta

del corpo alla ruggine dei giunti –

mi scaraventano intera

 in un grigiore d’alba

 

Niente da ricordare

che fosse moto o  fissità

o spessore o indizio

di speranza: notturno d’assenze …

 

Così morta che il sogno – un segno

dell’umano o simbolo di senso -

 non pare aver più germe

 o asilo  in questa plaga

 

E nulla – proprio più nulla

dalla trista consecutio - come appiglio

o guado o qualsivoglia seme di salute

sporge all’irto giorno

 

Irto della sua vuota luce

si fa del disumanare cosmo:

uomini-criceto in corsa per la dose

dentro un labirinto che

inghiotte la voglia di domande.

 

 

 

 

 

 

 

*

Istruzioni al disuso

Usare

un occhio solo per volta

un occhio solo

e l’altro a riposo – se da riserva insiste

Un occhio solo

strumento minimo: scatto per archivio

d’impronte piatte – geografia ignara 

di profondità di strati d’ombre

 

Una volta – forse pluriocchiuto – l’umano

 guardava  nella lontananza

annidarsi semi di ferali evoluzioni …

… forse sbagliando vaticinava

e aguzzava i denti al tempo

per mordere con essi la carne del futuro

nel ventre del possibile

 

Compagno di strada il rischio

aizzava vista e veglie

E poi che pieno parve il morso

fu il calcolo innalzato a salvaguardia

dai rostri della cattiva sorte

L’umano troppo umano dispose storni

sui calcoli pregressi

volendo a piacere ritmare i casi

 

Smarrì in quella china il fiore suo:

quella memoria occhiuta

che trapassava pungendo con  il tempo

i nidi dello spazio e in guisa di lenzuoli

li sciorinava ai venti

 

Un occhio solo

 scampato per  devozione delle superfici

vi guizza sopra mancando

d’indugiare su scabrosità di polveri:

morti compiute in assenza di pianto

 

Un occhio solo

aliterà dal suo cielo

sulle cisti di sequele viscerose

e forse abbasserà la palpebra

per mingere una lacrima meccanica

su scagliosi viraggi

 

Un occhio solo

e ogni alone scabroso vagherà misconosciuto

dispersi l’inquietudine e il sospetto

da cui poteva ungulata nascere l’idea …

Anche l’ombra d’un’ombra

dissipata

*

Prima della notte

 

Nuda d’ogni presagio

come dei panni al bagno

scivolo

sul tuo enigma

chiuso dentro una tastiera

che

mi torna e non mi torna

familiare.

Apre

ai tocchi

della mia mite indiscrezione

i solchi del respiro

quasi una luce

che si spanda e fugga

lasciandosi dietro

col sentore del gusto

la crisi dell’assenza

a patire in me per questo mare

che

di sé m’intride e m’avvelena

a prilli d’indicibile.

Se

 l’ebbrezza che asseconda il moto

deciderà

l’impatto come incontro

-né si sa chi con chi-

sopra il ciglio dell’onda

dentro l’occhio dell’istante

saremo forse

una

prima della notte.

*

Le accadde

Di  scivolare le accadde -

dal ciglio aperto incauta

al giorno …  di  scivolare

ruzzando come per gioco

dal riso della melagrana

nel cosmo cifrato dell’Altro  

E ivi - sorbita in un sonno di gemma l’ebbrezza dei cembali –

svegliarsi alterata

in ignoto mattino

 

Così la già imberbe da sempre

con intento di ladra fidente

il suo ingresso pagava

fingendosi mutila

nel munito universo

del demiurgo sovrano

creduto di genio celeste

 

Là su coste e bastioni erano

rune dorate e trionfi di roccia

ad annuire alla ratio  

di barbe rituali e di verghe

brandite a secondare il sapere

assestato sull’orma negata

dell’antico sciamano

Con sibili d’erbe e  fole di vento

il volere regale del  Padre

era sceso nei generanti

e per bocca di madri s’alzava

dall’ancestrale segreto

per sempre sui nati:

doversi il calore attenuare del sole

dentro l’oikia di fango

e farsi dell’ombra accorta estensione

sulla pupilla allungata

a bagnar di domande -

femminea! - le cose vietate

 

Dalle stanze opache dell’Orco

ai propilei ariosi d’Olimpo

alitando col passo il suo peplo

discende alla schietta loquela

di carde e telai per ordire

come schiava come Pitia e padrona

Col dorso nel vento

 sul lido di calce nei guazzi

alla roggia ancora amministra

con ruvide essenze il candeggio:

perché  tutta sia liscia

sia dolce sia buona sia vera

per l‘uomo sul talamo

la solita sera

 

Issato/abissato  il sole

più di quanti astri

si struggano nei cieli

impunemente - di te

poche ha cincischiato postille

la sua illetterata cadenza  

come per ignobile erba

e di tuoi frutti plebei

in quanto “semi imperfetti”

nemmeno ha tenuto

 conteggio

 

Dal pugno sublime del Padre

il Tempo declina/dipana  -

fu detto e non si desiste

Al Padre ancora s’avvolge

e  rivolge squisiti alfabeti  - 

come da specchio interposto

a figura  che divino decreto

esige si pavoneggi …

E forse un’ombra soltanto

accenna di te - se fosti al dio cara

se col lutto affliggesti il tuo re

se d’empietà moristi pentita

o se propiziasti immolata

alla tua pugnace genia

l’universo trionfo

della sua liturgia

*

Quando ossidi e sali

Quando ossidi e sali

di noi muto sedimento

sarannno indescrivibile miscuglio

quel  niente  che fu nostro -  

che so?

- non l’anima non l’audacia né il pensiero –

- non il sogno non l’intelletto né il volere -

- neppure il torto o l’idiozia -

quel  niente

che da impeto morì movendo l’aria -

quel niente

che si finse asta di dispersi

vessilli nella bruma –

quel  niente che tormentò

quel “forse tutto” anarchico -

non sarà neppure macchia

 

Sarà non mio il silenzio

a mescersi  nel non tuo

con  tutti i silenzi liberati

a confondersi nell’unico sbadiglio

che abolisce dell’umano tutte le misure

tutte le norme e le cronologie

 

Tu - glabro animale -

il cui banale esistere

nutri scaldando il sogno

di tua divina essenza

assoluta  e primigenia –

pensa che la tua statura

ha assai brevi radici

poco sotto la scorza della terra:

dipendi dalle sue pendici

dalle piante e dagli  insetti

che tanto poco benedici …

La tua è ancora  Humanitas

tutta da fondare -tolta la vanitas -

sulle micro-particelle assemblate

a formare l’animale

Questione che non puoi oscurare

che forse di nuovo ti potrà nobilitare

 se - volontariamente -  escremi per il fesso

la sghemba corona  di re dell’universo

 

*

Che specie d’amore?

