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Raccolta di poesie di Gianfranco Martana
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Sensi

Le tue orecchie sono sorde

alla mia voce, gli occhi

ciechi alla mia figura, il naso

insensibile al mio profumo.

 

E le tue mani?
Non una volta mi hanno sfiorato.
E la tua lingua?
Oh, la tua lingua...
 
Se si fosse degnata di assaggiarmi
vivrei di quel ricordo, e poco male
se mi avesse trovato, come temo,
completamente privo di sapore.

*

Per dimostrarmi la misura esatta

Per dimostrarmi la misura esatta
della tua mano, per un solo istante
l’affrontasti alla mia con la perizia
di un agrimensore.
 
Se solo le mie dita, in quell’istante,
si fossero richiuse sulle tue
col riflesso e l’astuzia
di una pianta carnivora
 
ora saprei
se avresti provato, offesa, a districarti
o avresti atteso quieta
l’accorrere fatale dei miei baci.
 
E invece
tutto quello che so – magra scoperta –
è che la mia mano contiene la tua
come il tre contiene il due.

*

È questo fuoco calmo che mi attira

È questo fuoco calmo che mi attira
che non s’agita al vento, radicato
come un fusto tenace di stapelia
e non sparge scintille, e scalda solo
chi s’accosta credendo al suo calore.

*

Ho lasciato morire l’aloe vera

Ho lasciato morire l’aloe vera,
la salvia, la dracena, la begonia.
 
Mi è pesato versare il filo d’acqua,
recidere per tempo i rami secchi,
rivolgere le foglie verso il sole.
 
Non ho cura e pazienza, né costanza.
Nutrire e proteggere mi stanca.
 
So solo ricordare la bellezza
che ho guardato fiorire
e ho lasciato morire.

*

Ho avuto fame e ho mangiato

Ho avuto fame e ho mangiato

Ho avuto sete e ho bevuto

Ero straniero e ho imparato la vostra lingua

Ero nudo e mi sono vestito

Ero malato e sono guarito

Ero in carcere e ho scontato la pena.

 

Avevo bisogno d’aiuto
e ho taciuto.

*

che poi alla fine quello

che poi alla fine quello

che d’un uomo reggerà nel tempo

è il racconto di un giorno, forse due

 

di quando chiese aiuto a un suo nemico

di quando non mantenne una promessa

di quando si tuffò nel mare nero

 

(finché verrà dissolto, come tutti,

nel fitto germinare di varianti)

 

 

*

Qui ci sono i leoni

«Qui ci sono i leoni», mi sussurri,

ma il dito che ti punti

su un angolo di cuore appena smuove

un po’ di polvere e povere piante.

 

E io, che non difetto di coraggio

quando la strada è sgombra da minacce,

m’accomodo la testa sul tuo petto

 

e ce ne stiamo zitti

ad aspettare che si sani un poco

quella ferita d’un litigio antico

 

(come soldati ammazzati in battaglia

che fanno pace intorno al fuoco spento)

 

 

*

Piove sui volti colti di sorpresa

Piove sui volti colti di sorpresa,

piove su quelli arditi come al sole

e sul fragile scudo degli ombrelli;

 

piove su quelle piante che di certo

daranno a questa pioggia un altro nome

(forse sollievo, forse acqua, o pane).

 

Scorre la pioggia giù per la vetrina

di questo bar che accoglie rifugiati.

Scorre il caffè bollente nella gola

e lo chiamo sollievo, e acqua, e pane.

 

Poi la pioggia s’acqueta appena un poco

e qualcuno rallenta l’andatura

mentre un altro abbandona il suo riparo.

 

Io pure me ne torno sulla strada

cercando gli occhi dei sopravvissuti

che brillano felici per la tregua

 

(null’altro di più simile alla pace

a questa nostra vita si concede)

 

*

In questo treno che mi porta via

In questo treno che mi porta via

scortato dalla tua benedizione

mi sento in espansione, assottigliato

come la bolla di una gomma Brooklyn

che si gonfia al tuo soffio docilmente.

 

Traguardo incauto il punto di rottura

(col cuore ottovolante, l’urlo

che s’aggroviglia folle nella gola)

finché l’immenso scoppio

(che sai innescare

con la perizia d’un artificiere)

atteso e rovinoso mi sorprende

 

e si risucchia la linea dei binari

l’infilata delle stazioni

gli appuntamenti dei viaggiatori

il volo di un corvo finito lì per caso,

e mette fine al gioco dell’assenza

 

(e mi lascia sfinito, spiaccicato

sulle tue labbra dispettose dolci).

 

*

Quanto poco di umano ci accomuna

                                               

                                                       a L., da poco venuta al mondo

 

 

Quanto poco di umano ci accomuna,

a giudicare dalle tue movenze

lente di larva, senza alcuno scopo,

mentre ti cullo e faccio buffe smorfie

(ma a quale scopo, poi? a quale scopo?).

