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Raccolta di poesie di Ferdinando Giordano
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Affranca

 

Parliamo della bellezza

che fiorisce intrepida e solenne

facendo tesoro dell’ingiuria dell’inverno.

Franca Figliolini - Hanami

 

Le influenze vengono adontate eppure diffondono 

orecchie che si espongono da capo. 

Perché non ci sentiamo?

C’è un dolore che non si può lavare

tra i neuroni; e paura che ci appaia. Anche 

se ti tuffi a capofitto nel groviglio, non li scrosti

più di tarlo. 

La memoria è uno smalto o pure tartaro, 

per entrambi non c’è diluente che faccia in tempo

a cancellare i tronchi depredati. 

Che tu abbia o meno il cuore abraso, 

fibrilli da susino a marzo

e infiori i santi tali del tuo calendario.

Usi, allora, il passaggio dei condotti

che lasciano tracce sollevati 

in virtù di quella vecchia arte

acquisita respirando, nel labbrosario

che cura la parola selvaggia

- perché è chiaro che apre il dialogo

al buio più che i soli orientati.

 

*

Vivo perché ho letto

E tu, incuneato nello sguardo, 

avevi un occhio di riguardo 

per l’altro, per i visitatori con terre 

finite nelle orbite e documenti 

senza un'ombra di riconoscimento.

Ci presentò la doglia; ed una pozza

si liberò dell’acqua sotto i nostri piedi:

quanto bastava per dire “scusami”

insieme tremuli e margherite strette

al vento. Ossia, i petali congiunti

esistono meglio, ma lo stelo della lingua

regge dell’altro.

 

(a F.F. - alive)

 

*

Tina

Presa dall’innocenza e portata

all’innocenza in un unico soffio.

Per un soffio ora ci precedi

in quel lievito non lievito che è

allontanarsi lasciando agli atti

l’eco della tua presenza. Umana 

perché due precedenti in amore

ti hanno posto qui, ma con ben altro

ci hai attraversato: dolce composta

affabile sorellamica - come posso

dire di te più sorella o più amica?

Certo, io che ti ho vissuto in un soffio 

sono abbattuto dal vento adesso 

che non solo ricordo.

 

(a A.D’A. - RIP)

 

*

Puff of

Sulla sponda il tronco rimbalza 

con la stessa angolazione di partenza 

aggiunto il sentimento della connotazione

corrente. Quanto respinge? Non tu, certo: 

meri silenzi non colti, ignoranti muri, 

no uditi, sentiti sì, frettolosi orgogli 

di stagione, e: riavendo occasione, vedresti, eh!, 

oppure: avessi saputo, ma tu a voler dire che 

distruggiamo la nostra singolarità 

confrontandoci a piacere, oh! A torto.

La corrente sceglie la traiettoria in una marea

di altre in cui è immersa ed è la scrittura 

una vetrina che ti espone a frammenti. 

Non voglio credere si chiami vita: deve essere

un meccanismo che adesso mi sembra minaccioso, 

ma voltata pagina conterrà le istruzioni per tagliarla 

come una mela spicchiosa, che non è un bel termine,

- per nessuno, dai! -, però evita l’insulto. 

Cosa proponi, sangue del mio sangue 

che hai due sangui in vena? In certi momenti 

sono incerto, per tanti altri le risposte 

diventano eventi pedissequi che fanno sospetti

deduzioni indizi, prova che è tutto falso

probabilmente dalla testa ai piedi. Sembra

tra noi l’intero spazio un vocabolario da anguille.

Una vita così ampia non me l’aspettavo, te lo

confesso. Confesso inoltre che ho fatto di tutto 

per lasciare lo scafo prima dello scheletro 

e metto la data ad ogni colpo di remi

perché la mia acqua ha una memoria sola

e come fondo sei posto.

 

A D.M.

*

Al tuo buon cuore

Verde aperto o bruno colmo i rami 

degli occhi che saprebbero dove radicarsi 

nella tua terra generata dall’iride santo

con uno scuotimento autarchico. Le piante 

vanno sempre dai piedi al gesto che le innalza. 

Lo fa il cameriere il sabato sera quando è già 

domenica e deve rifiatare in buon ordine. 

Lo fa l’opera del chierico a funzione conclusa 

tra i banchi quando questua gli ultimi centesimi 

dati per primi, come regolarmente è scritto.

Così ti colgo finché il peso non si arrende

al muscolo, ma direi con ragione alla volontà

di muovermi verso come ti vedo e sento.

Diamo conto, io e te per es., alla pianta 

e al pianto consorte di conoscerci letti 

quando non è andata come una messa

in pratica. 

 

A C.S.

*

Un uomo indubbiamente

Gli ingranaggi del dubbio sono farraginosi

nell’amante e nel padre, mai nel compagno.

Ed io che sono trino, come ogni uomo concimato 

dalla fede, dal vizio e dall'avidità li avverto

grevi e gravi, groove nella timbrica del torace 

o da chiglia urlano a nulla approdo, oppure: 

è opportuno il bugiardino nella scatola,

sai bene quale.

Qualcuno ha già detto che il mondo 

calpestato è sicuramente il nostro primo

con vento: è il punto nel quale i guasti

spezzano viti in corriera. Il percorso 

non può essere corretto. Il viaggio ti prende 

tutto e ovunque non è completo. E poi 

ti meravigli che la natura si disegni morta? 

Non la uccidono i pittori ma i vivandieri 

del consorzio del petrolio e i cucinieri 

delle brigate dei banchieri. Stanno da dio 

perchè Dio ha investito nel fondo della mela 

e c'è chi protegge i morsi e i vissi come mi piaceva.

Cioè, inventata la macchina, ha capito che trema 

quando gli scoppi si susseguono, ma il cammino 

è preso in giro dai piedi prima che passi. Rifletti

su questo: più il popolo attraversa le distese

più il suo signore manca alla testa del serpentone.

Scomparire continuamente sembra il metodo 

più opportuno per separare il dubbio dal mittente.

Così l’indirizzo del vento è nell’aria indubbiamente

preso da una rosa inesistente:

ma che risposte dai?

 

*

Che capisco del dato

Non sono maturato abbastanza: il raccolto

più che moltiplicarmi ha prodotto una somma

di aneddoti invece di un racconto di successo.
Da quando i netturbini raccoglievano i rifiuti

acconsentendo piano a piano ai sacchi di tela 

ruvida come l’orgoglio ma capienti da capire

perché, sono sulla terra a riempire la mia anagrafe 

di resti. Da allora dalle zolle si vede già 

una parte di polvere e una parte di cedimento 

strutturale. Come sarebbe una frana se non avesse

un torace di sedimenti? Non temo la sabbia, 

sacerdotessa dell’incoerenza: la sabbia 

che non ha un cognome di ferro, ma un futuro 

al vento. Questo è l’unico argomento. 

I fatti, in quanto tali, non possono rifarsi, 

scivolano uno sull’altro, sovrapponendosi

agli spazi, normalmente confini di parola. 

Nella trama i solchi sono declivi e tono. 

Come tradurlo ad una duna? Soprattutto, 

vox clamantis in deserto, quel granello 

tratta col vento per fare la spiaggia libera 

superato l'oceano. Mi venne dato l’oceano

necessario e gli strumenti per farmi spazio.

Non stella, nè faro o altro marchingegno.

Solo insegna di un deposito di corallo 

che sbarca il lunario, come un sacco mi pare.

 

*

Da che a fondo

Che davvero cantare storie 

sia un salvacondotto per l’eternità

è un fatto, benché né agli idraulici 

imperiali né ai turnisti di Assuan, 

fu possibile con le loro condotte 

segnarsi nelle fonti che a memoria 

fanno i fatti… I fatti! Di tutti i generi! 

Non appena figlia interesse, la mente 

li sposa con quel sangue misto di eco 

e grandeur. Ma i fatti sono potenti, 

al loro passaggio scuotono i presenti.

E se in questa stanza i ripiani a sbalzo 

reggono parole che sono fatti in grado

di costruire espressioni, o balconi 

o finestre di condomini di versi, 

riunite in questa pagina, le mani 

si comportano da sole; e giustappunto 

un uomo accarezza l’idea di un testo 

a mezzo rigo, rimanendo nell’ombra, 

nell’ombra a fondo.

 

*

Un profilo di periferia

La periferia è ridotta a peste e corna

e troviamo coraggio solo al centro 

commerciale che ignora quanto 

sia grossolana la polvere miracolosa

che trasforma il cemento in vita. 

Il cuore va di corsa dagli occhi all’abbandono:

una botta e via, ma l’emozione resta

per quanto era terra e arbusti e camporella.

Questo luogo è quello spazio in cui fermarsi

richiede offerte votive, come il deputato si dice.