Sono un amore provvisorio?

Un amore da riempirci

i vuoti tempi dell’indugio –

un amore da sotterfugio?

Sono un amore clandestino –

un amore meschino 

un amore che non cresce

un amore che non riesce

a spiccare il volo

sono un amore da dopo lavoro ?

Sono un amore che non splende

uno che l’impazienza non accende?

Sono un amore che non scotta  –

uno di quelli per cui non si lotta –

un amore limitato e stanziale

senza le ruote e senza le ali?

Sono un amore che non invischia –

uno di quelli per cui non si rischia ?

Dunque amore che non nuoce

che in capitolo non ha voce?

Sono un amore da gesuita –

un amore senza fatica

Ecco! Un amore razionale?

Un amore sono … serale !

Da consumarsi in tempi di noia –

 

un amore in salamoia!

Sono un amore senza parole 

senza sollazzi né capriole

Un amore non firmato

Un amore approssimato

Un amore da strade deserte 

Un amore a carte coperte

Sono un amore ad ore fisse

senza fervore e senza promesse

Sono un amore senza storia –

senza speranza e senza memoria

Sono amore provvisorio

che designi per ciò che non ha –

nessun nome – nessun futuro –

valore alcuno – per ora e qua.

*

...Tra la perduta gente...

...Tra la perduta gente …

 

Un annuncio inatteso

rivela ciò che sapevamo:

esserci avelli

già chiusi

nel cimiteri del cuore.

 

Pianto riso rabbia

ed altri miasmi

non sono pioggia

che sa                                                

che può    

convogliare

le ultime scaglie

dei conflitti

che fingevano mimare

le ragioni della vita

nel suo nulla

 

Perché l’accaduto -

marcito

col sangue insorto

nei precordi -

ne confermò per sempre

sul labbro di Caina

l’esistenza

 

Il Tutto acefalo

non rettifica

e ogni traccia impasta

nel cavo dell’oblio …

 

Ignoti e confusi

saranno in quella pasta

come altro - eterni -

i nostri cimiteri

 

*

I dopo ’mai più’

Piccole e immani … Guerre!

Non conta chi vince - non conta chi perde  

 

Propositi spettrali risalgono in flati

per le spole impure che ordiscono il futuro

 

Ancora e ancora mi scontro coi “mai più”

gridati in ginocchio sopra i cimiteri

 

Ogni fine sarà piuttosto tregua!

Conterà chi  di quel buio retaggio sa giovarsi

presentandosi alla conta dei disastri -

destra sul cuore afflitto per l’attimo di lutto

 

Sotto pelle discretamente calcola gli avanzi

come esiti d’imprevedibile accidente

 da cui dice di prendere istruzioni

e già se ne ascrive il merito

 

Prospera come fungo il suo appetito

sulle necessarie alterazioni

delle materie … organiche  

 

Per diletto la pancia tutta gli trema

 ed il pensiero dilagando esulta

 

 

Ma già misura - come per eco - il rammarico

di non aver abbastanza tempo e corpo

per trasformare la privata abbondanza  …

… in ciò … che persino la bestia a sé nasconde

*

Fiato

Un fiato.

Neanche.

Solo un’emissione

che

si vorrebbe grido

forse strido

ma meglio trillo

esile

a schizzare fresco sulla verticale

per esistere

e

come inno iniziale

annunziarsi col primato spirituale

di pneuma sopra l’ente …

che si spalma carneo

sul pavimento lunatico

del frenulo

dove essa/lei – la lingua –

biascicando impara numinosi idiomi

mentre convoglia

viscerali minacce fuori dalla bocca

e degli sfinteri intorno

la radicalità feroce.

 

Già un dittongo 

appella intero un codice

che risuona in Olimpo e in Antiaverno

e comanda per fili

di folgori e di nembi

un tendersi

 un modularsi di labbra

che

forte sui denti e su lingua

con tenui lambimenti

impatti

perché il mondo entri

 bagnato di saliva

per la bocca

e s’affacci dai fessi sensoriali

per vedersi  ritratto nella mente umana

in guisa d’anima.

 

È cominciato così

l’immane  veritiero inganno

per cui - trafficando ciascuno

nel chiuso poroso della mente -

giura e spergiura di maneggiare il fuori

e articolando voci e torpidi grafemi

il volano  di tutto il marchingegno aziona.

Crede.

Dice lui che proprio così funziona.    

 

Mente! E però così ragiona:

 che se dici “carro” tutto intero il carro

passa per tua bocca!

Celiando un poco

fa balenare – condizionato - il vero.  

E in tale curioso rimpiattino

s’arrabattano a vivere i bipedi animali

prendendo come lucciole

le più cieche lanterne

per campare la sorte

sapendo già della condanna

a morte .    

*

Nuvole veneziane 2

N u                 ve

    v o                   ne       

       l e                    zia     ne

 

Se nuvole !– Se nuvole  non rosa

né vagabonde né briose in crinolina

Non-Venezia sarebbe questa che vedo -

sogno disteso dentro ad uno specchio.

                      

Se nuvole !- Se stupide nuvole tinte di grigio

per lo stare inchiodate a un ovvio campanile

e se i colori della sua geometria

avessero dimenticato l’alone della storia –

sarebbe come l’oggi - scialbo –

l’oggetto del mio sguardo.

 

Nuvole! – Se vascelli per sogni a perdere

allora un morto reperto d’impossibile memoria

sarebbe l’oggetto del fiammeggiante desiderio  -

né sarebbero questi i rosa-giorni  prediletti

di mie rosa-vacanze con nuvole - a Venezia!

 

Nuvole! – Puledre manse sono

le nuvole del dolce Canaletto!

Soffici cavalcature

per sogni ed avventure

che sfilano tra la mia fronte

e l’aria salsa

a filo di Laguna densa

che pigra

in mille fogge frange

un’incredibile luna.