 

E poi d’un tratto ti sento tentare

una sillaba nuova, un ba, un pa,

con fatica ostinata, forse vana

che per la prima volta ci affratella.

 

E mi sto zitto, e fermo, e sto in ascolto

e cerco d’intuire la parola

che s’affaccia per sempre alle tue labbra

dentro bolle leggere di saliva.

 

Viene tua madre

e mi tende le braccia per riaverti.

«Vuole il seno» mi dice, e mi congeda.

 

 

*

Ascolta il mio consiglio: osserva bene

 

Ascolta il mio consiglio: osserva bene

i giochi dei bambini nel cortile.

 

Non c’è mai fine alle strisce di gesso,

al volo d’una palla avvelenata,

allo sforzo del salto e della corsa.

 

Eppure in un momento

il gruppo si disperde: c’è chi ha visto

l’altezza inaspettata

di un’ombra sopra il muro

(il segno decisivo della sera)

 

(ti sfiorano veloci mentre torni

col carico di buste della spesa,

e t’ostini a pensare, gli occhi bassi,

che l’amore di un tempo è ancora vivo)

 

 

*

Te ne torni soave al tuo cantuccio

Te ne torni soave al tuo cantuccio

lasciandomi le dita fra i capelli,

il braccio steso, ponte per la notte.

 

Stretto fra le ginocchia e il petto tieni

un poco di piacere, come mosca

ronzante dentro al pugno.

 

Ci fa la veglia un magro lenzuolino,

cielo di sola luna e sole stelle,

bianco come di tavola festiva,

 

che pare di sentire tutt’intorno

il tiepido baccano dei bambini.

 

 

*

Nello sguardo distratto

Nello sguardo distratto

d’una bella passante

il rimpianto s’incarna, d’una pelle

ch’avrebbe inteso il gioco delle mani,

pallida degli incanti già sfiniti, accesa

d’illusioni implacate.

 

Uno sfiorarsi lieve delle spalle,

e ogni traccia è dispersa

(lavoro minimo, quasi

l’espulsione di una tossina).

 

Dei loro passi s’impregnò la folla

come di rivoli, incerti fra le brecce,

che ritornano a un gioco più profondo.

 

 

*

Nessun amore, amore, ti riguarda

Nessun amore, amore, ti riguarda.

Soltanto il nostro, forse

(per un istante, preso a tradimento)

al tuo sguardo d’amore,

amore, si concede.

                              E ti rivela

quello che sa: che nulla

verso di noi lo muove, nulla

se non quello che un tempo si chiamava,

 

amore, amore.

 

 

 

*

«L’aria condizionata a mille lire!»

«L’aria condizionata a mille lire!»

è il grido sovversivo che travolge

un’intera città, come valanga

innescata dal rantolo ostinato

d’un vecchio venditore di ventagli.

*

Se avessi un bar

Se avessi un bar

coi tavolini fuori, come questo

l’assumerei pur’io

la cameriera mezza pazza

fissata con la pulizia, che a darle retta

finisce che ti sparecchia pure l’anima

 

(la prenderei con occhio padronale,

per far fruttare

il suo disagio mentale)

 

E se avessi una casa

con un balcone vista mare

e tende di lino svolazzanti

e freschi profumi rampicanti

ci porterei soltanto te,

e la tua gonna leggera nera

e quelle tue risate

che scoppiano improvvise crepitanti,

 

a farci l’amore senza le gambe

di questo tavolino fra le gambe.

*

A voi che celebrate con bei versi

A voi che celebrate con bei versi

il volo lancinante dei gabbiani

non sfuggano le ascese silenziose

dell’umile lucertola sui muri.

 

 

 

*

Il vantaggio della tartaruga

Ti stringo

caparbiamente, sperimento

morse raffinatissime,

per starti anche stavolta

un poco più vicino.

 

Ma sempre rimane

uno spazio da colmare

irredento, beffardo, minimale

come il vantaggio della tartaruga.

 

Dovrei mutarmi in osso,

pelle, arteria,

per stare dentro te, facendo vana

la lotta del vicino e del lontano

 

(così vivrei la pace del crumiro

che lavora felice e silenzioso

rimettendo la sua vita alla tua).

*

Ne parlammo, eccome, della morte

Ne parlammo, eccome, della morte

strologando di come, di quando, e se.

Dei miei volteggi non molto

tenesti, né io dei tuoi

pretestuosi gorgheggi.

 

Pure non giocherai lo scherzo

di precedermi: troppo poco

talento all’uomo si concesse

nell’arte di affossare.

Giova piuttosto l’antico

femminile commercio con i vasi,

la terra, con le piante.

 

E io, come sai, a fatica

distinguo la menta dal basilico.