Ho visto qualche dissanguamento salvifico.

Ho sentito la mia buona vena ritirarsi

finché lo spirito non l’ha saldata alla cassa.

È il tempo questo in cui si consuma la tasca

prima delle suole: l’inverso è già passato.

Arancina, la mente gatta, è rimasta a casa 

e a farmi le fusa è l’inserviente dei panini. 

Ma una micia è una micia e il panino

è a un pasto da me e dà mordente 

in luogo del ricordo più friabile

a cose fatte.

 

*

Di chi per che

La notte abbassa una palpebra

e come orba la luna traccia

con pipì lucente la messa in onda.

Ti segue un rivolo di lucciole riflessive,

frusta la pianta d’acqua a fronda

riunioni ai consanguinei che mancano 

dove sale lì, ma un po’ più bretella

che cinta all’orizzonte.

Chissà chi o che affranca Gil dalle perplessità 

e dal pallore, dimodoché la nuova occupazione

fa lui solitario a rivo o per che in vento

una velata promessa. Come dire: viaggerai da corpo

a corpo in quanto tutti in un’altra creta

si trattengono per sempre. Isola 

o non isola il passato che torna?

Mangia a scrocco lo schiocco animale

quando ficca il nasello in questa rete

di spero.

 

*

Ti eseguo amore

Ragionando sulle consonanti mente

e finestra stanno all’unisono, direi

che ti avverto dichiaratamente

imposta da me per il mio bene. Già

la finestra paga il suo scuotimento vento a terra  

nella corrente sonorità del locale DUM 

a ripetizione. Il battito è un viandante

sotto melliflue spoglie: dice che siamo in corso

ma nasconde il bivio e il crocicchio

dove i segnali anticipano le informazioni.

La mente è la mia porzione del mondo

o la sua pozione quotidiana. Se ne sbatte l’anta 

come l’alfabeto diventi un campo di malesseri:

è in noi un maggese secondo la pratica 

delle scarpe grosse. Il cervello fino riposa 

mosso in superficie dove la bocca ara 

sacrifica i nessi o li dissangua. 

In noi la percezione è nel senso fai da te:

lì ti dirigi, lì ti eseguo in canto.

 

*

Quando a pena ci vede

Sto quasi per tagliare il nastro delle date

seduto sulla balaustra del lungomare.

Ho provato a dirgli: “riavvolgiti in tempo!” 

Niente da fare… Il numero fa la formica

e segue la scia della prima che passa

e manda messaggi la lingua chimica

e mi ha sale il rimpianto. Come non dire

quanto avrei fatto: camminare sulle acque.

Tra me e l’oceano un ponte con le campate

a vela. Per la gonfia maestra questo avrei fatto:

attraversare i mari con passo incontinente,

a più non posso, caudato da molo a molo.

Mi ha beccato prima che a riva la vanagloria;

e l’uccello ha fatto nido sulla costa

dove la ginestra macchia la locanda dei pesci.

Ho bevuto tanto, ma - per carità! - mi è rimasta

la lingua asciutta ed ora  sono scalmo, come si vede,

ma remo in circolo: un club salato ed esclusivo.

Così camminando sulle acque, per la partitura

della musica celeste che svapora nel sacro,

tra cadute di vento e uragani che alzano

maree di plancton come lune a mollo,

avrei affrontato i miei leviatani a parole,

piuttosto che nel dialetto locale.

Questo avrei fatto per l’anguilla

che guizza nelle vene e va al sargasso

tra le tempie. E lo avrei fatto per quella

ragione di fondo che le orme sono conigli 

e la Terra è il cilindro del mago Universo.

E anche questo avrei fatto: dire ti amo

come passi all’orizzonte 

quando appena ci vede.

 

*

Disvelamento della carezza

La carezza va sul corpo da uno sguardo. 

E' uno snodo dei muscoli a tempo debito 

– come quelle ginocchia che assediano,  

più che la schiena, le feritoie.

 

Si raccontano ladre come gazze le dita.

Accettano anch'esse le regole del gioco:

amare è accedere al lucernaio degli occhi 

per possedere un’altra altezza: amare è

liberare i piedi dai pioli. Cederebbero 

se non altrimenti retti con labbra grandi;

nella sua immensa gola

la lingua stretta saliva franca.

 

Ora, sulla schiena: rifinita 

nelle spalle, lenta, stesa,

svela attrazioni in serie.

 

*

Se non piove il cielo chi lo vede

Volare è cadere anche per poco, 

ma io spesso lascio le nuvole 

di corsa e molto resta in sospeso 

intorno all’occhio che si apre in cielo. 

Ossia, se l’amore sparisce dalla vista, 

come manteniamo il miraggio

che ci mette in luce? Sveglia e cammino 

sono collaudi del sogno; e questo formidabile 

gioco prende la vita per quanta concessa

al corpo che rincasa in tempi stretti

dall'attico al seminterrato polveroso.

Per i prossimi giorni, invisibili adesso, 

saremo percorsi a memoria. Banalmente

vivendo non ci accorgiamo di lasciare orme 

proprio di resti a chi resta, e i successivi noi 

già in piedi adesso non potranno che tornare 

indietro, avanzando in fretta.

 

 

*

Che si alza da terra

Serve il tepore adesso come prestarti attenzione 

a corto raggio per ricevere gratitudine immediata 

da un piccolo segno di rossetto sulle labbra capaci 

di fare la differenza con la lingua coinvolta. 

Ti chiedo di perdonare anni alla mano, stagioni

alle rughe, ricorrenze ai tremori, qualche volta  una

carezza di troppo è per un giorno una diga che non

cede per carattere come i tipografi di Kiev che

stampano BASTA nello stesso corpo di GUERRA.

Ma è in noi il primo campo di battaglia e che lo

si ammetta: il sangue ribelle va per trincee

anche tradotte in vena. Il cuore dà quei colpi

solo per certi bersagli.

 

*

In che senso aspetto

E' evidente che la stagione porta il verbo

cambiare dove si deve. Il fervore si adatta

all’esterno riducendo i passi al solo pensiero

che siano riverberi. Penso a cottimo, 

faccio la fronda ai segni. Viene alla finestra

la malinconia nel modo delle sentinelle.

Il guardaroba ha un aspetto da furiere, ma già 

uno sparuto ordine di capi chiama 

la guardia al freddo. Sentinelle: chi va là

nella foschia che mette a muro il vetro?

Il blazer bleu esce di sera ed è fuori luogo 

se una carezza attenua la distanza dal calore 

in ferma breve. Sì, perchè la stagione

trasforma la gioia in speranza ma 

la leggerezza si congeda come un civile

senso di attesa.

 

*

Navi partiranno dalla sponda azzurra

Prendiamo ad es. il primo vascello.

Era di tutt’altro genere: nodi enormi, scheletri

di fendenti, una ciurma di insetti, ecc. 

Prendiamo - solo per farci un’idea - la vela

che non c’era: foglie o volumi di legno

battenti l’aria che spingeva.

Le braccia si facevano rotte alla buonora.

Era l’ignoto orizzonte bandiera chiglia

e tolda di un albero vero.

 

Facciamo adesso che sia atmosfera

il molo velleitario dal quale agitare

il fazzoletto di terra.

Diciamo saluto lo sventolio del sogno

sotto la tesa del cappello azzurro

con l’umido in pectore.

A noi tocca il bagaglio in uno spazio

risicato - in pianto stabile -

e il necessario in memoria.

 

Saremo l’orologio del cosmo

con le stesse lancette di Colombo.

Ora fate magie vergini intese.

 

*

Dove porta il vento di nostra conoscenza

Credo sia un buon artigiano il vento 

che modella suppellettili inamovibili

e accumula i rifiuti dove crede.

Se dovessero fare a pugni con il pavimento

fai finta di non vederli. Siamo la razza

che atterra per molto meno.

Apri pure altre pagine, scolla i nessi 

dalle cordature; e ficcatelo in testa:

arricchiscono solo chi li ha introdotti

nelle citazioni dentro la carta con le stelle.

 

Ho letto di un nuovo astro che pulsa

a ritmo blando, ma costante. Avulso

dai congegni della fisica del caos, 

previsto ma inarrivabile dalla carne 

a norma di legge: non fa mistero

del suo pendolo a reazione. 

Si è manifestato nell’onda di fondo

con un segnale ciclico e fuoribondo

perché era lì da prima che lo fermassero

con un obiettivo preciso: trasformare la luce 

in un metro contagioso, più o meno 

per prendere le distanze dai rifiuti delle stelle. 

Si può dire che siamo al tappeto, anzi sotto.