 

 

*

Primavera avvelenata

D’un colpo ha involto

il vento

nuvolaglie grondanti

oltre l’imbronciata azzurrità

dei glabri monti

 

E fradicia di pioggia

esalando la piana i velenosi

 frutti di brigantesche regalie

come un corpo ha respirato

di nuovo vivo all’uscita – presunta -

da lunga malattia.

 

Di miasmi ignoti

bollicchiano le pozze

al sole sciorinando manti

d’iridescente aspetto

come se di fumi d’untumi

d’idrocarburi arsi

mai si fossero intinti.

 

Un adiposo verde germoglia l’erba

nelle incolte zolle dei suburbi

che campagna erano una volta

e spande intorno

riprendendo d’imperio signoria

sopra civilissime vergogne

con incredibili grovigli

di vilucchi e di gigli.

 

Cerca  a ritroso il tempo ch’era suo

lo spaesato cipiglio

del viandante antico

e allunga il passo

aizzato da un baffo di memoria.

D’aneto e rosmarino

cerca – chi sa? –sentori.

Ombre cerca di naturali ombrelli

forse a ingentilire aperti

ciò che sguaiatamente

spiattella il sole all’occhio

al naso inoltra e al cielo.

 

Frange senza tregua – rozzamente -

sopra l’assenza di frulli e di ronzii –

già musica d’arca

forse incagliata  forse persa

tra pieghe e piaghe

di negletti dirupi -

l’insensato trantran

dell’odierna ferramenta.

*

Inaffidabile

 

Confidammo

al domani

l’involto degli auspici

 con la cauzione algebrica

allegata

Il domani diede forfait

Si presentò istante

privo di credenziali

 con la pretesa

di durare un oggi

intero

di essere nuovo

e di

 non riconoscere pendenze

di  non

 fare appelli

segnare assenze

Gli inalberammo contro

 le nostre aspettative

Disse

“Fortuna vostra

d’aver varcato vivi

la mia bocca”

 

*

Nu vo le Nu vo le #poesie poeti

N u                 N u

            vo                 v o                              

l e                   l e

 

 

 

Se – nuvole !– non ci fossero  le nuvole

il cielo sarebbe una maledizione

 

Nuvole! – navi per sogni – le nuvole

                                   Senza sogni la vita sarebbe una condanna

 

Nuvole! – sono puledre le nuvole

                                   Soffici cavalcature per celesti avventure

 

Nuvole! – gondole senza gondoliere

                                    Dio come un doge – promette festa da Dio

 

Nuvole! – crisantemi di cielo

                                   Ci festeggia morti il Dio-Doge  in Bucintoro

 

Nuvole! – chi mai racconterà di nuvole?

                                   Di nuvole a racemo - di nuvole olenti?

                                                                 Alla festa del Doge superno?

 

*

Dei poeti e del poetare

 

 

Una folla di io sono i poeti.

Una folla sparsa e persa

dentro chiuse stanze

su spianate di carte

su telecanali

a bordo di velieri

nominali

di virtuali scaffali di doleances

di minimali gioie

di virtuose paranoie.

 

Assiepati stanno nelle antologie

come invenduti pomi

nelle ceste dei fruttaioli

di periferia

scandendo stagioni

scoprendo meteopatie verbali

proponendo meteo terapie

in rima e in libera caduta.

Ivi la poesia – un fumo

o forse meno – traversa i versi

con un vago sentore … di scansia.

 

Una folla di io sono i poeti.

Ciascuno è solo - per costituzione -

dentro  la vescica del suo Sé

a gestire il demone del canto

a grufolare tra l’erba delle parole/pianto

a ruminare sulle pampas letterarie

dove Natura Bella

e umanità meschine

fioriscono in pascolo ferace.

 

Questi gli alimenti da metabolizzare

con i fluenti enzimi

del desiderio e della frustrazione

di modo che il Sé - nato piccino -

prenda statura da Dio

e per modestia

prenda nome di io–

magari sottinteso nella persona

del verbo contemplante

che funge da occhio universale.

 

Un io– quello dei poeti –

dallo sguardo ipermetrope

e molti libreschi sensi

molto cuore e altri

debordanti sentimenti.

E piangono i poeti

la loro sublime solitudine

i loro oltretombali amori

i loro feroci e denegati odi.

 

Spiano quel tu che a loro manca.

E –  quando non usabile

a guisa sgabello –

lo stringono –  in effigie –

nel cerchio

della loro flebile lucerna.

 

Il/la poeta! Dopo aver

sperimentato e pianto

ogni specie – consentita! –

di emozione …

Dopo molte dichiarate

antalgiche passioni

e ogni conclamata smania -

regolamentare! –

avendo percorso clivi

di personale scoramento

e averli estesi a modelli universali

di catasto e di visura …

 

Dopo aver dipinto in fregi neri -

per lungo per largo e per traverso -

le più colorate sensazioni –

raccolte in forza

della specifica entratura

dell’Io poetico

nei misteri della Natura

e nell’ascesi della Psiché -

lecito è domandarsi

 

"Ma perché

risulta così inusuale

che l’Ego esistenziale

del Poeta

si scopra  e si dichiari –

magari in forma antipoetica -

parcella solidale e sindacante

di quel noi meno formale –

senza di cui bene ci campa

alcuna gente -

ma senza di cui si è … niente?

 

*

Un pugno sullo stomaco

Pugno sullo stomaco

dalle baraccopoli pugliesi: 

schiavitù clandestina

en plaine aire e TV.

Non la prima volta – a tavola.

Metabolizzato quello di Rosarno

e altri – innumerevoli –

cui non era mancata – inorridita -

l’ emozione.

Non c’è limite allo sdegno.

 

Scivolano

nella non esistenza – tanti.

Nella non voce  -

corpi

a nereggiare – esposti

sulle croci multipiani - 

a filare rivolte senza colonnelli

dentro gli avelli

 di Dite

in un silenzio che rimbomba –

 spettrale - nelle orecchie

e gemma –

come di bimbi abbandonati -

il terribile pianto.

 

E cade - privilegio sul mio piatto.

Briciola, solo briciola.

Così poco perspicua - eppure già

un’Era.

Un’eternità minimale

sprigionata dalla bocca dei morti

come dente

esumato  - d’oro !-

da spendere al monte di pietà

in cambio di un giorno di vantaggio

alla durata del viaggio

per la vecchia/bambina

casualmente risparmiata

alle ecatombi antiche.

 

Se lo dispiega con avara solerzia

il suo giorno buono – il suo giorno differito -

per non straziarlo con la fretta

e la cresciuta fame di

tempo.

E gioca – come sua madre dopo la messa - 

coi bicchi - sul sagrato.

Gioca – quasi fosse innocente

la vecchia –

con l’alfabeto nutrito d’opulenza

nell’orto primigenio

 della scuola-nutrice di camice nere.

Al servizio d’un suo mondo immaginario -

gioca.

e si foggia un’eternità pigmea

nell’isola felice del <non luogo>

tra i feroci approdi

della latrina globale

postmoderna postindustriale

borsa valori planetaria del capitale  finanziario.

 

Non vende commozioni - la vecchia

e non le gioca

in borsa.

Neppure piange coi piangenti

che sono merce da giornali.

Vorrebbe strappare

le parole alla sapienza

dei morti

gettarla in pasto alla svegliata fame

dei vivi

per alimentare sull’istante i pistoni cerebrali

e la lucida impazienza

dei miocardio.

Ah! – pensa

eludendo l’occhio degli specchi –

ah, potessi io pure salmodiare

almeno uno - uno solo! – un

“Rimorso per qualsiasi trapasso”!

Sulla cima d’Olimpo trasmigrerei

di colpo  con Saffo -  la lirica –

beata  fra gli Aedi del ventesimo.

 

Ma della vecchia/bambina

 il verso non vola

così alto

da fabbricar con le parole

un cielo intero!

Per questo – modestia a parte –

lei si pone

tra coloro che mancano di stella

che - giocando per vizio –

vanno …

Perciò vanno

strane zattere nel flusso di rogge verbali

disusate …

Vanno

in lento tracimare dentro

acquitrini di colore … oscuro.

*

Erma da TRA FORI DI SENSO

Erma

 

Come un’erma bifronte

fai già parte del mito

- de materializzato

 

E qui dove io sto – qui tu compari

senza restare – qui - dove a dirotto piove

Qui il mare è solo un fiume grigio

Su questa traccia oppressa dalle nuvole

-simili a scarabocchi mobili-

uccelli di palude cercano il vento

tra i rari singulti della pioggia

 

Taluni miei pensieri

e certe immagini tue

si tengono per mano

senza volersi bene

 

Attraversano la mia abitudine

-oggi così sapida di fango-

da passeggeri ordinari

serrati

nei loro vestimenti scoloriti

per l’uso e l’abuso della mala ora

Scontano in spettrale pacatezza

la condanna per frode alla vita

Né fremono ai soprassalti d’acqua

sulla capote dell’auto parcheggiata

 

Come un guscio questa mi contiene

e chiude anche me nel qui stralunato

- rastremato in una quiete artificiale.

 

Me che niente aspetto - se non che spiova

e si plachi - nella ripresa del fare -

questa proiezione di ghiribizzi

e irragionevoli memorie di te -

che si spiaccicano e si deformano

fluendo - con le gocce - sul parabrise.

 

E qui

- davanti al mio sguardo erratico -

raccolte in rivi gonfi di mestizia

scivolano

come se l’acqua infetta

dei ricordi potesse  tramutarsi

in pianto irrefrenabile e puro

 

Un gelido umidore trapassa

con uno scatto - invece - le lamiere …

 

Ma io sto già

dove il sereno irrompe.

*

Seduzione

Non l'agile piedino

 

dentro il suo stivaletto

 

mi stupì.

 

Non la sua figura

 

 

di fanciullo invecchiato

 

mi sedusse.

 

Nego che la svelta eleganza

 

del suo passo

 

abbia nutrito la mia ansia.

 

Neppure mi catturò la bocca -

 

bocca ermetica di luna

 

strabica e remota -

 

bocca di pesca e di ciliegia -

 

di forti denti

 

offerti al buon sorriso

 

con la chiesuola degli incisivi aperta.

 

Mi sedusse 

 

ciò che non aveva -

 

il suo deserto.

*

Asilo

Voglio posare sul tuo petto il capo

perché non si dà più ospite contrada.

E l’ombra mia più fresca è quella

che i frastagli costella, quietamente,

delle tue socchiuse ciglia, chine

sopra la mia ingarbugliata fronte.

Voglio che l’oro delle tue pupille

di luce mi rivesta, e il tuo sorriso

le mie albe riscaldi, e pur di stelle

gli spauriti miei tramonti accenda.

Al ritmo mi avvierò del tuo respiro

verso l’abisso d’un serale sonno

rorido di baci, le tue mani

amiche teneramente discorsive

con le mie palme sbigottite e manse,

alle quali mostrando vai la saggia via

del sereno riposo, che già torna,

mirabilmente, ad essere fanciullo.

E scandisci per esso, col pulsare

segreto del tuo cuore, melopée

soavi di tregua e possibili accordi

fra i guasti del mio vivere frusto.

Intanto, come pane fresco di forno,

esala la tua pelle un che di buono,

qualcosa d’essenziale: un nutrimento

che sostiene il mio, forse incerto, passo

verso la soglia del non – luogo, dove

l’andare mio si siede e aspetta …

 


*

Cagliari

Quasi furtiva la nave
s'è appena staccata dal molo
e Cagliari bella -che ancora
quest'ultimo sole indora -
si raccoglie -piccola e civettuola -
nei suoi declivi di madreperla -
nel seno d'un mare
che sorride con labbra di smeraldo
e mostra - a tratti - i denti
candidi di schiuma.


*

Invettiva da insetto

Voi–circuiti senza volto -

speziali deltempo a quote -

afrazioni  e a percentuali - anonimi!

Voi – quelliche il tempo d’ altrui fatica

cambiate innome di valuta! 

 Voi - come se foste- e non siete!  -

plenipotenziaridi un dio assente – bieco!

Voi ciobbligate – interdetti altri pertugi –

a scandirefiati tra cieche scansioni

dentro lebolle delle vostre pipe.

Comenugoli  arrendevoli di bruti

c’incalzate- voi! - a frequentare 

l’insistenzaottusa d’ irrefrenabili

 <deflagrazioni a catena> -

quali peticatabolici del <naturale>  -

congenitocome i nubifragi in un clima -

decisivo  - voi dite –

metabolismo deimercati.