 

*

Gli dissi

 

Sei qui perché la rosa ti ha fatto

da madre riducendo gli aculei

con le mattane di marzo. Riccio

così a riva, crespo, infine filando 

dagli sguardi possibilmente altro, 

che so io, risacca sulla madre perla. 

Levighi il volume che ti richiama, 

voce di chi la voce non hai preso: 

voce attraente dell’assente cui rispondi 

al largo abbraccio con uno stretto dialetto 

familiare, che so io, tipicamente

della regione del padre e seguenti. 

Stai su questa terra nel modo che il maggese

interroga semi analfabeti scoprendo 

che la loro preparazione frutta

l’altezza e la resistenza. E per via

loro ti muovi nel turno degli amici

o, che so io, vai tra la folla spampanando

i passi a mola, limando uno stabile 

ufficio oppure riformulando i sogni

per impieghi migliori. Ricordi l’universo

in apparenza fermo e mellifluo, benché

da poco in giro si dica mosso e terribile.

Temo l’idea che al di fuori di me

chi ti coltiva venga con la falce.

 

*

Buon sangue

 

Gil è come una ruberia di frutti.

L’impulso irrefrenabile di addentare 

la carne ocra e bruna fino al nocciolo,

prende dalla bocca dello stomaco le labbra. 

Un padre ha già divorato il figlio, dicono.

Io non ci credo, ho risposto loro.

L’ho piantato più volte, ma ancora

ancora sempre è cresciuto. Mutante

per la marea di stimoli, invaso 

marino che si modella a fondo

fino a cogliere l’umanità fuori

dal suo giro, Gil è l’unica residenza 

che ho costruito in vita.

 

*

Con che cura

 

Vengono i tuoi cent’anni, piccola Carmela. Di

che roccia hai preso il posto e lo mantieni

alterata dalla manovalanza dei minuti? 

Dimmi la cura che ti ha spigolata 

con tanta misura per un secolo 

sostenuto a forza di natura

e sotto il frontespizio consumato 

le pagine che non sfogli più.

Nell’indice un santo fa bisogno di celia.

 

*

Fa lena persa

 

Ricca di luce e sarabande, come per una o mille

cornucopie, la città ha sete di splendore

e beve dalle luminarie a filate

- quello che non si sospetta si fa vedere.

La notte usa una lingua arrogante, la luna

la sua bocca famelica: è così

che la luce da terra rovescia il firmamento

e i produttori di cera riposano i mestieri.

I candelieri

definitivamente privati di segnali di fumo,

parlano ai fari

di sperate polluzioni.

Prego, vedete?

  

 

P.S.: per il 2022, a lungo auguri a tutti.

*

Lontani i più vicini

 

I

(Mimì - segaligno tanto che il suo sorriso leggero occupa lo spazio tra due parentesi sulle guance - ha il piede poggiato sul primo scalino mentre altri quattro salgono e non si fermano al pianerottolo sul quale veglia una fessura stretta, tanto stretta che il buio della casa non esce. Lì dentro vive il freddo, e gli abbracci sotto coperta. Mentre entra la luce col suo vestito filato altrove, Rosa raccoglie le stoviglie della sera. Le sistema con l’animo raccolto. Sgocciola il prensile, i piatti ripuliscono così il timore dei morsi che la tavola ha procurato in un giorno.)

 

Ha mangiato tutto e bevuto vino rosso

fino a smenbrare le tempie. Perché

non mi ha raggiunto per sollevarmi dalle coperte?

La notte è una lingua di ghiaccio sulla pelle: chi ama

una stella vede cose dell’altro mondo che non può trattenere.

La notte è decubito indifferente di tensioni. Lo scheletro

sporge dove si poggia il pensiero e massacra l’ansia.

 

(La serenità ammattisce nel lavello come stregato da un panno assorbente. L’umido parla una lingua che ricorda la liquidità maschile delle affermazioni di questo genere: una donna si rispetta a prescindere dalla femminilità.)

 

Mimì non è venuto. Perché torni cosa dovrà accadere?

Basta sapere che si è amati per tornare a noi? Ah!, questo

bicchiere vuoto. La sete compie lo scempio della gola. La sete

di te grossolanamente rigurgita la liquidità del nome. Il tuo nome

libera rotolacampi nel silenzio e nel deserto

delle stanze sempre le stesse briciole si raccolgono

e si spostano. Oh, sono tre soffitti opprimenti che si alzavano

quando sopra di me i tuoi occhi erano Vega e il Sole,

e l’intera massa del cielo prendeva il tuo viso all’oscuro.  

 

(Lei mormora sistemando la voce sui gesti. Ripone una pentola dai manici e l’accento del nome scompare in un soffio.)

 

Mimì, sei uscito non visto e stai qui intoccabile.

Finché potrò non romperò il bicchiere

superfluo. Terrò il piatto e lo colmerò

a volte, starà al centro e prenderà parti per te.

A te toccherà la salvietta immacolata: che ne è stato

della tua bocca piena, che ha lasciato segni indelebili

anche sulla corolla dei capezzoli?

 

(La figura sulla scala è sorniona quanto un ramo nudo. Trattiene dentro il germoglio, consapevole che l’atmosfera gentile è solo un addendo in un conto di eventi sui quali la radice deve meditare. Si allontana dalla scala con una giravolta repentina, manco fosse in una milonga. La brezza nel vicolo intanto tormenta, come il rimorso, solo le stoffe leggere.)

*

Quando il profumo si dissolve

 

Uno sciame usa molta attenzione

per mettere il miele in cella: ritratto così 

il nettare è in prigione; e come si scatena 

la dolcezza quando non sta nella pelle

ma è già in fiore! Sia protetto 

il suo torace esagonale che - per ora - 

segue i battiti del cuore. Tuttavia, 

il cuore è solo una macchina

di ematologia complessa 

con la vena da nacchera e il passo 

ancora in gamba, che non disturba. 

Ma più che il cuore, è la mente

una leva, un martinetto, la saldatura:

difficile educarla a tanta gente

perché agisca come uno sciame maturo.

Il nuvolo d’insetti ronza, si fonde;

riduce la buona idea e arrotonda

le sagome. Sagome! Chi disse: è la pelle

che incorpora vere delizie? Un dolce 

richiede manutenzione: limi i contenuti, 

insabbi gli occhi, calmi se imbroncia;

claveline sono le labbra i capelli l’indice

che mette all’angolo gli spigoli; le labbra

soprattutto mostrano tirature limitate

ma pieghe che si diffondono. E, forse, 

trovano segni per un’altra corsa.

 

*

Come scomparse a venire

 

Ho visto la réclame dei morti pro fondi.

News ridotte all'osso o scomparse a venire,

morti al futuro. Qualcuno le sostiene

per intercessione dell’Eterno e del Luogo,

dell’Indefinibile e della sua Polvere.

Penso Dio come un migrante di mondo.

Ma un migrante non è un'idea; l’idea

è diversamente abile, lo si vede da noi.

Chiuso lo spot, è comunque scontato in media 

almeno un gesto d’amore. 

Le immagini per coerenza passano in tempo

ai fiori; i fiori consumano il tempo in riproduzioni

e l’idiozia del tempo è che basta arrivare prima

per vedere passare il dolore. Nel senso 

che spendiamo il fiato in fumo

ma la lingua cura la papilla data 

per il solo gusto che consuma.

Domani questi morti latenti

saranno marea per quanto costa

diventare punti fermi dell’entroterra.

 

*

Coabitazione in oggetto

 

Le cose si popolano di spettri

diventando cittadine perfette

e tutte per ognuno

prendono fattezze che dicono altro, 

ma a ben vedere si lasciano andare

alle stesse osservazioni. Sì, 

ci vuole lo spirito giusto per fissarle a lungo.

Le guardi di traverso e le attraversi

perché si facciano conoscere. Non tutte, 

dici non tutte. Le inattese

cosano molto ma non ricordi. 

Glisso sul divano così vuoto

da sembrare futuro dove 

è certo 

coabitano spettri imprevisti

e si aggiungono inserzioni nuove

da angoli inesistenti, in modo tale che un oggetto

come la fede sia: stato cerimonia coronamento

e malvolentieri freno. Non sempre, 

mormori sempre. Al termine del loro percorso

le mani avranno sfogliato parte del mondo

con arti ridodanti 

ma una sola impronta avrei voluto mi toccasse

come indice del terreno.

 

*

Ti auguro di essere

 

Breton urlava a squarciagola di questo 

ministero primordiale. 

Brado quanto il serpente. 

Antecedente la mela nelle procedure divine. 

Fisico 

fino al punto di annotarsi al bacio e alla lingua,

contemporanee del ventre, mentre si sa 

vennero col morso e con la fuoriuscita

dal succo proibito.

Oppure, il nocciolo di tutto, amica mia,

è il tuo fondo angelico.