Nel silenziosinistro dei vicoli ciechi

sono ventitranquilli e cruciali

a spogliarcidi strati di pelle!

Come sedavvero un Chi Autarchico

 li imponesse come solidi “ubi consistam”

daappuntare  con aghi   di fuoco

alle carnid’ improbabili anime

trafitte  e inchiodate per l’eternità

auna storia di niente!

*

No!

Non voglio conoscere l'alba
che spara dai morti cantieri
sui capannelli inquieti
il suo livido sangue.

Non voglio vederla strappare
gli ancora dubbiosi mattini 
alle donne tinte di buio 
per pigiarle disperse 
dentro le case nemiche.

Non voglio vederla già vecchia
sopra il mio naturale declino
ingorda di destini futuri
su cui mi dorrebbe scoprire
avere inutilmente vegliato

 Voglio che s'accenda di rosso
e maturi - puntando allo Zenit -
un suo barlume di senso
cresciuto tra pancia e cervello
di umane genti fraterne.

O genti che trascinate il fardello
dei vostri più scaltri padroni, 
gettatelo tutti nel fosso.
Accendete il vostro libero giorno!
E - tutti concordi - tingetelo
allegramente di luce e di rosso!


*

Donne di Sardegna

DONNE DI SARDEGNA
1
Noi figlie dei graniti
e dei frutici arsi
scaturiti da forre,
noi vive propaggini di vento,
progenie di piccoli ciclopi
disseminati a guardia
di sperdute greggi
sugli apici dei greppi.
Noi, di libero criterio
spoliate vergini,
impaludate in scialli
grevi come la pena dei trapassi.
Noi destinate alla morte
precoce dei sensi,
al silenzio della libido,
designate a vestire
sopra ancor fervide carni
il dolore e il compianto di tutti.
Noi, temibili custodi

d'impietose immolazioni,
eppure d'ogni eroismo destituite
e d'ogni potestà sacrale.
Intanto nell'atterrito silenzio
d'uomini solitamente pugnaci,
innominata investitura
ci fa ministre dei misteri
oscuri del nascere e del decedere.
E anche allora noi, cuore fermo
e alacri atti essenziali,
convogliamo al senso
la voce liberatrice
del gaudio e del corrotto.
2
Io, una di voi, ho mantecato
e cotto il “pane nostru sin' e sale”,
lo “ zichi”, e il “pane salìu”
ho cotto del Campidano
e a milioni le “spianate”
delle cento città montane.
Le mie con le vostre mani,
officina d'alimenti essenziali
e di succedanei cibi
nelle frequenti carestie.

Io con voi donne dei villaggi alti,
gli uomini dietro le bestie,
spersi sui monti o vaganti
fra le stoppie ardenti delle piane,
noi a scardassare ispide lane,
a filare e a tingere, noi,
a disporre orditi e trame
per dar voce alle spole
dei silenti telai:noi sempre,
tessile industria di sussistenza.
E ancora con voi, sotto ingrugniti
cieli autunnali, a interrare
germogli di patate, genuflesse
nel fango dei terrazzamenti
contesi alle fiumare,sasso dopo sasso.
Io voi,donne delle terre basse,
gialle di malaria e turgide
di avanzate gravidanze,
a fabbricar mattoni di fango e fieno
lungo gli argini degli acquitrini
e al tramonto iniziar tresconi
al ritmo delle febbri plasmodiche.
Io-voi nate senza privilegi,
infanti destinate a “s'accordu”,
già molli d'acqua e intente
a sciacquare panni
presso i salti petrosi delle gore
dandoci dentro a gola spiegata
per avversare l'uggia dello sgobbo.
E noialtre a guadare i torrenti,
a svellere giunchi negli anfratti:
così che germinassero
mille e una foggia di canestri
indispensabili e aggraziati
i magri tempi della ricreazione.
Eccoci raccoglitrici
fin dal post-giurassico
esplorare per lungo
e per largo le brughiere:
messi aulenti d'erbe,
di bacche, di frutti
medicamentosi e fiori...
Persino fiori dagli speziati stami,
dal nettare opulento.
Ma a noi, chimiche e farmacologhe
senza attestazioni,
a noi che per secoli
abbiamo amministrato aborti
con succhi di prezzemolo e cicuta,
a noi in combutta
con Persefone e con Ade,
- e perciò gente da roghi -
a noi, in familiarità col sangue
e con gli umori suoi,
coi sintomi del corpo
e coi segni degli effetti,
a noi, mortali sorelle
di Demetra e Dioniso,
fu negata la scrittura,
proibiti i suoi significanti.
Noi, correndo col tempo
e in gara col maestrale,
abbiamo misurato col fiato
la cadenza della sorte.
E col maestrale, mentre cantava,
abbiamo cantato.
Sotto il sole lontano cantava.
Nenie talvolta cantava con noi,
tragiche storie talaltra ululava
per noi, cuori stravolti.
Storie di gole recise,
di garretti mozzati, di colpi
sparati dal fitto di siepi
su le radure indifese
di lacci assassini narrava
parati entro ermi dirupi
per bestie umane avventate
senza probità e senza religione.
E il vento, calando col sole,
azzittiva sul suolo.
Risonavano allora gli schianti
d'affastellate ramaglie: ardenti
s'aprivano fiori notturni
fra tenaglie d'ombra
risalente dal basso
le creste di bianche sassaie.
Poi furono venti e bufere
d'oltremare a combinarsi
coi nostri tribali scompigli,
furono le altrui guerre a intrecciarsi
con le nostre faide rusticane.
E allora questo chiuso
recessivo e tediato
cominciò a sciogliere i suoi cappi
e,senza parere, ad altri lacci
avvolgersi, intanto che
lo sguardo scaltrito nell'astio
di reclusioni, d'esilii
e soggiorni forzati,
accomodato su prospettive inconsuete
d'altre leggi e costumanze,
osava il breve orizzonte saltare
delle patrie scogliere
oscillando, ambivalente,
sugli incomprensibili moti
d'un mondo che “altro” pareva,
eppure era anche “per noi” e,
tra minaccia e suggestione,
ci parlava con straniero idioma.
Col suo glifo, a forza praticato,
finalmente tentammo compitare
il nostro irriflesso vissuto
per conoscerci e riconoscerci
nel simile e nel dissimile
per diventare pure noi gente
d'una umanità più vasta
e non meno inquieta.
Perchè non un eldorado
scemava nella diacronìa.
Né sorgeva, se non come crisi
e desiderio e lotta, il senso
d'una palingenesi balzante
dai lombi delle nuove apocalissi.


*

Sotto Natale

Troppo chiaro il giorno:

raffiche di luce

sulla fatica di fare

e sull’occhio torbido

di tinte abituali.

Di qua dal mare aperto

e dai deserti

i duri prodigi

del bisogno stringente

orchestrano usuali

gesti e suoni

nell’alterno fuggire

e tornare del sole.

 

Persino gli orrori,

impastati

con pane e saliva,

abitano la bonomia

familiare dei nomi

gridati nei vicoli,

e quelli, additando,

ancora concertano

eventi d’uomini e cose

sempre – già detti

e un poco già vissuti.

 

Ma la notte …

solo la notte

ha occhi di stelle!

Ma la notte,

notte del Sud,

nascendo vetrosa

dalla spenta luce,

s’ingravida di prodigi

orfani dei bagliori

accecanti del giorno;

e sosta in attesa

sulla soglia degli occhi,

davanti alla bocca

di miele inatteso …

E il sogno,

concrezione spettrale

di speranze tenaci,

insiste sul fondo scuro

della luce assente.

 

*

Democrazia

Democrazia

Qualcuno disse .

Non un empio - né un captivo - fu

Non fu disgrazia quella voce

 assemblasse al nome il Nume del concetto.

Pure - da allora –Nemesi

le impose con lo sguardo

Necessità e Ventura.

Con  gli stessi decreti

 il Parlante libero'

in  mano agli  Aristoi.

Stretto - per prova- alle solerti Moire

per spegnere con la vita sua di uomo

o con l’infamia  del suo Logo

le ali alla Parola detta.

Egli abbracciò il suo Fato

e volse - per non smentirsi - verso  Dite

 sapendo acceso un lume-

errante già - per i futuri umani.

 S’affiochirono altri nel poco.

E subito una siepe di arbusti

cinse l’esordio storico di lei

e le assegnò

 angusti luoghi e brevi tempi.

Fuori rimase

 un verminaio piccolo e vivace

di allogeni schiavi

 della terra e delle cave.

Certo qualcuno ne  ricevé contagio

e voltando le terga all’uso dell’abuso

ne lanciò la febbre nella storia.

 ***

Nomade ancora

corre il pianeta -salta i muri –

scava cunicoli da talpa

e i sogni frequenta

di chi ha fioca voce.

Cambia di luogo

e guarda tempi brevi di rigoglio.

Si bagnò nel sangue uscendo dalle notti.

Passò indenne nei roghi.

Vestì abiti smessi.

 Fu agghindata

 perché non paresse quella.

Andò svilita incambio di moneta.

Ancella e scudo  di molti rettori e padroni.

E ancora rampolla -nuova -

nei pensosi desideri  dei tanti 

che si chiamano per lei dalle galere

per mettere ali ai corpi -

 li alle ali - per affratellarsi

oltre le frontiere

 e unire a lei  - numinose -  altre

antiche e nuove voci di riscatto.

 

 

 

 


 

 

*

Fiori

Fiori

Corimbi rosa –chi l’avrebbe detto? –

su quello scarabocchio di forse verde

scaturito in uncanto abbandonato

dalla sete inestinguibile

del cortile sterrato.

*

Ustiona i sassi ilsole

                      infuria sulla polvere compatta

e i giochi incenerisce

sul mucchio della sabbia.

*

Sono fuggite anche le vespe – tutte -

e le cicale sono scoppiate a crepitare

nel giallo lontano delle stoppie.

 

Rimasti i tumuli mortuari

delle piccole vittime

dei nostri giochi acerrimi

concepiti sul filo del sortilegio meridiano.

*

Croci di stecchi e filo

- minuscole -

ancestrale nostra iniziazione

allo scempio e al sacro -

chiamano all’assalto le formiche

che esumano le salme

e in lunghe processioni

procedono a una nuova inumazione.

 *

Com’è uguale il tempo

tra i muri d’arenaria

che il sole scheggia

a colpi inverosimili di raggi

   e che la magra pioggia  ha dilavato

senza darlo a divedere

rapita dal vento smemorato

o

  perduta nella memoria breve

delle fosse!

 *

E l’una infanga

e mai sembra lavare

 i calli dei talloni

allegramente danzanti nella guazza -

e bagnare mai di vesti nuove

  muri cortili e corpi-

secondo le stagioni.

 *

E l’altro mai non si risparmia,

ruvidamente generoso.

Dalle brevi notti balza

nei giorni sconfinati

a ubriacare di troppa luce gli occhi

d’insospettati e acri desideri le narici

e dell’intero corpo - inconsapevoli –

tutte le papille.

 

24/11/2011

*

Vento

VENTO

Vento

Vento o o o o

Cieche le dita-

         Il vento

                   Scuote coi vetri

                            Ilmio respiro.

                                      Enon so fingere

                                      D’abitarealtrove.

 

Vivo e ferito

         Si lagna

                   Avantila mia porte

                                      Ilvento…

                                               Nétrovo nuvole o…

                                               Paroleda donargli.

S’è impigliato

         Ai bricchi

                   Dellecroste di Crono

                                          Il vento…

                                               Eil suo canto di nenia

 

Il pianto –

         Oscilla infilacci

                   Dietrofessure accese

                            Diluce intermittente.

 

L’anima allora

         -Passerosgomento –

                   Guadagnaa saltelli

                            Latiepida viltà

D’unaltro tempo                             

*

Cogitazioni


 

Non so perché il corpo

- né so per quali trame-

a modo suo patisca

l'alterno avvicendarsi deisolstizi

o

gl'impercettibili approdi

alla lenta levità degli equinozi.

Scontata l'effettuale cadenza

energetica del sole e data ovvia

la fasica perturbanza della luna

non saprei se siffatto patimento

sia naturale vincolo dei vivi

o

invece un lusso aristocratico

di chi può scampare – privilegio o caso -

l'esiziale nequizia dell' umana

entropia.