 

*

L’angolo della bocca

 

Guarda quest’esile filo

come poggia tra le quinte della sera

il copione di altri soli:

- è un bacio tra tenuto e dato.

 

Ascolto la tua voce roca 

mentre cala la pelle tesa

già da prima:

- ricaviamo le bocche a scena aperta.

 

*

Come di passaggio

 

Vieni nello scialle dei capelli

quasi nuda alle spalle dei glicini di cinta

con le paturnie della notte in luce.

 

Verso te si muovono gli uomini 

del turno diurno 

senza smettere il riposo.

 

Mostrano quei loro morsi ai fianchi 

e l’angolo delle labbra tirato come per altro

il ghigno volitivo.

 

E di là tu passi a memoria.

 

*

FG+L (federico garcia, morto lorca)

 

Avevo il foro della bocca sulla sua camiseta.

Altezza diaframma, tra palissandro e cedro.

Entravano respiri appallottolati, come conversi.

La sua bocca veniva giù dal pozzo stratosferico

dove solo poche corde possono ascoltarsi bene.

Tutto il chiaro possibile è lì e scende trasparente.

Avevo la bocca vuota, il morso inesistente.

Scrivevo alle donne con il mio fanciulletto

tra i denti. Di pene e di attese. Si stava tesi 

a capirne il duende,

poste le lingue circonflesse come accenti

perchè meglio le gocce fluiscono in gola

meglio sale il ghibli dal petto

e deserta granelli 

assecondati da sillabe superstiti.

 

*

Mi disseti, come si sente

 

A ben pensarci, Luì, ti trovo 

mano a mano in prima classe 

già che mi ordinano a ripetizione 

per il valore che ora avrebbe chi t'accompagna?

A pranzo stentati; o per quel passatempo 

raccontato a letto, unico orologio a ritroso.

Perciò raccolgo il riso che mi prende,

- la risata, ti ricordo, con cui iniziò 

la convivenza tra elementi diversi. 

Esplosivo in principio come un ahahah da niente. 

Di sollievo, diresti per fare luce a più riprese. 

E riderei, Luì, padre per bene. Quando mi hai dato 

terra era la tua che prendevo e ho fatto l’ape

per restare in serto al sogno; ed ancora mi porti

al limite nel ritrovo - e ti ritroverò, al limite. 

Analizzo questa parte: in realtà calpestavi

la terra seguendo il mare. Ma chi segue l’onda

si dice adesso, è conformato. Con la speranza 

delle reti: che ne sapevo di doverle tenere per me?

Zolle incontentabili ti forgiavano i piedi: tanto 

plastiche che la sabbia non le manteneva. Certo, 

ne è passata acqua! e tanta ne ho avuta 

per bermi tutta la vita, ma che inarrivabili 

labbra hai usato! Luì, volto fraudolento, 

bello come non ti dico, morto oltre i capelli

con tre o quattro o mille di essi consenzienti 

alla ginestra, fatti di buon vento.

Ora mi disseti, come si sente.

*

In luogo della vista

 

Chiedo mi colpisca una pallottola di luce

come un’occhiata dura, di riprovazione.

Verrà dal calpestìo, perché siamo terra, terra pregiudizievole. 

Da te. Ora non stato in quanto

arma al portatore, sulla quale si avvita

il mio silenziatore.

Ma il frastuono coglie il bersaglio, centrato

con un soffio da quell’aria giudiziosa

che riempe il vuoto di sospensioni.

Ecco, ora rimescolo l’ascolto al tuo 

già sentito. Ho ancora una mira

e tu non ne possiedi, altrove se menti.

Hai un profilo di percussore dopo uno scambio

con il crisma dell’utopia.

 

Mi piace quando mi provochi e sei assente, 

piuttosto che un richiamo mancato o

una formale congettura 

sui riflessi dell’amore congenito. 

Dove speculerei, e decadrei altrimenti? 

In tanto esce dal cono della mente 

il tuo nome gelato eppure

la rapidità dei bollori lo liquefa. Diventa un bacino

per navigarti con la bocca a vela.

Benché privato guancia a guancia

riprende la fluidità vocale. 

Ora è un flusso che romba

e appena il suo viaggio comincia nella gola

l’occhio sgambetta l’illusione

e cede di peso. 

 

*

Il miracolo dei pesci e dei piani

 

 

Fuorviante legarsi il cielo al dito, 

disse l’altissimo in piena crisi,

sordo ai diversi nomi ma non al ruolo

di vela lungimirata luminosa fatalmente 

inesistente da qui, dalla spiaggia 

distesa da dio. Era Cetara 

un imbuto di spume, una sponda

sulla quale il Tirreno rimbalza

nelle termiche più salaci tornate plastiche.

Allora io: Prenditela con noi

per il detrimento dei saluti, chiunque ti dia salute;

prendi la roccia per le maree,

portala via mentre già si allontana

ogni giorno di un decimo di millimetro

come chi svuota con la bocca i tre più due oceani 

e i mari interni con le coste a giro vita.

Hai mai visto i tonni prendere per la collottola

il mare dietro una femmina 

come per metterla in cima all’ormeggio?

Poi rompiamo le scatole a chi si è perso.

 

 

*

Tante in una sola muta

 

 

Quando ti attraversa il miracolo 

lascia un indirizzo cui risalire. 

Avrei doluto visitarlo. Il Sacro 

Cuore in Piazza Ferrovia 

è una santa pala per le fondamenta.

E qui scavare, vedi, è farsi un attico.

 

Da anni pubblico in coscienza 

e tengo alle scritture: il tasto batte 

dove la lingua è messa in riga.

Mi riconosco ora dagli ebook, ora 

nella navata con le panche a posto:

tante h in una sola muta.

 

Il miracolo è sul foglio: scontroso

pieno di aree coriacee alla comprensione

che non svelano l’avvento al lettore. 

Ma è qui il piacere delle pulsioni, potrei dire,

come se il contenuto in un calice carnivoro

cercasse appigli nei termini convenuti.

 

Mi pare giusto il tremito che mi coglie 

in questo lieve prodigio; continuo per la stella

e per me fiammella, direi fiammifero

buono per il fumo che non smetto.

Eppure, vedi, questo spiega il miracolo 

in Piazza Ferrovia come altrove

 

sta alla volta impenetrabile.

 

*

Ti vedo incurata

 

In una casa sola, ho una stanza sola.

Tra una parete e l’altra c’è abbastanza spazio

per il corpo non per la mente 

malamente

corre dove il corpo non reggerebbe.

La finestra si rivolge a nord-est denigrando

il mezzogiorno appena adesso.

Il mezzogiorno è per ora

solo un punto del panorama. Qui 

la punta della pena

scrive la sua pagina di conseguenza.

La posizione ingombrante vizia 

il fabbricato e lo lega alla sua età 

come dovrebbe

un uomo maturo ai suoi piedi.

La loro vita si regge sulle pietre 

alla faccia del sole quando vi pioggia a sbafo.

 

Da bambino credevo di udirle gemere 

nelle mura a mezzogiorno.

È una debolezza che ritrovo in ogni solitudine.

La stanza nella casa nel condominio nel quartiere nuvolo

dove la luna

si mostra a pezzi e talvolta neppure, si lamenta. 

I mobili vibrano 

se in soprassalto indovino la porta

ed esco in pensiero: siamo uomini, accidenti,

non solo spiritosi ma corpulenti.

Ti vedo incurata, cittadina

che non sei di aiuto ai ruderi 

rimasti, e qui, a cadere.

 

*

Come definirlo di nuovo

 

Se la terra è un ritorno, tutta la vita va per aria.

È una nota personale, ma la prendo male. 

Il coro è escluso, l’attore inscena l’ombra

impettita. Questa nota 

è a fiato: fa caduto che si definisce.

Più dello stomaco la soglia del torace 

è attraversata da battelli a vele nati. Tra vasi 

di bile e barattoli ikea, il mio barbiere 

usa una tosatrice a mano

più antica del mio medico - a quanto ne so.

Abbiate cura di me dentro e fuori

i sentimenti che mi infestano:

sono inadeguati come i tempi morti; 

e se i meridiani energetici sono elementi

da prima che fossimo fatti,  

il dottore sa come sospendere il dolore

con una buona pressione.

A modo loro, sono poeti sublimi.

Per dirlo con una pillola, la gravità curva 

il vizio col terrore, mentre la malattia 

curva lo spirito anche in assenza di gravità.

Se fossimo punti luce, saremmo gobbi.

Così le diagnosi hanno radici 

negli strumenti e basta?

No, siamo una selva di fermenti

del campo privati, ora.

 

 

*

Che mi perdo

I luoghi che attraverso mi attraversano

e chiedono ad una voce: ti ricordi di me? 

Davvero i luoghi anche se non chiamati si girano.

Gridano alle suole ciò che all’orecchio duole.

Io so che i luoghi mantengono viva la memoria,

benché l’asfalto si lasci tormentare dai passaggi. E l’asfalto

è costato, il cuore mezzeria con il suo tirabaci; una buca usa 

la voce vizza vagabonda

con intere frasi prese da sobbalzi sulle sospensioni

intanto che i passi già distorti

allontanano la comprensione: ti ricordi di me?

E dicono l’età: è evidente che sento poco: o l’udito

è saturo di timori oppure i timori fioriscono ora.

Sui rami torti, sfogliano i loro complementi.

A volte, questa volta, la rotula dell’acqua sbatte 

cade e lascia il segno, così che la laringe

della terra di sotto possa farsi 

riconoscere come sirena

in piena odissea.

 

*

Il terrore del bacio

 

Mi rifugio spesso nel tronco

in un punto intercostale preso di mira

dal battito. Battito apotropaico

che tiene a distanza il contagio della distanza. 

È indispensabile l’abbraccio che ripari

la buona vena attraversata

dalla birra sul davanzale.

Se usi bere altro, il testo non avrà la chiarezza

necessaria. Ugualmente se l’autunno

non ti sfoglia col rito delle domande cadute

come frutto disfatto.

Oltre il primo ramo della famiglia, 

raccolgo qualche sillaba 

dalla chioma del cognome. 

Forse chiamo qualcuno, forse

i nomi confondono gli echi con torti:

per intero in terra non basta

il beneamato tronco. 

In questo ricovero ancora viene il tremito 

a portare rigurgiti di buon sonno,

il domino dei bambini.

 

 

*

Per una volta niente ancora

 

Ciao, marinaio alato nel secolo scorso

mentre ti guardo in un altro tempo

affondato. Benvenuto, pescatore

del circolo solare eclissato in questo traffico

di pianeti conniventi con le stelle della muffa

universale e imbattibile da idee

che non si stancano di guidarli al macero

come si offrivano a te da strumenti di bordo.

Salve, ah! salve, mitragliere puntatore scelto

colpito dalla tua terra più o meno presa 

di mira 

dall’instancabile viragonia dei miseri

che li miete e li combina peggio

e tu salvato dal basso ventre solo

se dall’acqua santa ti hanno 

tratto per i capelli.

So di essere tu per niente ancora. 

Intanto, in che giro sono finito?

 

*

Tornano tutte qui

 

Sto sul margine di un golfo scalmanato 

convinto che la sua superficie agitata

sia una grossolana bugia legata alle ciarle

per aria che nessuna pinna contiene.

Tuttavia, lo scalpello dell’acqua sbatte la verità 

sommersa sulla riva: così si riduce

quel che trasmette il suo delfino, l'onda.

Qui l'universo si affaccia con una maschera indaco  

fino al setto del promontorio che tira il fiato

ma ciò che vedi o calpesti o raccogli, 

sono residui scagliati da millenni nei condomini

delle sue narici altezzose.

E sono le loro ombre che danno espressione

ai marmi; è la flessuosità delle lische che fa

giacenza di fondo nel blocco in forme. 

Senza dubbio ogni roccia contiene la maestria 

della vita che attraversa lo scalpello 

con generosità. Del genio

che non mi viene in mente

perché nella mia bocca manca il suo strumento

tale per cui qui è solo

l’artefatto che improvvisa corse  

sui gambi delle lettere: consonanti 

per uomini messi all’asta dalle vocali 

perentorie del porto - oè, oè, iiiih.

E tutta la punteggiatura che procura

balbettio e mugugno nelle vene

dove scorrono queste parole reflue

e, ve lo giuro, tornate tutte qui

dalla paura.

 

*

Metto mano al buio

 

L’intimità è una piega che veste bene. 

La prima a distendersi quando le camicie si svuotano.

Può diventare patibolo o podio, patio, palestra o peso,

porto, ponte o pilastro, addirittura parto: c’è

la nascita di un nuovo gesto

in ogni stropicciamento: stiamo in una sottigliezza. 

È nello spazio, ma non si raggiunge con vettori spaziali:

sappi che il cosmo è alieno alla confidenza.

Gli astri in pieno lockdown sono stepping stores.

Tuttavia, Rossella si staglia sottopelle ma sopra scaglia

il suo segreto come il fiume che scartabelli 

le pieghe recondite della corrente

fino a prenderne esempio.

Nell’intimità le stepping store mi stanno bene,

ma che ne dici se ti indico chiaramente

dove il pensiero mette mano al buio?

Al buio scrivo perché sia fatta luce sulla mia luce

eretta.

 

*

Man and drake

 

 

Fai per uscire ma il portento è che ti tengo

a mente; e come per tutti i riferimenti

è solo a mente che restano immutati. 

Sulla rena cellulosa di una scena di passaggio

attribuito dalla sintesi delle orme 

sei il più esemplare camminamento dell’arcipelago 

- tu, isola maggiore, popolata di mostri 

che la pellicola mi ha fatto toccare con gusto

palatino - eri l’ultima isola rimasta a galla 

precedente l’affondo verso

un nuovo luogo da mandare a memoria.

Mi ricordi l’inattendibilità delle narrazioni

da proscenio e la ribalta dell’ipnosi autentica

per le mani alla rinfusa. Una era la magia

che dava la tua statura di pontiere tra le maschere

l’altra la mappatura della voce in ogni direzione. 

Profonda come si vede, a più non puoi,

a meno che tu offra ancora suoni a ripetizione 

da tanto lontano dove sei permesso all’eterno 

inoppugnabile per capirci.

 

*

Mantenere a distanza

 

La luce mente. Questione di misure 

inappuntabili. Al punto che l’osservatore 

col cuore in mano teme spazi mai visti.

E sono sguardi che sgranano gli occhi!

Sicché seminiamo immagini

che in seguito saranno sfollate. Ma

la vista calcola il raggio per affermarsi nel vano. 

Da lontano le rughe arrivano 

meno rughe, le mani meno mani;

per starti intorno i passanti si confondono

alle maschere con le occhiaie.

La strada ti circonda fino alle spalle. 

La luce inganna: i sette nanosecondi 

che permisero all’ape di saggiare il nettare, 

portano la notizia con ritardo

però le ali battevano all’epoca in fiore.

Vieni a fior di labbra per essere contemporanea. 

Non è mai adesso, per capirci.

Questa luce raggira e lo sguardo

è il suo imbroglio per diverso tempo.

 

 

*

Dotati di giro

 

Avrò il coraggio di proiettare in tempo

- questo tempo che non esiste ma è determinato

ad essere mio perché la memoria è una lancetta

e il solenoide del cuore la ingrana -

l’immagine del mio ventre che resta senza parole sul tuo?

E schiacciava, ti sentivo dire,

l’età tanto distante tra di loro. Si vedeva

da come te ne uscivi (questo fanno gli scomparsi 

ai presenti: fioriscono in diversi apprezzamenti). 

E non i defunti, ma i nostri ancora in giro. 

Ora, e per ora come allora, ti mantengo 

in questo stallo vizioso in vetta agli anni

stilizzata sulla roccia cui la pelle non fa difetto;

in una grotta, sulla parete villosa 

che si osserva se poni a capo il cuore.

Siamo una mappa di luoghi articolati

dai nomi sovrapposti, sconfinati

dai pittogrammi in una cavità umida.

 

 

*

Che dici se ti suono

 

La musica presa dalle sue note

non bada a quanto sei stato

un suo strumento.

Così tutto va per aria, ma

la musica sa farsi strada

e porta nei meandri almeno un segno

da lasciare ai battenti.

Così niente va perso, ossia

il lavoro dei battiti muove con passione, 

poi si dirige dove può.

Tuttavia, mette la gola alle strette 

assegnandole un gesto precedente la razza: 

l’ascolto.

Le acrobazie dell’udito insegnano

a cucire i lembi delle ombre

alle orme.

Ecco le asole della memoria 

che attaccano bottone con nomi dolorosi 

ecco le pieghe che prendono le parole

ecco che ti rammendo come ricordo

per questo motivo, allora.

 

 

*

Tempo autunnato come si deve

Questa stanza consuma ad occhio

l’universo fuori dalla sua orbita.

Colpisce sotto la cintura dei muri

opportunamente fabbricati

per venirne a capo.

Ma la stanza deperisce 

benché si nutra della sua porzione 

di spazio con secchi colpi di finestra

e con almeno una parte di me 

la più contornata attraversa il resto.

Resto per lei che giura sulla meta - appunto

dov’è: alla pompa 

di emo-gasolina che versa come dico. 