Davvero penserei che proprio questa

-perché prossima – insinuandosi

per le maglie della tuta mimetica

attestante la cronica ingenuità

del nostro spleen metereopatico

-sempre e comunque – muova a corroderci

l'impeto naturale della vita.

Nonso.

Non so ma sento dentro me levarsi

da un fondo incolore insospettato

- e per così dire assente – fumi

- tra carne e ossa – di dolenzia vaganti.

Un'astenia sottile m' induce

a contemplare nel mio didentro

il laborioso trapasso dell'estate

come un fuori che morde – tra spaventi

spasimi e incipienza di brividi -

ogni tenacia

esposta a un vano transitar di nubi

dirette verso lontani appuntamenti.

Una promessa di pioggia fonderà

in lavacro benefico di pianto?

Intanto

ho chiuso le tende sulle imposte.

Io posso.

- Lo posso senza limiti d'orario -

- per sociale conquista immeritata -

- per privati meriti acquisiti -

Bene.

Ho accostato – insisto – le tende

per risparmiare agli occhi il tedio

di nudità ignobili e scomposte.

Avrei scelto – potendo- la grazia

d'un giardino...

Teli sui vetri – invece. Di tela.

Questo posso.

Per scansare l'uggia d' incolte plaghe

tessute di vecchie malerbe riarse

tra riarsi blocchi di turpe cemento

-monumenti di civile orrore -

Offeso.

S'è ritirato offeso il neonato

mio desiderio d'un mondo che non c'è.

Evita per medicina la luce

già torbida di cinerigni vapori

e sogna segni d'indulgenti ombre.

Mah!

Ma s'imbatte in un dentro cavernoso

dove si levano umide – a frotte -

- come infastiditi chirotteri

in volo irritante e cieco - mestizie

sacrificate sull'ara del feticcio

di presunti svaghi preannunciati

in cornucopia da certa mediatica

malizia.

Come denuda e agghinda costei

- per vetrine – la fulgida innocenza

dell'estate e la stringe a concubina

d'un mare domestico e truccato!

Mare.

Neppure la sua accertata azzurrità

- dispersa nella babele dei capanni

chiassosi  come prostitute in posta

alle curve della nuova litoranea -

suscita moti di grata tenerezza.

Lo vivo con i sensi del ricordo:

salso turbato gonfio e minaccioso

mentre al ritmo crescente di scirocco

affatica vasti banchi d' alghe more

per sbatterle – in bulichii di schiume

di bugiarda bianchezza -a disfarsi

sul sabbioso disincanto della riva

ancora  segnata da relitti e sfregi

quali memento

d'altre e più rovinose deiezioni.

 

 

*

Ora che il vento tace


 

Vestimi di baci!

Incantami! Strana malia

Raccolta nelle tue mani

Giunte a coppa

Intorno alle mie guance.

Leggimi negli occhi

Il plenilunio festante

Ora che il vento tace

 

*

Iris



Iris

Iris di marzo - Iris all’indaco

A svettare dalle crepe di muri solatii

Maternamente gonfi di terra e d’acqua.

Danzando ai ritmi del vento

Irraggiano elettrici brividi di seta.

Così lontani dal suolo

Sono pioggia di lapislazzuli vivi

Che il desiderio afferra in sogno

Per adornare - nell' intimo recesso della casa -

Un santino di gesso.

 

 

*

Vento premonitore

Un vento premonitore

mi strologa d’autunno.

Ma qualcuno che mi abita

e di cui mi capita

di non voler sapere

mi sussurra con serena fermezza

che l’inverno è alle porte.

Forse già mi frequenta in incognito

coperto da un millimetro nano

di action painting- stile primavera.


*

Ora il tempo

ORA IL TEMPO

 

Ora il tempo di mia vita

diventa tua creatura.

E ciò ch’era crepuscolo

ha dell’alba il delicato rosa.

E il livido chiarore del mattino

s’irrora del sanguigno morire

della tua luce.

 

 

 

*

La mia magica TV

La mia TV

 

La mia TV

aveva il video

di cielo blu

inquadrato dal vetro

d’una finestra sul retro

ai piedi del mio letto

di bambina malata…

…Ecco una fata

di panna montata

leggera leggera…

Ma com’è?

Prima non c’era!

Una bianca magia?

Oh, è andata via!

Ma no. Ma sì.

Invece è lì

accoccolata

su un tappeto

di fiocchi d’ovatta.

Ecco si lancia

di corsa sul mare

sospinta dal vento…

Colta da spavento

si agita -  si spencola

poi giace su un fiume

di candida spuma.

.


 

 

E sfuma.

Già non si vede più

la fata Marilù

Si è trasformata

in montagna innevata.

Ora si scioglie in filacci-

cortina di stracci.

S’avvolge – s’arruffa…

Che buffa, che buffa!

E’ un barboncino

con l’occhio di vetro blu

e la coda a ciuffo

che va su e giù.

Adesso non è più

che una piccola barca

alla deriva su un lago

 d’acqua turchina…

Lì sopra una bambina

Agita un fazzoletto

in segno di saluto

o forse chiede aiuto…

 

Composta da me per la gioia degli scolari di una terza classe nel 1981.

                  

Bianca Mannu


*

Adamo e Eva

Tu Adamo, io Eva … Noi

sulla calotta del ghiaccio di Dio!

 

Tu Abraham, tu Moses,

Tu Caino, Tu Giona,

Tu Cristo, Tu Giuda …

Tu, l’inclito Cesare,

ipostasi del giure,

tu, l’ambiguo Pilato,

intento al lavacro insidioso

dell’ombra incombente

della Romana Croce

sopra atterrate Marìe.

Io, le Marie e io Salomè,

io Ruth, io la moglie di Loth,

io Didone, io Elena,

io Santippe, io Messalina,

io Penelope per l’Ulisse di sempre,

donna e schiava

del Fato terreno del talamo …

E, accorta, tesso e ritesso

l’inconcludibile peplo

che, intanto denota e ricopre

l’invidia insaputa del pene:

un dio maldestro o contrario

me lo svelse dal grembo ancestrale!

Ecco perché sono Saffo,

la libera Lesbia che insegna,

con gesta e alate parole,

la gioia profana dei corpi.

Ma ancora e ancora e di più,

lungo gli impervi percorsi

d’una incompiuta umanità,

è con te che intreccio

il sangue e la carne

e l’ambigua sostanza del dire;

e tu mi sovrasti, custode del gioco,

e mi tieni soggetta, in conto

di aliena risorsa senziente.

 

Così sei il mio vincolo,

e per questo il mio strazio:

tu, mio grido, tu, anestesia

delle mie carni;

tu, mia colpa,

mia disciplina e rimorso;

tu, mio viaggio,

mio ignoto destino.

Tu, mio altro,

tu, il me denegato;

tu, mia norma e mia trasgressione …

Tu, mio lamento

                                   di gioia,

tu, mia forza

                                   di dolore.

Tu, mia insonnia e

                                   mio sogno proibito;

tu, mio Nord

                                   impazzito.

 

Tu:      tutti i padri,

            tutti i fratelli,

            tutti i mariti,

            tutti gli amanti,

            i padroni e i despoti,

            i consiglieri e i serventi,

            i consolatori e i consoli

            del potentato fallico che,

            sull’origine oscura

            connette i trionfi e gli allori.

 

Tu, mio specchio perverso,

dove, riconoscendomi,

mi sono tradita …

 

IO, ingannevole sinossi

dei tuoi miti fidati.

 

Tu, uomo; io, donna:

nella nudità del disgelo,

finalmente orfani dei Totem,

ascoltiamo e guardiamo,

annusiamo e palpiamo,

assaporiamo e fabbrichiamo,

con mani congiunte e operose,

l’uomo e la donna, che

in noi sono l’altro.

 


*

Adamo e Eva

  Tu Adamo, io Eva … Noi

sulla calotta del ghiaccio di Dio!

 

Tu Abraham, tu Moses,

Tu Caino, Tu Giona,

Tu Cristo, Tu Giuda …

Tu, l’inclito Cesare,

ipostasi del giure,

tu, l’ambiguo Pilato,

intento al lavacro insidioso

dell’ombra incombente

della Romana Croce

sopra atterrate Marìe.

Io, le Marie e io Salomè,

io Ruth, io la moglie di Loth,

io Didone, io Elena,

io Santippe, io Messalina,

io Penelope per l’Ulisse di sempre,

donna e schiava

del Fato terreno del talamo …

E, accorta, tesso e ritesso

l’inconcludibile peplo

che, intanto denota e ricopre

l’invidia insaputa del pene:

un dio maldestro o contrario

me lo svelse dal grembo ancestrale!

Ecco perché sono Saffo,

la libera Lesbia che insegna,

con gesta e alate parole,

la gioia profana dei corpi.

Ma ancora e ancora e di più,

lungo gli impervi percorsi

d’una incompiuta umanità,

è con te che intreccio

il sangue e la carne

e l’ambigua sostanza del dire;

e tu mi sovrasti, custode del gioco,

e mi tieni soggetta, in conto

di aliena risorsa senziente.

 

Così sei il mio vincolo,

e per questo il mio strazio:

tu, mio grido, tu, anestesia

delle mie carni;

tu, mia colpa,

mia disciplina e rimorso;

tu, mio viaggio,

mio ignoto destino.

Tu, mio altro,

tu, il me denegato;

tu, mia norma e mia trasgressione …

Tu, mio lamento

                                   di gioia,

tu, mia forza

                                   di dolore.

Tu, mia insonnia e

                                   mio sogno proibito;

tu, mio Nord

                                   impazzito.

 

Tu:      tutti i padri,

            tutti i fratelli,

            tutti i mariti,

            tutti gli amanti,

            i padroni e i despoti,

            i consiglieri e i serventi,

            i consolatori e i consoli

            del potentato fallico che,

            sull’origine oscura

            connette i trionfi e gli allori.

 

Tu, mio specchio perverso,

dove, riconoscendomi,

mi sono tradita …

 

IO, ingannevole sinossi

dei tuoi miti fidati.

 

Tu, uomo; io, donna:

nella nudità del disgelo,

finalmente orfani dei Totem,

ascoltiamo e guardiamo,

annusiamo e palpiamo,

assaporiamo e fabbrichiamo,

con mani congiunte e operose,

l’uomo e la donna, che

in noi sono l’altro.

 

 

 


*

Con la Repubblica

 

Con la Repubblica

 

Al paese mio di tufo e d’arenaria

con la Repubblica crebbero

fra gli oleandri cremisi e rosati

le acacie straniere

acclimate in piccolo formato.

 

Stormivano  le lunghe estati

nel piazzale – le flebili ombre come di merletto

sul lastricato favoloso

che solerti operai repubblicani

avevano piazzato

sul vecchio sterrato reazionario.

 

Serbato il bronzo di vedetta -  il reliquario-

ma rimossi gli obici che gli stavano intorno-  

perse quell’aria

di lutto e di minaccia.

 

Rimase al centro e sul fusto

il milite oscillava indeciso

se insistere a scrutare l’orizzonte

o stramazzare sopra l’imbelle baionetta.

 

Alla lista della Prima

fu aggiunta quella  non breve dell’Ultima

così detta e ribadita

 per eccesso di scaramanzia.

 

La domenicale compagnia dei ragazzini -

quella designata a tenere il filo del ricordo -

aveva slittamenti di memoria

scivolava sulle connessioni

della piazza e dell’erma

 con la storia.

 

Non voleva saperne di terre contese

di sangue e di croci

d’ignominiosi incroci

e neppur avvertiva lontano

-in un altro mondo-

d’armi più nuove

il ferale rimbombo …

 

Intorno al monumento

 -ignaro e felice-

il nugolo dei mocciosi

si limitava a farci il girotondo.

 

 

 

Ultima revisione: 27/02/2011 23:42:12

 

 

 

 


*

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*

Metafisica

Perché la terra / giace / nella propria arsura,

il cielo s'allontana / con tutte le sue nu- vo- le

e il tempo allucinato / dimentica / di scandire

il suo fluire astratto.

L'immenso giorno / cuoce / il mio grido rarefatto

e e e e e l'eco del conforme / dilaga senza scampo

su un me pellegrino / claudicante

sulle tracce d'un dio / che / - per semplice ferocia-

si ritrae.

M'ingarbuglia in perduti passi / la commisurazione utopica

del suo diniego. / M'affligge / la presunzione d'una meta

celata dietro a una parola frusta / o -peggio - appostata

nell'atterrito non luogo / che m'impasta di cenere

la bocca.

Bianca Mannu

Da <Fabellae>