Rossa che ogni altro rosso avanza

e autunna la fronte e le fronde alle rogge

autunnano anche la potente acqua. 

Sono quel che mi ha nutrito

o quel che ho dato, in somma, al dente. 

Più esattamente lavoro

ad un rinvenimento del fuoco:

alla luce del sole vorrei dire qualcosa.

 

*

Questo era tutto il mondo

 

Quello che non vedo è perché

non me l’ha mai detto mio padre.

Che non parlava molto, per dire di altri padri.

Tuttavia mi indicò in quale scena 

le nuvole fanno comparsa con la regia 

della pioggia - su per giù dai Lattari.

Lui guardava le stesse coste - per altro. 

Il ballatoio con un cotto d’epoca - orme dei

predecessori a carico. Quattro stanze,

quattro scalini, un cancello con quattro spilungoni

di ghisa che davano strada a volerne

per quattro vite - grame

di quella grana di pescatore cui le reti fanno il filo.

E senza coste inopportune - quasi che il mare

tornasse a casa. E la casa è una costa,

talvolta posseduta - da qualche sgombro. 

Ma la costa è dove occorre sia la tua parte

nel frangente - e resta l'unica al limite. 

Non io, seguace della corbelleria, fuggito

in un altro racconto che ancora vado facendo

dell’armonia che sciabordava sulla scala

a nome suo.

Questo era TUTTOILMONDO - a cinque anni

dal saperne di più sul calendario.

 

*

Mimì, d’altra parte sei

“Non è un angolo prudente la palestra dell’anima

(Odisseas Elitis)



Nato ad arte per metterti all'opera 

letteralmente a lungo sai.

Ti trovo preparato per questo e, gesù! ,

come la tua isola cammini sulla bianca cresta dei fogli. 

Irrighi da mare l’arte alla gola, disteso su rene

quanto quei tori salaci che spiaggiano dove sei.

La stessa voce rossa e pungente

viene dal corallo che ti rimpolpa; 

e dimora in luogo il fior fiore lunato.

Ricordi yakamoz se parli e, se taci, la coperta liquida 

sulle creste traversate porti − parola

che consente nuovi risvolti all’astro

in effetti a cappella.

Da acino ad acino come per le malvasìe 

è ovunque l'estro solare

ciò che da te frutta in canto.

 

*

Anamorfosi del castello in aria con giunzioni esposte

 

 

Mi sembrava di volare. E, anzi: ero certo

di non poggiare i piedi a terra. Una egrette

walcottiana, un cognome senza tempo. E tanta aria

di colpo spezza la schiena come ad una fronda

il peso del maestrale. E  più 

la Terra faceva per avvicinarsi a me, 

più mi allontanavo

puntando il naso nell’unica direzione possibile:

l’azzurro inesistente di rayleigh spiegato da sè.

E, pure, ero fermo al modo in cui un orologio solare 

indica tra buio e luce il luogo in cui questi nascono 

mentre più lontano è esatto il suo definitivo abbandono. 

È un carassio dorato, l’abbandono,

con due sillabe caudali che rivelano

un sacco sgonfio. E fino alla fine

la mia meridiana ha un’ombra che funziona da freno.

E non sono per lei un pensiero.

E comunque volavo, finalmente volavo; sicuro: volavo!

e l’unico punto di vista per accorgermene

era guardare le palpebre che dall’oscuro si facevano grate.

E così ancora mi sveglio senza esserlo.

 

 

*

Coretto del secolo scarso

 

È stata un’epoca cromata a breve termine 

presa da terra come un pugno di mosche. 

Ci è crostata l’ira di dio 

diluvi poi altre sciagure tra le pieghe bibliche.

Come raccontare quel che venne 

a notte? E portato alla luce è poi cambiato?

Questo monologo è certo più straniante

nel metodo strasberg e le parole

sono equivoci complici.

Consiglio di leggere senza seguire il rigo

fino ad un punto morto

lasciando al carattere l’illuminazione.

“Bastone e carota...”, disse lui 

con l’intonazione cavernosa e raschiata da selce.

Un regista che dirigeva gli amori

secondo il metodo del fare buon viso

al cattivo giogo. Come fossero in condominio

anima e mente nel solstizio della memoria. 

Talmente distante dalla troupe 

che se non pagava il sabato

la domenica era indotto 

a più miti legioni. 

 

 

*

Contaminazione del forse

 

L’ultimo raggio prima della serie

si diffonde, briglie sciolte, a cavallo

dei conti; e già che cala la botte 

con le stalle carenti monta una volta sola. 

Alte le selle date al cielo cavalcavia

innumerevoli, sollevano l’orizzonte

con un colpo alla cerchia ed uno alla notte.

Quale funzione annunciano

in piena luce ora 

che sono protagonisti i satelliti?

Bussole finite in disuso, disossate,

paillettes, stelle soltanto

per i cristofori sul resto degli oceani 

-  dal topico del cancro al tipico 

delle cancrene.

 

*

Raso al sole

 

Prendi il rasoio - ecco, lo impugno.

E la schiuma.

Bagnati il viso - è umido di suo.

Sembrano squame diamantine - un po’ di sconforto.

Esci dal fondo e mettitti in luce - quanta ne occorre?

A volte tutto il sole possibile.

A volte un lumicino - qual è il mio caso?

Passaci sopra.

Ricorda l’infanzia - sta tutta in un giorno.

Allora usa l’esperienza - ho poca memoria.

Uh! ti perdi in un niente - niente mi indica meglio.

Devi crederci.

Taglia la barba: chi non ce l’ha è divino

- se non è rasa al suolo.

 

*

A più non posto

 

Mi sono svegliato solo e controverso.

Non pensavo di scrivere questo.

Cercavo i calzini e gli slip a tono.

Nel solito cassetto, allo stesso modo

di un sentiero che segna niente ma

disordina le idee. Tra l'ultima matilde

e il terzo plenilunio del duemilasette,

c’era il fuoco sopito. La terza luna 

che il mio cielo non aveva compreso 

allo stesso tempo. Spesso ci prendono 

folate d'ansia come la piega del giunco

che finirà nella stuoia per riformarsi.

E non si capisce bene perché le mani

resistano nella storia che le ha inchiodate.

C’era la busta, il cui primo messaggio

per gli occhi è la rabbia ancora 

accartocciata. Questo non mi bastava.

Una busta come pane raffermo preso

da muffa industriata per rifarsi: ciò che 

nell’esistere è il desiderio incomprensibile 

più che la fame irrisolta. 

Poco altro colpisce la tenerezza

come il passato manifesto delle cose

che possono raccontarci un vuoto. Così

smisi di ascoltare l’uomo e la voce seguente

indossò i calzini. 

 

 

*

Tra le foglie del te

 

Il bottone ha trovato l’asola nelle mie mani 

e mentre agosto slaccia i primi due, 

l'ultimo sotto

s’invaghisce tra le dita. 

Da esploratore curioso la lingua

esalava gli umori mentre saliva;

e giù conta l’amore, diceva lei,

la vita impanata da stagioni.

L’uomo si ritrova se i nei sono 

nello specchio e non si spostano. 

Si perde quando riflette tutt’altro.

Ho risposto con argomenti coperti

per evitare la tempesta ormonale

che non mi ha raggiunto. Lenta ammaino 

la camicia dall'albero della schiena, 

dritto come va il sabato nella domenica, 

inqualificabile spasa di ore in sosta. 

Da lì in basso, è naturale 

che il ginocchio appaia

come un promontorio di limoneti

per la mancata concitazione 

della coscia catarifrangente.

Che aria tira nella luce

la bianchezza che sventola? 

 

 

*

Cari Voi

Voi presi nei luoghi comuni, 

immagino siate in formati per bene

su quel che accade a chi prende il mare

contro corrente.

Li hanno colpiti appena tornati

davanti alla porta della speranza 

mentre fuggivano da un lager di sabbia

con la pelle a granelli 

spaventati

non dalla morte 

ma dalla loro vita a ritroso.

Chi erano? Presi di mira, 

l’esistenza è un pugno di mosche

intorno - credo -

il rifiuto dietro una duna

per liberarsi dell’aldilà.

E l’Alto là è persino più secco 

del miraggio 

alle spalle.

Una macula che le allaga

finché il buco non separa

il battuto dalla realtà. 

Come lui, altri hanno impresso 

la convessità del viso nella sabbia.

Come lui, troppi calcano orme a naso.

 

 

 

*

In quel senso riverso

A F.B.

 

Se un uomo scrive una poesia e loda una poesia di un collega

avrà un’amante bellissima. 

Se un uomo scrive una poesia e loda all’eccesso una poesia di un collega,

allontanerà da sé l’amante.

(Mark Strand - Il nuovo manuale di poesia)

 

 

Spesso mi guardo le labbra: rinsecchiscono

come ceppi ardenti (mi pare possa dirlo

benchè gli incisivi si consumino più per la lingua

che per i morsi a piacere) ed insieme

- tu nel vano della lettura ed io nel vano

tentativo di attrarti ancora - notiamo

che le parole stentano a rinnovarsi

quando usate per lo stretto necessario:

siamo lamenti e lemmi lemmi

nemmeno bastiamo per spogliarci

completamente. La nudità è ora piegata;

ed è il mondo che segna il breve alterco

in tempo; ed è una monofonia (qui 

addirittura un verso da cardine strid’ente

- vedi come il suffisso avoriato ci prenda

in contrasto pur apostrofandolo non da devoto?)

La nudità scompare in quanto seduta

collettiva di frasi mozze, sbrecciate in fine

silenzio che sentenzia le perdite e,

perché no, incapaci del passato

che avemmo a letto. Così anche 

il libro del ventre si mette all’indice 

in quel senso riverso.

 

 

*

Come va il rapporto

 

 

Il mio rapporto con il mare è in frantumi.

Troppi scogli tra noi (questo elemento

è irragionevole per sua natura

ma anche l’attrazione accasa 

dove ha riva). E, nel rapporto, il sole

la fa da padrone, fino ad un certo punto.

Poi, la nostra intimità è andata a fondo.

Sappiate che tutto ciò che è esposto

si deteriora. La luce sbianca le tinte

più accese, l’intenso calore secca la fonte

dell’inestimabile anemone: e svuota

la spinta; e riaffiora l’abisso a bordo. 

Si è deteriorato a causa del sole. Ormai

non facciamo che vederci nell’ombra

e per tenerlo tenero gli racconto

come calpesto la terra.

Oh, per carità!, evito prudentemente

di affrontare l’argomento, d’altr’onde.

Si direbbe un modo stupido per avvicinarlo

all’essere vivente, ma è più sciocco

come ho ridotto la sua vastità

nel perimetro dello scafo all’orizzonte.

E lì si arenano gli occhi.

 

 

*

Addosso più che vicini

 

 

Il lungomare travasa sulle mani

una guarnigione di dita: truppe

sull’unghia, tante lunule esatte 

e capaci di conquistare le vicinanze 

all’alma bianca quando notte 

e giorno una sola ci suda. Sublime, certo, 

l’umidore dei palmi: toglie grigiori

dall’incubo delle pendule affusolate

e sembrano utili gli indici per l’approdo

dei ciao come va? I pollici lasciano 

i dorsi inoculandogli paure (la paura è 

animale domesticato: si strofina contro 

e guarda in alto supplichevole; se 

l’accarezzi non ti lascia, così marca).

Come sia possibile che gli anulari

si svuotino è la domanda di certe

catene, o del mistèrio delle fedi

convertite dagli occhi in altra sede.

Ma la linea della vita passa di mano

in mano come sempre breve

è stato calibrarci coi gomiti. 

 

 

 

*

Quei percorsi introvabili in tempo

 

 

Odio via Clark per la sua forma: non è plausibile 

sia tanto dritta da prendere in giro la costa.

Ma le curve sarebbero costate più del necessario,

se fossero state decise dagli strapiombi salati.  

Mi fa male che sia illeso il rifiuto tra i platani, 

più che composto quello in una siepe di gelsomino, 

sopra i masselli che si sollevano e vanno ripresi

come le orme che lasciano il marciapiede.

C’è di peggio, ma serve alla sopravvivenza 

di millepiedi, formiche, eccetera, e seguenti. 

In questo tratto di via Clark torna il dolore 

per non più di 100, 120 passi, che sommano 

circa tre, quattro ricordi, pieni di congiuntivi 

che seccano il mare quando parla a memoria 

e improvvisa ad ondate sciami di didascalie

insonni. Come sbadiglia stirando la sabbia

per le rive baciate (odi?) e porta la notte 

in un cantuccio, una nenia rosa. Continua 

la città con una teoria di unghie, modellate 

dalla lingua oscura in modo sorprendente. 

E lampioni che offrono manciate di splendore 

disposti ad inscrivere i soliti in simili a caduti. 

Niente più e niente meno che sfuggiti, 

lo sguardo sollevato, così l’anima torna

sopra le righe. 

 

 

*

Resistenza al vuoto e carenza di pieni

 

Resistenti e carenti si erano visti prima, 

perché i visti sopravvivono ai monitor

- almeno quanto le statue alle loro teste cadute. 

Intanto, al fronte, i combattenti ricoverano 

i proiettili con la loro impronta. Capisco 

chi ha imposto le trincee a noi: somigliano 

quei ghirigori sul bloc-notes del telefono 

quando già ti assilla la febbre da pieno.

Pieno? Sì: pieni scavati da corpi andati 

a vuoto: ne ignori l’ultimo aspetto, 

ma aspetti segni da te. E se i migratori

tardano, l’incubo volteggia nell’aria:

una poiana fila in città come nuda.  

Sulla linea di fuoco tanti in grado

salgono i gradoni dalla vita in su: meglio 

del grano è il giuramento di Ippocrate.

A difesa del loro volo, per dirla con il cuore,

non c’è soltanto un battito d’ali ma pure

la qualità della cera messa a disposizione. 

Per i soli scomparsi la leva del ricordo 

fa fulcro sul futuro. Poggeremo 

con sollievo il dito sulla data 

dell’anno corrente lungo il venturo; 

tra l’uno e l’altro - come in un guado 

flusso debole e il piede scandaglio - 

si forma l’orma sulla spoglia sponda. 

Non è tortuoso questo passaggio della storia? 

Da che il mondo è questo mondo,

la vecchia croce è presa per il nuovo 

ma ridotta a poco dai numeri riassunti

in cielo. 

 

 

*

Vi prego

 

a Pietro Roversi(*)

un poeta all'estero

 

Si potrebbe pensare che mi sia organizzato.

Generalmente da umano. Segnalo la parola

umano quale finestra in grata. Dal prato

prendo dieci passi nella stanza 4x3 e solo

due minuti ogni ora, ma il tempo non vola.

 

Platone è meglio del Prozac richiede lenti 

e lente lente ripetizioni. Leggo ciò che serve 

in primavera ai semi indipendenti

ma la gemma ansima quando occorrebbe verve. 

Ansima sul basilico, presa dai suoi nervi.

 

Toccherà ai semi occuparsi di fare meglio:

da sempre è questa la speranza dei tronchi

- che fa battere il legno e lo tiene sveglio - 

prima che il fulmine li stronchi. 

o l’occhio del ciclone li abbranchi.

 

Toglie il respiro il numero enorme

dei morti inguardabili, infiammabili 

da soli. Chi saprà mai in noi quale parte informe

immunizza da quel fuoco? Non è deducibile 

né dal dolore né dal conto indicibile 

 

dei corpi. Lasciamo alla cenere la dignità di ritorno.

Adesso mi resta tempo per viaggiare nei siti 

che fanno rumore. So nascondermi di giorno, 

invoco la sonorità della strada e il suo rito

quotidiano. Che ansia! Anche il mito

 

infetta! Da uomo immobile mi muovo

in un goffo qi gong. C’è abbastanza

metodo in questa pratica di rinnovo?

Ansia da resurrezione, penso. O demenza 

delle pratiche officinali per l’emergenza.

 

Eppure, sulle ossa nude della nazione, la polpa

sono i santi che si espongono. Avranno ceri e la medaglia 

di uno stentato giorno di memoria. Io sento la colpa. 

Questa salvezza - che m’invaghisce - è la loro taglia.

Ma ognuno come può affronta la battaglia:  

 

chi con la bocca coperta vuol mordere il leone, 

chi, conoscendo la secca, sta manovrando il timone.

 

 

(*)Lecturer @NatSciUoL and Research Fellow @LeicStructBio. Rescuing secretion of glycoproteins in rare disease. Ma, soprattutto, Poeta di straordinaria sensibilità.

*

Se capitasse ora in un secondo

 

La morte è una fondina al fianco 

se ti comporti da pistola; ed io l’ho fatto.

Non abituatevi a me, non all’individuo

delle notti seriali, nè alla serialità del verbo

sono, o alla sonorità del corto e con torto,

ah!, vivo ancora, vivo ah! E presumo

di essere inarrivabile quando accadrà

il nulla evento, che è avvento da nulla.

Quindi cercatemi oggi, se ancora vi attrae

il gesto di cogliere la manciata di grano

che germoglia nel cerchio della mia tesa. 

Per quanto lontano il fatto, oh!, vi prego 

di considerare questo aspetto: non ho lasciti 

che finiranno in terra. Cenere al portatore,

mi sento; una sigaretta, un torto al vento, ah!

Ho vuotato le bottiglie, ho lo stomaco vuoto 

e vuoto l’intimo adesso. Mi svuota l’attesa, 

perciò ditemi che riempie l’uscita dal tempo

- beninteso il mio tempo sgocciola, pendola. 

Se quella porta introduce un serio integerrimo,

o se - e ovunque - il futuro adesso è più di un'ora

dal secondo intransigente, ah! Secondo me

somiglia alla lucciola nella sera: intermittenze

rivelano come si presenta l’angusto

credito che continua a boicottare il buio. 

Dite che è dura, ma che la terra è fredda

benché, congenito, abbia un fuoco dentro

intabarrato nella pelle dei continenti oceani.

Parliamo d’altro: "se davvero hai deciso

di affrontare / il viaggio per Atlantide

sappi / che per quest’anno solo la Nave / dei

Folli salperà per quella rotta / e poiché

si prevedono tempeste / d’insolita violenza

disponiti / a comportamenti assurdi".(*)

 

(*) Atlantide - W.H.Auden (trad. del tutto pers.)

 

 

*

Il racconto di Oh!

 

Più vicine di noi, vocale e consonante stanno a meraviglia. 

Oh! la donna - la chiamo Oh! - 

si stupisce di averlo pronunciato alla rinfusa.

 

Le sillabe della pendola, più grevi, categoriche, 

iniziano l’alba con il repertorio difatti  

apparentemente nugolo di oh! - le sue mani 

si prendono in grembo amiche dalla prima ora. 

Le muove lentamente come una funivia.

 

Oh! le dita passeggere! Garze ladre sui femori, 

attratte dall'opale rotuleo che appunta il divano. 

Un ciclamino ancora, mi sento.

Non metto bocca perché non ne ho per metterla. 

 

Oh! raddrizza la schiena come la memoria del corpo 

meglio consente, e Oh! ripiega

chiude le palpebre per prendere visioni sotto una nuova luce: 

tavoli sedie volti lunghi o ampi luoghi 

utili inutili persone sapienti confusi panorami legati

dallo stesso nome - il nome meno in voga, ma più richiesto

 

Oh! le gambe - un palio - strette sotto le mani che si comprendono; 

come due viticci cercano appigli e sanno che bisogna aggrapparsi, 

anche se non c'è niente da prendere, tranne lo spirito Oh! 

 

Oh! prende i sensi a caso. Li ricovera con un pretesto; 

nel silenzio fanno incetta di risonanze, ma è nel rumore 

che i sensi si trovano a piacere. Il piacere che qui 

appare fuori contesto, ora. C’è, 

ed è come l’osso spossato: debolezza non leva 

le tende sia ricordi che vento. Il vento è meno di un respiro. 

 

Il respiro ha fretta, esce dalla trincea del sonno 

in uno sbadiglio armato dalla stanza concava, la stanza 

coglie i denti a nudo, è ignoto dove si colloca un sorriso

e dove porta chiusa.

 

Sotto il tappeto a tinte cupe levita  il pavimento terreo 

e appena si distingue il cielo dalla strada: aperta parentesi,

semplicemente, Oh!, sente la distanza manifestarsi in tempo.

La solitudine è un modo per arenare il battello

udito sulla affiorante distopia di talune voci a venire. Oh!

è terribile che un ciclamino non possa mettere bocca

in quel senso. 

 

*

I geni sono la risacca dell’era

 

Avrei voluto essere il gene d’uomo

che cancella le bestemmie e allunga 

i monconi e riempie le narici

con un buon odore. E salda i debiti

con il passato, non con l’oro. Purtroppo

per loro, non sono una fonte miracolosa. 

Sono acqua al settantapercento, torva.

Limo fino ai piedi che monto a pelo.

Un rivolo pieno di batteri coprofili:

credo vizi; esalazioni, credo,

di un reagente organico; fatemorgane

dalle parole a vapore: chi glielo ha detto 

di farsi gioco dei pensieri? Questa

ipotesi sulla lingua è una gratitudine

rivolta al genere fesso: il mio.

Quando ero fanciullo, o ruscello,

non come adesso che riporto resti,

c’era qualcosa che alimentava

con buona ragione un corso, un letto 

di portata maggiore. Era il gene d’uomo 

“che doveva essere trasmesso”

- disse il professore Lardo

che aveva letto il mio diario a tentoni.

Un diario a tamburo, caricato a salve.

 

*

E state per essere

 

 

Non fissare l'onda al mare.

I chiodi sono liquidi, schizzati pare;

sono aculei nello stesso senso vs. 

Rotta contro piedi la corrente arriva

a sanare un principio di fondo.

Qui ha inizio il sale e compare 

la sirena lancinante. La sirena avverte

la doppia mandata dell’onda. Viene

e ritorna. Non è fissata ma ci tiene.

Ci sono pesci che si scagliano a bordo.

Questa linea è tipica di chi è preso in parola 

e si spoglia per quel breve luccicore

prima di infilarsi in bocca.  

Scontiamo la supremazia della sabbia 

sulla sdraio ma possiamo attenuare l’afa 

con uffa. Serve meno dell’agitazione,

eppure un ventaglio ricorda la capasanta

come fai tu con la medusa. 

Graziosa trinità, tu lei l’altra

in uno solo. A molo ancora

finché verranno

a rompere nuove onde.

 

 

*

La radio fuori onda

 

Quando cominciò era un gran bel tempo.

Il microfono con il profilo da piazzista

piantato sul mixer come un cardo

- feroce e mellifluo quanto una lettera 

dell’agenzia delle entrate, segnatamente la i. 

Gli roteavano intorno sillabe concitate

(queste aquile annidano nella cavità orale). 

Un alfabeto rapace si lanciava nel cielo 

più basso, con la cadenza locale delle frane. 

Una pratica durata 30 anni, che ho nel tempo

abbandonato. Andati in fumo, perché 

la raucedine gracchiava ma poteva farti 

passare per aria, anzi, doveva impastarti. 

Dediche a parte, c’erano numeri da circa

come quei giochi privi di conoscenza 

non di meno rincorsi per sapere a casa. 

Il monocolo del disco mostrava un occhio 

di riguardo al giro richiesto - più graffiante 

lo scratch sul vinile che l’uscita dal solco

digitale. Comunque, la musica è una presa d’acqua

e spesso non si afferra; attraversa i continenti  

ma non tutte le pelli. A darle corda, l’udito 

abbocca, perché l’esca è l’orizzonte popolare

con una certa frequenza, da promessa in onda. 

Ancora nessuna nuvola, ma di solito 

piove avendo tempo. 

 

*

Per dire la gioia

 

 

Proprio ora venni al tempo del seno 

in seno alla mia amata. Era una tipa

in fuga da un mondo vecchio e duro

e partii da lei con lei di fianco. Su di noi 

contava la Terra per una parte solida 

e per tre parti d’acqua costose. 

Come me e lei, voi tutti: continenti 

in cui un ponte passato non equivale

a un guado futuro e il letto traversato

è assolutamente a cura del piacere.

Del viaggio ricordo la corriera

- significa mia madre in corsa unica -

che pativa le vene a gomito. Il sangue 

in cuor suo legava gli urti dei pubi 

ai figli venturi come ai sogni teneri. 

Non seppi cosa fosse finché rimasi

nel luogo delle pulsazioni, ma poi 

i tessuti cedettero mano a mano 

e prese piede il congiuntivo della vita:

ti porti bene uscirne e ti sia dono 

il suo favore. Purtroppo, lo sapete, 

il desiderio è quella parte gelatinosa

che cola sulle lenzuola - se non altro -

e lascia un girasole mai al sole

tranne per la mistura di gonfiori

ed incassi chiamata respirazione.

Della sua bocca che saliva,

chiara della canizie dei gigli,

ho detto la magia di darmi gioia

per come io la vedo ancora, ma.

 

 

*

Per bacco o oh

 

 

Pieno questo bicchiere con parti 

di voci antiche di spirito d’acqua 

e certamente cielo terra legno

- in forma ineguale all’origine -

scivolando da porpora sacra

cala in gola il bene da dio. 

Uno due tre: viene fuori sbronza, 

talmente stronza da riconoscersi 

con altro nome, come barcolla. 

Dai raspi che affrontano la morte

affondando nel suo miele fatto

barbera per l’esattezza novello.

Mancano in piedi, detti da mille

radici - piantati in terra con vento.

Sacerdotali fino al seme non dato. 

Mancano i  rocamboleschi segni 

delle pedate, le pressioni avute, 

gli schiacciamenti aviti; evito 

la danza a mezza botte e, benché 

il succo del gesto resti a bocca amara,

si sposa con un credito di grazie

che pare venga dalle ultime gocce

carezzate da sete.